Condannato per droga a casa sua, in Albania, grazie anche a indagini italiane. Pena già interamente scontata. Stessi fatti, stessi tempi, stesse contestazioni: “non vi è dubbio”, scrive il giudice. Ma siccome adesso è l’Italia a volerlo processare, dei suoi quattro anni e rotti passati in carcere a Kruje, il nostro Paese francamente se ne infischia.
E.F. finisce in un’inchiestona della Dda di Milano nei primi anni del millennio. Richiesta d’arresto del 2005, cioè 16 anni fa, per traffico internazionale di droga. Arriva la condanna, 6 anni e 8 mesi. Di galere, intanto, incontra quelle patrie. La Procura di Milano ha contribuito con i suoi atti d’indagine all’inchiesta del procuratore di Tirana, con tanto di incontro tra magistrati avvenuto in Albania nel 2005. Oggi la procura di Milano insiste per processare di nuovo E.F.. Per gli stessi identici fatti. A dirlo non è solo il suo legale italiano, Daniele Sussman Steinberg, che da mesi chiedendo il proscioglimento sollevando in aula la questione, ma lo stesso giudice a cui viene posta.
“Non vi è dubbio – scrive il gup Roberto Crepaldi – che i fatti per i quali si è proceduto in Albania costituiscono i medesimi per i quali è a processo oggi: la lettura della sentenza consente di comprendere come il procedimento estero si sia svolto, a carico di E.F., in relazione al delitto di traffico di sostenze stupefacenti (quattro episodi) e si sia concluso con la condanna alla pena di anni 6 e mesi 8 di reclusione. Inoltre, la stessa motivazione della sentenza della Corte evidenzia che si tratti di procedimenti fondati sui medesimi atti di indagine, portati avanti in sinergia dalle autorità inquirenti dei due Paesi. Ciò non è, tuttavia, sufficiente a comportare la (automatica) improcedibilità dell’azione penale: dando per scontata l’esatta corrispondenza tra i fatti per cui si procede e quelli già giudicati in Albania – argomenta Crepaldi – vi è un ostacolo giuridico di un’automatica preclusione derivante dal bis in idem“. Cioè: sappiamo benissimo che hai già pagato per i reati che hai commesso, ma ti riprocessiamo comunque. Com’è possibile? C’è un “difetto di accordi bilaterali”, spiega il giudice, e dunque non è preclusa la “rinnovazione del giudizio in Italia per gli stessi fatti, non essendo quello del ne bis in idem un principio generale del diritto internazionale”. Non basta “la Convenzione sul trasferimento delle procedure penali, aperta alla firma a Strasburgo nel 1972 ma mai ratificata dall’Italia”. E neppure il richiamo alla Carta di Nizza, essendo l’Albania “estranea al territorio dell’Unione europea”. Del resto il ne bis in idem è solo “un principio tendenziale cui si ispira oggi l’ordinamento internazionale”. E allora si rigetta l’istanza della difesa e si dispone il procedersi oltre. A processo, di nuovo, per gli stessi fatti, con le stesse prove, quelle di 16 anni fa. Poi un giorno, magari, alla fine del processo, dopo udienze celebrate, soldi spesi, vedremo quel che accadrà…intanto viva bis in idem.
Nel frattempo l’albanese, riarrestato in Italia per la seconda tranche della stessa inchiesta e poi messo ai domiciliari, nel 2015 ha pensato bene di darsela a gambe e tornare in Albania, dove si è fatto una famiglia e ha dei figli. Difficile negare che dal suo punto di vista la fuga dalla giustizia italiana abbia una sua razionalità.
Categoria: ‘Ndrangheta e affini
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Pena già scontata in Albania, per l’Italia non conta
Di nuovo a processo col ‘viva bis in idem’ -
Il no della ‘decaduta’ Boccassini all’incarico proposto da Greco
Gestire Ilda Boccassini non più procuratore aggiunto, diciamo a fine carriera, deve essere difficile, per il carisma del personaggio, quanto lo fu avere a che fare con Francesco Totti per l’allora mister romanista Luciano Spalletti. Da ottobre Ilda non è più procuratore aggiunto della Dda ma semplice sostituto per motivi di età. Non può essere messa a capo di un altro pool e nemmeno stare ancora all’antimafia, di cui si può far parte per un massimo di dieci anni.
Che fare? Il procuratore Francesco Greco – i rapporti tra i due sono sempre stati alterni ma al momento paiono burrascosi – aveva pensato di metterla a capo della Sezione Distrettuale Misure di Prevenzione, uno dei 4 ‘quasi dipartimenti’ da lui creati (gli altri sono Antiterrorismo, Esecuzione Penale e Portale). Ma alla magistrata, protagonista di tante inchieste antimafia e nemico pubblico numero 1 di Silvio Berlusconi, l’offerta non ha garbato per nulla come si evince anche da uno scambio epistolare tra i due che Giustiziami ha potuto leggere.
Nel primo documento, datato 30 novembre, Greco scrive che “l’incarico di coordinatore della Sezione Misure di Prevenzione risulta assegnato dall’11 gennaio 2010 alla dottoressa Ilda Boccassini e dunque non è vacante” e non va messo a bando come gli altri tre di nuova creazione.
A stretto giro, Boccassini risponde che a suo avviso va invece fatto un bando “in modo che tutti i sostituti abbiano la possibilità di concorrere manifestando, comunque, la mia volontà di non parteciparvi” e sostiene che la responsabile attuale delle Misure di Prevenzione sia Alessandra Dolci (futura aggiunta della Dda) e non lei. L’ultima parola al capo: “Si rileva che l’incarico, avendo durata decennale, scade in data 10 gennaio 2020. Pertanto solo in tale data sarà vacante. Allo stato non esistono i presupposti per l’interpello”.
Al di là di questo scambio formale, vengono segnalati più episodi indicativi di una forte tensione tra i due magistrati. Uno, in particolare, con urla della pm all’indirizzo di Greco. Cosa farà ora l”ingombrante’ Boccassini nei due anni prima della pensione? Secondo alcuni suoi colleghi, avrebbe voluto che Greco assumesse l’interim alla Dda lasciando lei a fare il capo ‘di fatto’ e posticipando l’incoronazione di Alessandra Dolci a capo dell’Antimafia.
(manuela d’alessandro)
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La sentenza Riina parla di tutti noi anche se ci fa ribrezzo
La sentenza della Cassazione su Totò Riina non parla di pietas, di perdono, di pentimento. E’ bene leggerla prima di esprimersi.
Parla invece dei diritti fondamentali dell’uomo e lo fa scegliendo parole importanti che vanno ben al di là del ‘capo dei capi’ e ci riguardano tutti, anche se oggi ci ripugna ammetterlo. E’ una sentenza che parla anche di chi va a morire all’estero per avere una fine dignitosa perché, come scritto dai pm milanesi del caso Cappato – Dj Fabo, esiste un “diritto alla dignità garantito sia dalla Costituzione che dalla Convenzione europea”. Parla anche dei nostri vecchi genitori quando negli ospedali o negli ospizi vengono brutalizzati perché non possono difendere la loro estrema dignità di esseri viventi. E ne parla con in mano la nostra costituzione e la legge, quindi se si vuole criticare questa sentenza bisogna farlo usando il suo stesso linguaggio.
Bisogna allora spiegare con le categorie del diritto perché per Riina non valga la “giurisprudenza costante di questa Corte affinché la pena non si risolva in un trattamento inumano e degradante, nel rispetto degli articoli 27 della Costituzione (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”) e 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (“Nessuno può essere sottoposto a totura né a pene né a trattamenti inumani o degradanti”)”. “Lo stato di salute incompatibile con il regime carcerario – scrivono i magistrati citando diverse pronunce – idoneo a giustificare il differimento dell’esecuzione della pena per infermità fisica o l’applicazione della detenzione domiciliare della persona non deve limitarsi alla patologia implicante un pericolo di vita per la persona, dovendosi piuttosto avere riguardo a ogni stato morboso o scadimento fisico capace di determinare un’esistenza al di sotto della soglia di dignità che deve essere rispettata pure nella condizione di restrizione carceraria”.
Bisogna allora avere davanti le cartelle cliniche di Riina, che sappiamo avere 87 anni, essere immobile dalla vita in giù, col respiratore, due tumori, il Parkinson, un filo di voce, e dimostrare che le sue attuali condizioni non siano al di sotto di quella soglia di dignità.
Bisogna anche spiegare se la sua “pericolosità possa considerarsi attuale in considerazione della sopravvenuta precarietà delle condizioni di salute”. Ma chiarirlo bene, con cura. Perché non basta dire che nel 2013 nel cortile di Opera minacciava di uccidere nell’ora d’aria, peraltro durante quel regime di 41 bis che dovrebbe garantire l’assoluto isolamento oggi invocato da chi non vuole scarcerarlo. Sono passati 4 anni: il magistrato Felicia Marinelli, che ha in carico la questione, è in grado di dimostrare che in questo momento Totò Riina è ancora un uomo pericoloso? A questo domande per fortuna risponderà, in diritto, un Tribunale.
(manuela d’alessandro)
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Ferrara in aula scatenato contro Di Matteo: “La sua inchiesta ha deformato il cammino della giustizia”
E’ un Giuliano Ferrara “sulfureo” (definizione sua), vecchio animale da talk show liberato in un’aula di Tribunale, quello che si difende dall’accusa di diffamazione per avere definito, tra le altre cose, una “spaventosa messa in scena predisposta e avviata per perseguire finalità politiche” l’indagine Stato – Mafia condotta dal pm di Palermo Antonino Di Matteo.
“I processi contro i giornalisti si fanno nella Turchia di Erdogan, non in Italia dove si risponde solo per l’ articolo contestato “. Col tocco duro da padrone del salotto, zittisce così il legale di Di Matteo, l’avvocato Roberta Pezzano, mentre prova a mettere in fila tutti i corsivi malvagi scritti in passato dal fondatore del ‘Foglio’ contro il suo assistito. Ma la sensazione è che qui davvero si celebri un processo all’inchiesta palermitana con Ferara che divide le squadre in campo: “Da una parte ci sono gli italiani che dicono che un potere segreto dello Stato ha alimentato il rapporto con la mafia, dall’altra chi pensa, come me, che fosse in atto una campagna politica e civile attraverso Ingroia e Di Matteo e delle piattaforme di ridondanza che deformava il cammino della giustizia”. Ce l’ha in particolare con le intercettazioni carpite nel carcere di Opera tra Totò Riina e Alberto Lo Russo, presunto affiliato alla Sacra Corona a un certo punto affiancato al boss in regime di 41 bis e sospettato da Ferarra di appartenere ai servizi: “Alcune dichiarazioni erano sicuramente reali quando Riina dice di voler uccidere un magistrato, altre erano una messa in scena, come quelle che riguardano Napolitano , prive di qualunque elemento probatorio, ma entravano nella campagna alimentata non tanto da Di Matteo, quanto da alcuni ambienti politici”. E ancora: “Quando si mettono in mezzo Napolitano, il generale Mori e De Gennaro, il braccio armato di Falcone, c’è qualcosa che non va nell’amministrazione della giustizia. Se per assatanati in toga si intendono i magistrati che fiancheggiano partito o movimenti politici allora sì, Di Matteo lo è “. Ma, per l”elefantino’ (firma della casa sul ‘Foglio’), “non c’è ombra di diffamazione. Penso che a Di Matteo abbia dato fastidio il linguaggio incontinente che ho usato e l’interpretazione che ho dato, che ci fosse un pregiudizio sfavorevole del suo lavoro di magistrato e del suo prolungamento politico, la sua vocazione civile, per non dire etica, a fare di questo processo il processo della sua vita e della sua carriera di magistrato”.
(manuela d’alessandro)
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35 anni dopo, fu vera gloria la legge sui pentiti?
Il 29 maggio 1982, durante quella che venne definita “emergenza terrorismo” veniva approvata in Italia la Legge n. 304 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 149 del 2 giugno) dal titolo “Misure a difesa dell’ordine costituzionale”. La cosiddetta “legge sui pentiti” introduce all’art. 3 notevoli sconti di pena per chi “rende piena confessione di tutti i reati commessi e aiuta l’ autorità di polizia o giudiziaria nella raccolta di prove decisive per la individuazione o la cattura di uno o più autori di reati commessi ovvero fornisce comunque elementi di prova rilevanti per la esatta ricostruzione del fatto e la scoperta degli autori di esso.”
In tal caso” si legge “la pena dell’ergastolo è sostituita da quella della reclusione da dieci a dodici anni e le altre pene sono diminuite della metà, ma non possono superare, in ogni caso, i dieci anni”. Al secondo comma del medesimo art. 3 si legge che quelle pene già ridotte sono ulteriormente diminuite fino ad un terzo “quando i comportamenti previsti dal comma precedente sono di eccezionale rilevanza” e in tal caso è prevista, si legge al successivo art. 6, “la libertà provvisoria con la sentenza di primo grado o anche successivamente quando, tenuto conto della personalità, anche desunta dalle modalità della condotta, nonché dal comportamento processuale, il giudice possa fondatamente ritenere che l’imputato si asterrà dal commettere reati che pongano in pericolo le esigenze di tutela della collettività.”.
All’inizio la Legge verrà aspramente criticata da molti cultori del diritto e alcuni giudici milanesi scriveranno, in una Sentenza del 1983, che “spoglia il magistrato della sua dote più sacra, l’imparzialità assoluta nei confronti di chiunque e comunque delinqua» (cfr. Sentenza 20/83, pag. 99).
Tra i casi che destano più “scalpore” nell’opinione pubblica quello dell’ex BR Patrizio Peci, che a fronte di 7 omicidi confessati (più numerosi ferimenti) uscirà dal carcere dopo soli 3 anni e mezzo in regime di protezione, quello del milanese Marco Barbone, scarcerato dopo poco più di 2 anni dal suo arresto al termine del processo di primo grado per l’ omicidio di Walter Tobagi, e quello dell’ex piellino Michele Viscardi, tra i responsabili dell’omicidio del giudice Guido Galli, che sconterà una pena inferiore a quella del settantenne ex partigiano bolognese Torquato Bignami denunciato dal Viscardi per avere prestato al figlio Maurice (anch’egli di Prima Linea) un appartamento a Sorrento, dove fu ricoverato il Viscardi stesso perché ferito in un conflitto a fuoco dopo una rapina a Ponte di Cetti (Viterbo), in cui erano rimasti uccisi i carabinieri Pietro Cuzzoli e Ippolito Cortellessa. (altro…)
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Chi spia sul tavolo di Ilda Boccassini?
Qualcuno che, per il momento, non ha ancora un volto, spia sul tavolo di Ilda Boccassini e riferisce agli indagati. Qualcuno che parrebbe essere in confidenza col magistrato per avere avuto accesso alla sua stanza e al fascicolo. E’ quanto emerge dagli atti dell’inchiesta che ha portato al commissariamento di 4 direzioni generali della Lidl Italia e all’amministrazione giudiziaria della società che gestisce la sicurezza del Tribunale di Milano per infiltrazioni mafiose.
L’indagine, spiega il gip Giulio Fanales, è stata caratterizzata da una sequela di fughe di notizie perché i componenti della presunta associazione a delinquere legata al clan dei Laudani “vantano un rilevante ‘capitale’ di relazioni personali, idonee a procurare informazioni sensibili circa le indagini penali pendenti. Si tratta di una rete di rapporti, intrattenuti dagli associati, con soggetti esterni all’ organizzazione e vicini agli organi di polizia, in grado di rivelare notizie coperte dal segreto d’ufficio, in merito alle indagini in corso”.
E tra gli episodi citati spunta quello che vede protagonista una persona”che ha modo di rivelare, ad uno degli indagati, quanto appreso visionando direttamente il fascicolo dell’ indagine sul tavolo di lavoro del Procuratore Aggiunto della Repubblica, responsabile della Direzione Distrettuale Antimafia di Milano, llda Boccassini”. Tra i “non identificati” oltre all’ignoto voyeur nell’ufficio di Ilda, figurano anche “il capitano della Guardia di Finanza precedentemente impegnato nel compimento di atti relativi alla verifica fiscale nei confronti del Ferraro (uno degli indagati, ndr) e il maresciallo della Guardia di Finanza di Lissone, confidente della moglie del Ferraro”. E’ stato invece dato un nome a un altro ‘informatore’, un tenente colonnello in servizio presso il Nucleo di Polizia Tributaria di Como della Guardia di Finanza”. Proprio le Fiamme Gialle di Varese hanno condotte le indagini assieme alla Squadra Mobile della Questura di Milano. (manuela d’alessandro)
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Mafia, a Opera i detenuti leggono i nomi delle vittime e incontrano i familiari
C’è il silenzio denso e la ritualità assorta delle cerimonie mistiche. Stanno in coda, stringendo il foglio con la lista. Uno a uno, chi con voce tenue, chi spavalda, si avvicinano al leggio in ferro e pronunciano con cura i nomi, ripetendoli quando inciampano nel pronunciarli.
Il pubblico è diviso a metà: sulla sinistra i condannati in regime di massima sicurezza, a destra quelli che devono scontare pene per reati meno gravi. In tutto sono più di un centinaio. Tra loro i familiari delle vittime e chi li accompagna ogni giorno nelle strade della prigionia. Arrotolano il foglio, tornano in platea e danno le mani a chi li aspetta, anche agli agenti delle polizia penitenziaria.
“Sono stato combattuto fino all’ultimo perché non me sa sentivo di sporcare quei nomi con la mia voce. Mi sono detto ‘mi alzo o non mi alzo’, poi alla fine la mia coscienza mi ha suggerito ‘alzati, devi fare qualcosa’”. A Opera va in scena quella che il direttore Giacinto Siciliano, padre dell’iniziativa a cui ha aderito anche ‘Libera’, definisce “una prima assoluta in un carcere italiano”. Alcuni detenuti per reati di sangue salgono sul palco dell’auditorium per ricordare i 940 nomi delle vittime della mafia e, al termine della lettura, incontrano una decina di familiari caduti per mano della criminalità organizzata, dando vita una discussione carica di emozioni e contenuti.
L’idea era nata a settembre durante uno scambio tra la mamma di una ragazza uccisa e dei carcerati nell’ambito delle attività del Centro per la giustizia riparativa e la mediazione penale del Comune di Milano e del Gruppo della Trasgressione.
Quello che provano adesso lo raccontano loro, col viso rivolto ai parenti delle vittime accanto ai quali occupano le dieci poltrone bianche sul palco, vuote durante la lettura.
“Mentre leggevo i nomi, mi sono venute in mente le persone che ho ucciso io. Mi è venuta in mente la prima volta che ho ucciso un uomo e la soddisfazione che ho sentito. Quell’uomo si chiamava Roberto. Fino a che sono entrato in carcere, non mi ricordavo come fosse fatto, poi, dopo il lungo lavoro che ho fatto qui dentro, ho cominciato a mettere a fuoco lui, i suoi figli. In quel momento è cominciata la sofferenza ma anche la purificazione. Il nostro dolore è diverso dal vostro che, come vittime, dimostrate una grande apertura dialogando con noi. Cosa possiamo fare per riparare? Noi del Gruppo della Trasgressione ci stiamo relazionando coi ragazzi in bilico che incontriamo nelle scuole. Questo è il nostro modo per dire che siamo vivi, per dare un senso al nostro passato. Il vostro coraggio è un modo per darci forza”.
“La voce mi tremava, mi sono sentito piccolo piccolo davanti a voi. Quando dall’altra parte c’è chi, come voi, non guarda il reato ma la persona, si avverte una grande forza dentro. La parola perdono è una parola grande, però il dialogo mi fa vivere”. (altro…)
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Quando chiudiamo gli occhi ‘la mafia siamo noi’
Dov’è la mafia? La mafia è qui, basta allungare una mano e palparne la consistenza oscena nella pagine del libro del cronista giudiziario milanese di ‘Repubblica’ Sandro De Riccardis. Se volete toccare la potenziale Cosa Vostra, annusarla e valutare se ce l’avete addosso anche voi o chi vi sta accanto o i vostri eroi, questo è il libro giusto.
– Sandro, perché la mafia siamo noi?
– La mafia non è un corpo a sé stante, separato dalla società, non c’è il nero o il bianco di due mondi distinti. Qui parliamo soprattutto del comportamento di quella che si considera la parte sana e che invece non lo è per indifferenza o per connivenza.
– Ha qualcosa a che fare anche coi ‘professionisti dell’antimafia’ di Sciascia?
– Diciamo che quello che teorizzava Sciascia nel 1987 ha valore oggi, ma non all’epoca in cui lo scrisse. In quel momento lui colpì le persone sbagliate, come Falcone. Oggi invece esiste davvero un’antimafia fatta di parole vuote a cui non corrisponde un concreto impegno sul territorio e per la legalità.
– Addirittura, tu scrivi, c’è un’antimafia che piace alla mafia…
-Si, e gli esempi che faccio sono tanti a cominciare da Bernardo Provenzano che da’ il via libera dalla latitanza all’ex presidente del consiglio comunale di Villabate per costituire un’associazione antimafia che poi organizzò una bella manifestazione contro Cosa Nostra con tanto di premio all’attore Raul Bova, interprete della fiction ‘Ultimo’.
– E poi ci sono i tanti, presunti paladini dell’antimafia.
-Una per tutti, Rosy Canale, icona molto attiva dell’antimafia calabrese che girava l’Italia con uno spettacolo teatrale in cui raccontava la sua storia di imprenditrice minacciata dai clan e costretta a chiudere il suo locale. Fonda il ‘Movimento delle donne di San Luca’ e promuove il progetto di una ludoteca nella terra delle faide. Ma una mattina l’arrestano per truffa e peculato perché, risulta dalle intercettazioni, usa i finanziamenti ottenuti con quella che lei stessa definisce “la favolata della legalità” per spese personali: mobili, auto, settimana bianca.
– Come facciamo nella vita quotidiana ad accorgerci se la mafia è anche Cosa Nostra?
– A Milano la mafia si declina soprattutto nel riciclaggio. Possiamo farci della domande su locali nati dal nulla e che sono quasi sempre vuoti. Spesso alle spalle non hanno degli imprenditori ma dei prestanome che li utilizzano per ‘lavare’ i capitali sporchi. Leggiamo i giornali, procuriamoci carte giudiziarie o documenti della Prefettura quando c’è un’inchiesta che riguarda il nostro territorio. Non è sempre facile, certo. Pensiamo al circolo ‘Falcone – Borsellino’ di Paderno Dugnano dove si svolgevano le riunioni dei boss in Lombardia. Era gestito dall’Arci, che non si accorse di nulla. Una storia esemplare che racconto è poi quella dei liceali di ‘Cortocircuito’ che, grazie a una semplice visura camerale, si sono accorti di organizzare la festa di fine anno scolastico in un locale legato alla criminalità. E poi si deve fare rete con chi denuncia. In Lombardia un solo imprenditore ha avuto il coraggio di farlo. Un uomo solo, come lo fu all’inizio Libero Grassi a Palermo.
– La parte più intensa del tuo libro è quella dove parli della giustizia riparativa. Perché hai inserito questo capitolo tra tante storie di denuncia?
– Molte vittime hanno l’esigenza di non restare chiuse nel dolore e di dare un senso alla perdita del loro caro. E incontrano chi ha fatto i conti col proprio passato e ha deciso di mettersi accanto a chi vuole sconfiggere i clan. Non stiamo parlando dei pentiti e del pentitismo che è un fenomeno utilitaristico. Ci sono tante storie di chi ha già scontato la pena e ha voglia di cambiare vita. Penso a Marisa Fiorani che perde la figlia uccisa a colpi di pietra dopo che era finita nella Sacra corona unita. Il suo racconto nel carcere di Opera porta alcuni detenuti ad aprirsi e a parlare di sé. O ai genitori di Michele Fazio che incontrano un ragazzo parte del commando che ha ucciso il figlio dopo che ha finito di scontare la pena. (manuela d’alessandro)
‘La mafia siamo noi’ di Sandro De Riccardis. Add editore, 238 pagg., 15 euro. Presentazione a Milano il 4 marzo alle ore 18 alla libreria ‘Centofiori’.
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“Il marcio su Roma”, quando la politica è peggio dei clan
“La politica sta facendo il possibile per perdere l’occasione. La via d’uscita in fondo è semplice: sostituire il necessario processo politico al funzionamento di un sistema politico con un processo penale contro la ‘mafia romana” usando Massimo Carminati e Salvatore Buzzi come parafulmini”. “Il marcio su Roma”, 186 pagine, 15 euro, Cairo Editore, scritto dal giornalista del manifesto Andrea Colombo, mette il dito nella piaga, è senza ombra di dubbio l’analisi più fredda sulla vicenda demoninata “Mafia capitale”.
Colombo giustamente privilegia il parlare di politica perchè come sempre accade in casi del genere l’aspetto penale è quello meno interessante. Intanto ci vorrà qualche anno per arrivare a stabilire se dal punto di vista tecnico-giuridico operò un’associazione mafiosa o si trattò solo di una storia di grande corruzione, grande ma non grandissima dal punto di vista delle cifre. Siamo infatti a livello molto inferiore a quello di Expo e ciò sarebbe stato molto chiaro se la mitica procura di Milano avesse indagato sugli appalti dell’evento invece di decidere una moratoria per la quale il premier Renzi ha ringraziato pubblicamente due volte i magistrati definendo il tutto “sensibilità istituzionale”. In parole povere l’aggiramento dell’obbligatorietà dell’azione penale.
Tornando a Roma, “la presenza a pari merito di tutte le forze politiche, destra, centro cattolico e sinistra impedisce per una volta di adoperare lo scandalo solo come argomneto di facile propaganda contro gli avversari. Stavolta non si può dire: quelli sono corrotti non noi, non può dirlo nessuno – chiosa Colombo – il problema non può essere affrontato nei termini di una politica distratta che ha permesso il proliferare delle mele marce ma deve essere posto nei termini di un sistema che non è tale solo nella capitale”. Er sistema, appunto.
Il libro di Andrea Colombo smentisce dati e fatti alla mano che il sistema fosse sostanzialmente sano fino alla vittoria di Alemanno, dal momento che già nell’era Veltroni erano presenti quasi tutte le denegerazioni di cui poi si sarebbe avvalsa l’associazione di Carminati. La cooperativa “29 giugno” “passa da normale cooperativa sociale a potenza tentacolare con Veltroni ed è difficile credere che Luca Odevaine, suo capo di gabinetto fosse allora una perla mutatasi poi in gaglioffo per sortilegio”. Insomma “Mafia capitale” nacque “a sinistra”. E pure su questo si dovrebbe riflettere, ma non lo fa nessuno. La politica delega ai magistrati la risoluzione di problemi sociali, politici e culturali. Accade da quasi 40 anni nell’ex culla del diritto. “Mafia capitale” non è un’eccezione (frank cimini)
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No dal Tribunale per i 100mila euro in 6 mesi al nuovo direttore scelto da Fiera Milano
Non piace al Tribunale il candidato scelto da Fiera Milano spa per la successione di Enrico Mantica alla guida di Nolostand, la società commissariata nell’ambito dell’inchiesta su presunte infiltrazioni mafiose anche negli appalti legati a Expo. A quanto apprende Giustiziami, il nome designato per la carica di direttore tecnico sarebbe quello di Bruno Boffo, già vicedirettore generale dell’ente tra il 1998 e il 2009. Un manager di assodata esperienza e conoscenza degli ingranaggi del gigante fieristico che tuttavia presenterebbe due pecche agli occhi dell’amministratore giudiziario Piero Capitani. Anzitutto non rappresenterebbe una sufficiente “discontinuità” rispetto al passato, in quanto ex figura preminente di Fiera Milano. Una cesura ritenuta necessaria dal Tribunale che già aveva ottenuto le dimissioni dell’intero cda di Nolostand. Mantica non era indagato ma è stato rimosso per contatti con imprenditori ritenuti vicini a Cosa Nostra.E poi, fatto non secondario, avrebbe suscitato perplessità la decisione presa dal Comitato per la Remunerazione di Fiera Milano, di cui fa parte anche l’esponente del Pdl Licia Ronzulli (oltre ad Attilio Fontana e Romeo Robiglio) di determinare un compenso di 100mila euro lordi per sei mesi da versare a Boffo. Una somma ritenuta spropositata che in Fiera forse ritengono necessaria per indurre il manager a dedicarsi anima e cuore a un’impresa difficile: rimettere in pista una società squassata dall’indagine milanese in vista di appuntamenti decisivi in programma già a settembre. (manuela d’alessandro)
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Le gravi ‘dimenticanze’ di Fiera ed Expo sui controlli per mafia
C’è una crepa nel muro di controlli che avrebbe dovuto proteggere Expo dalla mafia. Eppure ieri Roberto Maroni aveva rassicurato tutti (si fa per dire, visti gli esiti dell’inchiesta): “Dalla Direzione investigativa antimafia arrivò il via libera per Dominus”.
Invece ora si viene a sapere che Expo e Fiera ebbero un’amnesia fatale sulla società al centro dell’inchiesta che ha portato a 11 arresti a cui Nolostand spa, la controllata da Fiera spa ora commissariata, subappaltò i lavori per alcuni padiglioni.
Da fonti giudiziarie apprendiamo che il nulla osta non poteva essere dato per una ‘dimenticanza’ alla base dei controlli: Expo e Fiera non inserirono Dominus, amministrata di fatto da 2 degli arrestati sospettati di contiguità con la mafia, in Si.Prex, la piattaforma informatica delle imprese operanti in Expo 2015. Dominus sarebbe stata indicata solo in un generico elenco cartaceo inviato da Fiera spa alla Prefettura e, per conoscenza, alla Dia e all’Autorità Nazionale Anticorruzione, il 16 maggio 2014. La lista comprendeva 216 fornitori abituali della Fiera che potenzialmente avrebbero potuto essere utilizzati per i lavori in Expo e quindi da sottoporre alle verifiche dellla Dia ma anche della Prefettura e delle altre forze dell’ordine.
Verifiche che però sarebbero scattate solo dopo l’inserimento di Dominus nella piattaforma Si. Prex. Un passaggio ‘saltato’ nonostante Dominus fosse diventata da ‘potenziale’ a concreta fornitrice di lavori per Expo, tanto da vedersi affidata la costruzione ddei padiglioni della Francia, della Guinea Equatoriale, del Qatar e persino la passerella calcata dai milioni di visitatori per accedere all’Esposizione Universale. (manuela d’alessandro)
La lettera anonima sull’amministratore mafioso cestinata da Fiera Milano
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La lettera anonima sull’”amministratore mafioso” cestinata in Fiera Milano
Com’è possibile che una società leader mondiale negli allestimenti fieristici non si accorga di fare affari con due tizi sedicenti amministratori di un consorzio che sono in realtà poco più di Totò e Nino Taranto alla prese con la vendita della fontana di Trevi? Per la Procura di Milano è potuto accadere per sciatteria, ma non ci sono reati (almeno per il momento).
“Ora state facendo politica”, ha ammonito il fresco procuratore capo Francesco Greco i cronisti che insistevano durante la conferenza stampa sulle presunte responsabilità penali di Fiera Milano nel non accorgersi che la sua controllata Nolostand spa aveva affidato in violazione dei codici etici la costruzione dei padiglioni di Expo a Giuseppe Nastasi e Liborio Pace, arrestati per associazione a delinquere finalizzata a reati fiscali aggravata dalla finalità mafiosa. I due si presentavano come amministratori del consorzio Dominus ma sarebbe bastata una visura camerale per constatare che maneggiavano milioni di euro senza alcun titolo. I codici etici della Fiera prevedono che i contatti coi collaboratori esterni avvengano ” con la persona fisica o giuridica che rappresenta la parte”.
Di Liborio Pace si poteva sapere che era stato imputato in un procedimento per mafia, concluso con la sua assoluzione. Ma ancor di più sconcerta quello che si sarebbe potuto sapere su Giuseppe Nastasi. Il 16 marzo arriva in Fiera una lettera che viene cestinata in cui viene definito un “mafioso”. Ebbene: se vi arrivasse la soffiata che una persona a cui state affidando dei lavori per voi molto preziosi è un “mafioso” cosa fareste? Enrico Mantica, il direttore tecnico di Nolostand (non indagato), telefona a Nastasi e lo informa che qualcuno va raccontando che lui è un mafioso. Scrivono i giudici della sezione misure di prevenzione che hanno commissariato Nolostand: “Nastasi e Mantica discutono della lettera anonima ricevuta dal dirigente di Fiera Milano (“è arrivata una lettera che poi quando passa gliela faccio vedere…”). Mantica appare a quel punto restio nel proseguire telefonicamente l’argomento (“No, eh, ci sono altre cose che poi meglio che ne parliamo di…Quando può…meglio evitare di parlarne al telefono dai!’)”. I due poi effettivamente si incontrano e, stando a quanto racconta Nastasi a un’amica, Mantica non è apparso turbato dal contenuto della letttera anonima: “‘Mi ha detto stia sereno…e mi è apparso serenissimo, tranquillo’”.
E così, chiosano i giudici, “per nulla scalfiti dal contenuto della lettera i rapporti tra Giuseppe Nastasi e i vertici operativi di Fiera Milano – Nolostand spa divengono sempre più fitti con il passare dei giorni, al fine di ottenere la proroga del contratto di servizi con Nolsotand spa per il triennio 2016 – 2018 (…)”. Nolostand è stata commissariata: la legge prevede che per questa misura non è necessario che l’azienda abbia commesso reati, basta solo che il libero esercizio di un’attività economica, a causa di una condotta dei sui dirigenti censurabile sul piano colposo, abbia l’effetto di agevolare persone indagate per gravi reati”. (manuela d’alessandro)
Il decreto che commissaria Nolostand
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Il bimbo di 10 anni e la ‘ndrangheta: “Sono un Muscatello, voglio far paura come te”
A 10 anni si dovrebbe avere paura di tirare un calcio di rigore. Dall’ordinanza a carico di 28 presunti affiliati alla ‘locale’ di Mariano Comense sbuca con passo militare un ragazzino che di coraggio ne ha da farsi scoppiare le vene e ha già deciso quale sarà la squadra della vita.
“Voglio venire a lavorare con te perché sei una persona temuta, sei un Muscatello”. Il suo papà, uno del clan che da decenni si mangia un pezzo di libertà di questo paese tra Como e Milano, è fiero come lo sarebbe quello del piccolo calciatore vedendolo guardare il portiere negli occhi. “Veniva registrato – si legge nel provvedimento firmata dal gip Andrea Ghinetti su richiesta della Dda – un colloquio nel corso del quale D. Muscatello raccontava che il figlio cercava di seguire le orme del cugino L. in quanto a dire del bambino era una persona temuta anche per la sua appartenenza alla famiglia Muscatello”. “Nel corso della discussione – prosegue il gip – D. si compiaceva del fatto che il figlio di appena dieci anni facesse gia’ determinati ragionamenti ‘voglio venire a lavorare con te (inteso L. Muscatello)…lo temevano a L….si divertono perche’ e’ un Muscatello’”. Papà e cugino del bimbo sono tra gli arrestati accusati di associazione mafiosa finalizzata a traffico di droga, estorsioni, rapine. Cosa sarà di questo soldatino della ‘ndrangheta? A Reggio Calabria il Tribunale per i Minori da qualche anno ha adottato il protocollo ‘Liberi di scegliere’ che prevede, in casi molto gravi come la condanna definitiva dei genitori, la sottrazione dei minori alle famiglie. (manuela d’alessandro)
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Virus negli smartphone e lettere dalla Questura, lo strano arresto del killer del magistrato
Trent’anni fa i servizi segreti consegnarono a un pentito un registratore per raccogliere la confessione di Domenico Belfiore sull’omicidio del magistrato torinese Bruno Caccia. Finì che anni dopo Belfiore venne condannato in Cassazione come mandante del delitto ma quelle registrazioni furono considerate inutilizzabili dalla Cassazione.
Ora, la Procura di Milano prova a stanare dalle polveri della storia uno dei presunti killer del procuratore torinese con altri strumenti d’indagine non convenzionali: lettera anonime inviate dalla Questura e virus inoculati nei telefonini.
Prima, dalla Questura di Torino sono partite delle missive destinate a una ristretta ‘rosa’ di 3 prescelti che riproducevano un articolo della ‘Stampa’ del giorno dell’agguato e con la scritta sul retro: ‘Omicidio Caccia: se parlo andate tutti alle Vallette. Esecutori: Domenico Belfiore – Rocco Barca Schirippa. Mandanti Placido Barresi, Giuseppe Belfiore, Sasà Belfiore”. L’obbiettivo era innescare, come poi in effetti è avvenuto, una discussione tra le persone citate nella lettera, tutte vicine al sospettato numero uno, Rocco Schirripa, arrestato oggi perché ritenuto l’uomo che freddò il magistrato torinese nel 1983 su mandato di Domenico Belfiore. “E’ stata la prima volta che ho usato questo stratagemma”, ha ammesso Ilda Boccassini in conferenza stampa.
Poi, per ascoltare quello che si dicevano, gli hanno inoculato negli smartphone dei virus informatici in grado di attivare il microfono e la videocamera dei telefonini. Una tecnica d’indagine molto invasiva, marchio di fabbrica di Hacking Team, che la Corte di Cassazione (sentenza 27100/2015) ha giudicato utilizzabilie solo se “l’intercettazione avviene in luoghi ben circoscritti e e individuati ab origine e non in qualunque luogo si trovi il soggetto“. Gli intercettati parlavano di quelle che definivano “cose delicatissime” solo sul balcone di casa Belfiore, pensando così di evitare le intercettazioni ambientali tradizionali atrraverso microspie negli ambienti domestici. Invece, ogni loro sospiro veniva carpito dai teleonini, tranne quando li spegnevano. “Solo in casa di Domenico Belfiore – evidenzia il gip nell’ordinanza – è stato attivato dalla polizia giudiziaria il microfono degli smartphone intercettati”. (manuela d’alessandro)
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“41bis=tortura”, striscione e presidio davanti al tribunale
Lo striscione è bianco e in blu c’è scritto: “41bis=tortura”. Siamo davanti al palazzo di giustizia per un presidio con volantinaggio organizzato da OLGa (E’ ora di liberarsi dalle galere) associazione che cura il blog paginecontrolatortura.noblogs.org.
Si parla di isolamento per 23 ore al giorno, esclusione a priori dall’accesso ai “Benefici”, l’utilizzo dei Gom, gruppi di agenti di polizia penitenziaria specializzati in pestaggi nelle celle tipo Genova 2001, di processo in videoconferenza, come quello per “Mafia capitale” che a Roma ha visto le proteste degli avvocati.
L’articolo 41bis del regolamento carcerario ha sostituito quello che ai tempi della repressione dlela sovversione interna, i cosiddetti anni di piombo, era l’articolo 90. “L’esigenza di evitare il perdurare dei legami con l’associazione è secondario rispetto al fine ultimo di estorcere informazioni che portino a nuove accuse, a nuove incarcerazioni – si legge nel volantino. Più di 20 anni di 41bis non hanno di certo arginato la cosiddetta criminalità organizzata che dilaga insieme alla corruzione degli apparati istituzionali. La ‘lotta alla mafia’ al pari di quella al ‘terrorismo’ risultano essere soltanto strumenti per generalizzare forme di controllo, coercizione e deterrenza necessari a governare una fase storica”.
OLGa ricorda che chi è sottoposto al 41bis non può ricevere libri che possono essere acquistati solo dietro autorizzazione del Dap. E la Cassazione ha rigettato poco più di un anno fa tutti i ricorsi rendendo definitiva la restrizione.
Al presidio partecipa anche il Soccorso Rosso Internazionale: “Contro il 41bis! Solidarietà ai rivoluzionari prigionieri!”. (frank cimini)
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Assolto Mannino, requiem per la trattativa stato – mafia
C’è un giudice a Palermo provincia di Berlino? Sembra proprio di sì. L’ex ministro Calogero Mannino è stato assolto al termine di un processo con rito abbreviato dall’accusa di minaccia a organismo politico amministrativo o giudiziario dello stato, il reato con il quale il dottor Antonio Ingroia, “il Tonino del terzo millennio” aveva inteso fotografare la presunta trattativa Stato-mafia. La vicenda è al centro di un altro processo con rito ordinario che dura da oltre due anni con diversi imputati (Riina, Dell’Utri, Mori, Obinnu) costato fin qui un sacco di soldi e che sembra destinato a fare la stessa fine del rito abbrevviato con Mannino. Ma intanto l’iter prosegue. (altro…)
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“Pronto a luglio”. Ma dopo 19 anni il bunker di Opera resta un cantiere
Qualcosa di nuovo c’è: una recinto verde che, in teoria, dovrebbe tenere lontani i non addetti ai lavori dal cantiere, come avverte un cartello con monito: “Limite invalicabile, sorveglianza armata”. Invece, è agevole entrare da un cancello aperto e constatare che la promessa del provveditore alle Opere Pubbliche Pietro Baratono non è stata mantenuta. “A luglio – aveva garantito – l’aula bunker di Opera sarà terminata”.
Diciannove anni e l’ennesima estate dopo, quella che doveva essere la nuova sede dei maxi processi milanesi è ancora un cantiere e neppure troppo fervido. “Quando finirete?”. “E chi lo sa”, risponde con aria sconsolata uno dei pochi operai che si aggirano.
Da marzo a oggi è cambiato poco. Resta una costruzione fantasma accanto al carcere, il cui aspetto più desolante sono le gabbie dove i detenuti dovrebbero attendere le udienze, in violazione se non della Convenzione di Ginevra almeno della dignità: sotto il livello del suolo, in una bolgia oscura senza finestre. Non sembrano terminati neanche i lavori per le stanze che dovrebbero ospitare di notte i magistrati durante le camere di consiglio, loculi, alcuni dei quali senza finestre e bagno, dove difficilmente le toghe vorranno riposare per meditare sulle sentenze.
Il progetto iniziale prevedeva due aule di udienza, poi si è deciso di ridurre a una l’aula e destinare gli altri spazi a un grande archivio. Sopra l’aula sono previsti gli alloggi dei giudici, sotto le celle per ‘ospitare’ i detenuti nelle pause dei processi. Ma negli anni è successo di tutto: i soffitti sono crollati, la ruggine ha aggredito le gabbie, la falda acquifera è salita, com’era prevedibile ma non previsto nel piano originario.
Il cambiamento più evidente è la crescita dell’erba ad altezza d’uomo nei campi che bisogna attraversare per raggiungere l’edificio perché una strada per accedervi non c’è e mai ci sarà: i terreni non sono stati espropriati, come prevedeva il progetto iniziale.
Qualche mese fa, su impulso della procura generale di Milano la corte dei conti ha aperto un’indagine con l’ipotesi di reato di ‘danno erariale per opera incompiuta’, mentre la procura a cui pure è giunta una segnalazione per il momento non sembra interessata ad approfondire il dossier. (manuela d’alessandro)
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Essere contro il 41 bis e non essere mafiosi
Su alcuni temi non riusciamo in Italia a fare passi in avanti.
Negli anni ottanta chi contestava giuridicamente le leggi antiterrorismo era un terrorista, chi adesso prova a fare dei ragionamenti critici sul 41 bis, o è un mafioso o aiuta la mafia. Tutto questo è il frutto della necessità da parte di molti, a fronte di alcuni tipi di reati , di essere per forza ” tifosi”.
Se tu sei contro la mafia devi tifare sempre per i magistrati, i giudici che fanno i processi ed approvare qualsiasi normativa che riguarda i mafiosi , al di là del merito. Insomma, devi metterti in tribuna e fare il tifo.
Quindi non puoi prendere posizioni critiche: sul 41 bis, per esempio, sono di tutta evidenza ragionevoli le norme che tendono a impedire il proseguimento dell’attività criminosa dal carcere all’esterno (questo dovrebbe valere peraltro per tutti i reati), ma perché i sottoposti a 41 bis, possono vedere i propri familiari solo per un’ora al mese in un giorno predeterminato , perché chi ha figli pre – adolescenti può avere un contatto fisico con il minore per soli 10 minuti?
La limitazione del contatto fisico con il figlio minore tutela la collettività, o forse siamo in presenza di una inutile afflizione?
Come si giustifica, ancora con la tutela della collettività, la limitazione a detenere in cella libri, i limiti di acquisto di beni alimentari, il fatto che le ore d’aria sono limitate rispetto agli altri detenuti ?
Non è forse che tali misure servono ad accontentare l’opinione pubblica, o almeno quella parte che per alcuni reati vorrebbe la pena di morte e visto che in Italia, per fortuna non c’è, almeno pretende il carcere duro?
E come si concilia con l’art.27 della Costituzione il fatto che il 41 bis viene applicato anche a coloro che sono in stato di custodia cautelare?
Si possono porre queste domande ed andare come ho fatto io stamattina a ricordare le vittime della strage di Via Palestro?
Io credo di si, dobbiamo forse ricordarci tutti, che anche i peggiori reati o i più terribili fenomeni criminali, devono essere affrontati rispettando le garanzie costituzionali, che valgono per tutti, non solo per alcuni.(avvocato Mirko Mazzali, capogruppo Sel del Comune di Milano)
Ho visto i miei figli e non riuscivo a parlare, lettere dal 41 bis
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La mafia saluta Milano
e si fa processare sul lago
Legali: crolla il teorema della DdaLa mafia saluta e se ne ritorna su quel ramo del lago. Mafia presunta, si intende. Anzi, per la precisione: ‘ndrangheta. Con una decisione innovativa, che contrasta con le tesi della Dda, il presidente della settima sezione penale di Milano, Aurelio Barazzetta, ha stabilito che il processo a carico di sette imputati nato dall’inchiesta denominata ‘Metastasi’, si dovrà celebrare a Lecco. E’ la prima volta che Milano perde pezzi di un processo sulle cosiddette ‘locali’ di ‘ndrangheta individuate a partire dall’inchiesta ‘Infinito’.
Se la competenza sul reato previsto dall’articolo 416bis in fase di indagini è indubbiamente della procura distrettuale, il tribunale competente è un altro se, come ha stabilito il giudice in questo caso, le condotte mafiose si sono concretamente realizzate al di fuori dei confine milanese. Per radicare nel capoluogo il dibattimento non basta che il potere intimidatorio della locale poggi sulla forza dell’organizzazione mafiosa sovraordinata, quella ‘Lombardia’ già individuata nel corso di Infinito. Bisogna guardare alle condotte materiali che sustanziano il reato di associazione di stampo mafioso. E in questo caso, sarebbero avvenute tutte in territorio lecchese. Al tribunale sul lago finiscono tra gli altri Mario Trovato (fratello del più noto Francesco ‘Coco’ Trovato), e Antonio Rusconi, ex sindaco di Valmadrera. Nel collegio difensivo c’è una certa euforia tanto che qualcuno parla di provvedimento che per la prima volta “fa crollare un teorema della Dda milanese”. Molti legali, ora, dovranno lavorare in trasferta. E anche i pubblici ministeri faranno avanti e indietro. Non proprio comodissimo. -
La mafia saluta Milano
e si fa processare sul lago
Legali: crolla teorema della DdaLa mafia saluta e se ne ritorna su quel ramo del lago. Mafia presunta, si intende. Anzi, per la precisione: ‘ndrangheta. Con una decisione innovativa, che contrasta con le tesi della Dda, il presidente della settima sezione penale di Milano, Aurelio Barazzetta, ha stabilito che il processo a carico di sette imputati nato dall’inchiesta denominata ‘Metastasi’, si dovrà celebrare a Lecco. E’ la prima volta che Milano perde pezzi di un processo sulle cosiddette ‘locali’ di ‘ndrangheta individuate a partire dall’inchiesta ‘Infinito’.
Se la competenza sul reato previsto dall’articolo 416bis in fase di indagini è indubbiamente della procura distrettuale, il tribunale competente è un altro se, come ha stabilito il giudice in questo caso, le condotte mafiose si sono concretamente realizzate al di fuori dei confine milanese. Per radicare nel capoluogo il dibattimento non basta che il potere intimidatorio della locale poggi sulla forza dell’organizzazione mafiosa sovraordinata, quella ‘Lombardia’ già individuata nel corso di Infinito. Bisogna guardare alle condotte materiali che sustanziano il reato di associazione di stampo mafioso. E in questo caso, sarebbero avvenute tutte in territorio lecchese. Al tribunale sul lago finiscono tra gli altri Mario Trovato (fratello del più noto Francesco ‘Coco’ Trovato), e Antonio Rusconi, ex sindaco di Valmadrera. Nel collegio difensivo c’è una certa euforia tanto che qualcuno parla di provvedimento che per la prima volta “fa crollare un teorema della Dda milanese”. Molti legali, ora, dovranno lavorare in trasferta. E anche i pubblici ministeri faranno avanti e indietro. Non proprio comodissimo. -
“Ho visto i miei figli e non riuscivo a parlare”.
Le lettere di un carcerato dal 41 bis.Dentro il disumano c’è anche l’umano. Dentro il carcere c’è un detenuto col 41 bis che scrive al suo avvocato e con la penna in mano è anche un papà: “Dopo un anno e nove mesi siamo riusciti a fare il colloquio coi miei figli, alla presenza dell’assistente sociale, come ordinato dal Tribunale dei Minori di Milano. E’ stato un giorno felice e molto emozionante, mi è venuto un groppo alla gola nel vedere i miei amati figli dopo così tanto tempo, non riuscivo a parlare, mi sono trovato davanti due belle signorine e un bel giovanotto, sono cresciuti tanto e la cosa che mi ha fatto più male è vedere i miei adorati figli piangere per me, non riuscivano neanche a parlare dalla gioia, dalla felicità, dall’emozione”.
Lui è un boss della ‘ndrangheta, condannato a 30 anni per un omicidio e reati di droga (“Nella mia vita ho sbagliato tutto, ho fatto del male a tutte le persone a me care”) e dovrebbe uscire il 31 marzo 2033. Sta in un regime carcerario feroce: ore d’aria limitate, cibo razionato, colloqui coi familiari solo attraverso un vetro blindato e video registrati per controllare che non vi siano contenuti messaggi in codice. Abbiamo letto le missive che ha mandato negli ultimi mesi al suo legale, Beatrice Saldarini.
“Illustrissimo avvocato – scrive in una di queste, datata pochi giorni fa – come sempre lei è molto gentile a rispondere alle mie lettere e per questo voglio ringraziarvi, anche perché in questo posto tetro e scuro fa sempre piacere ricevere una lettera, per me significa molto e mi fa sentire vivo (…) peggio di questo posto schifoso c’è solo il cimitero”. “Di me non m’interessa, il mio destino è segnato”, ma “è assurdo che i miei figli devono venire a trovarmi e ci deve essere presente l’assistente ai servizi sociali”. I figli sono il tormento ricorrente. “Avvocato, aiutatemi a vederli!”, implora. “Mi avete scritto che vi informerete sulla possibilità di agevolare i colloqui con loro, vi ringrazio con tutto il mio cuore. Voglio che vengano a trovarmi quando lo desiderano”. Si preoccupa anche per la ex compagna, difesa dallo stesso legale: “Prego per lei e confido in voi”. Una delle risposte che gli invia il suo difensore non gli viene consegnata perché sarebbe di contenuto “ambiguo”. Chi conosce la solarità dell’avvocato Saldarini sorriderà.
Dentro il disumano, l’umano può diventare perfino “ambiguo”. (manuela d’alessandro)
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Camera Penale, la sentenza ‘Infinito’ è copiata
e gli osanna di Boccassini inopportuniSulla storica sentenza della Cassazione frutto dell’indagine ‘Infinito’, la Camera Penale di Milano non partecipa all’esultanza mediatica e della Procura che ha accolto la conferma di 92 condanne. E neppure mostra di gradire gli “osanna” di Ilda Boccassini successivi al verdetto che ha sancito la presenza radicata della ‘ndrangheta in Lombardia.
Non è naturalmente il merito delle accuse al centro della riflessione contenuta in una nota firmata dal Consiglio Direttivo. Quello che preoccupa gli avvocati, “nonostante lo scrutinio di legittimità della Cassazione”, è che si sia arrivati a questo epilogo a partire da una sentenza di primo grado considerata una “riproposizione pedissequa del contenuto dell’ordinanza di custodia cautelare che, a sua volta, aveva recepito integralmente contenuto e parole della richiesta di applicazione di quelle misure cautelari”. “Un pericoloso gioco di scatole cinesi – così viene definito il cammino di questa indagine verso la condanna definitiva pronunciata il 6 giugno dalla Cassazione – in cui le motivazioni di una parte del processo, ovvero quella cui si riconduce la responsabilità delle indagini e, quindi quella più vicina, anzi necessariamente alleata agli inquirenti, diventa il tessuto motivazionale di un giudizio di condanna, senza che sia stato possibile in modo esauriente e convincente individuare in quella motivazione parti della stessa a cui poter affidare la testimonianza di una autonomia del giudizio del decidente e, quindi, di un valido esercizio della delicata funzione giurisdizionale”. (altro…)
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Vietti difensore di Bruti con lavori del Csm ancora aperti
“Spetta al capo della procura la titolarità dell’azione penale”. Il vicepresidente del Csm Michele Vietti, mentre le commissioni sono ancora al lavoro, si fa intervistare dal quotidiano “La Stampa”, per difendere a spada tratta il capo della procura di Milano Edmondo Bruti Liberati, l’operato del quale è stato oggetto dell’esposto presentato dall’aggiunto Alfredo Robledo.
Vietti parla nello stesso giorno in cui ha incontrato il capo dello Stato Giorgio Napolitano e anche questo dimostra che sono in gioco cose molto più importanti del destino di un po’ di magistrati che hanno litigato tra loro in relazione all’assegnazione di importanti inchieste.
Il numero 2 dell’organo di autogoverno dei giudici teme l’arrivo di rilievi critici su Bruti dalla commissione che si occupa dell’organizzazione degli uffici giudiziari e usa il peso del suo incarico per cercare di influenzare gli esiti della discussione. Insomma Vietti dovrebbe essere arbitro e invece indossa la maglietta di uno dei due protagonisti della querelle.
E non rinuncia Vietti nemmeno alle lodi sperticate alla procura milanese quando parla di “encomiabile impermeabilità davanti alle fughe di notizie”. Evidentemente il vicepresidente del Csm dimentica come minimo, per stare a tempi più o meno recenti, i verbali di Ruby finiti sui giornali.
Fa bene comunque a essere preoccupato Vietti. In qualsiasi modo dovesse finire la querelle interna alla procura è emerso con chiarezza che i magistrati agiscono in base a criteri di opportunità politica, che l’obbligatorietà dell’azione penale è una ‘foglia di fico’ per nascondere le peggiori nefandezze. Ovviamente per tornare a cose concrete, a fatti, Vietti nell’intervista non fa il minimo accenno al fascicolo prima “sparito” e poi “dimenticato” sulla gara d’asta targata Sea indetta nel 2011 dalla neonata giunta di centro-sinistra. (frank cimini)
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Strage di via Palestro
Le carte che incastrano il basistaSempre interessante la ricostruzione della stagione delle stragi mafiose. Con questo arresto, un altro tassello di quella storia trova il suo posto. E’ il ruolo di Filippo Tutino, basista della strage del 1993 in via Palestro, a Milano. Ecco qui l’ordinanza di custodia cautelare a suo carico, con tutte le sue mosse, le sue amicizie, le dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza. In allegato, l’ordinanza in un formato leggero. (manuela d’alessandro)
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ll bacio in aula tra il pm e l’ex comandante dei carabinieri imputato
Si sono abbracciati e baciati come due vecchi amici. E vecchi amici sono, perché impegnati per anni sullo stesso fronte, quello della lotta alla droga. Solo che la scena non poteva passare inosservata perché uno è un pubblico ministero, Marcello Musso, e l’altro era un imputato in attesa di una sentenza, e che sentenza.
Giampaolo Ganzer, l’ex comandante del Ros di Milano, era accusato di avere orchestrato una banda di uomini in divisa autrice di scorribande illecite dietro lo schermo delle attività anti – droga. Prima del verdetto di oggi che ha ridotto la sua pena a 4 anni e undici mesi rispetto ai 14 del primo grado, l’alto ufficiale (ora in pensione) non ha tradito nessuna emozione nei lunghissimi secondi che precedono il fatidico ‘In nome del popolo’.
Dopo la lettura del dispositivo ha accolto con un largo sorriso le manifestazioni d’affetto e solidarietà dell’amico pm Musso, magistrato noto per il suo rigore e per i suoi successi in ambito di criminalità organizzata. A volte l’amicizia richiede gesti coraggiosi, che vanno anche oltre gli steccati professionali, e quello di Musso lo è stato, al di là delle valutazioni sull’opportunità. (manuela d’alessandro)
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Sciolse un bimbo nell’acido, è lo storico ufficiale della Repubblica
E’ la fotografia di un Paese, non solo della sua giustizia…. C’è un signore, si fa per dire, che sciolse un bambino nell’acido e che da anni è protetto dallo Stato perché un parlamento di pagliacci istigati dai magistrati approvò una legge sciagurata e incostituzionale…Costui da un’aula bunker sta riscrivendo la storia d’Italia con tutti i mezzi di informazione che gli fanno da megafono, come se avessero a che fare con un oracolo…
Ovvio che nessuna Corte Costituzionale dirà mai che la legislazione premiale non è congrua con la Carta, per usare un eufemismo. Perché c’è la ragion di Stato. Quelle norme nate per risolvere il problema della sovversione interna, etichettato come “terrorismo” e “anni di piombo”, delegato dalla politica ai magistrati, non possono essere messe in discussione. Il discorso vale per l’intera madre di tutte le emergenze. Basti pensare che Magistratura Democratica, la corrente di “sinistra” delle toghe ha sospeso la presentazione dell’agenda 2014 dopo aver chiesto e ottenuto da Erri De Luca un bellissimo articolo che toccava il nervo scoperto dei vincitori che processano i vinti. Insomma l’agenda 2014 finirà al rogo. Quello è l’unico periodo della storia patria di cui non si può parlare. Nessuna obiezione è possibile. Affinchè nei tribunali della Repubblica si possa continuare a giudicare le persone non per quello che hanno o avrebbero fatto ma per cosa pensano di ciò che hanno fatto. E allora chi sciolse il bambino nell’acido diventa lo storico ufficiale di un Paese dove la politica iniziò a suicidarsi mettendo nelle mani dei giudici compiti che erano suoi, salvo lamentarsi poi che le toghe hanno troppo potere. (frank cimini)
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Un tris in Cassazione dà speranza alla ‘ndrangheta padana
Tre indizi forse non fanno una prova, ma i presunti boss e affiliati alla ”’ndrangheta padana”, così definita dai magistrati di Milano, possono tornare a nutrire speranze. Se da un lato, infatti, le cosche radicate al nord hanno subito in questi ultimi 3-4 anni i colpi della Dda milanese con centinaia e centinaia di arresti, tramutati poi in migliaia di anni di carcere, dall’altro per i ‘padrini’ sono arrivate dalla Cassazione tre belle botte di fiducia.
La Suprema Corte, infatti, nel giro di un anno e mezzo ha già annullato con rinvio a nuovi processi d’appello ben tre procedimenti che vedevano al centro presunti clan infiltrati nel tessuto economico e sociale lombardo. Annullamenti, in particolare, del reato di associazione mafiosa che hanno prodotto e stanno producendo come effetti le scarcerazioni di numerosi presunti boss.
Di ieri la notizia che gli Ermellini hanno annullato le condanne fino a oltre 12 anni che erano state inflitte dalla Corte d’Appello di Milano a una presunta ‘ndrina attiva in Brianza. Dovrà tenersi quindi un nuovo appello e intanto a breve Marcello Paparo, presunto capo clan, potrebbe ottenere la scarcerazione per decorrenza dei termini di custodia cautelare. Stamattina, invece, è cominciato l’appello ‘bis’ di un altro processo le cui condanne erano state annullate lo scorso giugno, quello ribattezzato ‘Parco Sud’ ai Barbaro-Papalia di Buccinasco. Nei giorni scorsi, molti degli imputati, tra cui il 76enne Domenico Barbaro detto ‘Nico L’Australiano’, sono tornati in libertà.
Nella primavera del 2012 un altro procedimento, ‘Cerberus’, ai Barbaro-Papalia era stato cassato e rispedito in appello, dove le condanne sono state poi riconfermate qualche mese fa. La palla dunque tornerà alla Suprema Corte, dove nei prossimi mesi approderà anche il processo ‘del secolo’ alla ‘ndrangheta al nord: 110 condanne in primo e secondo grado, un migliaio di anni di carcere per i capi e gli affiliati delle 15 cosche sparse per la Lombardia e spazzate via nel 2010 dall’operazione ‘Infinito-Tenacia’. (Igor Greganti)
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udienza preliminare ex assessore Zambetti davanti al gup Ghinetti
E’ accusato di voto di scambio
















