Categoria: Pubblica Amministrazione

  • Un pomeriggio d’agosto nel tribunale, caccia al pm di turno nel deserto

    Bella la giustizia a Milano, ad agosto. Ci vado sempre in vacanza.

    Ieratica come i grattacieli in costruzione che svettano lucidi e snelli dalle finestre ai piani alti del palazzo, l’emblema del dèmone di questa città inseguito dalla Procura.

    Tutto azzurro oggi, vista panoramica che nemmeno in costiera e in più la pace dei sensi. What else?

    Cinque del pomeriggio: l’ora delle rese dei conti. Non qui, non ora.

    “Andiamo dal pubblico di ministero di turno a vedere se succede qualcosa a Milano” si motivano due cronisti habitué del tribunale che cercano sul sito della Camera Penale e annotano il nome del pubblico ministero a cui spettano gli affari urgenti di giornata.

     

    Non sia mai, in fondo il Watergate nacque da un’incursione di Bob Woodward e Carl Bernstein alla direttissime.Ma torniamo ai duri marmi del palazzo. Il pm è un nome mai sentito, sarà appena arrivato.

    Parte una caccia che di piano in piano si fa sempre più allucinata. L’umidità  amazzonica aiuta a trasecolare. Consultiamo i fogli con l’elenco dei nomi e dei numeri delle stanze. Il pm D. non è indicato.

    Transitiamo a fianco di cumuli di sedie e vecchi condizionatori accatastati.

    Tutto inanimato, se non fosse che le persone che si occupano delle pulizie stanno bagnando il pavimento potremmo essere nel deserto.

    Disturbiamo uno di loro per chiedere se sappiano dove stia il nostro magistrato. Negativo.  Chiediamo a  a un uomo che cammina nei paraggi, potrebbe essere un  cancelliere. Elegante.“Sa dove si trova D.?”. Il cenno negativo del capo è la risposta.

    Troviamo un pubblico ministero al lavoro dopo avere bussato invano in altre stanze. Chiacchiere di rito e la domanda: “Sa dov’è la stanza di D.?”. Risponde che forse l’ha visto in una riunione ma non sa dove sia. Saliamo, inerpicandoci negli strettti ‘vicoli’ della Direzione distrettuale antimafia. Passiano accanto a una fotocopiatrice che ha un sussulto e ce lo abbiamo pure noi, naufraghi straniti in mezzo a un mare di calda ovatta.

    Ecco una persona, un dipendente di un ufficio. “Dov’è D.?”.  Risponde, un po’ accigliato. “Dovete chiedere in centrale penale ma alle 17 di venerdì dubito che troviate qualcuno…”.

    Riscendiamo al quarto. C’è vita in un ufficio, due impiegati della giustizia si danno da fare dietro a malloppi di fascicoli. “Cercavamo D., siamo due giornalisti”. “Sì, vi conosco. Perché lo cercate?”. “Per sapere se durante il turno ci siano stati dei fatti rilevanti…”.

    Prende il telefono e chiama D. Rasserenati dalla sua esistenza, ascoltiamo la telefonata dalla quale il nostro gentilissimo interlocutore apprende dal magistrato che no, non ci sono notizie. Ma, per curiosità, insistiamo con una tigna effettivamente degna di miglior causa, dove ha la stanza il pm D.?. Lui sorride, quasi intenerito. Dai, ci siamo, pensiamo: ora ce lo dirà! E invece: “Ve lo dico lunedì”.

    Buon week end, giustizia.

    (Manuela D’Alessandro)

  • La graticola mediatica senza fine di chi aspetta di sapere se sarà arrestato

    Nella riforma voluta da Nordio che ha introdotto l’interrogatorio preventivo c’è un buco. Non viene indicato un termine entro cui il giudice deve decidere se appallottolare la richiesta di misura cautelare firmata dalla Procura o accoglierla del tutto o in parte.

    Per i ‘candidati’ all’arresto coinvolti in inchieste che interessino l’opinione pubblica viene in sostanza acceso un fuoco mediatico sul quale stanno ad arrostire per giorni (o anche mesi), come sta accadendo per l’ex assessore comunale Giancarlo Tancredi,  l’imprenditore Manfredi Catella e gli altri quattro sui quali dovrà pronunciarsi il giudice nell’ambito dell’inchiesta sul presunto sistema di corruzione che avrebbe dominato l’urbanistica milanese. L’effetto viene amplificato perché, nel frattempo, circola in purezza sui media l’atto dell’accusa non mediato da un giudice, talora ridondante di quelle espressioni, diciamo, ‘vivaci’ che utilizzano i pubblici ministeri nell’afflato investigativo. Senza contare allegati e dettagli che il giudice prima ometteva di svelare nell’ordinanza e ora  invece vengono messi a disposizioni delle parti e, quindi, che piaccia o meno, hanno buone possibilità di diventare pubblici.

    Poi, certo, va riconosciuto che la novità legislativa permette a chi sta sta con mezzo patibolo sul collo di provare a sfilarsi indebolendo le esigenze cautelari dimettendosi o attraverso memorie e dichiarazioni nel faccia a faccia  col gip.

    Sappiamo bene però che, nell’eccitazione mediatica, fa molto più rumore un pm che accusa che cento avvocati che difendono i loro assistiti. E, anche se poi la misura cautelare dovesse essere respinta dal giudice, sulla graticola resterebbero pochi, bruciacchiati brandelli di reputazione. Per questo mettere un tempo massimo a questa attesa costituirebbe un atto di civiltà.

    (manuela d’alessandro)

  • La caccia alla presunta investitrice di un poliziotto nel Far West dei social

    La foto segnaletica con lei di fronte e di profilo, i dati personali, l’ultimo domicilio conosciuto, una sintesi dei fatti, l’attribuzione certa di un reato. Mancano solo la scritta wanted e la taglia.

    Nel far west di Facebook e di Instagram sta girando un appello indirizzato a iscritti e simpatizzanti. Un gruppo che si chiama “poliziottinoi”, pieno di immagini di persone con le divise dello Stato, ha pubblicato una sorta di avviso di ricerca della donna ritenuta responsabile di aver provocato l’incidente stradale costato la vita all’allievo vice ispettore Enzo Spagnuolo.

    Sabato 28 giugno il ragazzo è stato travolto mentre era in moto a Falciano del Massico, in provincia di Caserta. La presunta investitrice indicata per nome e cognome, alla guida di una Fiesta, è fuggita senza fermarsi a prestare soccorso.. La pagina Fb rimanda con un link al sito della Polizia di Stato ed è piena di foto di personale in divisa. Tra i commentatori in molti si lamentano perché le segnaletiche non sono abbastanza chiare, chiedendone di più nitide, per agevolare la caccia.. E c’è chi spiega, motivando la definizione non ottimale degli scatti che si tratta di foto “diramata Canali interno Arma Cc”. Possibile? Chi ha davvero divulgato le fotografie e il resto al di fuori dei circuiti ufficiali? E chi tollera che girino in rete? Come se non bastasse, tra i commenti si leggono frasi che trasudano razzismo e sfiducia nella magistratura.
    Interpellato via mail, ore dopo la pubblicazione del tutto, il dipartimento di Pubblica sicurezza dice che “sono in corso gli accertamenti necessari per dare le informazioni richieste”. La procura di Caserta per ora non ha risposto alle domande poste. (Lorenza Pleuteri)

  • Concorso in omicidio per lo Stato che non trovò posto nella Rems a Livrieri

    Concorso in omicidio. Lo Stato dovrebbe farsi carico di una parte dei  25 anni che dovrà scontare Domenico Livrieri per avere ucciso la sua vicina di casa Marta Di Nardo.

    Ci si può girare attorno dicendo ‘sì, ma poi, chissà come sarebbe andata, forse non l’avrebbe uccisa’, ma è certo che il dovere dello Stato era  quello trovargli posto  in una Rems dove, secondo un giudice che lo aveva ritenuto seminfermo prima del delitto, avrebbe dovuto essere curato e sorvegliato perché ritenuto socialmente pericoloso.

    Invece nell’ottobre del 2023, libero e sofferente, quest’uomo che ha assistito con  sguardo buio alla condanna nell’aula della Corte d’Assise di Milano, ha ucciso per poi farne a  pezzi il corpo di Marta Di Nardo, nascondendo quel che restava della povera donna di 60 anni in una botola sopra la porta della sua cucina in un palazzo popolare in via Pietro Da Cortona.  A coronare tutto di “assurdo”, questo è l’aggettivo speso dal legale dell’imputato, Diego Soddu, per qualificare la vicenda, ci sono due altri fatti.

    Uno: la perizia psichiatrica disposta dai giudici durante il processo ha effettivamente certificato come seminfermo di mente l’imputato, condizione che gli ha consentito di ottenere un’attenuante.Due, ed è qui che il cortocircuito appare in tutta la sua enormità, i giudici hanno disposto il ricovero in una Rems per 5 anni a pena espiata. Un amarissimo ritorno al punto di partenza.

    Domenico Livrieri e Marta Di Nardo si erano incontrati sul pianerottolo dove condividevano i loro tormenti. Se lo Stato e la Regione, da cui dipendono le Rems che sono di competenza della sanità, avessero fatto quello che gli spettava, probabilmente le due anime perse non si sarebbero trovate in quelle scale per perdersi ancora di più.

    “Il ricovero nella Rems era rimasto ineseguito per mancanza di disponibilità nonostante i ripetuti solleciti dei pm alle autorità di competenza” dopo che un giudice lo aveva disposto. Questa è l’altra sentenza di condanna per l’omicidio di Marta Di Nardo.

    (manuela d’alessandro)

  • Il danno mediatico su Boeri (e in generale) dell’interrogatorio anticipato

    La richiesta di arresti domiciliari per Stefano Boeri è la prima prova mediatica dell’interrogatorio anticipato di un indagato davanti a un giudice, prima, si intende, della decisione di adottare misure cautelari.

    Nessun dubbio sul fatto che questa novità aumenti le possibilità di difesa per chi rischia di essere privato della libertà ma dal punto di vista dei risvolti sulla reputazione di un personaggio noto si può dire che sia un vantaggio?

    Poco dopo la notifica  della richiesta per Boeri da parte della Procura, i media  sono venuti facilmente a conoscenza delle carte dell’accusa come spesso succede quando un atto finisce nelle mani di più persone, in questo caso di sette indagati.

    A quel punto la notizia su Boeri, architetto che gode di solida e vasta fama, ha viaggiato rapidamente in giro per il mondo. E la parola affiancata al suo nome è stata quella che getta l’onta peggiore quando si viene coinvolti in un guaio giudiziario: “arresto”. E’ vero che poco dopo Boeri ha avuto la possibillità di diffondere la sua posizione sulla vicenda, con un primo abbozzo di difesa ‘mediatica’, ma sicuramente l’impatto della richiesta di arresto è stato ben più dirompente della sola notizia ‘Boeri è indagato’ per turbativa d’asta.

    Non è per nulla scontato che la richiesta venga accolta dai giudici considerato anche che è passato diverso tempo dalle ultime attività d’indagine.

    Di certo senza l’interrogatorio anticipato nessuno avrebbe saputo che pende su Boeri una spada così affilata. Forse dopo, a giochi fatti, qualcuno lo avrebbe appreso ma a ipotesi sfumata, con molto meno pathos di adesso.

    Lo diciamo: l’immagine di un uomo sul ‘patibolo’ che pende  in attesa di conoscere il proprio destino non è mai piacevole e, col passare dei giorni la parola ‘arresto’ rimbomba sempre di più accanto al nome dell’inventore del grattacielo col verde in verticale. (manuela d’alessandro)

  • Perché oggi siamo contrari alla separazione delle carriere

    Dicono che la riforma sulla separazione delle carriere garantirà la terzietà del giudice rispetto al pubblico il ministero, che è necessaria perché rappresenta, finalmente, l’attuazione del modello di processo accusatorio voluto dal legislatore del 1989.

    Argomenti, cui, in passato, noi stessi abbiamo aderito.
    Sono ancora attuali? Qual è la reale posta in gioco?  Innanzitutto una precisazione. La riforma non ha ad oggetto il problema della separazione delle funzioni (o giudice o pubblico ministero), ormai risolto dalla riforma Cartabia, ma la disarticolazione dell’organo di autogoverno della magistratura ordinaria e, soprattutto, la sottrazione ai magistrati del diritto di eleggerne i membri.
    L’idea, più o meno espressa, è che la magistratura abbia dimostrato di non essere in grado di scegliersi i propri rappresentanti nell’organo di autogoverno senza finire per dividersi in correnti. Nelle correnti risiederebbe la radice di quello che è ritenuto uno dei principali mali del nostro tempo: la politicizzazione della magistratura. Indegni del metodo democratico, siano eletti a sorte.
    Ora, che la magistratura subisca l’influenza della politica è cosa tanto ovvia, quanto inevitabile: politica e diritto nascono e muoiono insieme. Non solo la creazione, ma anche l’applicazione e l’interpretazione delle norme giuridiche sono frutto di scelte fatte in relazione alla vita di una comunità. Tutti i processi hanno una componente politica, più o meno rilevante: chi lo nega è ipocrita o ingenuo. Conseguentemente anche le decisioni sulla carriera dei magistrati sono, in una certa misura, atti politici.
    Ma né il sorteggio, né la divisione del CSM interferiranno su questo. Quello che verrà intaccato sarà il peso della magistratura in queste decisioni, a vantaggio delle altre forze che interferiscono sulla componente politica della giustizia: potere esecutivo in testa.
    E questo non solo per l’ovvia considerazione che la divisione di un corpo ne riduce il peso, ma anche perché, mentre i magistrati saranno realmente scelti a caso tra quasi 10.000 soggetti, non necessariamente interessati o capaci o adatti, i laici saranno estratti da un elenco ragionato di qualche decina di nomi scelti dal Parlamento, cioè ancora, tendenzialmente, dal Governo.
    D’altro canto, dire che la separazione delle carriere serve a portare a compimento la riforma del processo in senso accusatorio significa ignorare che il modello accusatorio è stato da tempo rigettato dal sistema, sostituito da un ibrido con significative componenti inquisitorie, in cui quasi tutti i procedimenti si chiudono con modalità di definizione alternative al processo. Certo, ci sono le indagini preliminari, con la questione misure cautelari: si dice che con la separazione il gip dovrebbe essere più libero di dissentire dal pm. Possibile. Ma che indagini avremo? Sapranno (potranno) le procure resistere alle spinte o alle tentazioni della politica?
    Intanto le libertà dei cittadini sono sempre più spesso insidiate da nuove, sempre più insidiose, misure di polizia (oggi se la prendono con migranti e maranza, ma domani…), rispetto alle quali le libertà dei cittadini sono infinitamente meno garantite che nel processo penale.
    Soffiano venti oscuri e in tempi simili ad essere in pericolo sono innanzitutto le libertà. Con un esecutivo sempre più muscolare (del legislativo si sono da tempo perse le tracce), il potere giudiziario potrebbe essere chiamato, forse come mai in precedenza, ad incarnare la propria più autentica dimensione costituzionale, quella di garante delle libertà e dei diritti fondamentali.
    Attenzione a non barattare l’indipendenza del potere giudiziario con la vittoria di una battaglia di principio. Nessuna democrazia è abbastanza consolidata da non poter essere messa in pericolo.

    avvocati Eugenio Losco e Mauro Straini

  • Gli incontri in tribunale tra la giudice milanese e le presunte ‘spie’

    Milano, Palazzo di Giustizia, pomeriggio del 4 luglio 2023. L’ex poliziotto Carmine Gallo, ora investigatore privato, e l’esperto informatico Nunzio Samuele Calamucci bussano alla stanza 152. La porta è aperta, i due entrano, accolti dalla giudice Carla Romana Raineri.

    Il colloquio dura un’ora: quei due che ne hanno viste di tutti i colori, come testimoniano gli atti dell’indagine sulla presunta carovana dello spionaggio che faceva salire a bordo di tutto di più, definiscono l’incontro “surreale”.

    La giudice ha un grosso problema con un familiare e si è rivolta a loro “consapevole”, scrive il pm ma ovviamente è tutto da dimostrare e lo farà la magistratura di Brescia, che i due usassero metodi illeciti per informarsi su tre persone da lei indicate legate a ‘quel’ congiunto.

    “Lo vuole rovinare, gli deprederà tutte le imprese e tutti gli immobili” sintetizzano  i rappresentanti della società  ‘Equalize’. E per farlo, dicono gli inquirenti, “si è esposta al ricatto”. “Stiamo facendo un favore grossissimo al presidente della sezione civile…” –  spiegano i creatori di dossier a una persona che ha dei grattacapi nel recuperare un credito —. Non dirlo a nessuno, nemmeno a tua moglie…appena tu sai chi è il giudice che si occupa di questo  me la vedo io”.

    Gallo e Calamucci affermano che Raineri avrebbe avanzato perfino una richiesta spericolata: “Poi se volete pure intercettarlo abusivamente…”, riferito sempre a ‘lui’.

    Quel pomeriggio di luglio non era la prima volta che la coppia andava a trovare la giudice. Il 13 gennaio 2023 Gallo la chiama avvertendola che col socio l’andranno a trovare. “Poi si rivolge a Calamucci ed esclama: ‘Ha detto se possiamo andare a noi al Palazzo di Giustizia, scende lei a prenderci, così ci evita il controllo!”. E così Raineri farà, andando gentilmente ad accoglierli all’ingresso per risparmiargli la noia di  svuotare le borse sul tapis roulant.

    La complicata redazione del report con dati bancari, personali e giudiziari, prosegue con qualche affanno mentre la polizia giudiziaria li pedina, ascolta tutto e  scatta le fotografie  degli incontri.  (manuela d’alessandro)

  • La Procura ospita i funzionari europei per uno scambio di esperienze

    La Procura di Milano in questa settimana ( 25 e 29 settembre ) sta ospitando funzionari dei Tribunali dei paesi dell’Unione Europea (olandesi, croati, estoni e portoghesi). L’ospitalità e relativa formazione avvengono nell’ambito dei programmi di scambio organizzati da EJTN (European judicial  training network.) Lanciato su iniziativa del Parlamento Europeo, il programma di scambio mira a sviluppare una cultura giuridica europea basata sulla fiducia reciproca tra le autorità giudiziarie europee.

    Partecipando a questo tipo di incontro magistrati e personale amministrativo migliorano le loro conoscenze di altri sistemi giudiziari attraverso il contatto diretto e un confronto di opinioni ed esperienze.  Il programma di scambio è veramente ricco si inizierà a parlare di cancelleria ( TIAP e SICP) per continuare a descrivere il dipartimento del pm Fabio De Pasquale (che tratta tra l’ altro delle rogatorie internazionali) fino ad arrivare  all’Eppo ( European public prosecutor Office ). Insomma, ancora una volta  Milano si dimostra sempre di più la città più europea d’Italia.

    (Adele Buffa, funzionaria del Tribunale e tutor della Procura per il programma)

  • “Nostro figlio bocciato in prima liceo ed espulso dal sistema scolastico pubblico”

    Per i ragazzini comaschi bocciati in prima, alle superiori, trovare posto in scuole pubbliche è difficile, se non impossibile. Ci sono problemi di spazi, capienza, orientamento. Lo denunciano i genitori, lo confermano i presidi.

    “Non accettiamo ripetenti esterni”

    Le scuole superiori pubbliche comasche (tutte quelle contattate, con un solo distinguo) in questo periodo dell’anno non accettano l’iscrizione di studenti bocciati in prima in altri istituti del territorio. Al momento non ci sono posti liberi per chi è inciampato e si è fermato all’inizio del percorso, i ripetenti, come in molti continuano a chiamarli.  Le famiglie devono ripiegare su scuole parificate e private, se possono permettersele e sempre che propongano indirizzi formativi adatti. Oppure a settembre saranno costrette a tenere i figli a casa, salvo colpi di scena, arrendendosi ad uno Stato che non garantisce a tutti il diritto all’istruzione e sottraendoli ad un obbligo di legge.

    Bocciato allo Scientifico, rifiutato da altre scuole

    Una di queste storie sbagliate (e riscontrate) riguarda il presente e il futuro di Alex (nome inventato, per tutelare il minore). L’adolescente, 15 anni e mezzo, ha frequentato il primo anno del liceo scientifico “Paolo Giovio” di Como. A giugno non è stato promosso. Il padre e la madre non ne hanno fatto un dramma, ma una occasione di crescita.  «L’esperienza è servita – dice papà – per capire che non è portato per matematica e fisica, con deficit che condizionano l’intero rendimento complessivo. Sembra invece predisposto per le materie umanistiche.  Avevamo pensato di mandarlo al liceo pubblico “Teresa Ciceri”, che ha l’indirizzo in scienze umane, la scelta più consona. Impossibile. In segreteria ci hanno ripetuto che non ci sono posti disponibili e che sarebbe stato inutile formalizzare la richiesta di iscrizione. Non ci hanno nemmeno dato i moduli da compilare».

    Tutto esaurito negli istituti interpellati

    Tutto esaurito anche alla seconda tappa del giro delle sette chiese, l’istituto tecnico economico “Caio Plinio Secondo”. Lo stesso al selettivo liceo classico “Alessandro Volta”. Idem nelle altre superiori statali contattate, distribuite tra il capoluogo lariano e i comuni più vicini. «Nessuna ci ha dato la disponibilità ad accogliere Alex. Non abbiamo chiesto in comuni più lontani – dice sempre il padre di Alex – perché sarebbero scomodi da raggiungere con i mezzi pubblici, in autonomia». E comunque pure al Jean Monnet di “Mariano Comense”, non proprio dietro l’angolo, le porte sono sprangate per i bocciati di prima provenienti da altri plessi.

    Uno spiraglio a Cantù, ma non per tutti

    Al liceo scientifico “Enrico Fermi” di Cantù, fuori dal radar di Alex, lo sbarramento potrebbe solo essere posticipato. In segreteria recepiscono richieste inviate per email, purché motivate. Però mettono le mani avanti. «Sapremo più avanti se ci saranno posti liberi. Ad oggi non siamo in grado di dire se e quanti ripetenti esterni riusciranno ad entrare».

    L’autodifesa dei dirigenti scolastici con il tutto esaurito

    Il dirigente scolastico del liceo statale “Teresa Ciceri”, Vincenzo Iaia, non si sottrae alle domande e racconta la situazione del suo istituto. «Già a gennaio siamo stati costretti a respingere 70 domande ordinarie per la prima classe. Adesso non siamo in grado di prendere i bocciati esterni di giugno». Non è discriminazione, assicura. E non sarebbe neppure questione di “merito”, termine aggiunto alla dicitura del ministero dal governo Meloni. «La ragione dell’impossibilità di accettare chi non ha superato il primo anno – argomenta Iaia – sta in un limite oggettivo, una variabile: la capienza. Il numero massimo di ragazzi e ragazze che possiamo tenere è legato agli spazi disponibili, insufficienti per accogliere tutti i potenziali interessati. Mancano aule. Nel 2022-2023 avevamo sistemato una classe in aula magna, però ci serve per attività di interesse collettivo e quindi la libereremo, perdendo altri metri quadrati».

    “L’amministrazione provinciale non ci aiuta”

    Continua Iaia: «Ho chiesto all’ente di riferimento, l’amministrazione provinciale, reperire e assegnarci alcuni locali in più. Ne basterebbero 4 o 5. Non ho avuto riscontro. Nelle prime abbiamo una media di 29/30 alunni, non possiamo andare oltre. Ci sono limiti normativi, anche. Già fatichiamo a mantenere qui i nostri bocciati, cosa niente affatto scontata».

    “Costretti a ripiegare su una scuola privata”

    I genitori di Alex hanno chiesto aiuto all’Ufficio scolastico provinciale di Como, che è diretto da un ex ministro dell’Istruzione, Marco Bussetti, governo Conte I. «I funzionari della struttura, l’ex provveditorato, dovrebbero aiutare le famiglie a trovare una collocazione per i figli a rischio di espulsione dal sistema pubblico. Per ora – racconta sempre il papà del 15enne – non sono arrivate proposte percorribili o soluzioni concrete. Non abbiamo avuto scelta. Abbiamo iscritto Alex in un istituto privato parificato, con un piano di studi diverso da quello che avevamo immaginato per lui, dopo l’esperienza del liceo scientifico e le indicazioni dei professori». Per non lasciare nulla di intentato, i genitori presenteranno comunque domanda in un paio di scuole pubbliche, «sperando che poi qualcuno rinunci o si ritiri e lasci libero un banco, per un trasferimento diretto».

    I genitori denunciano: “Lo Stato non garantisce il diritto all’istruzione”

    «Il nostro non è un caso isolato, unico. A Como – afferma il genitore – sono coinvolte decine di famiglie. Sta succedendo quello che da tempo avviene con la tutela della salute. Il sistema sanitario nazionale non è in grado di prendere in carico direttamente tutti i pazienti e così i malati sono spinti a ripiegare sul privato, sempre che abbiano i soldi per farlo, o sui centri convenzionati. Per la scuola è ancora peggio, se possibile. Lo Stato prevede che i più giovani rispettino l’obbligo scolastico fino a 16 anni, un dovere e insieme un diritto. Ma non mette a disposizione abbastanza plessi, aule e docenti per consentire a tutti di frequentare istituti pubblici, in caso di inciampi iniziali». L’overbooking, come in aeroporto, solo che qui si parla di minori, educazione, formazione, inclusione e pure possibilità di spesa. Bonus e aiuti (per esempio la dote scuola della Regione Lombardia, che privilegia gli studenti eccellenti) non bastano per coprire economicamente i costi del privato. «Nessuno denuncia questa situazione, ingiusta, inaccettabile, anticostituzionale. Perdere per strada anche uno solo di questi ragazzi- ripete il papà di Alex – è una sconfitta».

    Nessuna risposta dall’ex ministro Bussetti

    Non è dato saperne di più, non dalla struttura ministeriale territoriale. Il responsabile dell’ufficio scolastico provinciale di Como, l’ex ministro Bussetti, non si fa passare telefonate e non risponde alle mail, preso da mille impegni e in procinto di andare in ferie.  Matteo Loria, responsabile della Associazione nazionale presidi per la Lombardia, rimarca che «nella provincia lariana la situazione è particolarmente pesante e non da quest’anno». Lui però è possibilista. Pensa in positivo: «A settembre potrebbero esserci cambiamenti, perché saranno state definite le posizioni di chi ha debiti, le reiscrizioni, le rinunce. Genitori e studenti non si devono scoraggiare». Il problema, a suo parere, «è più generale» e per questo «bisognerebbe ripensare a tutta la politica di orientamento degli studenti, in base a competenze e passioni e a quello che il mercato richiede, stabilendo e formando le classi di conseguenza».

    Lorenza Pleuteri

  • Il ‘buco nero’ della democrazia nella gestione dei militari in Val Seriana

    Non basta un’inchiesta gigantesca, una piramide di carta alta quaranta faldoni che schiumano informative, messaggi, documenti, testimonianze. Non basta per spiegare fino al cuore cosa accadde nella notte italiana del Covid quando a un certo punto quattrocento militari marciarono dalla Lombardia e da altre regioni perché chiamati a proteggere le comunità di Nembro e Alzano che si assottigliavano ora dopo ora, senza fiato e senza cura, fino a quando i militari arrivarono davvero ma per posare i corpi sui camion che al camposanto la terra era gonfia di bare.

    L’inizio e la fine li conosciamo: il 6 marzo 2020 partirono, l’8 marzo se ne tornarono a casa.

    Le carte di Bergamo raccontano una storia a cui possiamo, dobbiamo credere perché un presidente del consiglio e una ministra dell’Interno sono stati invitati a testimoniare e quindi a dire la verità davanti ai magistrati. Luciana Lamorgese ha messo a verbale che diede “ordini orali” ai militari di effettuare “un’attività ricognitiva e di sopralluogo e che tutte queste disposizioni non sono state cristallizzate in provvedimenti formali”. Giuseppe Conte, ha aggiunto, “non sapeva dell’invio delle forze armate proprio perché il fine era di natura ricognitiva”. “Se ci fosse stato un Dpcm di cinturazione lo avrei avvertito”, puntualizza, e bontà sua: forse lui se ne sarebbe acccorto firmando un DPCM. E Conte conferma: “Dell’invio dei militari lo seppi dopo, credo dalla stampa. Non credo fosse stato disposto dalla ministra Lamorgese”.

    Dunque: abbiamo un capo del governo ignaro che si stanno mobilitando centinaia di militari in un momento in cui anche una democrazia matura come quella italiana appariva all’improvviso fragile, tramortita dalla furia del virus. Un capo di governo che lo viene a sapere “forse” dai media. Abbiamo la titolare del Viminale che decide che non è il caso di avvertire il premier che sta pensando di spostare truppe di uomini e donne in divisa. Un vuoto di comunicazione democratica che a noi genera una certa vertigine ancor più se ci immaginiamo con gli occhi sull’abisso di quell’inizio crudele di primavera in cui ai morti nemmeno la grazia dei fiori poteva essere donata.

    “Non credo Lamorgese avesse disposto l’invio”: fermiamoci su queste parole di Conte. Sempre dall’inchiesta  sappiamo che di certo invece Lamorgese lo fece. Lo dice lei: “La disposizione è partita dal ministero dell’Interno in quanto legata all’ordine e alla sicurezza pubblica”. Lo dicono anche i quattro fonogrammi spediti dal ministero su carta intestata del Viminale. Il primo messaggio è indirizzato al Comando generale dei carabinieri, al Prefetto e al Questore di Bergamo: “Scopo implementare dispositivo vigilanza, ordine e sicurezza pubblica in provincia, pregasi porre disposizione Questore Bergamo, da giorno 6 et fino al 20 marzo 2020, salvo proroghe, rinforzo nr.100 carabinieri. Trattamento economico indennità, ordine pubblico. Proministro Gabrielli”. Altri due fonogrammi analoghi vengono mandati alla Direzione Centrale Anticrimine e al Comando Generale della Guardia di Finanza lo stesso giorno, con riferimento all’invio rispetivamente di “114 operatori reparti prevenzione  anticrimine” e di “44 finanzieri”. E  infine c’è una quarta comunicazione firmata dal primo dirigente della Polizia di Stato, Raffaele Alfieri, in cui si chiede di “mettere a disposizione del Prefetto di Bergamo, da domani 6 marzo 2020, 120 militari con esclusione delle aliquote di comando e di controllo, per il concorso nei servizi di vigilanza delle aree sensibili individuate in relazione all’emergenza epidemiologica Covid 19”.

    Tre giorni dopo arriva il dietrofront. Il ministero dell’Interno scrive alle forze dell’ordine che “a seguito et modifica” del messaggio precedente “pregasi disporre revoca con effetto immediato at disposizione Questore Bergamo”.

    Aggiungiamo un dettaglio: i comandanti dei Carabinieri e della Guardia di Finanza devonono per norma informare i loro superiori funzionali, quindi sapevano anche il ministro della Difesa e quello delle Finanze. Tre ministri e un capo della Polizia dispongono uno spostamento di militari e il presidente del Consiglio non lo sa.

    Ora sappiamo chi decise, chi sapeva e chi no e con quali modalità. Perché accadde? Ecco Lamorgese: “Abbiamo ritirato gli uomini perché l’8 marzo il presidente Conte ha emanato il noto DPCM con il quale ha emanato disposizioni contenitive per l’intera regione”.

    Se fosse stata disposta la zona rossa 48 ore prima, come già era accaduto per i Comuni del lodigiano in una situazione di contagio simile, sarebbero morte meno persone?. E’ una delle domande dell’inchiesta a cui forse nessuna perizia potrebbe dare una risposta. Il buon senso suggerisce che qualche vita si sarebbe potuta salvare.

    Fin qui la storia che restituisce l’indagine ma ce n’è un’altra che ha iniziato a correre  parallela a novembre del 2020 quando l’agenzia di stampa AGI chiede al Viminale con un accesso civico agli atti i fonogrammi mandati alle forze di polizia. “No per ragioni di sicurezza nazionale e ordine pubblico” è la risposta. Ricorso al Tar che invece dice sì “perché l’accesso civico è finalizzato a favorire forme di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle forze pubbliche”. Ma il Consiglio di Stato qualche tempo dopo sospende la decisione del Tar e poi decide nel merito sulla base di una relazione  firmata il 2 febbraio del 2022 dal capo della polizia che convince i magistrati delle “rilevanti e apprezzabili esigenze di riservatezza”. Passaggio cruciale: il ministero fa sapere alla giustizia amministrativa che “non c’è stato alcun atto governativo specifico di impiego delle forze militari di Nembro e Alzano” e che “per contrastare il Covid soono stati impiegati gli stessi contingenti addetti all’operazione ‘Strade Sicure’ il cui utilizzo è stato disposto in attuazione delle direttive generali di pianificazione annuale, in relazione alle quali sussiste un’esigenza di riservatezza volta a secretare le linee della programmazione strategica di impiego delle  risorse umane e strumentali”. Non avete capito? Nemmeno noi e nemmeno i nostri avvocati Gianluca Castagnino, Eugenio Losco e Mauro Straini. Fatto è che i documenti vengono negati “perché la richiesta di accesso andrebbe ad attingere un livello di programmazione strategica di più vasta portata e come tale inattingibile da un livello di acquisizione parziale”.

    Solo che adesso vieni fuori che gli unici atti che riguardano quell’invio sono quei quattro fonogrammi, giustamente striminziti come devono essere delle comunicazioni sbrigative in ambito militare.

    Quali “linee della programmazione strategica” andavano protette per non nuocere alla pubblica sicurezza? Noi non lo sappiamo ma uscendo da questo viaggio ci faccciamo acccompagnare dalle parole di Pier Paolo Pasolini: “Nulla è più anarchico del potere, il potere fa praticamente ciò che vuole”.

    Manuela D’Alessandro

  • Il fantomatico complotto giudiziario della ‘particella 463’
    e la giustizia sotto scacco per la denuncite incatenata

    Denunce a raffica, anni di indagini, procuratori capo indagati insieme a giudici, poliziotti, vigili urbani, militari della Gdf. E poi decine di legali impegnati, udienze in tre distretti di corte d’appello. Sarà il nuovo maxiprocesso alla mafia? Il Watergate italiano? No, è solo la particella 463, foglio XYZ del catasto dei terreni di Biella, con il suo fantasmagorico potenziale giudiziario. Grazie alla pervicacia di una coppia di coniugi, uno dei quali avvocato, e al loro allegro uso delle denunce-matrioska per abuso d’ufficio, da anni tiene sotto scacco la giustizia di Biella, Alessandria, Milano e Brescia, determinando un impegno di risorse e tempo – qualcuno lo definisce apertamente spreco – con pochi precedenti in Italia.

    La storia inizia anni fa. La coppia accusa un vigile urbano di essersi illecitamente introdotto nella particella catastale 463. È solo il primo degli episodi. Di asserite invasioni di campo ce ne saranno altre. Ma c’è anche una delibera comunale da cui si evince che una porzione di quel terreno, a uso vicinale, è transitabile. La coppia denuncia 20 consiglieri comunali. Quando la procuratrice capo di Biella, Teresa Camelio, chiede l’archiviazione per il vigile invasore, parte un’altra denuncia, questa volta per lei. Accusa: abuso d’ufficio. Finisce a Milano, competente sulle indagini che riguardino magistrati piemontesi. Poi altre denunce. E quando un giudice riunisce due procedimenti, ne parte un’altra, una specie di meta-denuncia, per abuso d’ufficio.

    La coppia è indagata in un altro procedimento per atti persecutori. E allora i due denunciano il gup, accusandolo di aver omesso la notifica di una asserita nullità: ovviamente, abuso d’ufficio.

    Accusano poi due legali per un’altra vicenda ai limiti del comprensibile, la presunta scomparsa di due foglietti scritti a mano su una ricevuta di notifica. Quando il pm di Alessandria chiede l’archiviazione, loro si oppongono, il gip archivia, e allora lo denunciano: indovinate per quale reato. Poi si rendono irreperibili per una notifica. Salvo poi denunciare due poliziotti e la procuratrice di Biella quando vengono dichiarati irreperibili. Ipotesi di reato, sempre quella lì.

    E quando due dei loro arditi procedimenti vengono riuniti e archiviati, partono denunce per la procuratrice, una sua sostituta, e una giudice di Biella: non potevano farlo, sostengono, è un abuso. Vanno poi all’attacco di altri due avvocati. E quando si va verso l’archiviazione loro denunciano di nuovo procuratrice e giudice.

    A fine 2019 vengono rinviati a giudizio per atti persecutori e allora la donna, il giorno dopo, in altra udienza, si avvicina alla giudice: “Ci sono rimasta proprio male ieri. Da lei proprio non me l’aspettavo. Pensavo di aver trovato in lei finalmente un giudice che capisse la situazione”. A quel punto il magistrato chiede di astenersi dal procedimento. La presidente del Tribunale, Paola Rava, accoglie la richiesta. Et voilà l’aspirante campionessa biellese di querele-matrioska denuncia anche l’alto magistrato, questa volta per diffamazione.

    Tutto ciò, e molto altro, per un totale di 13 fascicoli scaturite da molte più denunce, finisce a Milano. Il pm Paolo Filippini riunisce e chiede l’archiviazione. Loro si oppongono, naturalmente. Si racconta di un’udienza scoppiettante, a settembre scorso, con decine di avvocati arrivati da mezzo Piemonte in via Freguglia e nervosetti per l’evidente perdita di tempo. Anche questa volta, l’opposizione finisce come previsto. Archiviazione concessa e motivata il 21 dicembre scorso, non senza reale uno sforzo di umana comprensione nei confronti dei denuncianti per il loro “profondo senso di frustrazione, ingiustizia e insofferenza”, come scrive la gip di Milano Lorenza Pasquinelli, la quale dà atto del “clima teso” e della diffidenza reciproca accresciuta negli anni tra il mondo giudiziario biellese e la coppia di denuncianti. Tale è l’accuratezza e la mancanza di pregiudizio del gip milanese, che per una delle 13 denunce dispone ulteriori accertamenti al fine di ascoltare i potenziali testimoni di un bizzarro episodio di “sequestro di persona” da parte di appartenenti alla Gdf, di cui l’avvocato dice essere stata vittima insieme a un’amica.

    Potete immaginare come prosegue la storia. Il pm milanese Filippini è stato denunciato a Brescia. Verrà con ogni probabilità archiviato. Ma scommettiamo che la vicenda si sposterà poi a Venezia? E in seguito? Piccolo consiglio all’ex pm milanese Sandro Raimondi, ora a capo della procura di Trento: inizi silenziosamente a portarsi avanti studiandosi la vicenda, qui su Giustiziami.

  • Le nuove materie ‘top secret’ sottratte dal governo all’accesso civico

    Ora che il Governo se ne va, veniamo a scoprire grazie a un tweet  della giornalista Laura Carrer che a marzo un decreto firmato dalla ministra Luciana  Lamorgese ha amputato alcuni dei più preziosi strumenti in mano non solo ai giornalisti ma anche e soprattutto a tutti i cittadini per controllare cosa combini la pubblica amministrazione.

    Il provvedimento allarga e di molto le situazioni in cui può essere negato l’accesso semplice ai documenti amministrativi e quello generalizzato, il cosiddetto FOIA d’importazione anglosassone, rendendo  complicato  avere informazioni anche in materie cruciali come l’immigrazione e le tecnologie di sorveglianza. A colpire in modo particolare è il bollino ‘top secret’ imposto su quello che accade alle frontiere. Vanno sotto chiave  “i documenti relativi agli accordi intergovernativi di cooperazione, di programmi per la collaborazione internazionale di polizia inclusa la gestione delle imprese e della cooperazione” e quelli che riguardano “la cooperazione con l’Agenzia Europea della Guardia di Frontiera e Costiera per la sorveglianza delle frontiere esterne dell’Unione Europea  coincidenti con quelle italiane”. Il riferimento sembra proprio essere a Frontex.

    Il variegato elenco delle carte sottratte al diritto di accesso comprende anche “le relazioni di servizio, le informazioni e gli altri atti o documenti inerenti a materiali di alta tecnologia utilizzati per le operazioni speciali” e le “relazioni tecniche sulle prove d’impiego dei materiali e dei sistemi informatici e di telecomunicazione oggetto di sperimentazione”.

    Alla base di queste limitazioni c’è il concetto di “sicurezza nazionale”, lo stesso in nome del quale il Governo negò nei mesi scorsi all’agenzia di stampa AGI la possibilità di far sapere in base a quali atti vennero fatti tornare indietro  nel giro di poche ore i militari spediti nelle zone di Nembro e Alzano per trasformare in  ‘zona rossa’ il territorio più aggredito dal Covid provocando, forse, più vittime delle tantissime che già si contarono.  (manuela d’alessandro)

    Testo aggiornato della legge

     

     

  • Loggia Ungheria, archiviazione non spiega. Solo sabbia

    Dal comunicato emesso dalla procura di Perugia per annunciare la richiesta di archiviazione dell’indagine sulla cosiddetta loggia Ungheria non emerge una spiegazione convincente. Nelle poche righe della nota non si fa accenno al fatto che la procura di Milano allora retta da Francesco Greco non procedette immediatamente alle iscrizioni sul  registro degli indagati come sollecitava il sostituto Paolo Storari coassegnatario del fascicolo insieme al l’aggiunto Laura Pedio. Sarebbe cambiato tutto.
    E invece Raffaele Cantone con i suoi sostituti sceglie di spiegare le difficoltà a indagare esclusivamente con la fuga di notizie che avrà sicuramente contribuito ma non in maniera prevalente.

    Storari che poi cercherà di uscire dalle difficoltà consegnando i verbali dell’avvocato Piero Amara sulla loggia a Piercamillo Davigo allora componente del Csm chiedeva da un lato di inserire nel registro degli indagati le persone tirate in ballo e dall’altro il legale siciliano per calunnia. Si trattava di indagare subito per accertare la veridicita’ di quanto affermato.

    Ma si trattava da un lato di indagare su magistrati oltre che su imprenditori ufficiali dei carabinieri e altre persone importanti dall’altro di mettere in difficoltà Amara considerato il testimone della corona nel processo Eni Nigeria poi finito con un clamoroso flop della tesi accusatoria.

    Cantone con il suo comunicato cerca di salvare capra e cavoli. E soprattutto di non causare guai alla gestione della procura di Milano in quel periodo. Insomma siamo al solito cane non mangia cane. Il prossimo 22 luglio ci sarà una riunione di coordinamento tra gli uffici inquirenti di Perugia e di Milano dove adesso non c’è più Greco ma Marcello Viola, nominato dal Csm in aprile proprio per dare un segnale di discontinuità rispetto al passato.
    Poi ci sarà un giudice delle indagini preliminari a valutare la richiesta di archiviazione a decidere se accoglierla o ordinare nuove indagini. Insomma non è detto che accetti la linea del “pappa e ciccia”  con la procura di Milano ”versione greca“.

    La speranza di arrivare alla verità sulla loggia che sarebbe stata costituita per influenzare processi e nomine del Csm si è affievolita non di poco. Se fosse tutta la vicenda una bufala ci sarebbe comunque da chiedersi perché l’avvocato Amara avrebbe parlato in quel modo inframmezzando cose vere sia pure non riscontrabili (Cantone dixit) a bugie, per poi ridimensionare le sue affermazioni come riporta il comunicato della procura di Perugia.

    In un paese normale uffici giudiziari e Csm dovrebbero essere case di vetro. Il condizionale è d’obbligo (frank cimini)

     

     

     

  • Ricorsi al Tar contro Viola ultima spiaggia di chi ha perso

    La decisione del Csm di nominare Marcello Viola come procuratore della Repubblica di Milano fu illegittima perché fondata sulla applicazione  dell’invero inesistente automatismo valutativo relativo alla pretesa prevalenza del candidato che ha rivestito funzioni direttive in luogo di quelle semidirettive. Questo tra l’altro si legge nel documento di 42 pagine con cui il procuratore aggiunto di Milano Maurizio Romanelli si è rivolto al Tar per far annullare la delibera con cui il Csm il 7 aprile scorso designò Marcello Viola come successore di Francesco Greco.
    Romanelli si presenta come portatore di un percorso “più ampio e pertinente rispetto alla trattazione di reati come mafia terrorismo e delitti contro la pubblica amministrazione“ rispetto a Marcello Viola.

    Romanelli si ritiene penalizzato dai criteri adottati dal Csm che aveva dato priorità agli incarichi direttivi di Viola come procuratore di Trapani e Pg di Firenze. Romanelli invece aveva fatto parte della Dna prima di fare l’aggiunto a Milano. Non aveva mai diretto un ufficio.

    La decisione del Csm è stata impugnata in sede amministrativa anche dal procuratore di Bologna Giuseppe Amato l’altro sconfitto della partita per la procura di Milano.

    Nell’impugnativa i legali di Romanelli lamentano che il consigliere Nino Di Matteo avesse acennato a rapporti tra il magistrato milanese e Luca Palamara in prossimità della votazione finale al Csm senza che fosse garantito il diritto al contraddittorio. La circostanza non aveva mai costituito in precedenza oggetto di una contestazione formale.

    I ricorsi al TAR contro la nomina di Viola appaiono comunque come l’ultima spiaggia dei candidati sconfitti. Il ricorso di Romanelli inoltre dimostra che la procura di Milano non trova pace dopo le polemiche relative al processo Eni-Nigeria sfociate in inchieste a carico di pm del capoluogo lombardo a Brescia. Il clima insomma non è sereno mentre il nuovo procuratore sta cercando di riorganizzare l’ufficio inquirente. I ricorsi al Tar non sembrano avere molte speranze di essere accolti. Ma potranno avere un peso sicuramente su altri piani a cominciare da quello della magistratura associata e delle correnti soprattutto nella prospettiva delle elezioni per il nuovo Csm programmate per settembre. A Milano nel recente passato c’era già stata la dura vertenza di un altro aggiunto Alfredo Robledo con l’allora procuratore Bruti Liberati.

    (frank cimini)

  • Arriva il Papa straniero, la fine di Mani pulite e di Md

    Con 13 voti il Csm ha designato il Pg di Firenze Marcello Viola nuovo procuratore di Milano. Si tratta dell’ormai famoso Papa straniero per rimarcare il fatto che da decenni il capo della procura arrivava sempre dall’interno del palazzo di corso di Porta Vittoria. Questa volta il vento è cambiato, si è imposta la scelta per la discontinuità perché la procura di Milano era diventata un ufficio allo sbando e non sarà facile metterci le mani.
    Era finita sotto accusa da parte della maggior parte dei pm l’organizzazione del lavoro scelta da Francesco Greco andato in pensione a metà novembre. Il segnale di sfogo era arrivato con 57 magistrati su 64 che firmavano il sostegno a Paolo Storari entrato in collisione con i vertici dell’ufficio nell’ambito del caso Eni.
    Ma il fuoco covava sotto la cenere da tempo. Basti pensare che poco più della metà dei pm era esentata dai turni per le ragioni più varie da quelle familiari a quelle di servizio.
    Con il risultato di far gravare il peso del lavoro ordinario solo su una parte dell’ufficio. Particolare “scandalo” suscitava l’esenzione dai turni dei pm del dipartimento corruzione internazionale che aveva istruito i processi ai vertici Eni poi conclusi con raffiche di assoluzioni.
    Ma a risentirne era il complesso dell’attività investigativa. I dati dicono che solo in relazione al Tribunale siamo al 40 per cento di assoluzioni a cui vanno aggiunte quelle davanti al gup e anche quelle mei gradi successivi di giudizio. Un pm che vuole restare anonimo ammette che spesso il capo di incolpazione è quello redatto dalla polizia giudiziaria e che poi non regge al vaglio del dibattimento.
    Insomma intorno a Greco c’era una sorta di cerchio magico di privilegiati o comunque di pm che avevano condizioni di lavoro migliori rispetto ad altri.
    Per cui si arrivava all’esplosione e ai fuochi di artificio con le chat di discussioni interne seguite al tonfo dell’ipotesi accusatoria nel processo Eni. Da allora non c’è stata più pace mentre diversi pm finivano indagati a Brescia dove ci sono vicende ancora da definire oltre ai procedimenti disciplinari che potrebbero portare ai trasferimenti per incompatibilità ambientale.
    Mani pulite di cui è appena ricorso il trentennale appare nolto lontana mentre dall’iter che ha portato alla nomina di Viola esce sconfitta la corrente di Magistratura Democratica che da tempo considerava la procura di Milano come suo territorio esclusivo. Di Md erano stati espressione gli ultimi due procuratori Edmondo Bruti Liberati e Francesco Greco. Md aveva proposto l’aggiunto Maurizio Romanelli che nel plenum ha raccolto alla fine solo 6 voti La corrente di sinistra probabilmente punterà a ottenere la presidenza del Tribunale libera dopo il pensionamento di Roberto Bichi. Ma si tratta di un incarico di peso nettamente inferiore a quello di procuratore.
    Toccherà dunque a Marcello Viola far ripartire resettandola la seconda procura italiana per importanza. Non è un compito facile ma appare difficile per lui fare peggio dei suoi due predecessori Bruti Liberari impantanato nel clamoroso contenzioso con l’aggiunto Robledo e Greco in pratica messo in minoranza e isolato dai suoi sostituti per un finale di carriera inglorioso. Come quello di Md che vive il momento più difficile della sua storia. Una corrente nata 50 anni fa per democratizzare la magistratura, per la orizzontalità delle decisioni e finita nella pure gestione del potere di casta. Come disse uno dei suoi fondatori che da tempo non è più tra noi Romani Canosa: “Sarebbe stato meglio se non fosse mai nata”. Aveva visto le cose in grande anticipo. (frank cimini)

  • Chi indaga sulla loggia Ungheria? Tutti… cioè nessuno

    Tra le diverse procure e il Csm si è perso il conto di tutti quelli che indagano sulla loggia Ungheria senza che se ne sappia qualcosa considerando particolare importantissimo la complicità dei giornali e dei telegiornali i quali semplicemente non ne parlano. Della loggia di cui l’avvocato Piero Amara aveva ipotizzato (diciamo così) l’esistenza a verbale davanti ai pm di Milano parlando del caso Eni-Nigeria farebbero parte magistrati imprenditori persone con incarichi importanti nel settore pubblico e privato al fine di aggiustare processi e varare nomine al Csm. Insomma una cosa gravissima in qualsiasi caso.
    Se la famosa loggia esistesse veramente ci sarebbero responsabilità da accertare. Ma anche in caso contrario, cioè se fossimo alle prese con una bufala, sarebbe inquietante uguale perché bisognerebbe chiedersi per quale motivo Amara avrebbe verbalizzato tali fantasie.
    La procura di Milano avrebbe tergiversato (eufemismo) prima di procedere con le iscrizioni nel registro degli indagati secondo il pm Paolo Storari appena assolto a Brescia dall’accusa di rivelazione del segreto d’ufficio in riferimento ai verbali di Amara consegnati a Piercamullo Davigo all’epoca componente del Csm. Gli atti per competenza sarebbero finiti a Roma e a Perugia. Infine anche a Brescia che entrava in contrasto con i colleghi di Milano in relazione e alle carte sul cosiddetto “depistaggio” in merito al fascicolo Eni-Nigeria.
    La loggia Ungheria insomma sembra avviata a ingrossare la lista dei tanti misteri d’Italia e appare forte il sospetto che ciò avvenga perché la magistratura in pratica non gradisce indagare su se stessa. E mancano pure quelle fughe di notizie che caratterizzano da sempre ogni indagine che si rispetti perché i giornali sul punto non tengono passione. Cioè le cronache giudiziarie non vogliono disturbare il manovratore. E va considerato che troppo spesso hanno come “datore di lavoro” quelle procure, quegli uffici inquirenti chiamati a dirimere la questione.
    Che i singoli magistrati fin qui coinvolti nelle indagini penali e nei procedimenti disciplinari siano prosciolti o condannati o trasferiti è sicuramente secondario rispetto alla causa principale. Ma questa benedetta loggia Ungheria c’era o non c’era? È esistita davvero? È ancora operativa? Blaterare di riforma della giustizia senza rispondere a tali domande sembra perfettamente inutile. Alla magistratura l’ardua sentenza. Per cui siamo messi non male ma malissimo. (frank cimini)

  • Il carcere istituzione reietta, saggio dI Valeria Verdolini

    Ci sono addirittura ex magistrati che in servizio lo usarono per acquisire fonti di prova estorcere confessioni a proclamare l’inutilità del carcere a proporre la necessità di superarlo come unica sanzione possibile.
    Quindi bisogna chiedersi come definire il carcere nel terzo millennio. Un contributo rilevante e controcorrente arriva da Valeria Verdolini, sociologa, docente all’Universita’ Bicocca. 247 pagine, 18 euro, Carrocci Editore. Il titolo è “L’istituzione reietta”.
    Per spiegare come arriva a tale definizione, Verdolini afferma che il carcere si presenta come istituzione residuale che svolge una serie di compiti non richiesti dal mandato formale ma ascrivibili a un welfare a basso costo, housing sociale per i senza fissa dimora, centro di accoglienza per i migranti, comunità terapeutica per i tossicodipenfenti, comunità psichiatrica per le fragilità, centro impiego per i disoccupati, residenza sanitaria e di lungodegenza per anziani.
    Si tratta di vulnerabilità che raramente trovano una risposta integrata fuori dalle mura del penitenziario. “Proprio perché contiene, incapacita, raccoglie e gestisce ho scelto l’aggettivo ‘reietta’ – scrive l’autrice – Reietto deriva dal latino reiectus, participio passato di reicere. Il primo significato è respingere rigettare, un’eccezione che comprende le riflessioni sul carcere come discarica sociale, come pattumiera senza speranza”.
    L’istituzione è reietta proprio perché si demanda a essa una serie di funzioni che si sono ritirate o che comunque non presentano risorse sufficienti per gestire la popolazione che ne richiede il sostegno. La funzione di discarica sociale viene assolta solo in parte perché non è risolutiva, non ingloba tutta la sofferenza sociale ne’ tantomeno la marginalità.
    Si potrebbe parlare di funzione vicaria del carcere, ennesima puntata dell’infinita emergenza italiana, iniziata almeno mezzo secolo fa con la magistratura chiamata dalla politica a risolvere la questione della sovversione interna per delega totale. E che dura fino si giorni nostri. Verdolini ricorda il doppio binario pentitismo/carcere durissimo. Un meccanismo che non disinnesca i processi di devianza ma tende ad amplificarli o ad affievolirli solo sulla base di un criterio di opportunità.
    E infatti stiamo a parlare oggi di ergastolo ostativo e delle difficoltà per arginarlo perché grandissima parte della politica e della magistratura in questo unite nella lotta fanno prevalere il bisogno di sicurezza sulla necessità di rispettare i diritti delle persone. Che restano persone portatrici di diritti anche dopo aver preso l’ergastolo e non possono essere inchiodate per sempre a reati commessi moltissimo tempo fa (frank cimini)

  • Modelli 45 e 44 le spine per nuovo procuratore Milano

    Due voti per il Pg di Firenze Marcello Viola, un voto a testa per il procuratore di Bologna Giuseppe Amato e per l’aggiunto di Milano Maurizio Romanelli. Dalla commissione incarichi direttivi arrivano queste tre indicazioni per la nomina del nuovo procuratore di Milano in sostituzione di Francesco Greco andato in pensione a metà novembre per ereditare un ufficio che non sarà facile riorganizzare devastato da una guerra interna e dove da tempo regnano insoddisfazione e confusione senza dimenticare i diversi pm indagati a Brescia.
    In attesa di sapere chi uscirà vincitore dal Csm in questo momento è importante capire cosa potrà dovrà e vorrà fare il neo procuratore.
    Va ricordato che in ogni procura che si rispetti e Milano non può fare certo eccezione una sorta di armadio degli scheletri è costituito dal l’insieme dei fascicoli rubricati a modello 45 senza ipotesi di reato ne’indagati e a modello 44 con reati ipotizzati a carico di ignoti. Si tratta spesso di rubricazikni per svolgere accertamenti senza comunicare nulla ai diretti interessati al fine di guadagnare tempo o di anticamere dell’insabbiamento.
    Il nuovo procuratore andrà a spulciare quei fascicoli o no? Col tempo sapremo. Ma non è certo questo l’unico problema. A Milano l’organizzazione del lavoro la geografia dei dipartimenti e tutto il progetto di Greco ha lasciato strascichi di lamentele e scontentezze che erano sfociate nelle 57 firme su 64 pm di solidarietà a Paolo Storari che rischiava il trasferimento nell’ambito della battaglia interna relativa alla loggia Ungheria e al caso del processo Eni.
    Che fine farà il dipartimento riguardante i reati transnazionali la cui creazione aveva suscitato disaccordi interni all’ufficio fin dall’inizio? Il destino del dipartimento dipende anche da quello del suo responsabile Fabio De Pasquale il procuratore aggiunto indagato a Brescia per omissione in atti d’ufficio che rischia il trasferimento per incompatibilità ambientale insieme al sostituto Sergio Spadaro nel frattempo approdato alla procura europea.
    Sarà il nuovo procuratore a decidere se mantenerlo in piedi o inglobarlo come era in precedenza nel dipartimento dei reati contro la pubblica amministrazione oggi diretto da Romanelli. Poi sarà da vedere chi resta e chi va. L’aggiunto Eugenio Fusco ha chiesto di andare a fare il procuratore a Verona. L’aggiunto Laura Pedio è indagata a Brescia sempre per gli strascichi Eni e Ungheria e rischia di essere trasferita.
    Insomma si prospetta per il nuovo procuratore, probabilmente un “papa straniero” perché Romnnelli tra i tre resta quello con meno chance, un durissimo e delicato lavoro. Tutto ciò nel trentennale di Mani pulite e in una situazione profondamente diversa se non proprio opposta a quella di allora.
    (frank cimini)

  • La mitica procura allo sbando ma Csm non ha fretta

    Il Consiglio superiore della magistratura non sembra proprio avere fretta di nominare il nuovo procuratore capo di Milano dopo l’uscita per pensionamento di Francesco Greco avvenuta a metà del novembre scorso. Ci vorranno settimane se non addirittura mesi. Intanto la mitica procura che fu di Mani pulite continua a funzionare con l’organizzazione che le aveva dato Greco generando con il passare del tempo insoddisfazioni e incertezze. Una situazione simboleggiata poi dai 57 pubblici ministeri su 64 che votarono contro il trasferimento di Paolo Storari chiesto dal pm della Cassazione in seguito alla vicenda dei verbali di Amara consegnati a Davigo. Fu un voto che andava al di là dell’episodio specifico e che suonava come la generale sfiducia dei sostituti per il capo della procura, avversario di Storari nell’intervista vicenda Eni.
    Attualmente c’è un procuratore della Repubnlica facente funzione Riccardo Targetti che andrà in pensione nel prossimo mese di aprile a dimostrazione ulteriore del quadro estremamente fluido dell’ufficio. Il Csm si sarebbe “tranquillizzato” dopo aver risolto il caso della procura di Rona con la nomina di Lo Voi al posto di Prestipino. Era considerato il caso più spinoso dopo che TAR e Consiglio di Stato avevano deciso per l’irregolarità della nomina di Prestipino accogliendo il ricorso del Pg di Firenze Marcello Viola.
    Una vittoria che a Viola non ha portaro bene perché la sua candidatura a capo della procura di Roma è stata bocciata per la seconda volta e a vantaggio di Lo Voi. A viola insomna continuano a nuocere i ricami di chiacchiere intorno alla famosa riunione dell’hotel Champagne con i politici nonostante la sua conclamata estraneità alle operazioni sottobanco.
    Al punto che Viola non sarebbe messo bene nemmeno per diventare capo della procura di Milano e sarebbe costretto a puntare su quella di Palermo. Viola sarebbe considerato eccessivamente discontinuo per una procura ritenuta territorio di Md dopo le gestioni di Bruti Liberati e Greco. La lotta vede in pole position il procuratore di La Spezia Antonio Patrono e quello di Bologna Giuseppe Amato. Sarebbe in vantaggio a livello di titoli Amato perché proveniente da una procura sede di distrettuale antimafia e antiterrorismo. Tra i candidati c’è anche il procuratore aggiunto di Milano Maurizio Romanelli ma stavolta la scelta sembra matura a favore del cosiddetto “papa straniero”.
    Ma ci vorrà ancora almeno un po’ di tempo. A Milano restano i problemi di diversi pm indagati a Brescia. Il 3 febbraio ci sarà l’udienza preliminare per Storari e Davigo. La procura di Brescia deve ancora decidere sulle posizioni di Fabio De Pasquale Sergio Spadaro e Laura Pedio in relazione sempre alla vicenda Eni. L’ufficio gip invece deve valutare la richiesta di archiviazione per Francesco Greco (frank Cimini)

  • “Mani pulite per chi non c’era” Leggete ma sappiate che…

    “Tangentopoli per chi non c’era”, 174 pagine a 15 euro, editore Nutrimenti, scritto dal bravo cronista de Il Giorno Mario Consani. Leggetelo ma sappiate che… La corruzione c’era anche prima del 1992 quando le procure, in testa quella di Milano (e c’era già Santo Francesco Saverio Borrelli) facevano finta di non vederla. Per accorgersene nel mitico 1992 con una politica indebolita alla quale le toghe saltarono al collo per riscuotere il credito acquisito ai tempi della madre di tutte le emergenze quando iniziò l’opera di ridimensionamento della Costituzione a vantaggio di una Carta materiale adeguata alle leggi varate contro la sovversione interna.
    Fu uno scontro tra le classi dirigenti del paese, in cui la politica scelse di suicidarsi abolendo l’immunità parlamentare sotto la forma dell’autorizzazione a procedere e consegnandosi ai magistrati ai quali anni prima aveva dato troppo potere delegando loro completamente “la lotta al terrorismo”.
    Sappiate che Mani pulite godette di buona stampa, ottima direi, perché gli editori dei giornaloni trovandosi sotto lo schiaffo del mitico pool appoggiarono l’inchiesta per farla franca, usando l’espressione cara a Pierbirillo Davigo. Fu un do ut des un accordo corruttivi nel nome della lotta alla corruzione.
    I grandi imprenditori italiani prima si misero d’accordo con i politici per fare i soldi e poi con i giudici per non andare in galera. I poteri forti in primis quello economico finanziario ne uscirono indenni. Fiat, Mediobanca tanto per non fare nomi. “Nel caso il dottor Di Pietro decidesse di fare un giro dalle parti di via Filodramnatici io lo accompagnerei volentieri” disse l’avvocato Giuliano Spazzali al tele processo Cusani. Di Pietro quel giro ovviamente non lo fece.
    L’unico grande imprenditore investigato a fondo ebbe guai perché costretto a fare politica direttamente a causa dei debiti delle sue aziende. Lui che all’inizio dimostrò di averci capito molto poco appoggiando l’inchiesta che era “il nuovo” come lui del resto. E dopo 30 anni è ancora lì ma sempre e solo per un motivo, tutelare la sua roba.
    Pure la procura di Milano è ancora lì ma come un ufficio allo sbando dilaniato da guerre interne e da processi persi dopo aver puntato le proprie carte su testimoni di accusa improbabili. In attesa di un “Papa straniero” e del trentesimo anniversario di una grande farsa dove l’inchiesta che avrebbe dovuto rivoltare il paese come un calzino ebbe come uomo simbolo un magistrato che viveva a scrocco degli inquisiti del suo ufficio. Prosciolto a Brescia sulla base di un comunicato dell’Anm che per la prima volta nella sua storia si schierò con l’indagato. Ovviamente fu anche l’ultima. (frank cimini)

  • L’addio di Greco alla mitica procura, storia Amara

    Domani davanti all’aula magna del triplice resistere di Borrelli “come sulla linea del Piave” il procuratore Francesco Greco desiste con il brindisi di addio per andare in pensione nel momento più difficile della storia della procura che fu di Mani pulite e nella consapevolezza che stavolta con ogni probabilità “passerà lo straniero”.
    Per la prima volta da tempo immemore il nuovo procuratore arriverà da fuori Milano. Non sarà un magistrato interno al palazzo costruito dal Puacentini. Il cosiddetto “Papa straniero”. Greco lascia dopo aver visto 57 magistrati del suo ufficio rivoltarsi contro di lui dando solidarietà a Paolo Storari e di fatto impedendone il trasferimento dopo che aveva consegnato i verbali di interrogatorio dell’avvocato Piero Amara all’amico Piercamillo Davigo membro del Csm voglioso di vendetta nei confronti dell’ex alleato Ardita.
    Una storia davvero Amara, amarissima, e che non fa benissimo come nello spot del famoso liquore. Mezza procura è indagata a Brescia e serve a poco che per il procuratore in uscita per quiescenza sia stata chiesta l’archiviazione in relazione alla tardiva iscrizione nel registro degli indagati delle persone chiamate in causa da Amara. Loggia Ungheria. Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro i pm del processo Eni finito con una raffica di assoluzioni rischiano il rinvio a giudizio. Così pure l’aggiunto Laura Pedio. Greco e Davigo sono alle denunce reciproche.
    Ma al di là dei risvolti penali c’è una procura da tempo allo sbando dove il procuratore per il modo in cui aveva organizzato l’ufficio aveva concentrato su di de critiche lamentele e proteste. Che sono diventate di pubblico dominio con la fine del processo Eni quando Storari scrisse in risposta a Greco un messaggio molto chiaro: “Francesco non prendiamoci in giro”.
    L’ex mente finanziaria del pool Mani pulite ha avuto un fine carriera senza gloria. E mentre si avvicina a grandi passi il trentesimo anniversario del terremoto politico giudiziario sarebbe meglio per tutti chiedersi se pure quella fu vera gloria. Una ragione ci sarà se allora arrestarono a destra e a manca per rivoltare l’Italia come un calzino e ora si arrestano tra loro. La corruzione c’era anche prima del 1992 e le procure in testa Milano avevano fatto finta di non vederla. Poi improvvisamente la scoprirono perché la politica si era indebolita al punto da poter essere aggredita per riscuotere il credito acquisito dai magistrati ai tempi della madre di tutte le emergenze. Quando Francesco Greco era stato un giovane magistrato rivoluzionario militando in una pattuglia minoritaria ma combattiva che dall’interno di Md si opponeva alle leggi e alle pratiche dell’emergenza. Una emergenza che non è mai finita diventando prassi normale di governo. E con Francesco Greco ormai uomo di potere. Si nasce incendiari e si muore pompieri. Ma per fortuna non vale per tutti. Per tanti si, purtroppo.
    (frank cimini)

  • Moro, gip a pm: niente tempo da perdere soldi da buttare

    L’8 giugno scorso la polizia di prevenzione su ordine della procura di Roma sequestrava l’archivio di Paolo Persichetti nell’ambito delle infinite indagini sul caso Moro contestando i reati di associazione sovversiva e favoreggiamento di latitanti. Il 2 luglio il Riesame affermava che al massimo si poteva contestare il reato di violazione di segreto politico in relazione alla diffusione di atti della commissione parlamentare di inchiesta. Oggi il gip Valerio Savio ha negato accertamenti con la formula dell’incidente probatorio sull’archivio perché “manca una formulata incolpazionr anche provvisoria”. Cioè non c’è reato.
    Savio aggiunge che la decisione viene adottata allo scopo di evitare accertamenti non utili e anche costosi per l’erario. Cioè spiega il giudice che la giustizia non ha tempo da perdere e denari da buttare. Si tratta di una bocciatura su tutta la linea dell’indagine coordinata dal pm Eugenio Albamonte esponente di spicco della corrente di Magistratura Democratica e dallo stesso procuratore capo Michele Prestipino la nomina del quale era stata definita irregolare prima dal TAR e poi dal Consiglio di Stato.
    Il gip boccia in pratica una sorta di caccia ai misteri inesistenti che dura da quarant’anni e che viene praticata ora dalla sola procura di Roma dopo la “sparizione” della commissione parlamentare di inchiesta non rinnovata nella presente legislatura.
    “Sosteniamo dall’inizio che qui non c’è reato, la decisione del giudice conferma questo assunto – spiega l’avvocato difensore Francesco Romeo – Siamo di fronte alla ricerca del reato impossibile. Stiamo inseguendo dei fantasmi. I contenitori ci sono e li hanno indicati ma non basta citare le norme, la pubblica accusa deve circostanziare le condotte di reato ed è quello che da giugno a oggi non è venuto fuori. Si tratta di un’accusa senza pilastri”.
    Ma l’archivio storico di Persichetti resta sotto sequestro. La decisione di oggi del gip non basta a liberarlo. Adesso bisognerà aspettare l’esito del ricorso in Cassazione.
    Dice Persichetti: “Tre anni di indagini estremamente invasive per giunta ancora non concluse attraverso forzature continue, clonazione di telefonini, intercettazioni ambientali e pedinamenti costate migliaia di euro di soldi pubblici sono pervenute all’impossibilità di formulare una contestazione chiara e definita. Questa è la storia iniziata nel gennaio del 2019 da una grottesca indagine della Digos di Milano conclusa con una archiviazione ma subito ripresa dalla procura di Roma. Una caccia ai fantasmi una pesante intromissione nella ricerca storica e nel lavoro giornalistico”.
    Il sequestro dell’archivio tra l’altro ha avuto come conseguenza l’impossibilità di pubblicare il secondo volume della storia delle Brigate Rosse dal titolo “Dalle fabbriche alla campagna di primavera” di cui Paolo Persichetti è coautore con Elisa Santalena e Marco Clementi. Il volume due è dedicato alle fabbriche dove nacquero le Br con buona pace di inquirenti che inseguono dopo 43 anni i misteri di servizi segreti e affini andando a prelevare il DNA delle persone già condannate sperando di individuare “i complici”.
    (frank cimini)

  • Greco e gli interrogatori con conflitto di interessi

    A poco meno di un mese dalla pensione il procuratore Francesco Greco si occupa personalmente dell’interrogatorio dell’avvocato Piero Amara, ex legale dell’Eni nonostante la gestione relativa sui verbali delle precedenti deposizioni sia costata al magistrato l’indagine per omissione in atti d’ufficio. La procura di Brescia ha chiesto l’archiviaziobe e si è in attesa della decisione del gip.
    Ma il problema riguardo alle scelte di Greco non è prettamente penale. Anzi. Ragioni di opportunità avrebbero dovuto indurre il procuratore a fare a meno di procedere lui al nuovo interrogatorio chiesto da Amara.
    C’è un evidente conflitto di interessi dal momento che Greco è il suo aggiunto Laura Pedio sono finiti nei guai proprio perché non aver proceduto alle iscrizioni sul registro degli indagati delle persone accusate da Amara di far parte dell’ormai famosa loggia Ungheria.
    E come se non bastasse l’aggiunto Pedio ha interrogato Vincenzo Armanna il sodale di Amara. Sia Armanda sia Amara erano stati tirati in ballo dal pm Paolo Storari come “calunniatori” ma i vertici della procura facevano finta di niente perché entrambi erano testimoni di accusa al processo Eni/Nigeria poi finito con l’assoluzione di tutti gli imputati.
    Il quadro che emerge è quello di una procura allo sbando dove i pm si accusano tra loro a verbale davanti ai colleghi di Brescia e dove
    il capo dell’ufficio si comporta come se non fosse accaduto nulla. Il tutto in attesa che il Csm decida il nome del successore di Francesco Greco. Ma il cosiddetto organo di autogoverno dei magistrati si occuperà prima della procura di Roma dove dovrà scegliere il successore di Michele Prestipino attualmente in carica la nomina del quale è stata bocciata dal TAR e dal Consiglio di Stato. I tempi insomma per il caso Milano non si annunciano brevissimi. Nel frattempo la procura del capoluogo lombardo vedrà coincidere il trentesimo anniversario di Mani pulite con il periodo più buio della sua storia. Forse è l’ennesima occasione per avviare una riflessione seria per capire che quella del 1992 1993 non fu vera gloria.
    (frank cimini)

  • Steccanella recensisce la Boccassini story

    Mi sono letto in soli due giorni le 341 pagine del libro che ha fatto tanto discutere chi invece quel libro non l’ha letto e si è basato su anteprime di stampa quanto mai fuorvianti.
    La prima annotazione “a caldo” è che per poter scrivere un’autobiografia che ti viene voglia di leggere tutta d’un fiato, e senza essere un’attrice famosa, un calciatore o un front man di una rock band, bisogna avere vissuto una vita come quella della Boccassini, vita che lei stessa dichiara di essere stata quella che voleva vivere, anche se, aggiunge a pag. 341, il suo racconto “non piacerà a tutti, soprattutto a molti miei colleghi”.
    La seconda annotazione sempre “a caldo” è che si tratta di un potentissimo J’accuse senza sconti al mondo della magistratura presso cui ha operato per 40 anni, perché non si salva quasi nessuno, ivi compresi molti miti mediatici che per anni hanno monopolizzato giornali e TV come eroici paladini dell’antimafia o dell’anticorruzione, e che dal racconto di fatti e aneddoti che li hanno personalmente riguardati ne escono davvero a pezzi, come peraltro ex Ministri, Capi della Polizia, Onorevoli e Senatori.
    Perché il libro è principalmente un racconto di fatti, dettagliati e difficilmente smentibili, seppure intervallati a considerazioni personali che l’autrice non manca di inserire, anche in questo, le va dato atto, senza ipocrisie o prudenze da galantuomini del ne quid nimis, per citare quella categoria manzoniana tanto invisa al Cardinal Federico.
    E’ come se, dopo avere maniacalmente evitato di rilasciare qualsiasi dichiarazione alla stampa, l’ex PM avesse voluto, una volta raggiunta la pensione, togliersi tutti i sassolini accumulati in oltre 40 anni di professione in una volta sola, e non mettere più piede in quel Palazzo dove aveva trascorso gran parte della propria vita.
    Ovviamente trattandosi di personaggio viscerale e privo di mezze misure, ma lei di questo non ne fa mistero, sono molti i passaggi del libro che destano perplessità in chi ha diversa sensibilità in tema di devianza, carcere, repressione, forze di polizia e persino gabbie in aula “mi erano del tutto indifferenti ma turbavano i sonni del presidente del tribunale dell’epoca”, scrive a pag. 302.
    Come è fuor di dubbio che la sua comprovata conoscenza del fenomeno mafioso non riveli altrettanta autorevolezza laddove si estende a indagini su antagonismi politici, dove si leggono considerazioni più da vulgata come “compagni che sbagliano” “misteri sul sequestro Moro” et similia.
    Quelli che lei chiama “danni collaterali” nel capitolo numero 11, per me sono invece gli imputati ingiustamente incarcerati nei tanti blitz (di due di loro ne ho esperienza diretta), a tacer del processo Ruby, la cui nota conclusione viene liquidata in due righe a pag. 306 con “la sentenza fu ribaltata in secondo grado e il presidente del collegio Enrico Tranfa si dimise in aperta polemica con quella decisione. La Cassazione confermò l’assoluzione”.
    E così pure, alla fine della lettura del libro, sembra di ricavare la conclusione che in Italia ci siano stati solo un magistrato e un giornalista capaci, Giovanni Falcone e Giuseppe D’Avanzo, il che peraltro personalmente mi trova poco d’accordo nel secondo caso, perché di certo non sento particolare nostalgia delle sue celebri “dieci domande”, ma è indubbio che sulla dottoressa Boccassini queste due persone abbiamo avuto un’influenza anche personale notevole, e che la loro prematura morte, seppur per ragioni diverse, l’abbia segnata nel profondo.
    A proposito del criticatissimo racconto del suo rapporto con Falcone, va sottolineato che la Boccassini si limita a dire di averlo amato profondamente lei mentre lui amava la propria moglie, per cui non vedo dove sia l’oltraggio al morto, e del resto oggettivamente non poteva omettere il racconto di un amore che ha segnato a tal punto la sua vita non solo professionale, ma anche privata, da non essere più stato sostituito né in un campo né nell’altro.
    Mi è piaciuta molto la parte in cui si racconta nel suo privato di donna che fino ad oggi era stato tenuto rigorosamente schiacciato dall’immagine della PM virago alla quale, va detto, nulla ha mai fatto per sottrarsi.
    Le sue intense e durature amicizie con persone totalmente estranee all’ambiente del tribunale, il suo rapporto con Napoli, la città dove è cresciuta e si è formata, i figli, i fratelli, la madre, e anche aneddoti divertenti, come l’incontro con Nanni Moretti prima dell’uscita del “Caimano” e in generale la sua passione per il cinema e per la mostra di Venezia, dove confermo personalmente di averla più volte incontrata e che, solare e simpatica, sembrava davvero un’altra persona rispetto a quella che talvolta mi capitava di incontrare in tribunale per ragioni professionali.
    Mi è piaciuta anche la parte in cui confessa debolezze e paure, i suoi primi giorni in Sicilia in un albergo orrendo e isolato da tutto, l’uso di orecchini sempre diversi o la scelta di certi abiti a seconda dell’occasione, l’appellativo di “agave” che le riserva lo psicologo Kantzas, e ho trovato fantastico leggere a pag. 300 “sono sempre stata considerata una bella donna (e sono assolutamente d’accordo!) per certe caratteristiche quando ero giovane e per altre quand’ero più adulta”.
    Fa anche una certa impressione leggere che indagini che hanno sconvolto il Paese (dalla Dumo Connection alla strage di Capaci e dai processi al cavaliere al processo Infinito che rivelò le infiltrazioni della ‘ndrangehrta in Lombardia) siano state condotte sostanzialmente da lei sola senza grandi apparati “in alto” e con la sola collaborazione fidata di forze di polizia, “il PM è l’avvocato della Polizia”, aveva detto Falcone al momento dell’approvazione del nuovo codice e lei lo ha applicato alla lettera.
    Per cui se c’è stato un PM che ha davvero separato la propria carriera da quella di un giudice senza bisogno di grandi riforme è stata lei, che infatti riserva ai giudici, come agli avvocati, un ruolo davvero modesto nel libro, quasi non fossero parti necessarie al processo.
    Però questo libro merita di essere letto al di là di quello che si possa pensare di chi l’ha scritto, perché volendo fare un’analogia (ovviamente solo metodologica) con un personaggio più volte nominato nel libro, se Buscetta era stato il primo mafioso a raccontare come funzionava la mafia dal suo interno, l’ex PM Boccassini è il primo magistrato a raccontarci come funziona la magistratura dal suo interno, e tutta, da Milano e Roma e dalla Sicilia a Catanzaro.
    La pessima abitudine di “lavare i panni sporchi in famiglia” con lei è saltata tutta d’un colpo non appena ha fatto ritorno a quella che era invece la sua vera famiglia e agli adorati nipotini, ai quali può riservare, lo scrive lei stessa, quelle attenzioni che il suo lavoro aveva sottratto ai figli, e quanto ai recenti “casi” Palamara e Procura di Milano vi lascio intendere quali siamo i lapidari commenti.
    Quasi glissa via con malcelato fastidio, visto che lei si era dimessa da ogni corrente a far tempo dal lontano 2010 intuendone le gigantesche falle e subendo per questo l’esclusione da ogni “potere”, come dimostra il dato eclatante che non sia mai stata presa in considerazione per la Commissione antimafia dove pure sono passati (lei non lo scrive ma si intuisce “cani e porci”).
    Lei, a differenza di Buscetta ovviamente, non è affatto “pentita” di quello che ha fatto, ma il suo j’accuse non è meno potente, e questo libro rivela coraggio e non, come pure ho letto, voglia di ribalta, quella, se l’avesse voluta, se la sarebbe presa quando migliaia di cronisti assediavano il suo ufficio a qualunque ora del giorno mentre lei li chiudeva fuori dalla porta.
    Oppure, facendo una qualsivoglia carriera dirigenziale, come centinaia di suoi colleghi dal curriculum assai meno prestigioso, e invece il libro si chiama stanza numero 30 perché da quella stanza del quarto piano – dove io la incontrai per la prima volta nel 1990 – non si è mai mossa, tranne che per andare tre anni in Sicilia a catturare “gli assassini di Giovanni”.
    Avvocato Davide Steccanella

  • Covid e carcere ennesima emergenza nel libro di Berardi

    Se la pandemia è stata trasformata da chi ha responsabilità politica nell’ennesima emergenza italiana negatrice e affossatrice di diritti va registrato che resta il carcere il luogo in cui il Covid o meglio la sua gestione ha prodotto gli effetti più devastanti. Gira intorno a questa realtà descrivendola fin nei minimi particolari il lavoro di Sandra Berardi presidente e animatrice di Yairaiha Onlus associazione per i diritti dei detenuti di Cosenza che si presenta come “abolizionista convinta”. Il titolo del libro è “Carcere e Covid”, 209 pagine, edito da Strade bianche Stampa Alternativae costa almeno 10 euro.
    “Il carcere è un mostro dai denti ben serrati e c’è un meccanismo cattivo che ne rinsalda il morso, un sorta di danza macabra che si muove al ritmo stonato delle poche o nulla quando non false informazioni che dal carcere arrivano – scrive nella prefazione Francesca De Carolis – Il carcere area di sospensione del diritto dove pure la legislazione di emergenza viaggia su un secondo binario complice l’indifferenza di un’opinione pubblica facilmente manipolabile. La cosiddetta emergenza Covid ha fatto esplodere le contraddizioni che vivono i detenuti e ne ha svelato la ferocia”.
    Al centro del lavoro di Berardi una situazione che era già esplosiva prima del Covid. La sospensione delle visite degli operatori e dei colloqui con i familiari portava alle proteste, alle rivolte e al pesante bilancio di 13 detenuti morti. L’autrice ricorda che mentre campeggiavano le immagini dei reclusi sui tetti “i professionisti dell’antimafia e amanti della dietrologia si affrettavano a profilare regie occulte in rivolte che erano spontanee”.
    Insomma i media facevano il loro sporco lavoro nello spostare l’attenzione dall’emergenza squisitamente sanitaria alla sempreverde emergenza mafia inducendo il Governo a varare normative e procedure poi passate al vaglio della Consulta perché di dubbia costituzionalità.
    A gennaio 2020 i detenuti sono 60.971, poi 259 in più al 29 febbraio a fronte di una capienza regolamentare di 50.931 e il tasso di sovraffollamento risulta ancora maggiore nelle regioni colpite dal virus. Le rivolte riguardano gli istituti più affollati. E basterebbe questo dato per ribaltare le ricostruzioni strumentali e le fakenews. Il 21 gennaio del 2020 il rapporto del comitato del consiglio d’Europa per la prevenzione della tortura punta il dito contro le condizioni igienico-sanitarie, la mancanza di misure alternative, il limite minimo di spazio per ogni recluso. Il Comitato invita l’Italia a evitare il sovraffollamento a abolire la misura dell’isolamento diurno imposta come sanzione penale accessoria per i condannati all’ergastolo. Argomenti questi su cui nessuna forza politica eccezion fatta per i radicali dimostra di avere qualcosa da dire. Brilla per il suo silenzio il ministro Bonafede.
    La commissione per i diritti umani del Governo fa sapere di “rammaricarsi per le valutazioni espresso dal comitato europeo per aver avuto la sensazione che esistesse un modus operandi da parte della polizia penitenziaria incline all’aggressione contro i detenuti”.
    Non tutti sono sordi o ciechi. Alcuni giornali, certo di nicchia non i cosiddetti giornaloni, denunciano la situazione vera. Il libro di Sandra Berardi riporta il testo di lettere di diversi detenuti che raccontano le loro esperienze di malati. Alessandro dal carcere di Secondigliano: “Sembra che con questo COVID-19 tutti abbiano perso la ragione”.
    Poi c’è il racconto del balletto sui numeri dei morti nelle rivolte che Bonafede definisce “atti criminali fuori dalla legalità”. La morte dei 13 detenuti “una drammatica conseguenza”.
    Sono le storie di vita in carcere a spiegare il perché delle rivolte con buona pace dei dietrologi la mamma dei quali come quella dei cretini in questo paese è sempre incinta. “La dietrologia impazza – scrive Berardi – dai sindacati di polizia ai politici. La presenza del pm antiterrorismo Nobili che tratta con i detenuti viene associata da un articolo di Repubblica a quella dell’ex Br Maurizio Ferrari che sta insieme ai parenti dei reclusi in un presidio all’esterno”. Il Corriere della Sera fedele alla sua storia almeno fin dal 1969 se la prende con un gruppo di anarchici in piazza. Il “Fatto Quotidiano” insiste sulle regie occulte di cui non esiste nessun riscontro.
    Dall’emergenza sanitaria si è passati al securitarismo a tutti i costi. A farne le spese ovviamente è stata soprattutto la popolazione detenuta che già prima del Covid se la passava malissimo.
    All’inizio del lavoro di Sandra Berardi sono citate le parole di Angela Davis: “La giustizia è una e indivisibile. Non si può decidere a chi garantire i diritti civili e a chi no”
    (frank cimini)

  • Il “disciplinare” per Greco, vera pagliacciata del Pg

    Gli accertamenti avviati dal Pg della Cassazione in vista di un procedimento disciplinare per il procuratore Francesco Greco rappresentano un’autentica pagliacciata dal momento che non ci sono i tempi tecnici per fare nulla, considerando che la pensione per il capo dei pm di Milano scatterà il 14 novembre.
    Formalmente si tratta di un atto legato al fatto che Greco risulta indagato a Brescia per omissione in atti d’ufficio per non aver tempestivamente operato le iscrizioni sul registro degli indagati dopo le dichiarazioni a verbale di Piero Amara sull’ormai famosa loggia Ungheria.
    Ma quella del Pg Giovanni Salvi appare come pure ammuina, una farsa, una presa in giro rispetto a quello che si dovrebbe fare in relazione alla veridicità o meno delle parole di Amara, un signore prima portato in palma di mano dall’Eni perché ritenuto supererfficiente come consulente e poi una volta scaricato ritenuto il grande testimone d’accusa al processo per il caso Nigeria ?finito in un flop per la procura.
    Sulla loggia sia a Milano sia a Perugia si continua a fare nulla. Del resto Greco è del tutto delegittimato dopo aver fallito nel tentativo di far trasferire il sostituto Paolo Storari. Chi dovrebbe farle le indagini? Sia Storari sia l’aggiunto Laura Pedio non possono più perché in conflitto di interessi.
    Il pg della Cassazione e il Csm fanno finta di niente, tacciono, Il disciplinare per Greco ricorda quello per il suo predecessore Bruti Liberati, annunciato solo dopo che lo stesso aveva detto di andarsene in pensione in anticipo. Cosa che non ha intenzione di fare Greco in omaggio al lavoro che la sua corrente Md sta facendo al CSM per la nomina del nuovo prcuratore. Md ha bisogno di tempo per evitare l’arrivo del papa straniero, un magistrato proveniente da fuori Milano.
    Siamo al ridicolo su tutta la linea. Fanno ridere gli accertamenti del Pg Salvi su Greco che non possono portare da nessuna parte. Fa ridere, ma in realtà ci sarebbe da piangere, Greco che resta attaccato alla poltrona fino all’ultimo giorno utile, senza poter coordinare alcunché visto che il 90 per cento dei suoi sostituti lo aveva smentito clamorosamente. Con Greco che resta in carica è la procura di Milano tutta a fare una figura di palta. Non è certo la prima ma di sicuro è la più clamorosa. Perché adesso rispetto a 30 anni fa non ci sono più le folle plaudenti in corso di porta Vittoria (frank cimini)

  • Il pm che arrestò se stesso. Storia di un romanzo

    in questi tempi di magistrati che si arrestano tra loro o che tentato di farlo, di procure che cercando di vincere i processi lanciando sospetti infondati sui giudici e sui gip abbiamo letto la storia di un pubblico ministero che arrestò se medesimo. La cosa tecnicamente è impossibile e infatti sta in un romanzo scritto nel 1985, non ancora pubblicato ma che con ogni probabilità lo sarà entro la fine dell’anno proprio perché l’argomento è diventato di stringente attualità.
    Il titolo del romanzo è “Mi avvalgo della facoltà di non rispondere”. L’ambiente è quello dell’emergenza antiterrorismo. Il protagonista è il pm Leopoldo Fiore sostituto procuratore a Milano che considera colpevoli tutti quelli che si avvalgono della facoltà di non rispondere e ovviamente utilizza a piene mani la legge sui pentiti dando in pratica dei fiancheggiatori a quei pochissimi suoi colleghi che la criticano in nome dello Stato di diritto.
    Non è il caso di svelare troppi particolari della trama perché non vogliamo togliere il gusto di leggere a chi si recherà in libreria tra pochi mesi trovando il romanzo insieme ad altri tre racconti.
    Tra un “pentito” e l’altro il dottor Fiore ne trova uno che lo “tradisce”. Chi di spada ferisce di spada perisce. Il collaboratore di giustizia come si usano definire questi signori svela una serie di irregolarità chiamiamole così con un eufemismo che caratterizzano le indagini.
    E Leopoldo Fiore emette un mandato di cattura a suo carico per minacce, falso ideologico e abuso d’ufficio. Il capo della procura ne prende atto gli ricorda di averlo sempre difeso contro tutti gli attacchi, “ma questa volta hai proprio sbagliato”. Così Il dottor Fiore finisce in galera. E che cosa fa? Si avvale della facoltà di non rispondere, proprio quel comportamento che aveva sempre censurato considerandolo addirittura indizio di partecipazione al terrorismo.
    L’autore del romanzo è un antico compagno di battaglia e di militanza di chi scrive queste povere righe, una sorta di recensione di un libro che non è ancora uscito sulla giustizia di tanti anni fa ma che trova riscontro in quello che accade adesso, tempi di loggia Ungheria, argomento tabù per magistrati, politici e mezzi di informazione.
    A scrivere il romanzo è l’avvocato Gabriele Fuga, noto tra l’altro per un lavoro fondamentale fatto insieme al compianto Enrico Maltini, “La finestra è ancora aperta”. Si tratta della ricostruzione più completa dell’assassinio in questura dell’anarchico Pino Pinelli dove si svela il ruolo fondamentale nel coprire la verità che ebbero gli uomini dei servizi segreti arrivati da Roma.
    Nel romanzo dedicato al dottor Fiore si parla anche di avvocati arrestati “per terrorismo”. Fuga fu uno di quei legali finiti in carcere perché chiamati in causa dai soliti pentiti. L’inchiesta che costò la galera all’avvocato Fuga era coordinata da un pm che poi fu eletto come parlamentare europeo nelle liste di un partito che è fin troppo facile immaginare quale fosse. Il solito. (frank cimini)

  • Loggia Ungheria, da Mattarella in giù omertà solo omertà

    Non ne parla più nessuno per non disturbare il manovratore. Il manovratore è il sistema di cui evidentemente la loggia Ungheria sparita dal dibattito pubblico e dai giornali fa parte a pieno titolo.
    Il primo insabbiatore come presidente della Repubblica e del Csm è Sergio Mattarella che disquisisce su svariati argomenti tranne che sulla famosa consorteria di potere di cui parlò a verbale davanti ai pm di Milano l’avvocato Piero Amara spiegando che serviva ad aggiustare inchieste e processi, confezionare nomine dei magistrati in ruoli apicali.
    Non è detto che la loggia esista veramente ma per saperlo ci sarebbe stato bisogno di indagare. Formalmente più procure se ne occupano ma in sostanza per fare niente, nemmeno per sequestrare i 100 milioni di euro che il legale siciliano avrebbe incassato con le sue consulenze di alto bordo.
    Amara è stato protetto prima perché considerato grande testimone d’accusa al processo a carico dei vertici dell’Eni rivelatosi un flop e successivamente perché avrebbe acquisito enormi capacità di ricatto.
    A Milano c’è un procuratore delegittimato dai suoi sottoposti che hanno ottenuto l’inamovibilità di Paolo Storari vanificando la richiesta addirittura del Pg della Cassazione. Vietato sapere se l’indagine su Amara sia stata o meno riassegnata e chi la coordini adesso.
    Tace Milano e tace pure Perugia dove c’è un altro pezzo dell’inchiesta sulla loggia. Tace il Csm che entro l’anno dovrà nominare il successore di Francesco Greco. Il suo presidente Mattarella non dice niente sul punto come se non avesse a che fare con uno dei più gravi scandali nella storia della magistratura. Il discorso vale in un senso o bell’altro, anche nel caso in cui Amara si fosse inventato tutto. Mattarella insiste nel dire che va cercata la verità su Moro “tutta la verità” fregandosene di quanto emerso in sei dibattimenti. Evoca gli archivi dei servi segreti dell’Est che in realtà dalla caduta del Muro sono in mano all’Occidente. E ci fossero state circostanze di collusione con i rapitori di Moro sarebbero da tempo state pubblicate con titoloni. Anche l’Ungheria sta a est. Ma è solo il nome di una piazza di Roma dove abiterebbe uno dei giudici della loggia. Una loggia coperta nel caso esista davvero da un’omertà di sistema. Politici magistratura giornali e telegiornali, quelli che continuano a celebrare Falcone e Borsellino, ma comportandosi per il resto come mafiosi.
    (frank cimini)

  • Aspettando la versione di Greco dall’ungherese

    Pare che oggi il procuratore capo della Repubblica di Milano Francesco Greco torni in ufficio per qualche giorno interrompendo le vacanze iniziate con l’ufficio nella bufera in seguito al caso Eni-Nigeria e alle mancate o quantomeno tardive indagini sulla loggia Ungheria. In questo periodo la procura è stata coordinata dall’”aggiunto” con più anzianità di servizio Riccardo Targetti.
    Sarebbe interessante sapere che fine abbia fatto la loggia Ungheria, argomento del quale i grandi giornali hanno sempre avuto poca voglia di occuparsi, in qualche modo poi “giustificati” in questo momento dal dilagare di pagine e pagine dedicate all’Afghanistan e al Covid19.
    Dopo le prime tardate iscrizioni nel registro degli indagati che erano costate l’indagine bresciana sul procuratore Greco per abuso d’ufficio sotto forma di omissione sarebbe stato necessario accelerare i tempi al fine di capire se l’avvocato Piero Amara parlando della loggia avesse messo a verbale una bufala o cose vere. Una verifica fondamentale perché da un lato si tratta di indagare su magistrati, politici, imprenditori impegnati secondo Amara a confezionare le nomine del Csm, ad aggiustare inchieste e processi. Dall’altro lato fosse tutta fantasia sarebbe ugualmente inquietante perché bisognerebbe capire le ragioni delle invenzioni e pure l’obiettivo prefissato nella testa di quello che la procura aveva considerato il testimone chiave per ottenere la condanna dei vertici dell’Eni per le presunte molto presunte tangenti in Nigeria.
    L’avvocato Amara non era stato ritenuto attendibile dai giudici del Tribunale di Milano che avevano assolto tutti gli imputati nel marzo scorso. Il legale siciliano nel mirino di diverse indagini ha fatto più volte fuori e dentro dal carcere dove si trova tuttora, ma nessuno sa dove abbia nascosto circa 80 milioni di euro che finora non sono stati sequestrati.
    Della loggia Ungheria non si è saputo più niente neanche a Perugia dove il procuratore capo Raffaele Cantone ex capo dell’Anac usa le vacanze per rilasciare interviste dove si afferma che la giustizia non funziona.
    Quello della loggia appare un tema scomodo (eufemismo) perché la magistratura è chiamata a indagare su se stessa. Ma per sua fortuna pare possa dormire sonni tranquilli sia a causa delle ferie che per le toghe più di ogni altra categoria hanno una sorta di intoccabilità sia in ragione del fatto che sul punto la politica tace su tutta la linea.
    Quando la politica appare in difficoltà viene regolarmente azzannata dai magistrati impegnati a invadere il campo altrui per aumentare il proprio potere di casta (1992 docet). Nel momento in cui la magistratura vive il momento più difficile della sua storia i politici stazzo zitti, a cominciare paradossalmente da quei partiti che hanno avuto molti motivi di scontro con le toghe. E questa sembra il motivo più importante per pensare che il caso della famosa loggia finisca in niente. Anche se entro novembre il Csm dovrà nominare il successore di Greco. Una partita ovviamente tutta politica. Md non intende mollare l’osso puntando sul candidato interno Maurizio Romanelli perché ritiene quella procura roba sua soprattutto a scapito di chi chiede un segnale di discontinuità, “il papa straniero”.
    (Frank Cimini)

  • Emergenza Covid usata per ledere i diritti dei detenuti

    “La conseguenza è paradossale. Sarà consentito anche a una persona non vaccinata di essere presente in aula come pubblico. Non sarà consentito di essere presente all’imputato se detenuto vaccinato o meno che sia. Ancora più paradossale se si considera che le persone detenute sono sottoposte a controlli sanitari e in gran parte anche vaccinate”. In un comunicato gli avvocati Eugenio Losco e Mauro Straini criticano la decisione del governo di disporre la proroga dello stato di emergenza Fini alla fine dell’anno.
    “Ma è davvero sanitaria la ragione della proroga di tali limitazioni o per usare le parole dello stesso governo “molti degli istituti introdotti hanno permesso anche recuperi di efficienza dello stesso sistema e semplificato alcune incombenze avviando percorsi di ammodernamento e semplificazione delle procedure tanto da essere indicati anche come utili esiti da stabilizzare nell’ambito dei più complessivi progetti di riforma? A qualcuno interessano ancora i diritti dei detenuti?” chiedono gli avvocati Losco e Straini.
    Nel comunicato si ricorda che si tratta di limitazioni assai incisive tanto che all’inizio di marzo del 2020 fu proprio la sospensione dei colloqui con i familiari a scatenare le proteste nel corso delle quali morirono 13 persone in circostanze non del tutto chiarite, è la tesi dei legali. Insomma l’intensità delle limitazioni è massima solo nei confronti della popolazione detenuta mentre per esempio non è stata prorogata la possibilità di udienze a porte chiuse che garantivano però la presenza fisica dei reclusi.
    (frank cimini)

  • Le lunghe ferie di Greco e l’incastro con i giochi di Md

    Il procuratore della Repubblica di Milano Francesco Greco non anticipa la pensione ma fa lunghe ferie lasciando in pratica la gestione dell’ufficio all’aggiunto con più anzianità di servizio Riccardo Targetti che aveva incontrato nei giorni scorsi. Nel caso avesse anticipato la pensione che scatterà il prossimo 14 novembre il procuratore avrebbe accelerato l’iter per la nomina del successore.
    E questo avrebbe provocato problemi alla sua corrente, Magistratura Democrstica, che ha bisogno di prendere tempo al fine di trovare dentro il Csm le alleanze necessarie al fine di scongiurare l’arrivo al vertice della procura del cosiddetto “papa straniero”.
    Peppe Cascini uomo di punta dei magistrati di sinistra all’interno del Csm, raccolti tra Area e Md, è già all’opera da tempo per portare a termine il progetto, puntando alla nomina di Maurizio Romanelli, attuale coordinatore come procuratore aggiunto del pool che si occupa dei reati contro la pubblica amministrazione e che è l’unico candidato interno.
    Romanelli esperto sia di antimafia sia di antiterrorismo ha sulla carta meno titoli del procuratore generale di Firenze Marcello Viola e del procuratore capo di Bologna Jimmy Amato, ma con il gioco delle correnti diciamo che come la storia anche recente del Csm insegna si possono fare “miracoli”.
    La situazione non è certo cambiata dopo l’uscita di Luca Palamara e la sua radiazione dall’ordine giudiziario. Proprio Cascini fu a lungo in grande consuetudine di rapporti alleanza e amicizia personale con
    l’allora “ras delle nomine”.
    Basti ricordare la vicenda delle tessere per lo stadio Olimpico. Cascini ne aveva una a suo nome ma dovendo portare anche il figlio a vedere la partita non fu nemmeno sfiorato dall’idea di andare in biglietteria, cacciare i soldi di tasca e comprare il tagliando. Si rivolse a Palamara “per un contatto al Coni in modo da non doverti rompere i coglioni tutte le volte”. Quindi non si trattava neanche di un “una tantum” ma di un ingresso stabile anche per il pargolo. Questo emerge dalle intercettazioni fatte con il famoso trojan messo dai pm di Perugia nel telefono cellulare di Palamara.
    I prossimi mesi diranno se Md, che considera la procura di Milano territorio di sua appartenenza, riuscirà nell’intento. Greco intanto fornisce il suo contributo facendo di tutto per tenere in caldo il posto con ferie lunghe anche se abbastanza amare diciamo. Greco ricordiamo è indagato a Brescia per non aver proceduto tempestivamente alle iscrizioni tra gli indagati sulla base delle dichiarazioni rese da Piero Amara, capitolo loggia Ungheria. Greco comunque non rischia un procedimento disciplinare ma solo perché non vi sarebbbe il tempo per farlo.
    E a proposito di iscrizioni nel registro degli indagati diciamo che piove sul bagnato. Secondo insistenti indiscrezioni circolanti da tempo risulta indagato a Brescia un altro magistrato della procura di Milano insieme a un importante funzionario pubblico. Si tratterebbe di un atto dovuto dopo la lunga deposizione di un testimone presentatore di un esposto-denuncia.
    (frank cimini)

  • In attesa del “papa straniero” ecco la storia del passato

    Alla vigilia, ma in realtà ci vorranno mesi, di quello che potrebbe essere un avvenimento epocale come l’arrivo del cosiddetto “papa straniero” a capo della procura di Milano vale la pena di ricordare cosa è accaduto negli ultimi quarant’anni e passa.
    Nel 1977 quando chi scrive queste povere righe iniziò a frequentare il palazzo di giustizia come collaboratore abusivo e non pagato (diciamo per militanza) del Manifesto il capo dei pm era Mauro Gresti passato alla storia per aver dato e non avrebbe dovuto farlo l’ok per il passaporto al banchiere Roberto Calvi. Di Gresti si racconta pure che la moglie fosse solita rimproverarlo quando portava fuori il cane “perché per ammazzare te mi ammazzano anche lui”.
    Il successore di Gresti fu Francesco Saverio Borrelli il santo procuratore della farsa di Mani pulite targato Magistratura Democratica dalla quale però a un certo punto prese le distanze. Un giudice di quei tempi era solito etichettare Borrelli come “quello che fa proclami al popolo”.
    Borrelli al termine del mandato scese al terzo piano a fare il procuratore generale cioè il superiore gerarchico e il controllore dello stesso ufficio inquirente che aveva diretto per anni. Ma si tratta di “dettagli” di cui il Csm, che di solito fa cose anche peggiori, non si è mai voluto interessare.
    Del resto anche Manlio Minale fece lo stesso percorso scendendo di piano senza che la cosa suscitasse attenzione. Minale quando aveva già fatto la domanda per diventare pm era il giudice che in corte d’Assise condannò Sofri. Avrebbe mai potuto smentire l’ufficio in cui stava per entrare?
    Ma prima di Minale il capo era stato Gerardo D’Ambrosio, lo zio Gerry, colui che da giudice istruttore aveva cercato di salvare l’onore e l’immagine della questura ricorrendo al “malore attivo” dell’anarchico Pinelli. D’Ambrosio in Mani pulite salvava il Pci Pds spiegando che Primo Greganti aveva usato i soldi non per il partito ma per comprare una casa. Ma da Montrdison Greganti aveva incassato 621 milioni di lire esattamente la stessa cifra data agli emissari di Psi e Dc. Misteri di Mani pulite.
    Dopo D’Ambrosio arrivò Edmondo Bruti Liberati uno dei fondatori di Md il quale contrariamente a quelli che erano stati i valori e lo spirito originario della corrente fece fino in fondo “il padrone” del quarto piano cacciando Robledo che voleva indagare su Expo ma per salvare la patria dell’evento non si poteva.
    Francesco Greco suo ex delfino ha continuato l’opera di Bruti incagliandosi alla fine nel caso Eni Nigeria.
    Siamo alla storia di questi giorni. Greco era stato sempre “coperto” dal CSM. Ricordiamo che poco tempo prima di essere nominato procuratore aveva chiesto una serie di archiviazioni in procedimenti di tipo fiscale. Il gip ragione gettava le richieste e a quel punto interveniva la procura generale della Repubblica avocando a se’ i fascicoli.
    In alcuni di questi casi si arrivava alla condanna attraverso il patteggiamento. Insomma veniva completamente ribaltato quello che Greco aveva prospettato. In casi del genere il Csm è chiamato ad andare a verificare. Non accadeva nulla.
    Greco insieme al pg della Cassazione Salvi evidentemente pensava di risolvere la questione Eni-Amara facendo trasferire Storari. Stavolta non ha centrato l’obiettivo.
    Il 14 novembre va in pensione, forse anche prima se in lui dovesse prevalere la saggezza. Insomma aspettiamo “il Papa straniero”.
    (frank cimini)

  • Loggia Ungheria, procure in mezzo al guado

    L’ormai famosa loggia Ungheria è esistita, esiste o si tratta di una bufala messa a verbale dall’avvocato Piero Amara? Non lo sappiano e c’è il rischio di non saperlo mai. Le procure di Milano, Perugia e Vattelapesca dovrebbero accertarlo. Il condizionale è d’obbligo perché a quanto pare nulla è stato fatto sia prima sia dopo l’emergere del caso.
    Diciamo che le procure potrebbero (eufemismo) essere imbarazzate. Nel caso dovessero indagare finirebbero inevitabilmente per lanciare il messaggio di sospettare di altre toghe. Dal momento che Piero Amara ha affermato che ne facevano parte anche magistrati e giudici insieme a politici imprenditori avvocati e uomini di affari. Anche per intrallazzare sulle nomine del Csm.
    Nel caso invece non dovessero indagare finirebbero per buttare a mare con un gioco di parole Amara che per molti versi ci si è buttato da solo. Ma, dettaglio importantissimo, l’avvocato siciliano viene ancora valorizzato al massino come testimone della corona dalla procura di Milano nel ricorso in appello contro la sentenza che ha assolto i vertici dell’Eni dall’accusa di concorso in corruzione in atti giudiziari nel tentativo in verità non facile di ribaltare il verdetto al processo di secondo grado. Delle due l’una. Non esiste una terza via, a meno che non dovesse trattarsi di non fare niente.
    A non fare niente intanto anche sul punto è il Csm che pare non toccato dalla vicenda. A cominciare dal suo presidente Sergio Mattarella che è anche il capo dello Stato e di questi tempi parla di tutto persino dell’istituto di previdenza dei giornalisti ma non della bufera che ha investito la categoria nel suo complesso.
    A tacere poi è la politica tutta. Storicamente quando la politica è in difficoltà, basta ricordare il mitico 1992, viene azzannata dalla magistratura che in questo modo aumenta il proprio potere.
    Quando la magistratura è in difficoltà la politica sembra avere paura. È riuscita a tacere in sostanza anche sul caso del senatore Caridi assolto dopo 5 anni compresi 18 mesi di carcere dove lo mandò il Parlamento accogliendo la richiesta di arresto dei giudici.
    Tornando a botta. Cosa farà per esempio sulla famosa loggia Ungheria la procura di Milano in pratica delegittimata dal Csm che ha deciso di non trasferire il pm Pm Paolo Storari il quale aveva rotto con il capo Francesco Greco proprio su quelle indagini mancate? Cosa può coordinare Greco a pochi mesi dalla pensione e indagato a Brescia giusto per lo scontro con Storari?
    E nel caso in cui Greco anticipasse la pensione chi lo dovesse sostituire come facente funzione in attesa della nomina del successore riprenderebbe subito in mano la patata bollente? E a Perugia sono tutti presi solo dal caso Palamara senza avere tempo per altro? Non resta che aspettare magari nella consapevolezza di non doversi aspettare niente se non che il tempo scorra.
    (frank cimini)

  • Csm: Storari resta a Milano. Greco sempre più in bilico

    La decisione del Csm di rigettare la richiesta del Pg della Cassazione Giovanni Salvi di trasferire da Milano il pm Paolo Storari impedendogli di esercitare le stesse funzioni anche altrove taglia la testa al toro e contiene un chiaro messaggio per il procuratore Francesco Greco.
    Greco alla luce della scelta del Csm, chiara e netta, appare sempre più in bilico. Il procuratore dovrebbe coordinare fino al 14 novembre data della pensione, un ufficio inquirente dove ben 60 pm su 64 avevano espresso solidarietà a Storari smentendo Greco.
    Il procuratore aveva sostenuto che Storari consegnando i verbali di Piero Anara a Davigo avrebbe “gettato discredito sull’intero ufficio”.
    Si tratta della stessa linea scelta dal Pg Salvi il grande sconfitto di questa vicenda in cui è l’intera magistratura a fare una magra figura (eufemismo).
    Salvi evidentemente pensava di risolverla trattando Storari come Luca Palamara. Trasferendo Storari e impedendogli di continuare a fare il pm secondo il Pg della Cassazione avrebbe risolto tutto.
    E invece il no secco del Csm ha aggravato la situazione. Diciamolo chiaramente: anche il documento dei 69 pm solidali con Storari non è stato formalmente depositato al CSM ha finito per pesare in modo decisivo.
    Adesso sarà il procuratore Francesco Greco a decidere cosa fare. Nel caso il procuratore andasse in pensione in anticipo accelererebbe l’iter per la nomina del suo successore dove i favoriti sono il Pg di Firenze Marcello Viola e il capo dei pm di Bologna Jimmy Amato.
    Non sembra avere molte chance il procuratore aggiunto di Milano Maurizio Romanelli unica candidatura interna all’ufficio. Questa volta i pronostici sono tutti per un “papà straniero”, un magistrato fuori dai giochi e dai giri della procura meneghina.
    (frank cimini)

  • Greco la rivoluzione, Mani pulite e i guai di fine corsa

    Si nasce incendiari e si muore pompieri. Non vale certo per tutti ma per molti decisamente si. Vale per il procuratore capo di Milano Francesco Greco che da giovane pm fece parte di una sparuta ma combattiva pattuglia di magistrati che tra Roma e Milano come “sinistra di Md” si oppose strenuamente all’emergenza antiterrorismo, alle leggi speciali. Greco scriveva su “Woobly collegamenti” un foglio dell’area dell’Autonomia e insieme a chi verga queste povere righe, a Gianmaria Volonte’, al libraio Primo Moroni, a magistrati e avvocati prese parte a un collettivo, “il gruppo del mercoledì” impegnato a perorare la causa dell’amnistia per i detenuti politici.
    Insomma ne è passata di acqua sotto i ponti per arrivare ai giorni nostri, gli ultimi della carriera di Francesco Greco che il 14 novembre andrà in pensione dopo aver fatto cose molto diverse, eufemismo, dal contenuto delle sue idee giovanili.
    Greco fu la cosiddetta “mente finanziaria” del pool Mani pulite, una nuova emergenza dove recitò fino in fondo il ruolo di chi stava dalla parte di una categoria che approfittando del credito acquisito anni prima saltava al collo della politica per dire “adesso comandiamo noi”.
    Stiamo parlando di un magistrato che diede un enorme contributo ai mille pesi mille misure dell’inchiesta che avrebbe dovuto stando alle aspettative cambiare in meglio il paese. E invece tanto per fare un esempio Sergio Cusani che non aveva incarichi e nemmeno firme sui bilanci in Montedison prese il doppio delle pene riservate ai manager Sama e Garofano.
    Greco è stato il delfino di Edmondo Bruti Liberati, storico esponente di Md corrente nata a metà degli anni ‘60 teorizzando l’orizzontalita’ negli uffici giudiziari ai danni della verticalità. Bruti con al fianco Greco e supportato dal capo dello Stato e presidente del Csm Giorgio Napolitano usò tutta la verticalità possibile nello scontro con l’aggiunto Alfredo Robledo esautorato e trasferito perché voleva fare le indagini su Expo.
    E da quello scontro interno alla procura di Milano è derivata la linea generale del Csm che adesso lascia i capi delle procure liberi di scegliersi gli aggiunti senza interferire e rinunciando in pratica al suo ruolo.
    Tanto è vero che Greco riusciva a far nominare tra i suoi vice Laura Pedio che aveva titoli di gran lunga inferiori a quelli di Annunziata Ciaravolo. Ciaravolo aveva preannunciato a Greco la propria candidatura e il capo della procura aveva dato l’ok. Poi, è storia nota, Greco chiedendo l’appoggio di Palamara riusciva a ottenere il grado per la sua protetta.
    Adesso la rogatoria eseguita in Nigeria dall’aggiunto Pedio per il caso Eni è al centro di uno scontro furibondo con la procura di Brescia che chiede quelle carte nell’ambito dell’inchiesta sui pm milanesi Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro. Greco ha risposto picche spiegando che gli atti fanno parte di una istruttoria in corso coperta da segreto. Il procuratore di Brescia Francesco Prete, in questa lotta a chi ce l’ha più duro, si è rivolto al Governo che dovrebbe chiedere lumi alla Nigeria. Lo stato africano avendo fornito assistenza alla procura di Milano non dovrebbe creare problemi per il passaggio delle carte anche a Brescia. Ma nella vicenda Eni che sta facendo vivere alla procura milanese e al suo capo i giorni più difficili della sua storia nulla è scontato.
    (frank cimini)

  • Greco indagato, ragione in più per pensione subito

    Il procuratore di Milano Francesco Greco risulta indagato a Brescia per omissione in atti d’ufficio. Non avrebbe iscritto tempestivamente l’avvocato Piero Amara nell’apposito registro. Si tratterebbe di un atto dovuto dopo le dichiarazioni a verbale del pm milanese Paolo Storari.
    A questo punto ci sarebbe una ragione ulteriore non certo la più importante per lasciare l’incarico. Non si capisce perché il procuratore Greco resti al suo posto ad aspettare la data della pensione, il 14 novembre, e non anticipi l’uscita. Il documento di solidarietà al sostituto procuratore Paolo Storari è un chiarissimo segnale di sfiducia nei confronti di Greco a firma di 56 pubblici ministeri ai quali vanno aggiunti magistrati e giudici esterni all’ufficio inquirente.
    Si tratta di una presa di posizione almeno per quanto riguarda i pm milanesi che va molto al di là del caso relativo al processo Eni Nigeria, Amara, Armanna, nessi e connessi. Si può benissimo dire che il caso Storari è la classica goccia che fa traboccare il vaso.
    Da molto tempo in procura c’erano insoddisfazioni, critiche, risentimenti per il modo in cui Greco aveva organizzato l’ufficio, distribuito gli incarichi, favorendo alcuni settori a danno di altri. Quando subito dopo la sentenza di assoluzione dei vertici dell’Eni il procuratore aveva cercato di nascondere la polvere sotto il tappeto addirittura negando la diatriba con il tribunale avevano fatto sensazione le parole digitate da Storari nel dibattito su what’sapp: “Francesco le cose non stanno così, lo sai benissimo e bisognerà parlarne”.
    S’era capito che non sarebbe finita lì è così è stato. Greco dovesse restare fino al termine del mandato andrebbe incontro a un calvario. La gestione dell’ufficio sarebbe molto difficile. Edmondo Bruti Liberati il suo predecessore anticipò l’andata in pensione perché comprese che lo scontro con l’aggiunto Alfredo Robledo dal quale pure era uscito vincitore aveva lasciato degli strascichi evidenti. La procura di Brescia assolvendo Bruti dall’abuso d’ufficio affermava che c’era materia per un procedimento disciplinare avendo lui agito in base a criteri politici. Bruti annunciò che avrebbe lasciato. Di lì a qualche giorno il Csm formalizzò un “disciplinare” che era chiaro sarebbe evaporato per mancanza di tempo utile.
    Greco è messo molto peggio del suo predecessore che per esempio non era stato “sfiduciato” dai sottoposti. Non rischia un disciplinare solo perché la pensione è troppo vicina. Non sembra in grado di riguadagnare l’antica credibilità. Aderente come Bruti alla corrente di Md, nata per privilegiare negli uffici inquirenti l’orizzontalità a danno della verticalità, ha finito al pari di chi l’aveva preceduto nell’incarico per predicare bene e razzolare male. Far credere di non aver approfondito le indagini su Amara per puro garantismo è ridicolo. La vera ragione era quella di non rovinarsi il testimone della corona nel caso Eni. Molto presunto.
    (Frank Cimini)

  • La procura più divisa, in 45 si svegliano ora pro Storari

    “Scetet Catari’ ca l’aria è doce”(svegliati Caterina che l’aria è dolce, traduzione per chi non conosce il norvegese). E in effetti 45 pubblici ministeri più di due terzi del totale, si sono svegliati emettendo un comunicato per dire di non essere turbati dalla presenza tra loro di Paolo Storari, per il quale il Pg della Cassazione ha chiesto il trasferimento in relazione alla consegna a Piercamillo Davigo allora al Csm dei verbali di Piero Amara.
    I 45 magistrati chiedono “chiarezza” in relazione allo scontro che vede protagonisti da una parte il procuratore Francesco Greco con l’aggiunto Laura Pedio e dall’altra appunto Storari. “Siamo turbati dalla situazione che sta emergendo da notizie incontrollate e fonti aperte e sentiamo solo il bisogno impellente di chiarezza, di decisioni rapide che poggiano sull’accertamento completo dei fatti e prendano posizione netta e celere su ipotetiche responsabilità dei colleghi coinvolti” sono le parole della nota firmata dai pm.
    Evidentemente i firmatari in questi ultimi anni hanno vissuto altrove e ci voleva la sentenza con cui i vertici Eni sono stati assolti per riportarli alla realtà. Da tempo se potessero a Milano i pm si arresterebbero tra loro.
    Francesco Greco è il secondo capo della procura consecutivo che si salva dal procedimento disciplinare perché va in pensione. Succederà il 14 novembre. Greco segue le orme del suo predecessore Edmondo Bruti Liberati per il quale il Csm annunciò il “disciplinare” solo dopo che lo stesso aveva dichiarato di andare in pensione in anticipo. Era stata la procura di Brescia nell’assolvere Bruti dall’accusa di abuso d’ufficio a mettere nero su bianco che c’era materia da Csm dal momento che il capo della procura aveva agito in base a criteri politici nello scontro con l’aggiunto Alfredo Robledo in relazione al caso Expo.
    Ai tempi della “guerra” Bruti-Robledo solo molti mugugni e boatos con la procura che ostentò unità. Il caso Eni iniziò a scoppiare con un messaggio di Storari in una discussione interna: “Caro Francesco le cose non stanno così e lo sai benissimo, ne parleremo”. Si era all’indomani dell’assoluzione dell’Eni dopo che tra l’altro in modo azzardato la procura aveva mandato a Brescia un “veleno” di Amara sul presidente del collegio “avvicinabile” da due avvocati della difesa.
    Adesso a Brescia oltre a Storari per violazione del segreto d’ufficio istigato da Davigo sono indagati i pm del caso Eni De Pasquale e Spadaro per non aver depositato atti favorevoli alle difese.
    Greco ha rifiutato di consegnare ai pm di Brescia gli esiti di una rogatoria in Nigeria sull’Eni. È una guerra per bande all’interno della procura di Milano dove adesso a rischiare di più nell’immediato è Storari che ha temere sia il trasferimento sia di non fare più il pm. Questa almeno è la richiesta del pg della Cassazione Salvi che per arrivare a quel posto si era a un certo punto appoggiato a Palamara, quello che ora tutti fingono di non conoscere. Poi Salvi ha deciso che non possono essere sottoposti al “disciplinare” i magistrati che si autopromuovono. Insomma ha prosciolto se stesso. Storia di una categoria che si era proposta per salvare il paese vista dalla procura che fu il simbolo della grande farsa di Mani pulite. C’erano guerre interne anche allora. Di Pietro “rubo’” letteralmente un indagato a De Pasquale. Ma il capo Borrelli diede ragione a Tonino allora mediaticamente una forza della natura. E poi allora sui giornali non uscivano certi fatti se non in poche righe.
    (frank cimini)

  • I nostalgici di Mani pulite non salvano la procura

    I nostalgici di Mani pulite con il ricordo dei bei tempi che furono non salvano la mitica procura dai guai in cui è coinvolta adesso. E per una ragione molto semplice. Quelli non furono bei tempi perché i codici e le procedure furono usati come carta igienica per un’operazione di potere. Altro che dire “ai tempi di Borrelli non sarebbe accaduto”.
    I fan della grande farsa di trent’anni fa non potendo negare che la procura di Nilano sta vivendo momenti difficili ricorrono al passato rimpiangendo i vecchi tempi. Adesso c’è un pm che sospettando violazioni da parte del suo ufficio non le denuncia in maniera formale ma prende copie di interrogatori dal suo computer per consegnarle a Davigo uno dei protagonisti del 1992-1993 di cui si fida in modo particolare. E neanche Davigo dal CSM fa azioni formali. Si limita a parlarne con chi di dovere. Insomma siamo alle cose aumma aumma, senza alcun rispetto delle norme e delle procedure.
    E dove era il rispetto di norme e procedure anche ai tempi di Mani pulite quando si arrestavano gli indagati per farli parlare? Quando si decideva di fare accertamenti perquisizioni e sequestri solo quando conveniva operando secondo mille pesi e mille misure. Lasciando da parte poteri forti come la Fiat e Mediobanca, rinunciando a fare indagini serie sul Pci PDS non in omaggio alle toghe rosse ma solo perché una sponda politica all’indagine era pur necessaria per andare oltre e evitare che la politica tutta facesse blocco contro gli inquirenti.
    I guai allora furono evitati perché c’era il grande consenso di un’opinione pubblica fortemente condizionata dai giornali di proprietà di editori che per altre loro attività di imprenditori erano sotto lo schiaffo del mitico pool. Per cui fu facile mettere la polvere sotto il tappeto e zittire quei pochi che dissentivano.
    Adesso è meno facile perché l’affaire ruotante intorno all’avvocato Amara arriva dopo il caso Palamara che ha ridotto in modo sensibile la credibilità dell’ordine giudiziario e dei suoi organi a iniziare dal Csm. Ma non ci sono casi Amara o Palamara. C’è un caso magistratura dal quale lor signori cercheranno probabilmente anche con successo di uscire con la solita logica dei capri espiatori. Daranno tutte le colpe solo al pm Storari, alla segretaria del Csm e a Davigo che ormai fuori dai giochi conta più niente (frank cimini)

  • Gip nega rinvio udienza a legale malato per Covid

    Il gup milanese Natalia Imarisio ha negato il rinvio dell’udienza per legittimo impedimento all’avvocato Roberto Peccianti ammalato per Covid. Il pm aveva espresso parere contrario perché c’era già stato un rinvio in precedenza. Il giudice nel motivare il rigetto dell’istanza afferma che l’impedimento non era motivato dall’impossibilità di sostituzione con altro difensore. E aggiunge che il legale poteva avvalersi del difensore del coimputato considerando che la posizione dei due coimputati non era in conflitto.
    L’udienza è proseguita e si è conclusa decidendo la prescrizione per un capo di inputazione per intervenuta prescrizione e il rinvio a giudizio per un’altra accusa. Al centro del processo vicende fiscali.
    La violazione del diritto di difesa appare evidente nel momento in cui si nega all’imputato di farsi assistere dal legale di fiducia che aveva scelto e addirittura si suggerisce la sostituzione con l’avvocato del coimputato.
    Il certificato con cui il legale documentava di aver contratto il Covid in pratica non è stato preso in considerazione nonostante l’emergenza virus non sia finita. Anzi.
    E la decisione sembra dar ragione a chi propone di abolire l’udienza preliminare perché completamente inutile (frank cimini)

  • Bergamo, siamo al registro degli indagati in tv

    “Non escludo che possano essere indagati esponenti del ministero della Salute”. Sono le parole clamorose che il pm di Bergamo Maria Cristina Rota ha consegnato alle telecamere di Report aggiungendo che i dirigenti sentiti come testimoni erano stati “molto reticenti”.
    Insomma siamo ai preannunci in tv sul registro degli indagati, una sorta di violazione del segreto istruttorio di fatto, anche se il magistrato non ha fatto nomi. Ma gli “indagandi” sono stati così avvertiti anche se le informazioni di garanzia per loro non saranno una sorpresa. Le aspettavano, le stanno aspettando.
    Già all’inizio dell’inchiesta la stessa pm rispondendo alla domanda su chi dovesse decidere sulla zona rossa aveva risposto: “Il governo”. Poi dopo gli interrogatori a Roma aveva spiegato che la risposta era riferita “allo stato delle nostre conoscenze”. Ma questo non lo aveva detto all’epoca.
    La mania di protagonismo fa male alle indagini. Non si capisce poi perché una procura che lamenta di continuo la carenza di organici non si decida a trasmettere gli atti a Roma competente per le indagini sul ministero. Non ci vuole un giurista per sapere che non può farlo la procura di Bergamo in un’indagine dove comunque non sarà facile provare il nesso di causalità tra le mancanze del piano pandemico e i morti. (frank cimini)

  • Greco e De Raho assolti, o’ malament è Palamara

    “Non ha compiuto un’improria interferenza nelle nomine di sei procuratori aggiunti”. Con questa motivazione il Csm ha deciso di non aprire un procedimento disciplinare a carico del procuratore di Milano Francesco Greco. L’ultima parola spetta al plenum ma la strada è ormai segnata da tempo. Il Csm in pratica difende se stesso continuando a raccontare che nei giochi sottobanco per le nomine e gli incarichi dei magistrati c’è un solo colpevole, o’ malament, Luca Palamara che in pratica avrebbe fatto tutto da solo.

    Palamara contribuì alla nomina di ben 85 colleghi che però sono tutti innocenti e candidi come gigli. “È emerso sicuramente che vi furono interlocuzioni tra i consiglieri dell’epoca Nicola Clivio e Palamara e il dottor Greco ma tali interlocuzioni furono attivate dagli stessi consiglieri e non si risolsero in alcuna segnalazione o promozione di specifici nominativi da parte di Greco – è la conclusione dell’organo di autogoverno al momento – quanto in una generale consultazione sulle problematiche dell’ufficio e sulla professionalità richieste per la migliore gestione del medesimo. Pertanto non risultano condotte suscettibili di incidere sull’imparzialita’ e indipendenza neanche sotto il profilo dell’immagine”.

    Nessun procedimento anche per il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho che era stato a strettissimo contatto con Palamara al punto da scrivergli come risulta dalle intercettazioni “la tua battaglia è la nostra”. Greco invece gli scriveva: “Ci vediamo al solito posto”.

    Lo sanno anche i sassi che dopo la furibonda lite Bruti-Robledo risolta con l’altissimo intervento del presidente Napolitano e al fine di evitare fatti simili in futuro il Csm lascia che siano i capi degli uffici a decidere le nomine degli aggiunti.

    Tra i candidati ad aggiunto a Milano c’era il sostituto procuratore generale Nunzia Ciaravolo con un curriculum di incarichi impressionante pieno di presenze in organismi internazionali e quindi di gran lunga superiore a quello di altri colleghi. Ciaravolo aveva preannunciato a Greco la propria domanda per andare in procura. “Non ci sono problemi” fu la risposta. E invece i problemi c’erano. Iniziò un fuoco di sbarramento che costrinse Ciaravolo a decidere di ritirare la candidatura tre ore prima che il plenum decidesse.

    Anche le chat scambiate da De Raho con Palamara in occasione dell’assegnazione di due incarichi direttivi “non hanno determinato un appannamento della sua credibilità professionale e personale”.

    Insomma non era accaduto nulla. Tutte le colpe sono esclusivamente di Palamara che è stato radiato dalla magistratura e per il Csm la storia deve finire così e basta. Insomma punto fermo. Sia Greco sia De Raho tra pochi mesi lasceranno per raggiunti limiti di età’. Quindi non ci sarebbero stati neanche i tempi tecnici per istruire e portare a termine il disciplinare. Ma era ed è una questione di immagine del Csm. Avviare i procedimenti avrebbe finito per ridare credibilità a Palamara che nel libro scritto con Sallusti ribadisce: “Mica ho fatto da solo, non avrei potuto”.

    Niente di nuovo sotto il sole. Il Csm come aveva già dimostrato il caso Bruti-Robledo resta il regno dell’omerta’ e dei traffici illeciti di influenza. Sì proprio il reato che le procure distribuiscono in giro ai comuni mortali. A palazzo dei Marescialli invece sono tutti innocenti. Tranne uno, sempre lui, “o malament”. (frank cimini)

     

  • Tra pm e tribunale pace ridicola toppa peggio del buco

    Prima scatenano la guerra sulla sentenza di assoluzione del caso Eni-Nigeria dicendone di tutti i colori a carico degli interlocutori poi cercano di fare marcia indietro con una riunione che partorisce un comunicato “di pace”. È la storia degli ultimi giorni dei rapporti tra la procura e il Tribunale di Milano.

    ”La giurisdizione milanese ha sempre rispettato e valorizzato i principi costituzionali del giusto processo e dell’obbligatorietà dell’azione penale, della funzione del pm come organo di giustizia che dunque non vince e non perde i processi ma in conformità alle norme li istruisce” si legge nella nota a firma del presidente del Tribunale Roberto Bichi cofirmata dal procuratore Francesco Greco dal presidente della sezione misure di sorveglianza Fabio Roia dal numero uno dei gip Aurelio Barazzetta e dagli aggiunti Maurizio Romanelli e Eugenio Fusco.

    Insomma questi signori in toga vorrebbero farci credere che non era accaduto nulla. Una riedizione di quanto gridava il mitico Everardo Della Noce durante latrasmissione “Quelli che il calcio”. “… ma alla fine non è successo niente”.

    Eppure la mitica procura che fu di Mani pulite aveva spedito ai colleghi di Brescia competenti a indagare sui magistrati di Milano le parole di un testimone largamente inattendibile secondo il quale due avvocati patrocinatori di Eni  Nerio Diodà e Paola Severino ex ministro della giustizia avrebbero avuto “accesso” al presidente del Tribunale Marco Tremolada.

    Brescia archiviava senza fare iscrizioni al registro degli indagati e senza interrogare nessuno. D’altronde si trattava di cosa senza fondamento. Ma proprio per questa ragione la mossa della procura era stata gravissima. E infatti il presidente Bichi aveva preso una posizione netta mettendo nero su bianco la parola “insinuazioni”.

    Adesso arrivano i tarallucci e vino, la voglia di metterci una pietra sopra al fine di evitare ulteriori imbarazzi. Ma resta che la procura si era mossa come il classico elefante in cristalleria. Nonostante il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale in sede di requisitoria con grande onestà avesse affermato “qui sia chiaro non c’è la pistola fumante”. La richiesta di condanna poggiava su una sorta di prova logica nell’ambito del cosiddetto rito ambrosiano nato con Main pulite.

    I giudici hanno deciso di assolvere e non si tratta certo del primo processo in tema di corruzione internazionale in cui la tesi dei pm di Milano è stata sconfitta. Anche se il comunicato congiunto quello della “pace” dice di non voler sentire di processi vinti e persi. La toppa è peggio del buco.

    (frank cimini)

  • Gli altarini della casta togata, il libro di Zurlo

    Al fine di accompagnare i taralli del caso magistratura, derubricato dal CSM e dai giornaloni a caso Palamara con ovvia radiazione del capro espiatorio per fingere pulizia e tabula rasa, appare utile la lettura delle 223 pagine vergate dal collega Stefano Zurlo cronista nelle aule dei processi di vecchia data, edizioni Baldini e Castoldi, 18 euro.
    “Il libro nero della magistratura” recita il titolo accompagnato dall’occhiello “I peccati inconfessati delle toghe italiane nelle sentenze della sezione e disciplinare del Csm.
    Si tratta del terzo lavoro di Zurlo sullo stesso tema dopo “La legge italiana siamo noi” del 2009 e “Prepotenti e impuniti” del 2011, “sempre sbianchettando i nomi” specifica l’autore “per non rischiare grappoli di cause milionarie e grane a non finire. Nove anni dopo ci risiamo”.
    Non c’è una virgola che sia inventata fuori posto esagerata. “Ci sono giudici che hanno depositato sentenze con mesi e mesi di ritardo e altri che hanno dimenticato in cella gli imputati per 51 giorni… giudici che hanno chiamato i carabinieri per non pagare il conto al ristorante e altri che hanno smarrito pratiche e fascicoli vanificando anni di processi….  Molti sono stati assolti perché c’è quasi sempre una scappatoia, troppo lavoro, il sistema che non funziona, la separazione dalla moglie, la malattia grave di un congiunto”.
    Molti non sono sfuggiti alla sanzione, spesso minima, tra ammonimento e censura. Raramente si è arrivati alla perdita di anzianità e molto difficilmente all’espulsione dalla categoria. Tutti processi celebrati in silenzio.
    In questo libro siamo oltre gli accordi sottobanco, le spartizioni tra le correnti. Siamo a fatti di vita quotidiana rispetto ai quali si resta senza parole soprattutto perché i comuni mortali per episodi simili sono costretti a vedere i sorci verdi e la loro vita sconvolta dalle decisioni dei togati.
    Un giudice resta al suo posto nonostante sia responsabile di 74 procedimenti civili fuori tempo massimo con punte tra i 595 e i 560 giorni e di aver copiato pari pari 55 delle 71 pagine del testo da una delle due parti. La nobilissima arte del copia e incolla. Il signore ha “pagato” con la perdita di un anno di anzianità con gli utenti sempre costretti ad aspettare i suoi tempi.
    Un altro giudice si ubriaca, barcolla, viene soccorso, arrivano due poliziotti e lui li “saluta”a modo suo: “Sbirri di merda, mi avete rotto i coglioni”. E ancora: “Ve la faccio pagare adesso chiamo il questore e vi sistemo”. Successivamente dopo aver tamponato un’auto prende a calci e pugni due carabinieri rifiutando di dare le proprie generalità. Diversi procedimenti disciplinari, il buffetto dell’ammonizione. Ma non si ferma, prosegue. Viene sospeso dalle funzioni e dallo stipendio. Adesso vive con l’assegno alimentare cosiddetto. Quello alle toghe non lo negano mai.
    C’è il giudice che picchia la moglie e viene assolto con la commissione disciplinare che filosofeggia sui fallimenti esistenziali per coprire gli eccessi e gli istinti maneschi.
    Non manca chi ha molestato e vessato per anni una collega “perché non ci stava”, rischia il trasferimento ma non arriva neanche quello e il giudice continua in aula a rappresentare lo Stato.
    Un altro fa il giudice e il vicesindaco nello stesso territorio ma se la cava con l’ammonimento.
    428 giorni, più di un anno agli arresti domiciliari per un erroraccio del gip che avrebbe dovuto firmare la remissione in libertà di due imputati a maggio del 2013 ma lo fece solo nell’agosto dell’anno successivo. La commissione disciplinare del Csm decide che si tratta di grave negligenza. Emerge che lo stesso giudice aveva dimenticato in cella un terzo imputato per 48 ore. Ma tutto finisce con una semplice censura. Nella commissione disciplinare che prende la decisione ci sono Maria Elisabetta Alberti Casellati futuro presidente del Senato e dulcis in fundo Luca Palamara. Da lui eravamo partiti per parlare del libro di Stefano Zurlo e non possiamo non finire con lo stesso, ormai ex magistrato. Quello che adesso viene misconosciuto dai colleghi a cominciare da quelli beneficiati dalle sue attività diciamo borderline. Ovvio non aveva agito da solo. Piazzare negli anni passati al Csm 86 magistrati in ruoli di vertice non è impresa da poco. Alla fine ha pagato solo lui. E molti giudici dei quali ci racconta Zurlo fecero di peggio molto di peggio, anche se il Csm quei misfatti li ha retrocessi a una sorta di vizi privati da curare al massimo con qualche caramella amara.
    (frank cimini)

  • I pm negano a Fontana la moratoria concessa per Expo

    Si può pensare dal punto di vista politico tutto il male possibile del “governatore” Attilio Fontana e chi scrive queste poche e povere righe si sente di far parte della lista ma la mitica procura ha negato sdegnosamente a lui quello che fu concesso con la moratoria delle indagini su Expo.

    Fontana attraverso i suoi legali si era rivolto ai pm mettendo le mani avanti al fine di evitare grane giudiziarie. Si era detto pronto ad assumere la responsabilità al fine di reperire i vaccini di superare l’obbligo della gara pubblica e procedere a trattativa privata. La procura replicava spiegando di non occuparsi di amministrazione e in pratica di non poter dare licenza di commettere reati.

    Insomma tutto il contrario di quanto accadde per Expo quando i pm chiusero un occhio e l’altro pure. E vennero ringraziati dall’allora premier Matteo Renzi “per il senso di responsabilità istituzionale”. Ringraziati cioè per non aver rispettato il principio dell’obbkigatorieta’ dell’azione penale perché si trattava di “salvare la patria”  permettendo la celebrazione del grande evento che sarebbe stato fortemente in dubbio nel caso fossero state espletate indagini vere.

    E trovò il modo la procura anche di mettere in condizioni di non nuocere l’unico magistrato, il procuratore aggiunto Alfredo Robledo,  che stava facendo le indagini. Con la complicita’ del Csm e del capo dello Stato Giorgio Napolitano missione compiuta. Napolitano disse che con la riforma dei poteri del capo dell’ufficio inquirente il procuratore poteva fare quello che voleva. Il procuratore era Edmondo Bruti Libersti uno dei fondatori di Magistratura Democratica, corrente nata negli anni ‘60 in nome della orizzontalità degli uffici inquirenti. Si nasce incendiari e si muore pompieri. Anche se per fortuna non vale per tutt.

    Tra i beneficiari della moratoria il sindaco Giuseppe Sala portatore di un conflitto di interessi gigantesco come ex amministratore di Expo. Con una motivazione da ubriachi Sala fu prosciolto dall’accusa di aver favorito Oscar Farinetti con l’assegnazione della ristorazione di due padiglioni senza gara pubblica.

    Ma vennero di fatto “amnistiati” anche quei giudici al vertice del palazzo milanese che avevano omesso di fare gare pubbliche in relazione all’assegnazione dei fondi di Expo giustizia. Si decise di affidarli a società che avevano consuetudine di rapporti con la pubblica amministrazione. Una di queste società aveva sede nel paradiso fiscale del Delaware e non si è mai saputo di chi fosse, a chi appartenesse realmente. Chi controlla i controllori?  Nessuno. Insomma siamo messi così male che tocca difendere un amministratore pessimo come Fontana. Sono i miracoli che fa la mitica procura, il porto delle nebbie vero perfettamente in linea con la farsa di Mani pulite, l’inchiesta mille pesi e mille misure (frank cimini)

  • Dilemmi emergenziali: ci sono più pubblici ufficiali di altri?

    Nel maggio del 2016 si svolse a MiIano una manifestazione per il diritto alla casa (sembrerà impossibile ma c’è ancora in giro gente che non ne ha una). Un centinaio di manifestanti fuseguito dal consueto imponente dispositivo di sicurezza e controllo. L’attento monitoraggio delle forze dell’ordine consentì di accertare i seguenti gravissimi fatti: una persona accese un fumogeno, un’altra strappò un lembo di un manifesto elettorale del PD, una terza sputò verso un agente della polizia scientifica che, in abiti civili, la stava filmando.

    I tre finirono alla sbarra. Fu celebrato un vero e proprio processo: si ascoltarono testimoni, si analizzarono filmati.

    La persona accusata di aver sputato verso il poliziotto (imputata di oltraggio a pubblico ufficiale) fu assolta perché non si poté stabilire con certezza se si fosse reso conto che la persona verso cui aveva sputato (che era in borghese e lo stava filmando) era un poliziotto. Gli altri due vennero prosciolti ai sensi dell’art. 131 bis c.p.Particolare tenuità del fatto, il fatto sussiste, l’imputato lo ha colpevolmente commesso, ma si tratta di un fatto di poco conto, che non merita di essere perseguito.

    Apriti cielo.

    Il sindacato autonomo della polizia tuonò: “Se sputare addosso a un poliziotto, viene considerato fatto tenue, allora vuol dire che sputare contro un servitore dello Stato è legittimo”. Giorgia Meloni evocò la: “necessità inderogabile di inserire nel nostro ordinamento il reato di terrorismo di piazza”.

    Nessuno (o quasi) notò che l’ondata di indignazione era fondata su un clamoroso equivoco, perché l’autore dello sputo non era stato prosciolto per irrilevanza del fatto ai sensi dell’art. 131 bis, ma per assenza di dolo.

    Ma la macchina della legislazione di emergenza si era ormai mossa. Per evitare una volta per tutte simili verdetti fu introdotta un’eccezione all’art. 131 bis c.p., escludendo dall’applicazione della norma i reati di resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale. L’improcrastinabile riforma fu introdotta in sede di conversione del decreto sicurezza bis.

    Quando si trovò il testo della legge da promulgare, il Presidente della Repubblica esplicitò seri dubbi sulla legittimità costituzionale della norma.

    La norma entrò comunque in vigore. Com’era inevitabile, alla prima occasione la questione finì in Corte Costituzionale (dove tutt’ora pende, in attesa di essere decisa). Perché impedire ad un giudice di escludere la punibilità per irrilevanza del fatto solo in relazione a determinate categorie di persone offese?

    Veniamo ad oggi.

    Il Governo (virato nel frattempo dal giallo-verde al giallo-rosso) deve aver scorto nella riformina del decreto sicurezza l’occasione per mettere una pezza a questo pasticcio.

    Eliminando l’irragionevole disparità di trattamento? No, precisandone ed estendendone i beneficiari. Non tutti i pubblici ufficiali, ma solo gli agenti e gli ufficiali di pubblica sicurezza. Non solo questi ma anche i magistrati in udienza.

    Quindi: uno stesso insulto di poco conto sarà sempre punibile, se rivolto ad un poliziotto nell’esercizio delle sue funzioni o ad un magistrato in udienza; se rivolto ad un professore, ad un medico ospedaliero, ad un cancelliere di tribunale o ad un altro pubblico ufficiale, anche no.

    Ci sono ufficiali più pubblici di altri?

    (avvocati eugenio losco e mauro straini)

  • Capri espiatori, Becciu il Palamara del Vaticano

    È la logica del capro espiatorio la soluzione che organismi di potere dimostrano di gran lunga di preferire pur di non affrontare problemi e fenomeni che sono chiaramente alla radice di ciò che emerge. E non sembra una situazione caratteristica esclusiva del nostro Paese a vedere quello che sta accadendo in Vaticano con la parabola discendente di monsignor Giovanni Becciu, fino a pochi giorni fa potentissimo caro amico di Papa Francesco e ora nella polvere.
    Ci corre un paragone con la vicenda di Luca Palamara, il magistrato che veniva ripetutamente e ossessivamente cercato da colleghi che ambivano a incarichi importanti e che adesso, caduto in disgrazia, è stato scaricato da tutti.
    Ovviamente la stragrande maggioranza degli organi di informazione fiancheggia queste operazioni, si fa pochissime domande e procede a spron battuto nella distruzione dell’immagine degli ex potenti.
    Monsignor Becciu venne nominato da Benedetto XVI nel 2011. È stato sostituto per gli Affari generali, confermato da Bergoglio e nominato delegato speciale presso il Sovrano ordine militare di Malta al fine di risolvere la crisi dello stesso. Poteva gestire i fondi della Segreteria di Stato, a cominciare da quelli dell’Obolo di San Pietro, il denaro che la Chiesa raccoglie per le opere di carità in favore dei poveri.
    Evidentemente Becciu poteva agire senza controlli. Evidentemente i controlli non esistevano. Non c’erano gli anticorpi che sarebbero stati necessari per prevenire operazioni illecite, comprese quelle sottrazioni di denaro poi finito in mille rivoli che adesso vengono ipotizzate dalle inchieste sia della Santa Sede sia in Italia.
    Il modo in cui Becciu è stato eliminato, addirittura con l’esclusione dal futuro conclave, dimostra l’inutilità sostanziale di parlare di mere ipotesi investigative. Becciu non ha avuto possibilità di difendersi in presenza di un quadro accusatorio sicuramente pesante. Il monsignore sarebbe stato tra l’altro responsabile di un accordo per mettere lo stemma della Caritas sulle bottigliette della birra artigianale “Pollicino” prodotte dalla “Angel’s” amministrata dal fratello Mario.
    Tutto dovrà essere provato? Solo in teoria è così. Monsignor Becciu in sostanza è già stato condannato. Non è certo il primo collaboratore del Pontefice chiamato a svolgere incarichi importanti a finire male. Ha fatto tutto da solo? In Vaticano esistono organismi e persone che hanno il compito di vigilare? Chi controlla chi?
    E Luca Palamara ha fatto la stessa fine di Becciu. Il capo della Direzione nazionale antimafia, Federico Cafiero De Raho, come risulta dalle intercettazioni finite puntualmente sui giornali, gli telefonava per dirgli: “La tua battaglia è la nostra”. Il procuratore di Milano Francesco Greco gli dava appuntamenti: “Ci vediamo al solito posto”. Palamara aveva in mano la carriera di decine e decine di colleghi. Avrebbe contribuito alla nomina per incarichi direttivi di almeno 84 magistrati.
    Perché Palamara agiva con grande furbizia. Anche quando aveva in origine un candidato suo diverso da quello che poi avrebbe vinto, il nostro virava in extremis sul vincitore. Insomma, non perdendo praticamente mai acquisiva sempre maggiore potere.
    Ora l’ex magistrato più potente d’Italia è rimasto con un pugno di mosche in mano. Con il Csm di cui fece parte che gli ha negato a livello disciplinare il diritto a difendersi. Aveva chiesto, Palamara, 133 testimoni a discarico: ne ha ottenuti solo un paio, peraltro già presenti nella lista dell’accusa. Per i commerci sotto banco degli incarichi e per i rapporti con il mondo politico sarà il solo a pagare l’ex pm della capitale. E il suo “disciplinare” rischia di essere il processo pilota per il futuro. Quello senza diritti della difesa, quello sognato da molti procuratori almeno fino a quando non saranno loro a finire sotto inchiesta.
    Restano al loro posto tutti i colleghi che Palamara ha contribuito a far nominare. Sembra sia stato solo lui a inquinare la vita della magistratura. L’Anm non ammette critiche, lamenta addirittura che ci si occupi sui giornali delle irregolarita’ nei concorsi per magistrati (in realtà se ne scrive pochissimo).
    La politica dal canto suo è silente. Stanno zitti anche gli esponenti di partiti che in passato furono protagonisti di scontri durissimi con la magistratura, a iniziare da quelli che nel 2013 occuparono i corridoi del tribunale di Milano in difesa del loro leader, imputato in un processo per un pelo di quella lana nel quale alla fine venne assolto. Evidentemente a tutti o quasi va bene la giustizia per come viene amministrata, va benissimo il Csm ripulito dal metodo Palamara, quello usato per beneficiare tanti magistrati che continuano a impartire dal loro scranno lezioni di etica e di morale. Tutto bene ora. In Italia e pure all’estero. Senza Becciu e senza Palamara.
    (frank cimini)

  • Pm di serie A Roma e Perugia, Bergamo serie B

    Ci sono uffici giudiziari di serie A dove i procuratori appena nominati si insediano e altri di serie B dove passano mesi e mesi prima del cambio. Michele Prestipino a Roma e Raffaele Cantone a Perugia persino Claudio Gittardi a Monza appena designati dal CSM hanno preso posto immediatamente. Diverso destino per Antonio Chiappani che il CSM in data 15 maggio è stato scelto dall’organo di autogoverno ma dovrà aspettare la metà di agosto per una serie di adempimenti formali che in altri casi erano stati saltati.

    Questo accade nonostante la procura di Bergamo sia senza un capo effettivo da aprile dell’anno scorso e quell’ufficio sia chiamato a prendere decisioni importanti a causa dell’emergenza Covid e si trovi sotto pressione da parte dei comitati dei parenti delle vittime che nei giorni scorsi hanno chiesto alla Corte europea di vigilare sulle indagini. Una richiesta che tra l’altro suscita anche non poche perplessità dal punto di vista formale perché mette in discussione l’autonomia e l’indipendenza della magistratura.

    Va ricordato che per la nomina di Chiappani, 67 anni, all’ultimo incarico prima della pensione aveva già impiegato un sacco di tempo.
    L’anticipato possesso non sarebbe scattato per Chiappani a causa della delicata situazione della procura di Lecco dove a lavorare con lui dopo la scomparsa del pm Laura Siani ci sono solo tre colleghi e dove ci sono da trattare 10 mila fascicoli l’anno.
    Non si capisce perché non sia stato applicato un magistrato a Lecco in modo da permettere a Chiappani di andare subito a Bergamo. Intendiamoci non ci sono dietrologie da fare ma appare anche difficile spiegare tutto con la burocrazia. Le indiscrezioni riferiscono di una certa sciatteria al riguardo nei rapporti tra il Csm è il ministero della giustizia.

    E‘ anche vero che al CSM di questi tempi hanno brutte gatte da pelare con il caso etichettato come “Palamara” ma che in realtà riguarda l’intera categoria e tutta la gestione degli incarichi spartiti con logiche poco trasparenti (eufemismo). E pure al ministero della Giustizi non sono giorni tranquilli.

    Sta di fatto però che evidentemente ci sono magistrati e uffici che pesano più di altri. Cantone è un potente anche dal punto di vista mediatico e a Perugia si indaga sui giudici romani Palamara compreso. Il discorso vale ancora di più per Prestipino a Roma considerando che era stato in origine    scelto Marcello Viola e che poi la procedura era sta riaperta a causa delo tsunami che aveva investito il consiglio superiore.

    A Bergamo però ci sono scelte importanti da fare. Si tratta di decidere se mandare per competenza a Roma la parte di indagine relativa alla mancata creazione della cosiddetta zona rossa ai tempi della massima diffusione del corona virus. I parenti delle vittime del Covid hanno manifestato più volte davanti alla sede della procura. Chiedono giustamente dal loro punto di vista la verità in merito alle tragedie che hanno vissuto. Ovviamente non è detto che lo strumento penale sia quello più adeguato ma c’è poco da scherzare.

    Sempre a Bergamo c’è un’altra deLicata inchiesta che vede coinvolte realtà legate alla Curia impegnate nell’assistenza ai migranti le quali avrebbero ricevuto finanziamenti non dovuti. I 35 euro al giorno per ogni extracomunitario sarebbero stati riscossi anche quando i diretti interessati erano ormai altrove. La lista degli indagati è lunga e pare da scremare. La presenza del capo effettivo dei pm sarebbe necessaria. L’ufficio dalla scomparsa prematura di Walter Mapelli è retto come facente funzione da Maria Cristina Rota che era andata a Roma a sentire come testimone il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e aveva raccolto la deposizione sempre come teste del governatore Attilio Fontana. (frank cimini)

     

  • Greco truffato ma indagine a Milano…. scandaloso

    Tra i truffati per i servizi aggiunti a insaputa degli utenti con gli smartphone c’è il capo della procura Francesco Greco che rivela il “dettaglio” in conferenza stampa spiegando di essersi accorto di aver pagato 20 euro a bimestre in più per qualcosa che non aveva chiesto. Ma il fascicolo di inchiesta è a Milano dove gli accertamenti sono coordinati dal suo ufficio.

    Insomma indaga la parte offesa. L’intero incartamento dovrebbe essere già a Brescia titolare delle indagini sui fatti in cui magistrati in servizio a Milano sono coinvolti come indagati o come parte offesa. Il condizionale è d’obbligo considerando che abbiamo a che fare con una procura abituata ad applicare le regole soprattutto quelle previste dall’articolo 11 con estrema disinvoltura e secondo le proprie convenienze.

    Insomma ci sono procure più uguali di altre. La famosa indagine sul sistema Sesto San Giovanni fu mandata a Monza con un anno e mezzo di ritardo. Finita in gran parte in prescrizione. Ma nessuno tra gli addetti ai lavori nessun giornale fece notare la cosa. Per non parlare del CSM regno dell’omertà e dell’Anm associazione sempre pronta a lamentare tentativi di delegittimazione della magistratura quando le toghe sono brave a far tutto da sole.

    Negli anni della ”mitica” Mani pulite ne accaddero di tutti i colori. A iniziare dal caso Sme toghe sporche trattenuto per anni illegittimamente. Fu la Cassazione anni e anni dopo a spedirlo a Perugia. Prescrizione.

    Anni prima era accaduto che un procuratore aggiunto si trovasse al telefono con un sottufficiale della gdf mentre questo veniva arrestato per corruzione. “Io ‘ste cose a tappeto non le capisco” diceva il magistrato per confortare l’amico. Quelle “cose” erano coordinate dall’ufficio in cui lui era aggiunto. La procura di Milano decise da sola che non c’era nulla di penalmente rilevante senza investire della questione i colleghi di Brescia.
    Insomma non c’è nulla di nuovo sotto il sole (frank cimini)

  • Avvocato caduto, una carta dimostra che i magistrati sapevano tutto dal 2002

    Il 18 gennaio del 2018  Antonio Montinaro cadde in Tribunale e restò paralizzato alle gambe.

    Ora nella crudele storia del giovane avvocato spunta un carteggio inedito,  letto da Giustiziami, che dimostra come il problema delle balaustre rischiose perché troppo basse fosse ben noto alla magistratura sin dal 2002. La stessa magistratura che non sembra in grado di indicare di chi sia la responsabilità di quello che non può essere considerato solo un incidente.

    Il 23 maggio di quell’anno, l’allora procuratore Gerardo D’Ambrosio, già protagonista  della stagione di ‘Mani pulite’, comunicava alla presidenza della Corte d’Appello di avere ricevuto  una nota dal pubblico ministero e “magistrato delegato alla sicurezza” Giulio Benedetti in cui veniva “segnalata la situazione di pericolo rilevata dall’istruttoria della Polizia Municipale  relativa all’altezza della balaustra prospiciente gli uffici al quinto piano (non quella da cui è cascato Montinaro, ma è chiaro che il riferimento fosse a tutte le altre con la stessa altezza di 75 cm, ndr)”.

    Nei giorni scorsi la procura di Brescia, competente sui colleghi milanesi, ha chiesto di archiviare la posizione dei capi degli uffici giudiziari (il procuratore Francesco Greco, la presidente della Corte d’Appello Marina Tavassi, l’allora procuratore generale Roberto Alfonso, il presidente del Tribunale Roberto Bichi)  sostenendo che non possano essergli attribuite eventuali violazioni delle norme antinfortunistiche perché quella mattina d’inverno Montinaro cadde  in uno “spazio comune”, quali sarebbero scale e pianerottoli,  non adibito ad attività della giustizia.

    Una sorta di territorio ‘franco’ dove, questa è la tesi dei pm che dovrà essere accolta o respinta da un gip, i magistrati chiamati  in linea generale a vigilare sulla sicurezza del Palazzo di Giustizia non  possono essere considerati dei “datori di lavoro”.

    Stando alle conclusioni dei pm bresciani, l’eventuale responsabilità alla fine non ricadrebbe su nessuno perché l’infortunio in uno spazio comune sarebbe oggetto di un’indagine solo su querela della parte offesa che, in questo caso, non c’è stata. Montinaro cadde a pochi passi dall’ufficio deposito atti, molto frequentato dagli avvocati.

    Nella richiesta di archiviazione i pm  Ketty Bressanelli, Carlo Nocerino e Francesco Prete  non individuano l’entità a cui eventualmente sarebbe spettata la vigilanza e, dunque, la responsabilità.   Solo dopo che il giovane, che ha giurato da avvocato sdraiato in un letto di ospedale con le gambe paralizzate, precipitò dal parapetto troppo basso della scala Y al quarto piano della Procura, i vertici delle toghe hanno circondato le scale di transenne e cartelli che segnalano il pericolo di sporgersi. All’epoca dello scambio di mail tra D’Ambrosio, Benedetti e la Polizia Municipale, si decise di mettere del nastro adesivo per segnalare il pericolo. Dal al 2015 in avanti i magistrati hanno avvertito più volte il Ministero della Giustizia, assieme ai dirigenti degli uffici tecnici e ai sindacati, del problema delle balaustre, senza ricevere riscontri concreti.

    Dopo lo sfortunato volo di sei metri di Montinaro, che ha 32 anni e da allora è impegnato in un difficile percorso di riabilitazione, il Guardasigilli Alfonso Bonafede ha effettuato un sopralluogo in tribunale e stanziato dei fondi che dovrebbero mettere in sicurezza l’antico edificio costruito in epoca fascista.  Chissà quando.  (manuela d’alessandro)

  • In difesa del processo cancellato dall’Amuchina


    L’imputato non è necessariamente un delinquente professionale. Spesso neppure sapeva dell’esistenza del reato che gli viene contestato. Spesso non avrebbe voluto commetterlo. Talvolta i fatti si sono svolti in modo significativamente diverso da come gli vengono contestati o sono stati commessi da altri. Talvolta non sono accaduti per niente. In ogni caso, sempre, ogni imputato, ha almeno una buona ragione che l’accusa nel formulare l’imputazione ha ignorato.

    Il ruolo del difensore è quello di cercare di portare a conoscenza del giudice le tante o poche buone ragioni dell’imputato.

    Si tratta di un’operazione difficilissima: all’inizio del processo, l’imputato è innanzitutto un potenziale condannato: se si proclama innocente, non sarà creduto; se porterà dei testimoni a propria difesa, si sospetterà della loro credibilità. All’opposto, le prove a sostegno dell’accusa saranno ritenute attendibili, fino a prova contraria.

    Per svolgere l’immane compito di ribaltare l’inerzia che spinge verso la condanna, l’imputato ha a disposizione soltanto due strumenti: il proprio difensore e il processo stesso. Il processo è innanzitutto un diritto dell’imputato. E l’arte antica della difesa ha messo a punto uno strabiliante e complesso armamentario per difendere nel processo. Contano la logica, la chiarezza, la semplicità, la conoscenza del diritto e del fatto. Ma conta anche altro: il tono della voce, un colpo di tosse, una battuta che strappi un sorriso; la passione. Conta perfino la postura. Un giudice di corte di assise una volta disse: sa come faccio io a capire se posso credere al difensore? Vi guardo negli occhi.

    Niente di strano: le informazioni passano solo con le emozioni e la capacità di suscitare l’emozione del giudice è tutt’uno con la possibilità di fare emergere le ragioni dell’imputato. Per convincere il giudice il difensore deve infatti raggiungerne, almeno in una certa misura, l’animo. In un certo senso, il giudice deve essere sedotto dalle ragioni della difesa.

    Avevamo un processo che consentiva tutto questo, basato su tre pilastri fondamentali pilastri: oralità, immediatezza, contraddittorio.

    Da venerdì 24 aprile 2020, quando la Camera dei deputati ha esteso a tutti i processi la possibilità disporre l’udienza da remoto, tutto è finito.

    Ognuno a casa propria, la voce filtrata da un microfono, miseramente ridotto nelle due dimensioni dello schermo. Un piccolo ammasso di pixel.

    Processi virtuali a persone reali.

    E difendere nel processo, ciò che ieri, in aula e con la toga sulle spalle, era difficile ma possibile, diventerà, semplicemente, impossibile. Provateci voi, se ci riuscite, ridotti nel riquadro di una web-cam. Il nostro processo, questa splendida esperienza un po’ teatrale, un po’ liturgica, è stata cancellata con un colpo di Amuchina.

    Dicono che è stato fatto per consentire alla giustizia di ripartire subito. Sbagliato: non era necessario, perché la giustizia penale non produce bene di consumo, ma condanne, e le condanne devono essere giuste, non rapide.

    Dicono che la riforma ha un termine e poi si ricomincerà come prima. Che il governo si è già impegnato a fare sostanziosi passi indietro. Quel che è certo è che intanto l’hanno fatta, ed ora è legge; poi si vedrà.

    Non bastava la quarantena, col suo infinito strascico di drammi individuali e sociali, ci hanno tolto anche il processo.

    avvocati Eugenio Losco e Mauro Straini

  • La ‘storica’ vittoria contro l’autovelox killer di viale Fulvio Testi

    E’ la strada incubo  per gli automobilisti milanesi,  presidiata da due autovelox infallibili che trafiggono chi accelera oltre i 50 chilometri orari, non trattenendo l’impulso di lasciarsi andare in quella che appare una ‘prateria’ verso il cuore della città. Le multe sono ‘virali’, quasi impossibile farsele cancellare nonostante le proteste di massa.  A rendere l’entità della questione il dato – riportato dal quotidiano ‘Il Giorno’ – che nei primi 6 mesi del 2018 gli eccessi di velocità in questa via avevano portato nelle casse comunali 7,6 milioni di euro.   Questa volta però, una siepe che ingentilisce le traiettorie di cemento ha messo al tappeto i due ‘guardiani’ della velocità.  Il giudice di pace Cinzia Pandiani ha annullato il 23 dicembre scorso una multa inflitta all’avvocato Enrico Giarda, difeso per l’occasione dalla collega di studio Pia D’Andrea perché “le riproduzioni fotografiche relative al tempo dell’accertata infrazione mostrano la segnaletica stradale verticale coperta dalle fronde e dalle foglie dei rigogliosi cespugli posti al limite della carreggiata”. Una esuberante manifestazione ‘vegetale’ che rendeva “non visibile il segnale con l’avviso di controllo elettronico della velocità”. Il Comune ha provato a difendersi consegnando alla giudice delle foto in cui si vede che “siepi risultavamo regolate e la segnaletica era ben visibile” ma non ha precisato a quando risalissero quelle immagini. Nessun dubbio quindi che il verbale datato 19 novembre 2018 andasse stracciato.  Tantissimi i ricorsi respinti negli ultimi anni contro il contestatissimo rilevatore di velocità. Per dire, il giorno in cui l’avvocato Giarda si è visto annullare la multa, 29 ricorsi erano stati respinti, il suo l’unico accolto. (manuela d’alessandro)

  • La vera sconfitta della giustizia italiana è il Davigo pensiero

    Chiunque mi conosce sa che non sono mai stato uno strenuo difensore della categoria professionale cui appartengo. Dopo oltre 30 anni che faccio questo mestiere ho imparato ad apprezzare il valore delle singole persone, indipendentemente dalla funzione che svolgono, credo forse di avere più amici tra i magistrati che tra i colleghi, perché continuo a pensare che quello che quotidianamente facciamo in tribunale, ognuno nei rispettivi ruoli, sia appunto un mestiere, e non una missione che ci divide in due “sette” esistenziali, inespugnabili e contrapposte.

    Le recenti (ed ennesime) esternazioni gravemente offensive del dottor Davigo sulla figura dell’avvocato, con tutto quello che ne è conseguito a livello di “tifo”, non sono altro che il prodotto finale di una cultura becera che da troppi anni è stata fatta passare impunemente presso l’opinione pubblica e per la quale siamo un po’ tutti colpevoli.

    Quella che per anni ha descritto ai non addetti ai lavori gli avvocati come dei furbastri che con metodi degni del peggior “azzeccagarbugli” lucrano sul crimine impunito contrastando con ogni “cavillo” il serio lavoro dei magistrati, unico baluardo impegnato a salvare il paese da una pletora di ladri.

    Basta leggere le principali argomentazioni che hanno sorretto la recente approvazione della legge sulla prescrizione, dove il principale accusato era il legale, reo di interporre impugnazioni (previste per legge), al solo fine di consentire al proprio cliente di farla franca a discapito delle vittime dei peggiori misfatti.

    O le modalità con le quali vengono quotidianamente date sui media le notizie di arresti preventivi o condanne provvisorie, in raffronto a quelle che attestano assoluzioni o scarcerazioni.

    Ogni qualvolta un pm, che fino a prova contraria dovrebbe essere una “parte” processuale al pari del difensore, arresta chi ritiene sospetto di avere commesso un delitto, i titoli parlano di “killer catturato”, “banda sgominata”, “sistema di malaffare stroncato” e “decapitata la centrale del crimine”, mentre se per ipotesi un magistrato non riesce a scrivere in oltre due anni le ragioni per le quali ha appioppato anni di galera a un cittadino (anche al fine di consentirgli una legale rivalutazione della propria posizione), si grida allo scandalo per il mafioso o pedofilo (anche se ovviamente per la legge tale ancora non è), uscito vergognosamente di galera per scadenza termini.

    Se una gigantesca costruzione accusatoria di una Procura frana miseramente al successivo vaglio del giudicante tutte quelle pagine di giornale che per mesi, e spesso anni, avevano sbattuto il mostro in prima pagina, ne riferiscono con malcelata compostezza preannunciando successivi gradi di giudizio.

    Il risultato è che ormai per la gran parte degli italiani sarebbe auspicabile che i processi venissero fatti senza l’intralcio degli avvocati e che i codici di procedura si limitassero ad indicare ai magistrati il modo più spiccio per sbattere in galera l’arrestato di turno, perché, come ha sostenuto anche il citato dottor Davigo, gli imputati si dividono in due categorie: quelli che vengono condannati e quelli che riescono a cavarsela per mancanza di prove.

    La vera sconfitta dell’attuale sistema penale italiano è questa, per mio conto. L’avere inculcato nei cittadini l’idea che il processo è una farsa se non si conclude con la condanna e che il lavoro di chi è chiamato a fare rispettare le leggi nell’interesse del proprio cliente sia non solo inutile, ma addirittura dannoso per la collettività.

    Per questo avrei gradito leggere qualche intervento in più da parte dei magistrati che sanno benissimo che la loro delicata funzione trova un senso solo se continua ad essere tutelato al massimo il diritto di difesa, perché il giorno che dovessero finire per “farsi il processo da soli”, anche loro avranno cessato di esistere.

    Avvocato Davide Steccanella

  • Consigliere multato per striscione antirazzista ricorre contro Comune

    “Milano città aperta ma dice no alle adunate fasciste e razziste”. Per avere esposto questo striscione dal proprio ufficio in occasione del raduno sovranista organizzato da Matteo Salvini, il consigliere comunale Basilio Rizzo, storico esponente della sinistra cittadina, si è visto recapitare una multa di 500 euro (massimo edittale) dalla Polizia Locale. L’accusa è quella di avere violato il Regolamento del Decoro Urbano del Comune.

    Ora, assistito da un pool di otto avvocati (Stefano Nespor, Federico Boezio, Laura Hoesch, Monica Gambirasio,  Mario Fezzi, Giovanni Cocco, Davide Steccanella, Maurizio Zoppolato), Rizzo ha depositato nei giorni scorsi un ricorso contro il ‘suo’ Comune ‘nella persona del sindaco Giuseppe Sala’  per ottenere dal Tribunale  l’annullamento dell’ordinanza di ingiunzione che gli è stata notificata il 10 settembre. Nel documento sottoposto all’attenzione dei magistrati, viene spiegato che, prima dell’inizio della manifestazione del 18 maggio a cui hanno aderito diversi leader sovranisti europei, Rizzo era stati invitato dal Presidente del consiglio comunale Lamberto Bertolé e dal vicesindaco Anna Scavuzzo a ritirare lo striscione esposto sul balcone del suo ufficio nella Galleria Vittoria Emanuele firmato  ‘Milano in Comune’, la lista civica di cui è unico rappresentante a Palazzo Marino. “Lo striscione non è offensivo e ripropone valori in cui Milano ha sempre creduto”, si era rifiutato Rizzo che, il giorno dopo, non aveva più ritrovato il vessillo. Il 20 giugno è stato convocato dalla Polizia Locale per essere sentito come persona informata sui fatti “con un riferimento a un imprecisato reato”. Qualche giorno dopo avere ribadito di essere lui il responsabile dell’esposizione e di non averlo rimosso “perché  penso che non fosse motivo di tensione ma di civile manifestazione del pensiero”, Rizzo si è visto notificare il verbale di sequestro . “Questa scritta – argomentano i legali – esprime valori costituzionali: la libertà, l’uguaglianza e l’antifascismo che, in quanto tali devono essere condivisi da tutta la comunità nazionale. E’ evidente che esporre uno striscione che inneggia a questi valori non può in alcun modo aver provocato ‘allarme sociale nella comunità’.  Inoltre, per i legali non sarebbe stato aggirato il Regolamento comunale perché non è stato violato il ‘divieto di imbrattare e deturpare segnaletica e manufatti nelle aree pubbliche’. (manuela d’alessandro)

  • Il procuratore Greco, da oggi via libera alle carte ai giornalisti

    Sono le 18 del 3 ottobre 2019 quando il sogno di ogni cronista di avere a disposizione una ‘macchinetta’ da cui fuoriescano carte giudiziarie, oltrepassando l’enorme fatica di bussare a mille porte e schivare altrettanti inviti all’inferno, inizia a diventare realtà. Il procuratore di Milano Francesco Greco consegna a una decina di giornalisti nella sua stanza le motivazioni alla decisione con cui il Tribunale del Riesame ha confermato il sequestro di documenti a carico di Gianluca Savoini, l’ex portavoce di Matteo Salvini, coinvolto nell’inchiesta sui presunti finanziamenti illeciti dalla Russia alla Lega. Bum.  Non è proprio il dispenser che con un modico gettone sputa tra le mani tutti gli oggetti del desiderio, ma un enorme passo verso quella chimera sì, lo è.  “Da oggi, si cambia – spiega Greco agli increduli interlocutori – per evitare situazioni di concorrenza sleale abbiamo deciso che, dietro pagamento della marca da bollo, vi distribuiremo copia delle carte che possiedano due requisiti: non contengano informazioni coperte da segreto e abbiamo  rilevanza pubblica. Questo in base anche alla giurisprudenza europea in tema”.

    Tutto bene? Il piatto è ghiotto, non c’è che dire. La caccia alle carte  è da sempre un’attività simile a una tappa di severissima montagna per i ciclisti del Giro d’Italia. Eppure qualche perplessità serpeggia nel gruppo. I giornalisti poveri o che non hanno rimborsi come faranno a pagarsi bolli anche da centinaia di euro? Quali criteri ispireranno la Procura nello scegliere cosa divulgare? Poi c’è anche da dire che l’atmosfera nella sala stampa milanese è simile a quella di ‘Prima Pagina’, la commedia diretta da Billy Wilder in cui i giornalisti fanno a gomitate per arrivare primi a dare la notizia e il lavoro di squadra non è contemplato. Chi s’introdurrà per primo nella stanza del procuratore sarà avvantaggiato? E gli avvocati come la prenderanno? Questa democratica macchinetta è pur sempre mossa e utilizzata da uomini e donne.

    (manuela d’alessandro)

  • La lunga estate al Csm, un dibattito per rompere il silenzio

    Un dibattito per rompere il silenzio che ha avvolto la vicenda relativa alla lunga e calda (il meteo non c’entra nulla) estate del Csm con l’emergere del ‘mercato delle vacche’ grazie a un trojan inserito nel cellulare di Luca Palamara. Il dibattito ieri sera al circolo De Amicis. Per il presidente dell’Ordine degli avvocati Vinicio Nardo il silenzio per molti versi si è rivelato salutare, ce n’era bisogno per favorire una riflessione più approfondita. Il giudice Guido Salvini come via d’uscita ha proposto una sorteggio limitato ai magistrati più votati come idonei a ricoprire un incarico, “i tre migliori per esempio”. Davide Galliani, docente di diritto pubblico, ha spiegato che il mestiere del magistrato è diventato troppo burocratizzato.

    Il giudice Fabio Roia che in passato dal 2006 al 2010 fece parte dell’organo di autogoverno “senza andare a cena con i politici” ricorda che gli avvenimenti di cui abbiamo saputo in estate sono stati un brutto colpo per l’intera categoria e bisogna trovare il modo per evitare che si ripetano. Roia ha parlato di patologia. Chi scrive queste poche righe per riassumere il dibattito si è detto d’accordo con Mauro Mellini che del Csm fece parte ed è lo storico per eccellenza della magistratura. Mellini sostiene che “i maneggi ci sono sempre stati”. Insomma allora mancava il maledetto e benedetto trojan.

    Roia ha ricordato che fu il governo Berlusconi a gerarchizzare e verticalizzare le procure dando ai capi poteri pressoché assoluti. Ho aggiunto che sì fu il governo di Berlusconi ma che in seguito della gerarchizzazione si è avvalsa Magistratura Democratica la corrente che tanti fa nacque proprio per garantire l’orizzontalità. Basta citare l’esempio di Bruti Liberati supportato da Napolitano capo dello stato nella guerra interna con Robledo.

    Il moderatore del dibattito Giovanni Maria Jacobazzi del “Dubbio” in sede di conclusione mi ha chiesto che cosa succederà adesso. Ho risposto che nel prossimo fine settimana sarà eletto al Csm il pm Nino di Matteo che pochi giorni fa ha definito “clan mafiosi” le correnti e questo è grave per un magistrato antimafia perché al Csm c’è omertà ma mancano altri elementi importanti di Cosa Nostra tipo intimidazione e violenza. “Se l’avesse detto uno di noi sarebbe stato arrestato”, ha chiosato Salvini. (frank cimini)

     

  • Boccassini in pensione, mai più una come lei

    Dopo avere letto che “Ilda Boccassini va in pensione” ho ritenuto, non lo faccio mai, di andare a salutarla nel suo ufficio, lo stesso che occupa da anni al 4° piano del palazzo di giustizia.
    Eppure non è una mia “amica”, dopo anni in cui pure a me tocca quotidianamente di frequentare quel luogo anche questo può accadere, e quella mitizzata indole persecutoria che tanto piace ai manettari in servizio permanente che affliggono il nostro paese è quanto di più distante ci sia dalla mia idea di giustizia, però mi è venuto del tutto spontaneo il farlo, perché, ne sono certo, una così, nel bene o nel male, non la incontrerò più.
    Sono passati 30 anni da quel processo Duomo Connection nel quale, sfruttando l’introduzione del nuovo codice, fu la prima ad utilizzare a piene mani, potremmo dire a piene orecchie, quelle intercettazioni ambientali che in seguito avrebbero trasformato interi settori di polizia giudiziaria in una sorta di grande fratello permanente, molto prima che Pietro Taricone desse corso a un nuovo, e non necessariamente migliore, modo di fare televisione.
    Avevo 28 anni e mi colpì sin da subito quella devozione ai limiti del maniacale allo “Stato”, sembrava di sentire la lettera maiuscola quando lo pronunciava, che le faceva affermare con orgoglio, unica tra una pletora di ipocriti e finti garantisti che in seguito ne avrebbero ereditato il peggio, che “con il nuovo codice il Pm era diventato l’avvocato della Polizia”.
    Ma lei doveva prendere i mafiosi e li prese, non tutti per vero lo erano (e qualcuno si fece pure anni di galera gratis), ma erano anni di trincea perché tre anni dopo vennero uccisi Falcone e Borsellino e lei andò giù in Sicilia a prendere anche quelli, mentre nel frattempo la Milano “da bere” si invaghiva del mito di Di Pietro, destinato in breve a scolorire, come tutti i miti mediatici che si rispettano.
    Poi tornata a Milano si occupò di chi da quel finto repulisti si era politicamente avvantaggiato e le sue battaglie contro l’allora potente clan del cavaliere ne implementarono la leggenda di castigatore degli impuniti, anche se il processo Ruby ebbe la conclusione che la stessa Cassazione ribadì che doveva avere, ma sono convinto che anche in quel caso lei fosse “convinta”.
    Detto ciò, le vanno riconosciuti alcuni meriti tutt’altro che diffusi all’interno della sua categoria.
    Per prima cosa ha sempre fatto il pubblico ministero ben guardandosi dal fare il giudice, rispettando nella sostanza, e non solo con facili slogan, il principio della separazione, oggi tanto invocato da chi invece predilige le forme.
    Per seconda cosa in quella stanza del 4° piano era e in quella stanza è rimasta fino alla fine, mentre quasi tutti i colleghi passavano, dopo qualche annetto di sbandierato “impegno sul campo” a ruoli più comodamente dirigenziali.
    Per terza cosa, se c’è qualcuno che è diventato un’icona popolare suo malgrado è proprio lei, che a differenza della gran parte dei colleghi aborriva qualsiasi esposizione mediatica, tanto che un giorno che le chiesi per conto di una delle tante congreghe che l’avevano eletta a proprio idolo (senza dirglielo) di tenere una lezione sul ruolo del pm, mi rispose che avrebbe accettato “solo se si trattava di ragazzi in età scolastica”, altrimenti di cercarmi altri illustri relatori “da convegno”.
    Per quarta cosa il suo carattere scostante con tutti quelli che non era suoi amici, giornalisti compresi, e scevro da qualsivoglia forma di opportunismo, oggi spacciato per capacità di fare pierre, la rendevano un’eroina popolare del tutto anomala, in questo, mi ricorda un po’ due tipi come Francesco Guccini e Nanni Moretti, tanto famosi e celebrati, quanto rigorosamente idiosincratici a qualsiasi ribalta mediatica.
    Infine, anche il suo anelito permanente alla punizione di ogni illegalità la rendeva immune da qualsiasi condizionamento, un po’ come quel rivoluzionario parlando del quale un giorno qualcuno che l’aveva conosciuto mi disse: “se lo avesse ritenuto utile alla causa avrebbe ucciso anche sua madre”, e sono convinto che il pm Boccassini, che invece non uccideva ma arrestava, se l’avesse colta con le mani nel sacco, avrebbe arrestato anche sua madre.
    Che poi fuori da quel palazzo fosse anche una persona dalla simpatia tutta napoletana, di grande cultura letteraria e cinematografica e con la quale era estremamente piacevole conversare non rileva, perché tanto il mito mediatico è quello del pm in servizio permanente e di quello parleranno, se non l’hanno già fatto, tutti i giornali il giorno che se ne andrà.
    E che pare sarà il giorno del suo compleanno, quello in cui i milanesi festeggiano Sant’Ambrogio, fatto che a una che ha sempre messo il lavoro sopra ogni cosa le fece immediatamente pensare, arrivando da Napoli, alla fortuna di potersene restare a casa essendo festa.
    Come tutte le personalità loro malgrado finite preda di adoratori proni o di odiatori ottusi ci sarà sempre chi ne parlerà bene e chi ne parlerà male, e molto spesso a casaccio, ma, come nel caso di altra illustre amata/odiata, Oriana Fallaci, si potrà anche discuterne la predica ma mai il…pulpito.

    avvocato Davide Steccanella

  • Un’altra inchiesta ‘riaperta’ su fatti accaduti durante Expo

    Emerge un’altra inchiesta su fatti accaduti durante Expo per cui la Procura di Milano aveva chiesto l’archiviazione e il gip l’ha respinta. Si viene a sapere, a distanza di mesi, che un gip, su richiesta dell’avvocato Roberta Guida, non ha accolto la richiesta di mettere in soffitta l’indagine per una truffa da 40mila euro ai danni di un ristoratore giordano a cui aveva ‘venduto’ uno spazio all’interno di Expo nel padiglione Basmati per vendere sushi.

    Analoga trafila – il caso è naturalmente ben diverso, ma l’iter identico – era toccata all’indagine che ha portato poi alla condanna del sindaco Beppe Sala a 10 mesi di carcere convertiti in multa per falso. Autore del presunto raggiro l’imprenditore indiano Rajesh Trivedi che, il 7 aprile 2015, aveva stipulato un contratto col cittadino giordano B.W.

    Trivedi si era presentato alla controparte sotto falso nome, affermando di essere un professore universitario presso la Amity University di Shangai. Nelle vesti di legale rappresentante della Global Foundation Ngo, con sede a Hong Kong, aveva concesso all’acquirente un chiosco sushi nel ‘Basmati Pavillion of India’ alla Lovely Arts, società nepalese di cui B.W. era socio. Quest’ultimo aveva  versato 40mila euro per poter usufruire dello spazio, ma ha poi documentato di avere potuto accedere all’area solo dopo un provvedimento di un giudice civile datato  9 ottobre 2015, pochi giorni prima della chiusura di Expo. Per accreditarsi, Trivedi aveva presentato al ristoratore una falsa lettera di accredito della Amity University destinata al general manager di Expo. A contratto concluso, Trivedi “aveva addotto variazioni arbitrarie all’accordo, imponendo alla Lovely Arts l’utilizzo di ulteriori attrezzature e allestimenti, procrastinando di volta in volta la possibilità di ultimare l’allestimento del chiosco prima dell’inaugurazione”.  Tra le altre cose, avrebbe anche minacciato telefonicamente  B.W. di non entrare nel padiglione: “Se ti fai trovare lì quando arrivo alla stand, sei morto”.     

    La Procura aveva chiesto l’archiviazione sostenendo che si trattava solo di un inadempimento contrattuale rilevante in sede civile e che non erano presenti “artifici e raggiri” tali da configurare il reato di truffa. Nell’opporsi all’archiviazione, l’avvocato Guida aveva sottolineato che “oltre a far credere che la Global Foundations avrebbe potuto vendere gli spazi espositivi, Rajesh avrebbe raccontato a B.W. “che l’operazione poteva compiersi regolarmente solo con società estere e, in particolare, vicine all’India come il Nepal perché per ragioni politiche il governo italiano, in seguito alla vicenda dei marò, non avrebbe potuto avere direttamente l’India come Stato”.  Guida aveva portato documenti e argomenti ritenuti così convincenti dalla Procura che, a giugno, il rappresentante della pubblica accusa ha chiesto la condanna a due anni per l’imprenditore. In attesa della sentenza, prevista il 25 ottobre, l’avvocato ha preannunciato che farà anche causa civile contro il presunto truffatore e chiamerà a rispondere anche la società Expo per non avere adempiuto ai suoi ‘obblighi di custodia’ nel controllare le attività di Trivedi.

    (manuela d’alessandro)

    Aggiornamento: il 21 gennaio 2020 Rajesh Trivedi è stato assolto dal Tribunale di Milano ‘perché il fatto non sussiste’.   

  • Se la caccia al pm volpe può diventare una battaglia per i diritti

    Nei torridi corridoi del Tribunale di Milano è in corso da settimane la ‘caccia alla volpe’. La curiosità corre anche sui telefoni di chi questo posto lo batte ogni giorno: “Sai chi è la volpe?”, è il tam – tam tra avvocati, magistrati e giornalisti. Il ‘safari’ è cominciato il 4 luglio quando il quotidiano ‘Il Giornale’ ha pubblicato la notizia di un pubblico ministero a cui sono stati chiesti dalla polizia i documenti durante un blitz anti – droga in un elegante club gay cittadino mentre era in corso una festa. L’identificazione non è stata immediata perché il magistrato ha dovuto riprendere panni umani  spogliandosi dal travestimento da volpe a due code.

    Il pubblico ministero zoomorfo è estraneo allo spaccio di droga e non ha nulla a che spartire con la sospensione della licenza al locale. La notizia è stata confermata da fonti investigative dopo che la sua pubblicazione ha fatto arrabbiare parecchio il Questore, a sua volta ora a caccia degli agenti ‘spioni’. Il nome della ‘volpe’ non è stato pubblicato alimentando una curiosità morbosa tra gli abitanti del Palazzo. Anche il vicepremier e Ministro degli Interni Matteo Salvini ha espresso a una cronista la volontà di sapere chi si celasse dietro il peloso mascheramento. Nel clima da ‘sotto l’ombrellone’ di questi giorni, il dibattito è aperto, con tratti anche surreali: è giusto che un pubblico ministero assuma fogge volpine in ambienti promiscui? Si pone così in una posizione di eventuale ricattabilità? In un Paese bigotto come il nostro, nonostante i progressi degli ultimi anni, il pm canide potrebbe  forse scrivere una pagina importante nei diritti civili perché sotto sotto, anche in una città illuminata come Milano, sembra che quello che inquieta di questa vicenda sia anche l’orientamento sessuale della toga.  Basterebbe un comunicato: “Sì, la volpe sono io. Anche un magistrato  gay ha diritto a divertirsi, qual è il problema?”.  Invece temiamo che l’occasione sarà perduta e non tanto per amore della riservatezza ma soprattutto per il timore del pubblico ministero di andare incontro a ripercussioni sulla sua carriera. Ma le battaglie per i diritti si possono vincere solo a volto scoperto e senza abbassare la coda.

    (manuela d’alessandro)

  • Pm nega rinvio udienza all’avvocato che vuole vedere il figlio nascere

    Il tasso di natalità è ai minimi storici ma la giustizia di certo non lo aiuta a rianimarsi. Dopo il legittimo impedimento negato a giugno all’avvocatessa Monica Bonessa, incinta all’ottavo mese, a Milano si registra un caso di insensibilità nei confronti di un futuro padre. Accade durante un’udienza preliminare a carico di 17 persone accusate di riciclaggio davanti al gup Alessandra Simion. Al momento di stilare il calendario delle future udienze e di fronte alla prospettiva suggerita dal giudice di fissarle il 19, 20  e 21 novembre prossimo, un difensore romano fa presente che quelli sono i giorni in cui è previsto il parto della compagna. Il pm (donna) ribatte: “La sua presenza non è necessaria”. Tecnicamente nulla da dire, ma tra le pieghe del diritto e della logica ci sarà pure spazio per un po’ di tenerezza. Il legale incassa con un certo aplomb, limitandosi a osservare: “Questa è una sua opinione”. Sconcerto tra gli altri avvocati in aula ma provvede la giudice sistema le cose  prendendo atto dell’indisponibilità del difensore e anticipando le udienze al 13 e 15 novembre. Il futuro papà incrocia le dita sperando che la creatura non abbia fretta di venire al mondo. (manuela d’alessandro)
  • Perché a Milano non c’è una nuova Tangentopoli

    Lo dicono nei corridoi alcuni cronisti e  magistrati di più lunga memoria, lo ha sostenuto Luigi Di Maio. “A Milano è in corso una nuova tangentopoli”. Ma è proprio così?

    Certo l’attività tra il quarto, il quinto e il sesto piano del Palazzo di Giustizia è febbrile. Gente che entra ed esce in continuazione dagli uffici dei 4 pubblici ministeri impegnati nell’inchiesta che ha portato all’arresto di due uomini di Forza Italia (Fabio Altitonante e Pietro Tatarella), alla richiesta di domiciliari per un altro (Diego Sozzani), all’iscrizione nel registro nel registro degli indagati dell’eurodeputata azzurra Lara Comi, del Presidente della Regione Lombardia, il leghista Attilio Fontana, e del vertice della Confindustria lombarda, Marco Bonometti. Le notizie escono dalle stanze dei magistrati con una certa facilità, forse anche, come accadeva nel 1992, per creare un clima che invita chi sa di avere qualcosa da chiarire a presentarsi in Procura. In effetti, sono numerosi gli imprenditori che sono corsi a farsi ascoltare. Qualcuno, entrato come testimone, ne è uscito da indagato, ma certo con una posizione più ‘leggera’ che se non fosse andato di sua spontanea volontà a raccontare quel che sa. Addirittura c’è un nome in comune tra le carte ingiallite della vecchia tangentopoli e quelle fresche dell’inchiesta ‘Mensa dei poveri’, così definivano gli indagati il ristorante Berti di Milano, vera tappa per gourmand a dispetto dell’umile definizione e punto strategico, a due passi dalla  Regione, indicato come sede dei presunti intrallazzi. E’ quello dell’allora socialista Loris Zaffra, fedelissimo di Bettino Craxi, che però qui non è indagato ma solo citato in qualche intercettazione. 

    Eppure gli albori della Tangentopoli che  travolse la nuova Repubblica  (25400 avvisi di garanzia, oltre 4500 arresti) appaiono diversi, sotto diversi aspetti, da quelli di questa indagine degli anni duemila a cui per contiguità territoriale può essere affiancata quella che ha portato la Procura di Busto Arsizio all’arresto di mezza giunta leghista di Legnano. 

    E’ molto differente il contesto politico. Allora c’era un  sistema che stava finendo, era caduto il Muro di Berlino cancellando nelle urne la pregiudiziale contro i comunisti: gli elettori sapevano che avrebbero potuto non votare più il blocco dei ‘partiti di sistema’, come la Democrazia Cristiana e il Partito Socialista. Ora al governo c’è un partito, il Movimento 5 Stelle, che ha fatto del grido ‘Onestà, onestà’ il suo motto e un altro, la Lega, il cui leader Matteo Salvini, non perde occasione per sottolineare di essere contro i ‘poteri forti’, pur essendo alla guida del Paese. 

    Altro elemento peculiare della nuova indagine è che gli ipotizzati finanziamenti illeciti qui non sono destinati ai partiti, come accertò il pool Di Pietro – Borrelli – Colombo – Davigo, ma ai singoli politici, come Altitonante e Tatarella. Non ai segretari dei maggiori partiti con la complicità dei tesorieri come accadde negli anni Novanta. 

    L’entità delle somme di denaro delle presunte corruzioni è davvero bassa. La prima tangente, quella da 7 milioni consegnata a Mario Chiesa nel suo ufficio del Pio Albergo Triulzio, era una cifra enorme rispetto alle poche  migliaia di euro a cui si fa riferimento nelle ipotesi accusatorie dei pm di Milano e Busto.  Emergono invece piccoli favori personali, come la sistemazione della sorella nel caso dell’assessore al commercio di Cassano Magnago (Varese) che avrebbe consegnato al politico di Forza Italia Gioacchino Caianiello una busta da 5mila euro, spiegando in un’intercettazione che si tratta della “decima parte” dell’incarico ottenuto dalla sorella in una società pubblica.

    Ora, sempre stando agli schemi tracciati dalle Procure tutti ancora da accertare con sentenze, il movimento della corruzione va dal politico all’imprenditore e non viceversa. All’epoca di tangentopoli, la politica aveva ben altro nerbo e chi voleva accaparrarsi appalti e affari andava a cercare scorciatoie dai politici. Qui gli imprenditori sembrano impegnati a  ‘coltivarsi’ politici di non alto livello, come nel caso dell’arrestato Daniele D’Alfonso, che sarebbe arrivato a pagare le ferie a Tatarella (“Minchia, questo preleva come un toro”, si indigna in un’intercettazione mentre il forzista è in vacanza in Sardegna) per ricevere ‘scorciatoie’ nella sua attività nel settore delle bonifiche ambientali. 

    In tangentopoli, a parte in Sicilia, la mafia non compariva negli episodi di corruzione contestati dalle procure. Qui abbiamo uno dei personaggi cardine dell’indagine, D’Alfonso, a cui viene addebitata l’aggravante mafiosa perché avrebbe messo a disposizione gli appalti vinti in modo illecito a uomini e mezzi del clan ‘ndranghetista dei Molluso. Anche se l’indagine, con l’assegnazione alla Dda, nasce da accertamenti sull’imprenditore Renato Napoli, che, citato in alcune informative di operazioni sulla ‘ndrangheta, in realtà non è mai stato condannato per mafia e giustamente lo rivendica attraverso il suo difensore.     

    L’uso del carcere sembra più moderato. Delle 72 misure cautelari chieste a Milano ne sono state concesse dal gip solo 43 e molte sono ‘obblighi di firma alla polizia giudiziaria’.  Due sue tre degli arrestati a Legnano sono ai domiciliari. Tangentopoli è stata la stagione della prigione preventiva, con una lunga scia di suicidi che ha portato, a distanza di anni, a una profonda riflessione anche da parte di uno dei magistrati del pool Gherardo Colombo, che oggi porta nella scuole la sua idea di inutilità del carcere stimolando a una svolta culturale contro la corruzione e ha dichiarato pochi giorni fa in un’intervista al Corriere della Sera: “La politica è meno colpevole del cittadino”. (manuela d’alessandro)