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  • Non diamoli per scontati: numeri e nomi aggiornati dei suicidi in carcere

    Si sono impiccati quasi tutti, chi col laccio dei pantaloni, chi con le lenzuola, chi con una corda. Qualcuno si è soffocato con un sacchetto di plastica, qualche altro riempiendosi i polmoni di gas o altre sostanze. A volte in cella non erano soli, c’erano dei compagni. Sono morti soprattutto di notte e d’estate.

    A volte non subito, gli agenti della penitenziaria hanno provato a rianimarli. Età media sui 40 anni, più stranieri che italiani.Reati dall’omicidio al piccolo spaccio, tanti con dipendenza dalla droga, diversi con sofferenze psichiatriche.

    Ecco gli 88 uomini e donne che si sono tolti la vita nelle carceri italiani dal primo gennaio 2024. Nel 2022 alla fine se ne erano contati 85, due anni dopo si è andati oltre. Non di tutti sono noti nomi e cognomi, della maggior parte i sindacati penitenziari, che a loro volta registrano sette suicidi di agenti in questo anno, hanno diffuso, assieme ad associazioni, garanti e legali, minimi brandelli delle loro storie.

    6 gennaio 2024: Matteo Concetti, 23 anni. Stava male da tempo, soffriva di disturbo bipolare. Era rientrato nel carcere di Ancona perché, svolgendo la pena alternativa lavorando in una pizzeria, aveva sforato sull’orario di rientro a casa. Il 5 gennaio aveva detto alla madre: “Se mi riportano in isolamento, mi ammazzo”

    8 gennaio 2024: Stefano Voltolina, 26 anni, detenuto a Padova, soffriva di depressione. Una volontaria ha affidato il suo ricordo a ‘Ristretti orizzonti’: “Era sveglio, buono, curioso. Abbiamo fallito”
    10 gennaio 2024: Alam Jahangir, 40 anni, originario del Bangladesh, si è impiccato con un pezzo di lenzuolo a Cuneo, pochi giorni dopo il suo ingresso
    12 gennaio 2024: Fabrizio Pullano, 59 anni, si è impiccato nel padiglione di alta sicurezza del carcere di Agrigento
    15 gennaio 2024: Andrea Napolitano, 33 anni. A Poggioreale per l’omicidio della moglie, soffriva di disturbi psichiatrici
    15 gennaio 2024: Mahomoud Ghoulam, 38 anni, marocchino senza fissa dimora, era entrato da poco a Poggioreale
    22 gennaio 2024: Luciano Gilardi, gli mancava un mese alla libertà ma è morto prima da detenuto a Poggioreale
    23 gennaio 2024: Antonio Giuffrida, 57 anni, era in carcere a Verona Montorio per truffa
    24 gennaio 2024: Jeton Bislimi, 34 anni, si è ucciso nel carcere di Castrogno a Teramo: musicista macedone, 34enne, aveva provato ad ammazzare sua moglie. Aveva già tentato il suicidio
    25 gennaio 2024: Ahmed Adel Elsayed, 34 anni, è stato trovato dagli agenti impiccato nel bagno della sua cella a Rossano Calabro. Gli mancava poco per il fine pena
    25 gennaio 2024: Ivano Lucera, 35 anni, si è impiccato nel carcere di Foggia. Soffriva di dipendenze
    28 gennaio 2024: Michele Scarlata, 66 anni, si è ucciso nel carcere di Imperia pochi giorni dopo esserci entrato con l’accusa di avere tentato di uccidere la compagna

     3 febbraio 2024: Alexander Sasha, ucraino di 38 anni, aveva già tentato di tagliarsi la gola prima di impiccarsi a Verona Montorio

    3 febbraio 2024:Carmine S.,  detenuto disabile di 58 anni, si è impiccato nel carcere di Carinola (Caserta).
    8 febbraio 2024: Hawaray Amiso, 28 anni, doveva scontare solo tre mesi a Genova. Invece avrebbe “manomesso la serratura del cancello della cella per ritardare l’intervento degli agenti di custodia” prima di impiccarsi
    10 febbraio 2024: Singh Parwinder, 36 anni, bracciante agricolo, si è ucciso nel bagno del carcere di Latina
    11 febbraio 2024: cittadino albanese, 46 anni, imprenditore. Si è ucciso a Terni. Gli erano state revocate da poco le misure alternative al carcere.
    13 febbraio 2024: Rocco Tammone, 64 anni, era in semlibertà. Rientrato dal lavoro, si è ucciso nel cortile del carcere di Pisa
    14 febbraio 2024: Matteo Lacorte, 49 anni, si è impiccato nel carcere di Lecce nel reparto di massima sicurezza. La Procura indaga per istigazione al suicidio
    26 febbraio 2024: cittadino marocchino, 45 anni, si è impiccato a Prato
    12 marzo 2024: Jordan Tinti, trapper, 27 anni, in carcere a Pavia per rapina aggravata dall’odio razziale. Aveva tentato il suicidio pochi mesi prima
    13 marzo 2024: Andrea Pojioca, senza fissa dimora, 31 anni, ucraino. In carcere a Poggioreale per tentata rapina
    13 marzo 2024: Patrck Guarnieri, è morto il giorno in cui compiva 20 anni per asfissia nel carcere di Teramo. Il pm indaga perché l’autopsia lascia dei dubbi che si sia trattato davvero di suicidio
    14 marzo 2024: Amin Taib, 28 anni, tossicodipendente, si è ucciso nella cella di isolamento a Parma
    21 marzo 2024: Alicia Siposova, 56 anni, slovacca, si è suicidata mentre era in corso una visita del cardinale Matteo Zuppi nel carcere di Bologna.
    24 marzo 2024: Alvaro Fabrizio Nunez Sanchez, 31 anni, attendeva come molti l’ingresso in una Rems da alcuni mesi per gravi sofferenze psichiatriche. Invece si è ucciso nel carcere di Torino
    27 marzo 2024: nigeriano, il nome non si sa, si è impiccato nel carcere di Tempio Pausania dove aspettava di essere processato per reati di droga.

    27 marzo 2024: gli agenti lo hanno trovato appeso al cancello alle sei del mattino. Era da poco rientrato da un ricovero in ospedale, soffriva di disturbi psichici. Italiano, aveva 52 anni.

    1 aprile 2024: Massimiliano Pinna, 32 anni, si è impiccato al secondo giorno di carcere a Cagliari dove era stato portato per un furto
    7 aprile 2024: Karim Abderrahin,  37 anni, si è impiccato in cella a Vibo Valentia
    10 aprile 2024: Ahmed Fathy Ehaddad, 42 anni, egiziano, attendeva l’inizio del processo per un caso di violenza sessuale nel carcere di Pavia
    17 aprile 2024: Nazim Mordjane, 32 anni, palestinese, è morto inalando gas da un fornello da campeggio nel carcere di Como.  Nel settembre dell’anno scorso era evaso ferendo un agente di polizia
    22 aprile 2024: Yu Yang, 36 anni, si è impiccato attaccandosi alla terza branda del letto a castello a Regina Coeli

    4 maggio 2024: Giuseppe Pilade, 33 anni, pativa disturbi psichiatrici e sarebbe dovuto stare in una Rems ma, come per la maggior parte di chi ci dovrebbe stare, non c’era posto per lui e si è tolto la vita nel carcere di Siracusa

    16 maggio 2024: Santo Perez, 25 anni, si è  impiccato nella sezione media sicurezza del carcere di Parma

    23 maggio 2024: Maria Assunta Pulito, 64 anni, si è soffocata con due sacchetti di plastica annodati intorno alla testa e alla gola a Torino. Accusata di violenza sessuale assieme al marito, aveva sempre respinto le accuse

    2 giugno 2014: George Corceovei, 31 anni, ha approfittato che due detenuti uscissero dalla cella che condividevano con lui per impiccarsi a Venezia
    2 giugno 2024:Mustafà, 23 anni, si è impiccato nel carcere di Cagliari ma il suo corpo non ha ceduto subito. E’ morto due giorni dopo in ospedale
    4 giugno 2024: Mohamed Ishaq Jan, pakistano, 31 anni. Da una decina di mesi aspettava di essere processato per lesioni e rapina a Roma Regina Coeli
    11 giugno 2024: Domenico Amato, 56 anni, viene trovato impiccato alla mattina presto nel carcere di Ferrara. Con la sua morte, è stato osservato, lo Stato ha perso due volte perché era un collaboratore di giustizia e perché era nella custodia dello Stato
    13 giugno 2024: A.L.B., italiano di 38 anni, si è tolto la vita nel carcere di Ariano Irpino impiccandosi alle otto della sera
    14 giugno 2024: Alin Vasili, 46 anni, rumeno, si è impiccato nel penitenziario di Biella
    15 giugno 2024: Giuseppe Santolieri, 74 anni, condannato a 18 anni per l’omicidio della moglie, si è ucciso nel carcere di Teramo soffocandosi con una corda. Lo aveva annunciato ai compagni di prigionia: “Non posso più andare avanti”
    15 giugno 2024: un detenuto di 43 anni si è impiccato nel carcere di Sassari con un lenzuolo nel reparto ospedaliero
    21 giugno 2024: Alì, un ragazzo algerino di 20 anni, si è impiccato nel carcere di Novara. “con un cappio rudimentale”, riferisce il sindacato della penitenziaria. Era detenuto per reati di droga

    26 giugno 2024: Francesco Fiandaca di 28 anni che lavorava nella cucina ed era impegnato in diverse attività rieducative, si è impiccato nel carcere ‘Malaspina’ di Caltanissetta
    27 giugno 2024: Luca D’Auria, un ragazzo di 21 anni, già sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio, si è ucciso inalando gas nel carcere di Frosinone
    27 giugno 2024: egiziano, 47 anni, era stato condannato per immigrazione clandestina. Si è impiccato con la cintura nel carcere genovese di Marassi.

     1 luglio 2024: Giuseppe Spolzino, un ragazzo di 21 anni si è impiccato nel carcere di Paola. Nel maggio del 2027, a 24 anni, avrebbe potuto ricominciare, uscendo

    2 luglio 2024: un uomo di cui non sono note le generalità si è ucciso nel carcere di Livorno a 35 anni
    4 luglio 2024: Yousef Hamga, 20 anni, egiziano, si è impiccato nella casa circondariale di Pavia
    4 luglio: nel carcere Sollicciano di Firenze si è tolto la vita il ventenne Fedi Ben Sassi. Poco prima di uccidersi, era saltata per mancanza di connessione una sua chiamata alla madre in Tunisia
    7 luglio 2024: Vincenzo Urbisaglia, accusato dell’omicidio della moglie, si è ucciso a 81 anni nel carcere di Potenza. Ai legali era stata negata pochi giorni prima la scarcerazione chiesta per il suo stato psicofisico.
    9 luglio 2024: Fabrizio Mazzaggio, 57 anni, si è impiccato nel bagno della sua cella a Varese. Aveva problemi di tossicodipendenza.

    12 luglio 2024: Fabiano Visentini, 51 anni, si è ucciso a Verona Montorio
    13 luglio 2024: un uomo di 45 si è suicida to a Monza chiudendosi la testa in un sacchetto di plastica nella cella dove stava da solo
    15 luglio 2024: Alessandro Patrizio Girardi, 37 anni, detenuto per spaccio, si è impiccato nella sua cella nella casa circondariale Santa Maria Maggiore a Venezia dove stava per reati legati alla droga
    21 luglio 2024: alla Dozza di Bologna si è tolto la vita Musta Lulzim, 48 anni, albanese. E’ stato trovato impiccato nella sua cella infuocata dall’estate.
    25 luglio 2024: Giuseppe Pietralito, 30 anni, si è ammazzato in cella a Rebibbia dopo avere manomesso la porta per ritardare i soccorsi. Aveva saputo da poco che sarebbe uscito nel 2026, 4 anni prima del previsto perché gli era stata riconosciuta la continuazione dei reati. “Ma non ho un lavoro, nessuno crederà in me” aveva detto ai suoi legali.
    27 luglio: ennesimo suicidio a Prato dove un giovane di 26 anni si è tolto la vita
    28 luglio 2024: Ismael Lebbiati, 27 anni, fine pena previsto nel 2032, si è impiccato nel carcere di Prato dove nelle ore precedenti c’era stata una rivolta.
    30 luglio 2024: Kassab Mohammad si è suicidato a 25 anni nel reparto isolamento del carcere di Rieti dov’era stato portato dopo i disordini del giorno prima.

    3 agosto 2024: un recluso marocchino, 31 anni, senza dimora, si è impiccato nel carcere di Cremona

    5 agosto: nel bagno del Tribunale di Salerno, dopo la convalida del suo arresto, si è ammazzato stringendosi un cappio al collo Luca Di Lascio, arrestato per codice rosso
    5 agosto 2024: a Biella, A.S., albanese, 55 anni, stava facendo lo sciopero della fame perché aveva chiesto di essere trasferito in un carcere più vicino ai suoi familiari. Poi, si è ucciso
    7 agosto: 35 anni, tunisino, si è tolto la vita impiccandosi con un laccio dei pantaloni nel carcere di Prato

    15 agosto 2024: 36 anni, tunisino,  avrebbe finito di scontare la pena per reati legati alla  droga nel 2025. Si è impiccato nella sua cella di isolamento nel carcere di Parma dove era stato trasferito il giorno prima

    29 agosto 2024: Saddiki aveva frequentato un corso da cuoco nel carcere di Reggio Emilia dove cucinando stava mettendo dei soldi da parte per i figli. Era altissimo, quasi due metri, si sarebbe impiccato con una maglietta alle grate della finestra

    2 settembre 2024: Salvatore Borrelli, 62 anni, ex tossicodipendente, non aveva più rapporti con la famiglia. Si è impiccato nella cella della sezione isolamento del carcere di Benevento

    5 settembre 2024: gli piaceva il profumo del pane che aveva imparato a fare nel carcere isolano di Gorgona dove lo infornava. Arrestato un anno prima per reati tributari, sembrava su una strada propizia. Invece V.G. si è tolto la vita a 56 anni, in permesso premio a casa della compagna.

    5 settembre 2024: a Vincenzo Villani, 46 anni, mancavano pochi mesi da scontare. Alle 9 e 20 del mattino si è impiccato nella sua cella al primo piano della casa circondariale di Imperia

    16 settembre 2024: John Ogais, 32 anni, si è tolto la vita nel carcere di Ariano Irpino nonostante fosse sottoposto alla sorveglianza attiva per avere aggredito quattro agenti il giorno prima

    17 settembre 2024: Salvatore Di Vivo, 50 anni, arrestato il 25 agosto per maltrattamenti in famiglia, alle 6 e 45 si è impiccato nella sua cella di Regina Coeli

    4 ottobre 2024: l’ha trovato appeso alle sbarre di una cella un agente penitenziario. Era mattina e K.S, di cui si sa che aveva 24 anni ed era marocchino, l’avevano arrestato due giorni prima e portato al ‘Del Papa’ di Vicenza con l’accusa di stalking.

    7 ottobre 2024: maghrebino, 40 anni, gli mancava anno da scontare. Si è impiccato alle otto della sera a Vigevano

    12 ottobre 2024: alle 5 e mezzo del mattino, l’alba ancora acerba fuori, hanno trovato Pasquale De Mastro, 44 anni, detenuto per droga, strangolato coi lacci delle scarpe nel suo letto a San Vittore

    22 ottobre 2024: Giuseppe Lacarpia aveva ucciso la moglie e con le sue mani ha stretto il nodo per impiccarsi nel carcere di Bari a 65 anni

    28 ottobre 2024: il suicidio di Federico Librere, 57 anni, è arrivato inatteso, nel carcere lo descrivono come un detenuto “tranquillo”. Non è tranquillo il carcere: lui è il quinto a togliersi la vita in meno di un anno alla Dogaia di Prato.

    4 novembre 2024: Vincenzo Bellafesta si stava liberando da uomo libero dalla droga ma per una sentenza di condanna dovuta a cumulo di pene per antichi furti e ricettazioni era tornato in cella a Santa Maria Capua Vetere. Di notte ha allungato un lenzuolo e se l’è stretto forte al collo.

    5 novembre 2024: gli sarebbe bastato ‘scavallare’ l’anno perché a febbraio lo aspettava la libertà. Invece T.M,. marocchino, 41 anni, ha preso una cinghia, ha chiuso dietro di sé la porta della cella nel carcere di Venezia e tutto il resto che poteva venire.

    15 novembre 2024: Ben Mahmoud Moussa, tunisino, 28 anni, prima di entrare a Marassi faceva il pizzaiolo ed era in cura per un disagio psichiatrico. Pochi giorni dopo esserci entrato si è impiccato. Non c’è stato tempo per la perizia psichiatrica chiesta dal suo legale.

    21 novembre 2024: Benito Viscovo, 28 anni, è il quarto nell’anno a suicidarsi a Poggioreale. Impiccato con un lenzuolo. L’Ordine dei medici di Napoli parla di “mortificazione della vita umana” per le condizioni dei detenuti in questo carcere decadente che scoppia di persone

    27 novembre 2024: “Occhi azzurri e il volto pulito”. La garante dei detenuti, Irma Testa, lo aveva incontrato pensieroso su una sedia, davanti alla finestra della cella a Cagliari pochi giorni prima del suicidio. Aspettava il nulla osta per andare in comunità. G.O. ha donato i suoi giovani organi, da tempo aveva lasciato scritto che avrebbe voluto finisse e iniziasse così

    28 novembre 2024: Il cuore di Luca Zampini, 46 anni, ha smesso di battere 16 giorni in più di quanto avrebbe voluto. Ha atteso in ospedale dopo essersi  impiccato nella cella di La Spezia. Avrebbe dovuto essere processato per resistenza e minaccia a pubblico ufficiale.

    6 dicembre 2024: “Aveva un sorriso triste e la morte negli occhi” ha detto il suo avvocato. Roberto Radion aveva tentato più volte di uccidersi e nemmeno l’ultima volta sembrava avercela fatta. E’ sopravvissuto per sei ore dopo essersi impiccato nel carcere di Montorio e infine ce l’ha fatta, chiudendo gli occhi a 24 anni.

    16 dicembre 2024: Qualche giorno prima uno dei suoi compagni si era dato fuoco ed era stato salvato dagli agenti di Alessandria. Sempre loro avevano tenuto in vita Luca Lunardi dopo il tentativo di impiccarsi nel reparto ‘transiti’, dove i reclusi sono di  passaggio. Il suo ultimo è stato in ospedale, dove è morto.

    17 dicembre 2024: a mezzanotte, gli agenti che avevano appena cominciato il turno lo hanno trovato appeso alla finestra della cella del carcere di Viterbo. Il suo compagno di cella dormiva. Aveva 23 anni e il suo nome non è stato comunicato.

     

    E se credete ora/che tutto sia come prima/Perché avete votato ancora/la sicurezza, la disciplina/Convinti di allontanare/ la paura di cambiare/Verremo ancora alle vostre porte/E grideremo sempre più forte/Per quanto vi crediate assolti/Siete per sempre coinvolti/Per quanto vi crediate assolti/Siete per sempre coinvolti/

    p.s. tra le fonti di questo articolo ci sono comunicati della polizia penitenziaria, Ristretti Orizzonti, agenzie di stampa, testate nazionali e locali. grazie a tutti loro per avere dato dignità a queste morti, un compito che dovrebbe appartenere a uno Stato civile.

     

  • Da 40 giorni in carcere da assolto
    Vizio di mente, ma in Rems non c’è posto

    Da almeno un anno delira, crede di sapere individuare i positivi al coronavirus e di poterli guarire con il suo “effetto”, si sente “controllato dagli aeroplani”. Assolto 40 giorni fa su uno scippo per “totale incapacità di intendere e volere al momento del fatto reato”, è ancora in prigione. Sì, da assolto. Com’è possibile? Perché il giudice, ormai 50 giorni fa, il 29 aprile, ha sostituito la custodia cautelare in carcere con una misura di sicurezza in Rems. Solo che in Rems di posto non ce n’è. 

    Si chiama O.D.B., ha 22 anni, è marocchino. E’ già passato, un anno fa, da Castiglione delle Stiviere. E lì ha mostrato una forma di “psicosi paranoide”, collegata anche ad “abuso di cannabis e alcool”, come certifica il perito nominato dal tribunale di Brescia, Giacomo Francesco Filippini. Dopo un periodo di cura presso il Cps, poi, ha abbandonato la terapia mostrando, da novembre 2021, un “progressivo peggioramento del quadro psicopatologico caratterizzato da ideazione paranoidea, tematiche di controllo, interpretatività, fenomeni allucinatori e bizzarrie comportamentali”.

    A gennaio scorso Odb sfila il portafoglio a una donna di 78 anni. Lo beccano subito. Il giudice delle direttissime convalida l’arresto e gli impone l’obbligo di presentazione alla Pg. Tre giorni dopo commette un altro scippo. E allora la misura si aggrava: carcere. La sua avvocata chiede l’abbreviato condizionato alla perizia psichiatrica, che decreta: “totalmente incapace di intendere e di volere al momento del fatto”. Il 29 aprile il giudice di Brescia Luigi Andrea Patroni Griffi dispone il Rems al posto del carcere di Pavia. Misura di sicurezza per la durata di due anni: Odb è pericoloso, non mostra “alcun sentimento di sincero pentimento né tantomeno di colpa per l’accaduto, vissuto con freddezza e distacco anaffettivo”, si legge nella perizia. Se rimesso in libertà “non seguirebbe le cure”. Lo stesso giudice lo assolve il 9 maggio.
    C’era un precedente quasi identico. Un arresto a Mantova, a dicembre scorso, per tentata rapina. Carcere, ma poi Odb viene rimesso in libertà dal Riesame. Intanto lo psichiatra Pietro Lucarini riceve l’incarico per una perizia. Esito identico: “disturbo psicotico”, “vizio totale di mente”, “persona socialmente pericolosa” per cui si rende necessaria la misura di sicurezza in un Rems. Poi il 24 maggio l’assoluzione anche a Mantova: reato commesso da persona non imputabile.

    Eppure a oggi Odb è ancora in prigione, “seguito, per fortuna, da una psichiatra estremamente competente. Però nel 2022 una situazione del genere è inaccettabile”, dice la sua legale, Federica Liparoti. La quale il 7 giugno, dopo istanza al Dap riceve risposta: “Tutte le strutture del territorio nazionale hanno dichiarato l’indisponibilità”. Per Odb, al momento, non c’è posto.

  • Il terrore del virus in carcere e il piano di emergenza

     

    Una giudice di Milano bloccata all’ingresso di San Vittore perché ha la febbre e potrebbe essere infetta. L’immagine svela l’isolamento in cui versano le carceri italiane e in particolare quelle lombarde, coi detenuti ai quali sono state tolte le possibilità  di avere colloqui di persona coi familiari e di uscire, nemmeno per lavorare, se non con deroghe eccezionali. Per il momento non sono stati registrati casi di coronavirus. Aldo Di Giacomo, segretario del sindacato di polizia penitenziaria, informa che “nelle carceri lombarde ci sono una ventina di persone in isolamento perché hanno la febbre, non il coronavirus, per una misura di cautela. A nessuna di loro è stato fatto il tampone, perché non ci sono i criteri che valgono per tutti. Ma quando avranno febbre alta e disturbi respiratori, non resterà che metterli in ospedale e avranno già probabilmente infettato i loro compagni”.

    Tra esigenze di salute pubblica e anche di sicurezza, perché non è difficile immaginare subbugli dei reclusi se qualcuno di loro dovesse ammalarsi, gli istituti penitenziari affrontano un momento molto delicato. “L’epidemia arriva in una situazione già grave – spiega Francesco Maisto, garante dei diritti delle persone private della libertà di Milano –  determinata  da due fattori: il sovraffollamento, con ottomila detenuti a fronte di una capienza di seimila in Lombardia, e i problemi particolari in tema sanitario che ci sono da sei-sette mesi. E’ successo che, per inadempimento di una legge regionale che ha imposto degli accorpamenti, siamo arrivati al punto che erano scaduti i contratti dei medici e non erano state fatte delle proposte per nuovi contratti. Quindi dei medici lavoravano senza contratto e altri non hanno più lavorato”.

    Le regole per il coronavirus sono state dettate da un susseguirsi frenetico di decreti, raccomandazioni del capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e direttive di vario genere. Il problema è stato armonizzarle e metterle in ordine di gerarchia. “Non è che ogni direttore potesse scegliersi la normativa ritenuta più giusta, questo non è giustificato neanche dall’emergenza”,  osserva Maisto. Per le carceri milanesi all’inizio  la scelta era stata quella di lasciare la possibilità di colloqui visivi ai detenuti, mentre altrove, per esempio in Emilia Romagna, erano stati sospesi subito. Col decreto legge del 2 marzo, il governo ha stabilito che negli istituti  delle regioni che hanno comuni in ‘zona rossa’ i parenti non possono accedere alle carceri e i colloqui si fanno via telefono, via skype o con videochiamata.

    Un’ interpretazione della disposizione ha fatto sì che questa questa possibilità non venisse concessa nelle carceri di massima sicurezza, come Opera. “Sono stata stamattina a Bollate – racconta l’avvocato Valentina Alberta – il cortile era pieno di gente che telefonava. Quello che non capisco è perché solo noi avvocati dobbiamo entrare con la mascherina, mentre gli operatori no. Allora che senso ha non fare entrare i parenti? ”. Nel frattempo, in Lombardia sono arrivate le tende per il triage a Opera, Bollate e San Vittore. Agli avvocati viene controllata la temperatura e sono sospesi gli ingressi dei volontari per evitare assembramenti. “Non vado in carcere da due settimane – afferma Juri Aparo, psicologo che dalla fine degli anni settanta ha seguito migliaia di carcerati col suo ‘Gruppo della Trasgressione’ – come volontario non posso, come operatore a Bollate potrei, ma non ci sono andato perché le attività di gruppo sono sospese. Quelli che mi chiamano, considerandomi alla stregua di un familiare, sono dispiaciuti, ma molto equilibrati, dimostrano di avere cognizione della realtà delle cose. Non posso assicurare che tutti abbiano queste stato d’animo. D’Altra parte se in carcere ci fossero dei casi di coronavirus le cose andrebbero ancora peggio”.  “I detenuti considerano corrette le prescrizioni – conferma Di Giacomo – meglio così che prendersi il virus. Certo, nel momento  in cui dovesse succedere ci sono anche persone irragionevoli che potrebbero dare vita a una rivolta. A questa eventualità non si è preparati. Al prefetto di Poggioreale ho chiesto di tenere pronto l’esercito. La polizia penitenziaria, in generale, non è abbastanza ”. L’avvocato Maria Brucale, attivista radicale, ha altre sensazioni: “A Opera viene concessa una telefonata in più del normale. Così si ovvia all’interruzione degli affetti? I detenuti sono isolati e spaventati, bisogna aiutarli”. Per rassicurarli,  i detenuti sono accompagnati in gruppi di 150 al teatro del carcere dove un’équipe di infettivologi spiega le modalità di trasmissione del contagio e i sintomi. E se il virus dovesse davvero ‘entrare’ negli istituti di pena cosa succederebbe? “Sarebbe una possibile tragedia”, dice Maisto, che però rassicura: “Un piano c’è, le zone di isolamento ci sono in tutte le carceri, anche se poi bisogna fare i conti anche con eventuali falle dall’esterno”. (manuela d’alessandro)

  • Spazzacorrotti, caos sui tempi di scarcerazione dei condannati

    I magistrati di Milano divisi sui tempi di applicazione della pronuncia della Consulta sulla legge Spazzacorrotti.  Qualcuno, la minoranza, sta accogliendo subito le istanze degli avvocati che chiedono il ritorno alla libertà di chi stava dentro con una condanna a meno di 4 anni. La maggioranza invece, in particolare al Tribunale di Sorveglianza, ha deciso di rinviare la decisione a quando saranno pubblicate le motivazioni dei giudici costituzionali, dopo il comunicato che comunque ha tutti i crismi dell’ufficialità.  La questione potrebbe avere risvolti importanti se e quando saranno concessi eventuali risarcimenti per l’ingiusta detenzione.  Tra i primi a uscire, un detenuto condannato per corruzione. Il sostituto pg Antonio Lamanna ha accolto, nel suo caso, la richiesta di sospendere l’ordine di esecuzione della pena “vista l’interpretazione costituzionalmente orientata effettuata dalla Corte Costituzionale»,  ritenendo di “anticiparne gli effetti perché trattasi di pronuncia con effetti favorevoli al condannato in materia di liberta”. La Consulta aveva stabilito che è incostituzionale la retroattività della legge  voluta dal governo Lega – 5 Stelle che aveva reso arduo l’accesso alle misure alternative al carcere per i condannati ai reati contro la pubblica amministrazione, tra cui peculato, concussione e corruzione. Ora, col divieto di applicazione retroattiva della legge penale sfavorevole, così come scolpito dall’articolo 25 della costituzione, potranno uscire. Quando, almeno a Milano, non è chiaro.  (manuela d’alessandro)

  • Fratture in carcere, l’appello di Rosa Zagari per essere curata

    “Vivo un calvario, qui non mi curano: aiutatemi”. Non riesce a camminare da oltre un anno, da quando si è rotta due vertebre nel carcere di Reggio Calabria scivolando dopo essersi fatta una doccia. Rosa Zagari, 44 anni, reclusa in stato di custodia cautelare a Messina con l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso, affida al suo legale un appello per chiedere non di uscire di prigione, ma di ricevere delle terapie adeguate. La sua vicenda, oggetto di una petizione nei mesi scorsi e segnalata dal garante nazionale dei detenuti, viene definita dall’ avvocato che la assiste, Antonino Napoli, “un caso di violazione dei principi fondamentali della dignità e della tutela della salute che non si possono attenuare solo perché una persona è detenuta”. Stando al racconto del difensore e agli accertamenti dei periti nominati dalla difesa, la donna non è mai stata trattata in modo adeguato in nessuna delle tre strutture penitenziarie in cui è stata, né a Messina, né a Reggio Calabria, né a Santa Maria Capua Vetere, dove si trova ora. L’avvocato Napoli ha chiesto più volte, finora invano, che un gip nomini un medico legale in grado di fare una diagnosi non di parte, mentre i familiari spiegano che la loro congiunta “ormai pesa 42 chili e la stiamo perdendo”. “E’ ridotta malissimo – sono le parole della sorella – mi ha detto che in carcere la prendono in giro sostenendo che finge. A gennaio è morta di dolore anche la mamma che si era spesa molto per farla curare”. 

     Ai domiciliari una prima volta nel 2016 per  l’accusa di favoreggiamento del latitante e compagno Ernesto Fazzalari, da cui poi è stata assolta, è finita poi in carcere nell’ambito di un’altra inchiesta. Dopo essere stata condannata in primo grado a otto anni per associazione a delinquere di stampo mafioso, è in attesa dell’appello. Ma è sulla sua storia clinica, e non sul merito delle accuse, che l’avvocato punta per portare avanti la sua denuncia: “A Reggio Calabria, un nostro ortopedico di fiducia, primario dell’ospedale di Locri, aveva notato che il busto era stato messo male e aveva prescritto una riabilitazione mai fatta. In seguito, la mia assistita  è stata trasferita a Santa Maria Capua Vetere dove non c’è un centro clinico e, quindi, anche lì nulla è stato fatto per curarla. Nel luglio scorso, sua sua richiesta, sono andato a trovarla e ho visto coi miei occhi che non era in grado di camminare, se non appoggiata a un’altra persona. Dopo varie istanze al Dap, siamo riusicti a farla trasferire al centro clinico di Messina, dove le vengono somministrati degli antidolorifici, ma nulla più. La certezza che abbiamo è che, a un anno dalla caduta, non cammina da sola, l’ho visto ancora una volta a fine dicembre. A un certo punto, mi hanno detto dal carcere che era un problema neurologico, non ortopedico. Un neurologo di nostra fiducia l’ha allora visitata e prescritto dei medicinali, che non le sono stati somministrati, e indicato degli esami, ancora non eseguiti. In carcere dicono che non cammini perché  è depressa, ma le vertebre sono rotte e come può non essere prostrata dopo le conseguenze fisiche dell’incidente e le mancate cure?”. Il gip di Messina, riferisce il difensore, “ha chiesto una relazione al centro clinico del carcere che difficilmente ammetterà di non prestarle le cure. Vorremmo solo una perizia di un esperto di fiducia del giudice che stabilisca la verità”. (manuela d’alessandro)

  • Un anno ai domiciliari per errore di carabinieri, giudici e avvocato

    Per un errore dei carabinieri, di un magistrato e anche del suo primo avvocato, Donato C., 43 anni, ha trascorso un anno agli arresti domiciliari quando avrebbe dovuto essere libero, come stabilito da un giudice. Addirittura è stato processato per evasione dai domiciliari che non avrebbe dovuto scontare, finendo assolto con sentenza del 6 novembre scorso.

    La sua storia, comprese le ammissioni  dello sbaglio da parte dei protagonisti, è contenuta in una serie di atti processuali. Il 13 luglio 2017, il Tribunale di Milano dispone per Donato C., che si trovava a San Vittore dopo essere stato condannato a un anno e tre mesi per favoreggiamento di un latitante, l’immediata scarcerazione’ e la remissione in libertà “considerato che, nonostante i precedenti penali, non aveva mai subito carcerazioni e che, pertanto, si ritiene che la presente vicenda processuale possa sortire adeguato effetto deterrente e non si renda necessaria l’applicazione di ulteriori misure cautelari”. La sua condanna avrebbe quindi potuto e dovuto scontarla con le misure alternative, come l’affidamento in prova.

    Quella sera stessa, si presenta alla stazione dei carabinieri di Rozzano esibendo il provvedimento firmato dal giudice. Il militare di servizio nella caserma, è scritto in una nota in cui il Comandante della stazione ammette lo sbaglio, “nell’erroneo convincimento che si trattasse della sostituzione della custodia cautelare con la misura meno afflittiva dei domiciliari redasse il verbale di sottoposizione che certifica che, da quel momento, il Comando ha assunto l’onere dei controlli sulla persona sottoposta a misura restrittiva”. L’errore viene ‘raddoppiato‘, sempre lo stesso giorno, quando il suo legale presenta al Tribunale un’istanza per autorizzare il suo assistito ad allontanarsi da casa per qualche ora al giorno per la spesa, le cure mediche e altre necessità quotidiane. E viene ‘triplicato‘ quando pochi giorni dopo, il 31 luglio, un giudice della sezione feriale del Tribunale non si rende conto che Donato C. dovrebbe essere libero e lo autorizza ad allontanarsi dalla propria abitazione dalle 10 alle 12 e dalle 16 alle 18. “Il fatto che questa vicenda kafkiana si sia protratta per un anno – si legge ancora nella nota del Comandante dei Carabinieri di Rozzano – è anche (o soprattutto) dovuto alla circostanza che il 31 luglio 2017 fu inviato il provvedimento col quale Donato C. venne autorizzato ad allontanarsi dalla propria abitazione”. La svolta arriva quando l’uomo, stanco di ripetere che un giudice lo aveva messo in libertà, si rivolge all’avvocato Debora Piazza la quale, incredula, attesta che effettivamente Donato C. è vittima di un grave errore giudiziario. Il 19 luglio 2018, Piazza manda una ‘diffida’ ai carabinieri di Rozzano nella quale sottolinea che il suo assistito è sottoposto a “un inspiegabile e del tutto ingiustificato provvedimento” e “ha scontato un anno di arresto domiciliari in modo del tutto illegittimo”. Il giorno dopo, arriva la revoca dei domiciliari.

    L’esito grottesco di questa sequela di errori arriva quando Donato C. viene processato, su richiesta della Procura, per evasione perché si è allontanato “senza autorizzazione” dalla sua abitazione violando  – si legge nel capo d’imputazione – “l’ordinanza che ha disposto i domiciliari”. Accusa da cui è stato assolto il 6 novembre scorso ‘perché il fatto non sussiste’. Ora, tramite il suo legale, chiederà un lauto risarcimento per ingiusta detenzione. “E’ una vicenda che lascia basiti – commenta l’avvocato Piazza – e certifica la lontananza dei principi contenuti nei manuali del diritto dalla realtà”. (manuela d’alessandro)

     

     

  • Egidio, morto a 82 anni dopo 9 mesi in carcere con un cancro

    Egidio T., operaio saldatore e giramondo in pensione, nessuna condanna in un’aula di giustizia prima di quella che ha segnato l’ultimo vicolo della sua vita, è morto a 82 anni dopo avere trascorso 9 mesi nel carcere di Parma in compagnia di un cancro. La sua è una storia contorta, di disfunzioni comuni nel sistema della giustizia. Nessuno ha una colpa precisa che sia andata così, spiega il suo avvocato Letizia Tonoletti, ma certo quell’uomo, “che spesso doveva attaccarsi a una macchinetta per respirare”, non doveva finire in una prigione. Solo il giorno prima del suo decesso, avvenuto il 6 settembre, il magistrato di. Sorveglianza ha autorizzato la detenzione domiciliare in ospedale. Era stato condannato nel 2017 a tre anni e mezzo di carcere dal Tribunale di Ancona per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina perché, nel 2012, avevano trovato un uomo  dentro a un baule legato sopra al suo furgone, sbarcato con un traghetto dalla Grecia all’Italia. “Dopo essere stato denunciato, il mio assistito non ha più ricevuto notizie di quel procedimento perché ha cambiato domicilio dimenticandosi di comunicarlo alla magistratura”. Si è ricordato di quella vicenda quando, subito dopo la sentenza, sono andati a prenderlo nell’alloggio popolare dove viveva per rinchiuderlo. Il suo difensore non ha potuto che prenderne atto perché il reato è ostativo e quindi non permetteva di evitare il carcere salvo gravi problemi di salute. E, in questi casi, l’istanza può essere presentato solo dopo che il condannato finisce dentro, cosa che Tonoletti ha fatto a maggio di quest’anno, dopo avere tergiversato per via dei problemi economici che Egidio avrebbe potuto patire perché con la condanna gli era stato tolto anche l’assegno assistenziale a integrazione della modesta pensione. Ai primi di settembre, il giudice della Sorveglianza di Reggio Emilia ha scritto alla difesa che avrebbe concesso la detenzione domiciliare solo dopo le dimissioni dall’ospedale in cui era stato ricoverato. Nei giorni seguenti, dal carcere è arrivata al magistrato la comunicazione che il ricovero si sarebbe potuto protrarre vista la gravità del quadro clinico. Il 5 settembre sono stati firmati finalmente i domiciliari, in ospedale. “Egidio mi aveva giurato di essere innocente – dice la legale – e di avere caricato il baule sotto minaccia di morte da parte di un uomo, non immaginando il contenuto del bagaglio. Il suo errore è stato non avere comunicato il cambio di residenza. Se l’avesse fatto, un legale avrebbe potuto chiedere di patteggiare una pena che on comportava il carcere o, almeno, fare appello, fermando così l’esecuzione della pena. La sua però è una dimenticanza comprensibile considerando anche che, dopo la denuncia, ha trascorso lunghi periodi in ospedale a causa del tumore. Sarebbe inoltre giusto che, davanti a casi che coinvolgono soggetti così fragili, la magistratura, prima di emettere l’ordine di esecuzione, allerti i servizi sociali in modo da poter presentare subito un’istanza di misure alternative. Quanto ai tempi, quelli presi dalla magistratura per decidere sono standard”. In carcere Egidio, che ha vissuto per tanti anni in Argentina, “ha sempre detto di essere stato trattato bene, ma non vedeva l’ora di uscire”. Prima di entrarci, racconta chi lo conosceva attraverso l’associazione di Parma  ‘Rete Diritti in Casa’, “era sereno e pimpante, nonostante la malattia”.

     

     

  • Intervista a Steccanella: “Lotto per non far morire Battisti in carcere”

    Davide Steccanella gode di un doppio, prezioso punto di vista: da sei mesi è l’avvocato di Cesare Battisti, a cui sta cercando di far scontare una pena coerente con la Costituzione sia nell’entità che nei modi; da un’altra prospettiva, che ‘allena da anni’, è uno dei massimi storici degli anni del terrorismo italiano e non solo, autore di testi fondamentali  come ‘Gli anni della lotta armata: cronologia di una rivoluzione mancata’. Per la prima volta da quando affianca Battisti, catturato in Bolivia a gennaio dopo 37 anni di latitanza e in carcere per scontare due ergastoli relativi a 4 omidici, Steccanella si concede in un’intervista a tutto campo.

    Cosa significa per te, che ha studiato anche da storico quel periodo pur non avendolo mai  vissuto direttamente, difendere Cesare Battisti?

    Avrei preferito continuare a occuparmene da storico, sicuramente non avrei mai pensato da avvocato di scrivere un’istanza su fatti commessi nel 1979. All’inizio è stato difficile,  però nel momento in cui una persona in stato di detenzione mi nomina come avvocato non posso che fare solo l’avvocato e dimenticare di essere uno storico. Da quell’istante, considero il mio cliente una persona che ha necessità di una difesa tecnica e quello è il mio approccio, anche  se è senz’altro singolare fare diventare cronaca giudiziaria quella che è invece è storia. La situazione di Battisti è molto particolare perché qui non soltanto si parla di fatti commessi 40 anni fa ma lui è una persona che è andata via dall’Italia 40 anni fa, nel 1979 quando, dopo  due anni di galera, è stato fatto evadere da altri, è andato all’estero e non ha più fatto rientro nel nostro Paese. Ora, chiunque abbia potuto vivere in Italia negli ultimi 40 anni sa che questo è un Paese completamente diverso. C’è questo duplice problema: sono vecchi i fatti ed è vecchissimo questo rapporto con lo Stato che in questo momento sta eseguendo nei suoi confronti una pena. C’è anche una difficoltà di comunicazione: Battisti è una persona abituata a parlare da anni altre lingue. Insomma, è tutto molto singolare rispetto alle precedenti mie esperienze professionali.

    Prima di tornare in Italia, Battisti a un certo punto dice di essere andato dalla Francia al Brasile grazie ai servizi segreti francesi. Poi non ha mai più smentito questa storia. E’ davvero andata così e, nel caso, cos’ha ricevuto in cambio dai servizi? 

    Io parlo delle cose che so e questo non lo so, il mio cliente non mi ha mai riferito modalità di questo tipo. In quegli anni sono state molte le persone che si sono sottratte alle sanzioni riparando all’estero. Non era così inusuale che un soggetto riuscisse ad andare all’estero senza bisogno dei servizi segreti. Parliamo di una persona che è da 40 anni all’estero e che di dichiarazioni ne ha fatte tante, ogni volta determinate dalla situazioni in cui si trovava. Per questo,  preferisco adeguarmi a quello che mi ha detto di persona e su questo aspetto non ho avuto nessuna conferma. Da quello che ho capito io, mi pare assolutamente compatibile la sua versione. Ai tempi anche prendere gli aerei non era così complicato come oggi, è pieno di casi, non sarebbe né il primo né l’ultimo ad averlo fatto in quegli anni, non è necessario che ci sia dietro chissà quale protezione francese.

    Battisti ha ammesso di avere avuto un ruolo materiale o come mandante in quattro morti: quella del maresciallo degli agenti di custodia del carcere di Udine Antonio Santoro, del gioielliere Pierluigi Torregiani, del commerciante Lino Sabbadin e del poliziotto Andrea Campagna. La decisione  di ammettere gli addebiti dopo averli negati per anni è una decisione che ha preso lui oppure tu, come legale, gliel’ha suggerita? 

    Mai nella vita ho preso una decisione per conto dei miei clienti, soprattutto se è di questa delicatezza e di questa importanza. E’ una scelta che ha fatto lui e io gli ho creato i mezzi tecnici per portarla avanti. In quel momento ho ritenuto, quello  sì, di scegliere l’interlocutore che mi sembrava più adatto e istituzionale, cioè il procuratore dell’antiterrorismo di Milano, Alberto Nobili, che, tra l’altro, è un magistrato che stimo tantissimo e di cui mi fido ciecamente. La decisone è stata sicuramente sua ma tenete conto che sono state scritte un po’ di inesattezze su questo fatto, nel senso che Battisti non ha mai negato di fare parte dei Pac che erano una delle tantissime formazioni armate di quegli anni. Lui non ha mai detto ‘Io non ho fatto la lotta armata’. Se il discorso è relativo ai singoli episodi, il negarli ha un senso di fronte alle autorità che deve riceverli. Battisti non ha mai partecipato ai processi in Italia, era in contumacia e la prima volta che ha  trovato un magistrato, cioè dopo il rientro nel nostro Paese, ha fatto quella dichiarazione. Eventuali dichiarazioni fatte ai media all’estero in precedenza vanno prese con le molle. Non è corretto dire che ha cambiato idea, ha sostanzialmente sempre ammesso la sua situazione storica e politica sulla quale ha anche scritto dei libri. A Nobili ha detto che le sentenze corrispondono al vero perché insieme a tanti altri è stato un militante dei Pac. Teniamo presente che i Pac non erano le Br,  ma un gruppo ristretto. Se fai parte dei Pac, le azioni sono quelle e pensare che fai parte dei Pac senza partecipare a quelle azioni poteva sembrare contraddittorio. In Francia o in Brasile potevano crederci, non conoscendo la storia di questo Paese, nessuno in Italia poteva immaginarlo.  

    Nell’interrogatorio davanti a Nobili, Battisti ammette di  avere ucciso, sparandogli, il poliziotto Andrea Campagna “su indicazione data dal collettivo di Zona Sud in quanto Campagna era stato ritenuto uno dei principali responsabili di una retata ai danni dei compagni del collettivo Barona che erano poi stati torturati in caserma”. Come si lega quell’episodio alla vicenda di Battisti?

    Quello è un fatto provato, ormai storico, anche se l’inchiesta venne archiviata, e riguarda tutti i militanti del collettivo Barona che furono sottoposti a tortura in caserma. Si sanno anche i nomi. C’entra fino a un certo punto con Battisti. Certamente fu un episodio orrendo, che però in realtà aveva riguardato una serie di persone che non c’entravano nulla coi Pac. Ho trovato onesto da parte di Battisti non strumentalizzare per se stesso quell’episodio che effettivamente non aveva nessuna attinenza. Questa è una brutta pagina di quella storia che ho anche riportato in un libro, facendo parlare i protagonisti. Il problema di quella storia è che non si è trattato di una serie di episodi giuridicamente delittuosi ma si è inserita in un gigantesco conflitto sociale che ha coinvolto  il nostro Paese per più di 15 anni. Per durare più di 15 anni in uno Stato capitalista, che non sono le montagne della Sierra Nevada, evidentemente era una situazione storica molto particolare al cui interno si colloca la microesperienza di Battisti e di migliaia di altre persone.  Che lo Stato in qualche modo abbia reagito andando oltre i mezzi consentiti è  abbastanza normale, cioè tu dichiari guerra e l’attaccato risponde. Battisti è stato un combattente di quel periodo e trovo anche che sia abbastanza coerente che non faccia il  ‘piangina’ rimproverando lo Stato. Aveva messo in conto che lo Stato reagisse in quel modo. Cioè lui non è un democratico, non puoi chiedere a Battisti di utilizzare lo sdegno democratico perché sarebbe anche contraddittorio. Battisti è l’ultimo a sorprendersi che la polizia torturasse i militanti arrestati. Non toccava a lui parlane, ma allo Stato ammettere.

    Lo Stato italiano continua a  cercare i latitanti all’estero, com’era Battisti. Alcuni protagonisti di quegli anni e diversi intellettuali ritengono che lo Stato dovrebbe non limitarsi a ridurre quelli commessi all’epoca come dei fatti criminali ma anche espressione di un conflitto sociale.  E’ possibile che prima o poi accada?

    C’è stato un conflitto di classe che si è inserito perfettamente in quel ventennio molto particolare di un secolo molto particolare, con guerriglie sparse in tutto il mondo. Questo lo Stato non lo vuole ammettere ma ai tempi del sequestro Moro sarebbe stata sufficiente una dichiarazione che c’era un conflitto sociale in corso per salvare la vita del politico. Lo Stato decise di non farlo allora ed è ovvio che non lo fa 40 anni dopo, ma così si continuerà a raccontare una storia monca che non fa capire né com’è nata né com’è finita, con ciò lasciandola sospesa. Tu puoi raccontare la storia solo se la definisci, se no resta lì e queste sono delle protuberanze che assomigliano a una forma di vendetta tardiva. Io sono contrario anche a recuperare i criminali nazisti, c’è poco di giuridico e tanto di vendetta, oltre al discorso della propaganda politica. Sapere che un ministro, Matteo Salvini, dice che un detenuto deve marcire in galera mi fa orrore e in questo do’ atto alla Corte d’assise d’appello di Milano, che si è occupata del caso, di avere ristabilito i giusti termini giuridici. La storia di un Paese non doveva essere delegata alla magistratura che non ha il compito di risolvere un conflitto sociale. Battisti non ha inventato la lotta armata ma faceva parte di altri 6mila cittadini condannati per lotta armata. Ho trovato ripristinato il principio secondo cui nessuno deve marcire in galera proprio nell’ordinanza che ha respinto la mia istanza di commutare in 30 anni la pena dell’ergastolo (nel provvedimento, i giudici hanno stabilito che Battisti “potrà godere dei benefici penitenziari, in virtù di un trattamento che è diretta attuazione del canone costituzionale della funzione rieducativa della pena”, ndr). In quell’ordinanza, il percorso penitenziario arrivato dalle leggi degli anni ’70  ha trovato un senso anche perché se lo Stato si limita a essere una retina che raccoglie tutti i ruderi di una guerra finita ci fa brutta figura lui. Uno Stato forte chiude i conti col passato. C’è stato bisogno di una mia istanza per ottenere il riconoscimento del ‘presofferto’, cioé i quasi 8 anni di carcere che Battisti aveva già scontato. I media hanno fatto passare il concetto che abbiamo chiesto uno sconto di pena, ma non è così. Io mi sono limitato a osservare che una parte di galera l’aveva già fatta.

    Come hai trovato Battisti dal punto di vista umano?

    L’ho visto per la prima volta nel carcere di massima sicurezza, è una persona di 65 anni che ha tutta una storia particolare, completamente diversa da dalla mia, per cui all’inizio è stato un po’ difficile. Quello che posso dire è che mi pare una persona sincera. Il mito  che era stato costruito non mi sembra corrispondere per niente alla persona fisica e reale che in questi mesi sto conoscendo,. Sicuramente la mia impressione è migliore di quella che la stampa aveva trasmesso.

    Tu sostieni che Battisti non sia stato espulso ma estradato, e per questo gli vada applicata la pena massima dei 30 anni di carcere perché in Brasile non è previsto l’ergastolo, a differenza che in Bolivia. Perché ne sei convinto? 

    In tutti gli atti pubblici della Digos non si parla mai di una procedura di espulsione, Battisti sempre viene definito come estradato e, come tale, va trattato secondo quanto stabilito dal trattato tra Brasile e Italia del 2017.  A mio parere l’Italia non può fare questa figuraccia di non rispettare l’accordo col Brasile. Non capisco le levate di scudi alla mia richiesta di commutare la pena dal carcere a vita a 30 anni su un uomo di 65 anni. Chiunque dotato di un minimo di buon senso capisce che trasformare in 30 anni la pena su una persona di questa età è di assoluta irrilevanza. Allora mi chiedo: perché tutto questo accanimento su cose che non hanno un rilievo effettivo? Significa che lo Stato va oltre, che in qualche modo vuole fargliela pagare un po’ di più e questo è sbagliato. Prendo però atto che, in questi sei mesi, gli unici soggetti coi quali ho potuto interloquire rimanendo nell’ambito del diritto sono stati i magistrati e la poliziotta Cristina Villa (tra le principali artefici della cattura in Bolivia, ndr). Meno male che mi hanno consentito di fare il mio mestiere.  Battisti ha fatto parte di una storia dolorosa, anche in questo Palazzo di Giustizia (di Milano, ndr) vediamo tutta una serie di targhe che ci ricordano le persone che sono morte in quegli anni, ma ricordiamoci che sono morte tantissime persone anche dall’altra parte e non vengono mai ricordate. Lo dicono i numeri che è stata una guerra.

    A luglio scadono i sei mesi di isolamento. Cosa succederà dopo? 

    Battisti è stato rinchiuso nel carcere di Oristano dove non ci sono altri detenuti qualificati come lui, cioé As2 (Alta sicurezza livello 2, ndr). Questo significa che quando scadrà la pena dell’isolamento lui continuerà a scontare in maniera illegittima l’isolamento se non verrà trasferito in una carcere dove potrà stare con altri. Che uno Stato pretenda di eseguire una pena è legittimo ma questa non deve trasformarsi in una tortura. L’isolamento è una pena ulteriore che non può andare un giorno oltre la pena comminata. Se non lo spostano da lì è invece destinato a prolungare una pena a quel punto illegale. Lui deve scontare il dovuto ma non vedo perché debba essere sottoposto a un trattamento diverso rispetto agli altri detenuti. Proverò a rivolgermi al Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) per farlo trasferire in un altro carcere ed evitargli l’isolamento oltre la pena. Bisogna trovare un carcere dove ci sono altri As2. Battisti sta scontando una pena per una storia alla quale hanno partecipato tantissimi in questo Paese, non ha inventato niente, è figlio di un’epoca. Il mio obbiettivo è che non muoia in carcere perché quando ho scelto di fare l’avvocato l’ho fatto per un Paese dove ero convinto e lo sono tuttora che i detenuti non debbano marcire in galera. In Italia manteniamo in vigore la pena dell’ergastolo che quasi tutti gli altri Stati a cui l’Italia si sente superiore per civiltà, ritengono superata. Nell’accordo su Battisti, l’allora Ministro della Giustizia Andrea Orlando scriveva in tre pagine, quasi scusandosi col Brasile, di avere ancora l’ergastolo e sembrava di percepire l’imbarazzo per questo. Due anni dopo sentire l’attuale Ministro che la rivendica e si augura che un detenuto marcisca in galera lo trovo inquietante non per me bensì per tutto il sistema, in primis per gli stessi operatori del diritto, avvocati e magistrati: perché allora che ci stiamo a fare? Per marcire in galera non c’è bisogno di noi.

    (frank cimini e manuela d’alessandro)

     

     

     

     

     

  • Giulia Ligresti, innocente dopo 6 anni da colpevole

    Ci sono casi  in cui la fallibilità della giustizia diventa eclatante. Per  6 anni Giulia Ligresti, figlia del costruttore Salvatore, è stata colpevole con sentenza definitiva, quella con cui un giudice di Torino ha accolto la sua richiesta di patteggiare 2 anni e otto mesi nell’ambito del crac di Fonsai, la compagnia assicurativa di famiglia. Ora la corte d’appello di Milano ha revocato quel verdetto, cancellandolo, perché il 29 ottobre scorso Paolo Ligresti, suo fratello, è stato assolto per gli stessi fatti dalla Cassazione. Un innocente e una colpevole per le stesse accuse non possono essere tollerati nel nostro ordinamento e ai magistrati non è restato che prenderne atto restituendo a Giulia una fedina penale cristallina.

    Non è l’unica assurdità in  questo storia perché il 19 ottobre, dieci giorni prima dell’epilogo favorevole a suo fratello, Giulia era finita in carcere diversi anni  dopo la sentenza per quella prassi dei tribunali di Sorveglianza a metterci secoli a fissare le udienze. Nonostante potesse in teoria avere accesse a misure alternative alla detenzione, il giudice di Torino aveva respinto l’istanza di messa alla prova presentata dai suoi legali, Gian Luigi Tizzoni e Davide Sangiorgio. Un mese dopo, appurato il contrasto della sua sentenza con quella favorevole a Paolo, aveva potuto lasciare San Vittore.

    “La sentenza di Milano – commentano i suoi avvocati – restituisce piena dignità a Giulia Ligresti, bersaglio di un’ingiusta carcerazione e ristabilisce la verità su un’operazione finanziaria la cui reale storia inizia finalmente a essere scritta. Non ci fu nessun crac e nessuna responsabilità da parte della famiglia”.  Giulia era stata arrestata insieme alla sorella Jonella e al padre il 17 luglio 2013 con l’accusa di aggiotaggio e falso in bilancio. In seguito a una perizia medica, che aveva accertato la sua profonda prostrazione psicologica, aveva lasciato il carcere un mese dopo. Ora potrà chiedere un risarcimento per ingiusta detenzione anche se lei, nel giorno della vittoria, preferisce non infierire: “Ho sempre avuto fiducia nella giustizia senza smettere di lottare, nemmeno quando sono finita in carcere da innocente”. (manuela d’alessandro)

  • Negata la libertà per una sigaretta non spenta

     

    Non spegnere una sigaretta, anzi non spegnerla velocemente, può costare la libertà. Protagonista della vicenda G.M., un detenuto 48enne di origini marocchine detenuto nel carcere di Rovigo per il reato di maltrattamenti in famiglia. Il Tribunale della Sorveglianza di Padova gli ha negato la liberazione anticipata  per essere incorso in un rilievo disciplinare “poiché – si legge nel provvedimento – dopo essere stato invitato da un agente di polizia penitenziaria a spegnere la sigaretta, continuava a fumare, fatto di cui il detenuto successivamente si scusava e per il quale è stato richiamato”. Inoltre, aggiunge il magistrato, “l’agente riferisce che il detenuto ha polemizzato con lui che lo aveva ripreso e che G.C. era stato sorpreso a fumare negli spazi comuni anche in altre occasioni, anche se non risulta elevato alcun rilievo, per cui l’episodio pare indicativo di una scarsa aderenza al percorso trattamentale”. L’istanza di liberazione anticipata, se accolta, comporta la riduzione della pena di 45 giorni per un semestre di pena espiata e avrebbe consentito a G.C. l’immediato ritorno alla libertà.

    “Il motivo del rigetto è quasi grottesco – commenta il suo legale, l’avvocato Simona Giannetti – se si pensa che in carcere una sigaretta ha un valore che non è lo stesso nel mondo esterno; questo per chi ogni tanto ne visita uno, ovviamente. Nel frattempo, considerato che si parla di trattamento penitenziario e di mancata adesione, mi sembra che si debbano prendere le misure di ciò che sia effettivamente il trattamento, inteso come un percorso di rieducazione del condannato attraverso l’adesione a comportamenti che ne dimostrino la disponibilità al reinserimento sociale. Mi chiedo – conclude il difensore – se non spegnere una sigaretta in un tempo non esplicitato e poi chiedere scusa, possa davvero ritenersi come non adesione a quel percorso risocializzante”.  (manuela d’alessandro)

  • Perché un ministro non può dire che un detenuto “deve marcire in galera”

    Sentire un ministro dell’Interno affermare che un detenuto  “deve marcire in galera” fa male alla Costituzione sulla quale tutti i componenti del Governo giurano al loro insediamento. Perché chi ha scritto la nostra carta si è ispirato a un’idea di carcere come possibilità di rieducazione per chi ci finisce dentro. E non ha precisato che questo principio vale solo per i criminali ‘meno cattivi’, ma riguarda tutti, anche i pluriomicidi come Cesare Battisti. Le pene, inoltre, dice sempre l’articolo 27 della Costituzione, non devono consistere in “trattamenti contrari all’umanità” il che significa che nessuno “deve marcire” in carcere, ma gli si deve consentire di vivere in salute, per quanto possibile, il suo pezzo di vita dietro le sbarre, senza finire in uno stato di putrescenza.

    Ma ancora di più fa male alla Costituzione sentire un Ministro pronosticare quanti anni di carcere debba scontare un condannato. La pena per l’ex terrorista è quella dell’ergastolo – e non ci sono dubbi –  ma come poi verrà declinata lo stabilirà un giudice dell’esecuzione, colui il quale, codice alla mano, deve ‘adattare’ la condanna  alla singola persona.

    Se sarà un ergastolo ostativo, cioè senza possibilità di ottenere dei benefici o misure alternative alla prigione salvo collaborazione con la giustizia o altre circostanze particolari, toccherà sempre a un giudice stabilirlo. E così se invece sarà un ergastolo comune, quindi con ampie possibilità, dopo molti anni, di poter godere di quei benefici e misure. Se poi dovesse accadere che le condizioni di salute di Battisti lo rendano incompatibile al carcere sarà sempre un giudice a scarcerarlo, come è accaduto per mafiosi, terroristi o altri criminali del suo rango. Non è buonismo, ma è la Costituzione. (manuela d’alessandro)

  • La lettera a Babbo Natale dei detenuti – lettori di Bollate

    I libri regalano vite di scorta a tutti: a chi è in carcere, e vive un’esistenza sospesa, ancora di più. Lo sa bene Renato Mele, animatore del Gruppo Cultura e della biblioteca del penitenziario di Bollate che quest’anno per Natale vuole donare mondi da sfogliare ai ‘suoi’ reclusi coinvolgendo la città di Milano. “L’idea è semplice – spiega – ho scritto nome e cognome del detenuto e il libro che vorrebbe, poi ho portato la lista nelle due librerie che hanno aderito all’iniziativa, la Libreria Popolare e Isola Libri, dove chi lo desidera può acquistare il volume con tanto di dedica a chi lo aspetta in carcere”.

    Lui poi si impegna a consegnarglieli appena dopo Natale perché è proprio nei giorni a ridosso della festa che si affollano le librerie e c’è più possibilità che a qualcuno venga voglia di offrire ore di svago su carta a chi sta scontando una pena.  Ma cosa desidera leggere chi è dentro? “Un po’ di tutto – chiarisce Mele – dai testi di grammatica italiana alla biografia di Francesco Totti ai gialli, ma anche filosofia e testi più impegnati”.

    A Mele, che fa parte dell’associazione Mario Cuminetti dal nome del fondatore del primo gruppo di volontari che portò attività culturali in un carcere italiano nel 1985, preme sottolineare che “Bollate non è speciale, come si dice sempre. E’ l’unico carcere italiano secondo la Costituzione, sono tutti gli altri a essere fuorilegge. Qui si realizza il principio della rieducazione e siamo convinti che la cultura possa davvero far cambiare le persone”. Tra le fitte attività nella struttura, che ospita circa 1200 persone, ci sono anche il giornale ‘Carte Bollate’ e lezioni di docenti universitari a studenti liberi e reclusi insieme. (manuela d’alessandro)

  • “Gli ideali della Costituzione traditi dalla realtà, ma sono vivi”

    Marta Cartabia è una giudice costituzionale con lo sguardo dolce. Non si vede subito perché quando entra nella Rotonda del carcere di San Vittore, una specie di piazza che segna un confine tra il fuori e il dentro, ha l’espressione ‘istituzionale’ di chi viene accolta con tutta la solennità del caso. Tutti in piedi e inno nazionale cantato dal coro multietnico dei detenuti per salutare la vicepresidente della Corte Costituzionale nella seconda tappa, dopo quella di Rebibbia, del viaggio intrapreso dai giudici custodi dei nostri valori all’interno degli istituti di pena. “Sono molto emozionata”, confessa, e poi via con la lezione di diritto incentrata sul ‘pieno sviluppo della persona umana’ in questo “che non è un carcere qualunque, mi ha sempre colpito la sua presenza nel cuore della città, da quanto portavo i miei figli a scuola, ci passavo davanti e pensavo a come si viveva qua dentro”. Nell’antichità, “la pena più grave, più della pena di morte, era essere esiliati dalla città, ma voi non lo siete, la Costituzione è scritta anche per voi perché è nata dalla sofferenza dei padri costituenti che sono stati in carcere e hanno voluto con chiarezza indicare nell’articolo 27 la finalità di rieducazione della pena”.

    Gli uomini e le donne seduti qui, un centinaio,  l’aspettavano da mesi dopo avere studiato come matti guidati dal professore della Cattolica Michele Massa e dal direttore Giacinto Siciliano. Sono preparatissimi, ma non tocca a loro essere interrogati. La studentessa è Marta: a volte, con quello sguardo dolce, dice cose dirompenti. “Perché la saggezza della Costituzione fa così fatica ad essere attuata nella vita quotidiana?”, domanda un detenuto straniero. “Il fatto che voi percepiate una distanza tra le parole della Costituzione e la realtà non significa che quelle parole non siano vere. Sono gli ideali a cui continuamente aspiriamo anche se la realtà li contraddice, a volte duramente. Come tutte le cose della vita, hanno un’attuazione inesauribile. Uno per esempio non può dire cos’è l’amore per la sua donna, lo impara continuamente. L’ideale è lì per richiamare la possibilità del cambiamento. Nelle questioni legate agli alti valori morali, nulla può mai essere dato per scontato, si fa un passo avanti e uno indietro, non è come nella scienza”. “E’ costituzionale – punge Loris – la potenza che hanno gli inquirenti di distruggerti la vita con la carcerazione preventiva e poi magari si scopre che sei innocente?”. “Molti di voi sono qui non per scontare la pena, ma in custodia cautelare – empatizza lei – immagino che essere strappati da una vita normale e trovarsi improvvisamente in una dimensione così diversa possa essere uno choc che richiede un suo tempo di interiorizzazione. La legge prevede delle garanzie per attuare il principio di non colpevolezza, come il fatto che l’autorità giudiziaria debba autorizzare la carcerazione preventiva. Ogni decisione ha la sua possibilità di appello”. Antonio chiede: “E’ costituzionale la recidiva che ti condanna non per il reato ma per quello che sei?”. “La recidiva tiene una specie di traccia del tuo percorso di vita, ma non riguarda le caratteristiche della persona – ribatte la giudice – la Consulta per esempio ha giudicato incostituzionale l’aggravante della clandestinità perché riguardava la persona. In ogni caso, si possono contemperare le aggravanti con le attenuanti, non bisogna guardare solo alla recidiva ma anche al resto per non trasformare la pena in un tratto identitario”. Marco provoca “Come si è evoluto il concetto di umanità della pena negli ultimi 70 anni se nel 2018 mi trovo un parassita nel letto durante la detenzione?”. La vicepresidente tentenna: “Spesso chi gestisce questi luoghi  deve fare i conti con la ristrettezza di mezzi e personale”.  “Perché i giudici prendono decisioni diverse su casi simili?”, è l’affondo di Davide. “Capisco possa sembrare ingiusto, ma in realtà ogni decisione tiene conto della specificità del caso, ma con dei limiti in modo che la discrezionalità non diventi disparità. La Costituzione guarda con sospetto agli automatismi”. L’idea di giustizia spunta da tutte le domande, l’idea che la promessa della Costituzione nei fatti venga tradita e Cartabia fa capire che sì, a volte è proprio così, ma si può cambiare approfittando della vitalità di quella vecchia carta. Massimo: “Non sono ingiuste le pene pecuniarie nei confronti di chi non è in grado di pagarle?”. “Si possono creare, come in altri ordinamenti, meccanismi in modo che la pena possa adeguarsi sia al reati che alle condizioni economiche della persona. Quella che qualcuno è una pena enorme, per altri è la mancia a una cameriera”.   “Nel centro clinico – racconta un detenuto – vedo ultra – ottantenni con malattie incurabili. Come si concilia con la Costituzione?”. “Nessuno deve morire in carcere, le condizioni dei detenuti non devono mai diventare tali da toccare la soglia del trattamento disumano, bisogna sempre vigilare con attenzione che ciò non accada. Spesso si sente dire che il tasso di civiltà di un Paese si misura su come vengono trattate le persone più vulnerabili e quando si è privati della libertà personale si è in una condizione di fragilità. Su come trattiamo i detenuti si misura il tasso di civiltà della nostra Repubblica”. Applausi, abbracci coi detenuti che le regalano una felpa del reparto ‘La Nave’, simbolo del loro viaggio,  e ovazione riservata alle rock star per Marta Cartabia, che è venuta qui ad ammettere con dolcezza quanto la Costituzione sia ancora una bellissima incompiuta. “I vostri problemi mi faranno compagnia nel lavoro e nella vita personale – promette – mi auguro che gli ideali della Costituzione possano farvi compagnia in questo vostro viaggio”.

    (manuela d’alessandro)

  • Il detenuto che spiega ai giovani reclusi come non fare la sua fine

    C’è un detenuto da quasi 30 anni nel carcere di Opera che ogni venerdì mattina, da otto venerdì, entra in quello di San Vittore per spiegare ai giovani reclusi come non fare la sua stessa fine. La prima volta, dice, è stata “un’emozione strepitosa”. Adriano Sannino, un’era fa killer della camorra,  ha 46 anni ed è tra gli ‘storici’ componenti del ‘Gruppo della Trasgressione’ animato dallo psicologo Juri Aparo. Uno che gira da 40 anni nelle prigioni e a un certo punto si è messo in testa , tra le altre mille cose, di portare nelle scuole chi viene percepito come reietto per evitare ai ragazzi scelte sbagliate. “La prima volta, ho pensato a quando sono entrato in carcere, buttato lì, con la mia busta, senza che nessuno mi spiegasse nulla. Ora entro dal portone principale, da cittadino. Gli agenti della polizia penitenziaria mi chiedono increduli: ‘Ma tu sei detenuto a Opera?’ e io mi sento uno di loro, un uomo delle istituzioni”. I ‘suoi’ ragazzi Aparo li porta dappertutto, spesso a confrontarsi coi familiari delle vittime, e adesso prova a farli uscire dal carcere ‘di campagna’ di Opera, destinato a chi deve scontare fardelli molto pesanti, per entrare nella galera di Milano centro a seminare libertà.

    Sannino può farlo, come presto sarà possibile anche per altri due ergastolani a Opera coinvolti nel progetto, perché è stato ammesso al lavoro esterno. Attraverso la cooperativa fondata da Aparo, scarica frutta e verdura, svegliandosi all’alba e fatica con leggerezza (“Non c’è un giorno che mi pesi”) fino al pomeriggio.  Al venerdì, dalle 12 e 30 e per tre ore, diventa lui stesso un ‘educatore’ nel reparto giovani adulti dove lo attendono una ventina di ragazzi, età media sui 20 anni. ” All’inizio mi guardano un po’ così. Ma poi quando vedono che parlo col cuore, quando gli spiego che sono stato uno stronzo e come sono cambiato, mi ascoltano e fanno un sacco di domande. Sulla mia storia, sul punto in cui è cambiata. Non ho verità in tasca, ma con loro mi metto un gioco, cerco di essere all’altezza di una grande responsabilità. Ad agosto per due venerdì, il ‘prof.’ (Aparo, ndr) era in vacanza e ha lasciato da soli me e una studentessa che fa parte del Gruppo, è stato molto emozionante”. Non è sempre facile fare breccia in chi lo ascolta. “Un ragazzo albanese, in particolare, provava a contraddire tutto quello che dicevo, sostenendo di dovere spacciare per aiutare la famiglia e che chi compra la droga è consenziente. Gli ho risposto che chi la compra è malato, non consenziente, che lui alimenta un sistema malavitoso che genera anche morte. Allora lui mi ha chiesto: ‘Preferisci essere tu quella con la pistola o avercela puntata contro?’. Gli ho detto che mi farei ammazzare per la vita e i valori in cui credo. Alla fine mi ha abbracciato e mi ha chiesto quando sarei tornato”.

    “Questo è un progetto rivoluzionario – spiega Aparo – nato in collaborazione con l’ex direttore di Opera e ora di San Vittore Giacinto Siciliano che ha l’obbiettivo di far provare ai giovani detenuti un viaggio nel futuro. Attraverso Sannino e gli altri entrano in contatto frontale con quello che potranno diventare se non cambieranno rotta, persone che a 50 anni ne hanno passati 30 in carcere. Tante volte, quando porto i detenuti fuori dal carcere, chi li sente parlare si emoziona e pensa che siano dei santi, che non debbano stare dentro. Ma io dico: se sono in carcere è perché sono stati dei coglioni. Le persone però cambiano e io sono convinto che non basti reinserire i detenuti nel lavoro e fargli guadagnare 1200 euro al mese. Bisogna metterli al centro di una progettualità, attraverso le relazioni umane e la maturazione di un senso di responsabilità”. Da ‘grande’ Sannino, a cui manca ancora qualche anno da scontare, ha un sogno per quando sarà libero: “Creare all’interno della cooperativa una piccola comunità per ragazzi disagiati e trasmettere a loro la mia esperienza”.

    (manuela d’alessandro)

    *Nella foto tratta dal sito ‘Amici della Mente Onlus’ Juri Aparo in camicia rossa col Gruppo della Trasgressione nel carcere di Bollate

     

  • Detenuti di Opera contro i topi, morso un recluso malato di cancro

    Topi nelle docce, topi che mordono detenuti e medici, che mettono in pericolo la salute di chi, già malato, sta dietro le sbarre. Cosa succede a Opera? A raccontarlo sono gli stessi reclusi che, in una lettera alla direzione della casa circondariale, protestano per la massiccia presenza di ratti, evidenziando il caso di uno di loro, malato di tumore, morso da un roditore e sottoposto per questo a profilassi.

    Una trentina di carcerati lamenta che gli episodi relativi alla presenza dei roditori, “anche di dimensioni notevoli nella doccia del reparto infermeria”, “si stanno ripetendo da mesi ma, nonostante le numerose segnalazioni, non si è giunti a nessuna soluzione da parte della direzione”. “Crediamo che la situazione sia diventata davvero intollerabile – si legge nella missiva scritta a mano che abbiamo potuto leggere – considerando il luogo in cui siamo e soprattutto l’alto numero di detenuti ristretti  con gravi patologie”. I firmatari fanno riferimento perfino a “un medico morso alla gamba come da certificazione infettivologica”.

    Il caso portato a emblema è quello di Cosimo Loiero, malato di cancro e azzannato da un topo, che ha chiesto di essere  scarcerato e messo ai domiciliari nei mesi scorsi per “l’incompatibilità del regime carcerario con le sue condizioni di salute”, ma prima la Corte d’Appello e poi il Tribunale del Riesame di Milano gli hanno detto di no. Loiero,  44 anni, condannato in primo grado a 18 anni  col rito abbreviato per associazione a delinquere finalizzata al narcotraffico, si è ammalato di un linfoma di non – Hodgkin poco dopo essere stato arrestato nel  2016. Per i giudici del Riesame, “pur dovendosi dare atto della assoluta serietà e complessità delle patologie dalle quali risulta affetto Loiero, la detenzione in sé considerata, ovviamente effettuata come nel caso in un centro clinico (ma dalle carte si evince che non ci va mai, ndr)  non palesa insuperabili problematiche connesse alla patologia”.

    La consulenza della difesa e la perizia del Tribunale concordano nel dire che  i cicli di chemioterapia a cui si sta sottoponendo determinano “un elevato rischio di complicanze infettive a breve e a lungo termine” perché il paziente è immunodepresso. Ma le conclusioni divergono. Per il medicio incaricato dalla difesa,  questo quadro clinico rende molto pericolosa la permanenza dietro le sbarre dal momento che “in ragione della terapia in corso Loiero presenta un rischio aumentato di eventi infettivi”.  Il perito del Tribunale invece si limita a indicare le precauzioni a cui dovrebbe attenersi il detenuto (”le norme igieniche devono essere garantite e verificate, evitando bagni a uso promiscuo o la scarsa pulizia degli ambienti”) ma sostiene “di non essere in grado di verificare quale sia la concreta situazione della casa circondariale, ad esempio “quante volte lavano i pavimenti o quante persone sono contemporaneamente presenti nel medesmo luogo”. La valutazione alla fine è stata fatta dal Tribunale del Riesame che ha affrontato anche l’episodio del morso del topo, esposto dallo stesso Loiero prima in udienza, dove ha mostrato i segni lasciati sul braccio dal ratto, sia  in una lettera ai suoi avvocati, firmata anche da due detenuti – testimoni.  “Il 29 aprile del 2018 alle 4 del mattino, un topo sbucato dai cestini portacibo  mi ha morso sul braccio destro ed è poi scappato. Lo ha ucciso il mio compagno di cella con una scopa e io ho deciso di conservarlo in un contenitore per alimenti per farlo vedere al medico perito che mi ha visitato il giorno dopo”. Loiero, che aveva appena terminato un ciclo di chemio, è stato visitato dal medico infettivologo del carcere che gli ha fatto una puntura antitetanica  prescrivendogli una cura di antibiotici per alcuni giorni. Sul punto, il Riesame “in assenza di elementi obbiettivi di riscontro, prende atto delle dichiarazioni del detenuto” e “nell’incertezza dell’effettività di quanto rappresentato da Loiero, segnala che sono state adottate le cautele del caso attivando un’adeguata profilassi attraverso la somministrazione di vaccino e antibiotici a riprova dell’adeguatezza della reazione sanitaria”. Non è chiaro da dove derivi l’incertezza dei giudici sul fatto dal momento che, come spiega uno dei legali di Loiero, l’avvocato Giuseppe Gervasi, “l’animale è stato conservato e consegnato al medico, il mio assistito è stato sottoposto alla profilassi del caso in carcere e in udienza ha mostrato i segni del morso”. Per il difensore “è grave che il Tribunale si limiti a ‘prenderne atto’ e a dire che il problema è stato superato dall’antitetanica senza preoccuparsi di svolgere accertamenti sull’episodio e sulla presenza di topi a Opera. Ed è assurdo  il passaggio del provvedimento in cui i giudici sottolineano che il perito ha fatto presente a Loiero  la pericolosità  della conservazione e del contatto con la carcassa, possibile causa di infezione. Come se fosse responsabilità sua essersi messo a rischio, quando invece è stato morso in carcere”. I difensori di Loiero hanno presentato ricorso alla Cassazione contro la decisione del Riesame.

    (manuela d’alessandro)

  • “False malattie, water, bombole del gas” per il direttore del carcere di Bergamo

    “Lunedì vado all’ospedale militare e mi dici i sintomi che devo accusare. Qual è la sindrome ansioso depressiva che devo accusare”. In effetti un po’ d’ansia l’allora direttore del carcere di Bergamo Antonino Porcino sembra manifestarla  al telefono col dirigente sanitario della struttura, Francesco Berté. Un’agitazione che, secondo la Procura, è legata alla volontà di non andare a lavorare tra il 29 gennaio e il maggio del 2018, giusto il tempo di raggiungere la pensione.  “Mi volevano mettere in ferie e allora mi metto in malattia… – suona preoccupato Porcino in un’altra conversazione intercettata –  mi hanno fatto girare i coglioni ma se mi chiedono che sintomi ho non li so”. “Eh – gli spiega un interlocutore a cui si rivolge in un’altra telefonata – che hai poco interesse durante la giornata…che sei stanco…ti si chiude ogni tanto lo stomaco…in un modo che non è grave …solo un po’ di sintomi depressivi”. Ma a Porcino pare non bastare: “Devo essere grave invece…devo essere grave”.   Con la complicità di quattro indagati, tre medici e un dirigente sanitario, si legge nell’ordinanza di custodia cautelare a carico anche dell’ex direttore, “la dolosa e inveritiera attestazione di sindrome ansioso depressiva  comportava l’esonero del Porcino per la durata  di 205 giorni determinando il diritto al trattamento economico spettante per le residue ferie non dovute  col correlato illecito arricchimento”. Con “possibili riflessi economici positivi” sulla pensione.

    Quasi surreali alcune delle contestazioni mosse a Porcino, dall’aver chiesto a un agente della polizia penitenziaria di andare in orario di servizio a prelevare due bombole del gas a casa sua, ricaricarle e poi riportarle nella sua abitazione, all’essersi “appropriato” assieme a un altro indagato di “almeno due water nuovi appena imballati”, portati via dal carcere. Addirittura gli viene addebitato di essersi impossessato di una risma di carta della struttura. Infine, avrebbe pure ricevuto “scatoloni di medie dimensioni contenenti presumibilmente macchinette di caffé” per avere favorita un’azienda ‘amica’nella procedura per l’installazione di distributori di cibi, bevande e tabacchi.  Gli arresti nascono da un’inchiesta coordinata dai pm Maria Cristina Rota ed Emanuele Marchisio che era nata per far luce sul trattamento carcerario “di favore” garantito a un imprenditore arrestato, nell’aprile 2017, dalla Guardia di Finanza di Vibo Valentia, nell’ambito di indagini sulla realizzazione dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria. L’uomo, detenuto a Bergamo, aveva usufruito di un lungo ricovero all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, grazie a certificazioni mediche che attestavano un grave shock emotivo che invece non aveva subito.

    Le indagini hanno fatto emergere il coinvolgimento nella vicenda dell’attuale comandante della Polizia Penitenziaria di Bergamo, Antonio Ricciardelli,  e hanno accertato false attestazioni sanitarie per far ottenere benefici economici (pagamento licenza non fruita all’atto del pensionamento, trattamenti privilegiati di quiescenza, riposo medico per patologie inesistenti e concordate) all’ex direttore del carcere di via Gleno, da pochi giorni, in pensione. Dalle intercettazioni, spunta anche un presunto falso sulla durata di un colloquio  che il procuratore di Brescia, Tommaso Buonanno ebbe il 29 marzo  scorso con il figlio Gianmarco, detenuto per rapina. L’incontro era durato un’ora e mezza ma Ricciardelli e un agente annotarono sul registro la durata di un’ora. (manuela d’alessandro)

  • “Dimagrisce perché non vuole la dentiera”, detenuto in coma dopo no a scarcerazione

    E’ una storia delicata che si presta perlomeno a una riflessione quella di G.C., detenuto nel carcere di Vigevano, ora in coma farmacologico per le conseguenze di un cancro al polmone dopo che un anno fa i giudici gli avevano negato la scarcerazione o  un approfondimento del suo stato di salute.

    Nell’ordinanza con cui respingevano una richiesta di perizia presentata dal suo legale, Andrea Dondé, anche sulla base di un dimagrimento di 40 kg, i magistrati scrivevano che “nessuna delle pluralità di patologie era in sè ostativa alla permanenza in carcere” di G.C. il quale si sottraeva in parte alla “concreta attuazione delle terapie ospedaliere per sua scelta, come nel caso dell’astensione al fumo e dell’applicazione di una protesi dentaria, quest’ultima risolutiva dei problemi di alimentazione, cui è legata la perdita di peso riscontrata dal difensore”.

    Tra le patologie indicate dai giudici anche una “broncopneumopatia cronica con inziali segni di insufficienza respiratoria”. Un mese fa, G.C. che stava scontando la pena dell‘ergastolo per un omicidio, si è sentito peggio del solito ed è stato portato nell’ospedale di Vigevano dove i medici hanno constatato che le sue condizioni erano “gravemente compromesse” tanto da doverlo operare immeditamente ai polmoni e a indurre il coma farmacologico. “Si potrà dire che fumava e che quindi si è ammalato per quello di cancro – spiega Dondé –  ma quando i sanitari parlano di un paziente arrivato in condizioni gravemente compromesse mi viene da pensare che forse si poteva fare di più, almeno quella perizia che avevo chiesto”. Per i magistrati che negarono l’incompatibilità di G.C. col carcere la documentazione medica acquisita un anno fa, si legge nell’ordinanza, era invece “tale da non richiedere ulteriori approfondimenti”. (manuela d’alessandro)

    Aggiornamento del 02 agosto 2016. Il protagonista di questa storia è morto nella notte tra lunedì e martedì. Dopo aver parlato di questa vicenda, nei giorni scorsi, il figlio Andrea Francesco ci aveva scritto, commentando con rabbia amara l’evoluzione della salute del padre. Le sue parole le trovate nei commenti a questo articolo.

  • Visioni e sogni dei detenuti in mostra nel Palazzo di Giustizia

    Salvatore (commosso sul finale). “Io non sapevo dipingere, poi me l’hanno insegnato. Ora è l’unico passatempo che ho. Di più non sono capace di dirvi”. Nella sua cella Salvatore ha raccolto sei rose gialle e rosse e le ha piantate tra spicchi di blu. Ora profumano di gioia nell’atrio del terzo piano del palazzo di giustizia che ospita la mostra ‘Sogni di segni, segni di sogni’, dove prendono forma incanti e visioni dei detenuti del carcere di San Vittore e delle mamme dell’Icam. Per tre ore alla settimana hanno frequentato laboratori di pittura promossi dall’Anm milanese in collaborazione con la direttrice del penitenziario, Gloria Manzelli, e col centro provinciale istruzione adulti (C.P.I.A.). “In queste opere non vengono raffigurati momenti di detenzione”, spiega il magistrato della sorveglianza Gaetano Brusa, “ma c’è il frutto della libertà e della fantasia degli autori”. Ci sono spose con abiti lunghissimi e stellati, feste, squali, ritratti, santi, e tante eruzioni astratte di colore da interpretare, o anche no. A noi è piaciuto molto il labirinto fantastico in bianco e nero immaginato da Lbida Abdelhadi nel dipinto ‘Sii presente in ogni momento della vita’. (manuela d’alessandro)

    ‘Sogni di segni, segni di sogni’ , dal 3 dicembre al 31 gennaio nel Palazzo di Giustizia di Milano. Ingresso libero.  Le opere esposte possono essere acquistate inviando una mail all’indirizzo anm.milano@outlook.it

  • “41bis=tortura”, striscione e presidio davanti al tribunale

    Lo striscione è bianco e in blu c’è scritto: “41bis=tortura”. Siamo davanti al palazzo di giustizia per un presidio con volantinaggio organizzato da OLGa (E’ ora di liberarsi dalle galere) associazione che cura il blog paginecontrolatortura.noblogs.org.

    Si parla di isolamento per 23 ore al giorno, esclusione a priori dall’accesso ai “Benefici”, l’utilizzo dei Gom, gruppi di agenti di polizia penitenziaria specializzati in pestaggi nelle celle tipo Genova 2001, di processo in videoconferenza, come quello per “Mafia capitale” che a Roma ha visto le proteste degli avvocati.

    L’articolo 41bis del regolamento carcerario ha sostituito quello che ai tempi della repressione dlela sovversione interna, i cosiddetti anni di piombo, era l’articolo 90. “L’esigenza di evitare il perdurare dei legami con l’associazione è secondario rispetto al fine ultimo di estorcere informazioni che portino a nuove accuse, a nuove incarcerazioni – si legge nel volantino. Più di 20 anni di 41bis non hanno di certo arginato la cosiddetta criminalità organizzata che dilaga insieme alla corruzione degli apparati istituzionali. La ‘lotta alla mafia’ al pari di quella al ‘terrorismo’ risultano essere soltanto strumenti per generalizzare forme di controllo, coercizione e deterrenza necessari a governare una fase storica”.

    OLGa ricorda che chi è sottoposto al 41bis non può ricevere libri che possono essere acquistati solo dietro autorizzazione del Dap. E la Cassazione ha rigettato poco più di un anno fa tutti i ricorsi rendendo definitiva la restrizione.

    Al presidio partecipa anche il Soccorso Rosso Internazionale: “Contro il 41bis! Solidarietà ai rivoluzionari prigionieri!”. (frank cimini)

     

  • Detenuta lavoratrice a Expo, evade uscendo dai tornelli. Ricercata da luglio.

    E’ scivolata via lieve dai tornelli dell’esposizione universale, confusa nella folla stanca che abbandonava i padiglioni un pomeriggio di luglio. Evasa da Expo dove lavorava per 500 euro al mese nell’ambito del progetto che vede impegnato un centinaio di detenuti delle varice carceri lombarde – Bollate, Opera, Busto Arsizio e Monza – a dare informazioni e aiutare i visitatori che perdono il filo tra i paesi del mondo.

    Una detenuta transessuale vicina all’ultima curva della sua pena per omicidio preterintenzionale, due anni e mezzo da scontare a Bollate, una delle carceri meno crudeli con chi ha perso la libertà. Impeccabile sempre, tutte le volte che le era stato concesso uno spicchio d’aria con diversi permessi durante la carcerazione. Mai un ritardo, una sbavatura. Per questo era stata scelta, anche col sì del giudice della sorveglianza, tra i candidati a vivere un’esperienza di lavoro a Expo con uno stipendio inferiore di un terzo rispetto ai contratti collettivi nazionali, come previsto dalla legge. Sei ore al giorno per sei giorni alla settimana dentro alla giostra dell’esposizione finché non le è venuta voglia di scendere e scappare via. Da allora, primi di luglio, la stanno cercando invano. Se dovessero trovarla, la sua curva prima della libertà diventererebbe una strada senza fine. (manuela d’alessandro)

  • Se il giudice manda le mail in carcere al detenuto…

    Si può affidare la libertà di un uomo a un clic? Si può dire a un detenuto che deve stare in carcere notificandogli il provvedimento via PEC (Posta Elettronica Certificata) alla casa circondariale?

    L’avvocato Michele Monti chiede di annullare la revoca della sospensione condizionale della pena per il signor T. Y. perché, al contrario di quanto sostenuto dal giudice dell’esecuzione, il suo assistito non sarebbe stato “correttamente” avvisato della decisione.

    Nel ricorso alla Cassazione, il legale sottolinea che “le notifiche all’imputato non possono eseguirsi a mezzo PEC” (la legge sembra molto chiara nell’escluderlo) e che “anche a voler concedere che un primo passaggio possa essere rappresentato da una notifica telematica dalla cancelleria del giudice alla casa circondariale le norme processuali, in caso di imputato detenuto, impongono la notifica mediante consegna di copia alla persona”.

    Secondo il giudice invece “il rapporto di trasmissione telematica da cui risulta l’avvenuta consegna al sistema informatico della casa circondariale  carcere di Cremona  equivale alla consegna a mani del detenuto“. Ma non c’è prova che il signor T. Y. abbia ricevuto la notizia della fissazione dell’udienza camerale che gli avrebbe consentito di essere sentito dal magistrato di sorveglianza o di depositare delle memorie difensive. Anche perché, leggendo il verbale firmato dal cancelliere milanese, si deduce che nel giro di un secondo chi ha ricevuto la mail in carcere l’abbia stampata e consegnata di persona al detenuto. (manuela d’alessandro)

  • 19 anni e milioni di euro dopo, l’aula bunker di Opera non è finita e fa ruggine

     

    Quando iniziarono a progettarla, Michael Johnson bruciava ogni record alle Olimpiadi di Atlanta e Antonio Di Pietro decideva di entrare in politica. Correva l’anno 1996. A Milano, sull’onda lunga di ‘Tangentopoli’, si pensava in grande con la costruzione di un’aula bunker vicino al carcere di Opera dove celebrare i maxi processi. Diciannove anni, molti appalti, molti milioni in lire e in euro dopo, quel progetto è diventato un osceno prefabbricato in calcestruzzo a cui si sta cercando con molta fatica di ridare una dignità. La Procura Generale e la Corte d’Appello di Milano hanno presentato un esposto alla Corte dei Conti e uno alla Procura della Repubblica per capire cosa sia successo.

    Un gioiello tra i fontanili

    Opera è un comune appena fuori Milano, famoso per il suo carcere, uno dei più vasti in Italia e quello col maggior numero di detenuti con l’arcigno regime del 41 bis. Il progetto elaborato dal Provveditorato lombardo alle Opere Pubbliche prevedeva di affiancare alla prigione, costruita negli anni ottanta, un edificio con un interrato riservato alle celle e due piani in grado di contenere due aule bunker e le camere di consiglio con bagni annessi.

    L’area destinata all’iniziativa è la verde campagna attorno al centro abitato dove scorrono ameni fontanili, un dettaglio che, come vedremo, non verrà tenuto in giusto conto nel piano originario. La grandeur iniziale porta ad immaginare anche un parcheggio e una strada lunga circa 300 metri che consentano ad avvocati, magistrati, forze dell’ordine e pubblico di raggiungere il bunker. Il costo dell’intervento, compresi gli oneri di esproprio e urbanizzazione (marciapiedi, linea telefonica, reti di collegamento fognario), viene valutato in 12 miliardi e 644milioni di lire. Si parte a rilento con la prima pietra posata solo nel 1999 e si va avanti peggio. Sorgono problemi di varia natura con le imprese che si sono aggiudicate i lavori e nel 2002 viene stipulato un nuovo contratto di appalto. La Commissione di manutenzione della Corte d’Appello di Milano e il Provveditorato ritoccano il progetto, eliminando una delle due aule bunker previste per fare spazio a una zona archivio. Nel 2006  la direzione dei lavori comunica che entro un paio di mesi sarebbero stato completato il primo lotto ma esige un altro finanziamento di 5 milioni e mezzo di euro. L’epilogo dei lavori viene spostato all’inizio del 2010.

    Scende la pioggia nel bunker    

    Il Ministero della Giustizia sborsa la somma richiesta mettendola a a disposizione del Provveditorato che, a luglio 2011, annuncia un ulteriore ritardo nel completamento dell’opera. C’è un intoppo non da poco. I locali sottoterra si allagano a causa dell’innalzamento della falda freatica e una perizia accerta che i lavori non potranno essere completati prima del giugno 2012. Troppo ottimismo. Una delle due imprese impegnate nel cantiere va in liquidazione volontaria e le bizze della falda provocano infiltrazioni d’acqua dal tetto. Caos. Una seconda perizia dimostra che l’impermeabilizzazione del tetto eseguita a suo tempo non è più idonea. A novembre 2013 la società che sta portando avanti i lavori, una ditta veneta, stila un elenco delle opere ancora da realizzare e rassicura la Corte d’Appello che non ci sarà bisogno di nuovi finanziamenti. Previsione smentita perché sei mesi dopo sembra emergere la necessità di denaro fresco. Finalmente qualcuno nel Palazzo di Giustizia decide di interessarsi della vicenda. Nella primavera del 2014, alcuni magistrati effettuano un sopralluogo del cantiere. L’esito è drammatico: il cantiere appare abbandonato e le opere portate a termine sono in stato di degrado.

    La promessa del Provveditore

    “Io sono arrivato nell’aprile del 2012, questa cosa era già qua”. Pietro Baratono, responsabile delle Opere Pubbliche in Lombardia, ha l’aria sconfortata di chi si è  trovato sulla scrivania un dossier tremendo, ormai compromesso da troppi pasticci. “Questo appalto  – spiega – è nato male, ‘diviso‘ in due, con gare all’inizio solo per le strutture dell’opera e poi con altre gare per il resto. Quindi, senza una visione unitaria. Sicuramente ci sono delle responsabilità anche nostre, ma le diverse esigenze dell’ente usuario che si sono manifestate nel tempo non hanno aiutato”. A un certo punto i magistrati, sottolinea Baratono, “hanno chiesto anche di aggiungere gli alloggi per dormire in vista di possibili camere di consiglio che durino più giorni”. Ricapitolando: il progetto attuale prevede le celle nel seminterrato e ai due piani un’aula bunker, un archivio, due camere di consiglio con annesse otto stanzette per i magistrati qualora le riunioni per le sentenze dovessero protrarsi. “Ora i lavori dopo un periodo di sospensione per effettuare le perizie sono ripresi – garantisce Baratono – e per luglio 2015 ho promesso al Presidente della Corte d’Appello Canzio che sarà tutto pronto”.

    Un cantiere desolato   

    Lunedì mattina di inizio febbraio, sono le nove e mezzo. L’abbaiare furioso dei cani nel recinto del carcere accoglie il nostro avvicinamento al cantiere dell’aula bunker. Per arrivarci camminiamo per qualche minuto nell’erba resa fangosa dalle piogge degli ultimi giorni. Della strada vagheggiata nel progetto iniziale che dovrebbe permettere un facile accesso all’aula non c’è traccia. Ecco la nostra opera: la conosciamo che è già maggiorenne da un pezzo. Una colata cupa e senza grazia di calcestruzzo, il colore che ci si immagina per il più sordido dei luoghi di dolore. Non si vede nessun operaio al lavoro, né ci sono segni del passaggio recente di qualcuno. Cumuli di rifiuti, un tavolo arrugginito, due taniche per terra, solo una betoniera azzurra ravviva il paesaggio di per sé già non allegro ma intristito ancor più dalla costruzione che affianca il carcere.

    Visita al labirinto

    Proviamo a contattare telefonicamente e via mail l’impresa che segue i lavori da un paio d’anni, senza ricevere risposte. Torniamo al cantiere una radiosa mattina di marzo. Oggi si lavora. Ci intrufoliamo in quello che appare un enorme labirinto con scarsa logica nella divisione degli spazi, dove si sono affastellati gli interventi confusi di chi ci ha messo le mani in questi anni. La ditta che ci sta lavorando, grazie a un affidamento diretto, è animata da buoni propositi ma più di tanto non può fare (“Dieci anni fa un lavoro così non l’avrebbe preso nessuno, ma ora con la crisi…”, confessa una persona presente sul cantiere). L’aula destinata ai processi, il cuore del progetto, sembra quasi finita. C’è una stranezza, però. Il pubblico e i cronisti potranno assistere alle udienze da una specie di acquario sopraelevato con un separè di vetro che non renderà agevole capire cosa succede di sotto. Il grande archivio con tetto fatiscente è ancora vuoto, a breve dovrebbe partire la selezione tra le imprese che vorranno arredarlo. Sconvolgente la visione delle celle nella stanza sottoterra. I detenuti in attesa di giudizio saranno ammassati in pochi metri quadri, in una bolgia oscura  dentro gabbie arrugginite dal tempo a cui non basterà una mano di vernice bianca per tornare nuove, se non nell’apparenza. I quadri elettrici sono vecchi, ma ci viene assicurato che funzionano. L’umidità ha aggredito i muri, chissà cosa ne penserà l’Asl che dovrà valutare le condizioni igienico sanitarie. Quelle umane, se dovesse esaminarle la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, costerebbero all’Italia l’ennesima sentenza di condanna. Ai piani alti, ai quali si accede con una scala tortuosa, c’è ancora molto da fare per rendere presentabili le stanze per i giudici. Un signore ci spiega che dovrebbe anche essere costruito un parcheggio con un centinaio (!)  di posti auto, mentre il progetto della strada pedonale per dare un acceso autonomo al bunker è stato eliminato perché non è stata espropriata l’area dove ricavarla. Quindi per entrare non resta che passeggiare tra i campi oppure passare dal carcere.

    Serve davvero quest’opera? 

    Quando Michael Johnson era l’uomo più veloce del mondo, a Milano si celebravano molti maxi processi, oggi quasi nessuno; gli archivi erano pieni di carta, adesso si cerca di digitalizzare qualsiasi cosa.  L’Italia era un paese ancora florido, con tanti soldi da mettere a disposizione della giustizia. Oggi è  utile finire quest’opera? Sull’archivio a Palazzo c’è chi dice che servirebbe, chi no. Di certo i costi di manutenzione per celle, aula bunker, alloggi per i giudici sarebbero esorbitanti e forse non sostenibili coi pochi denari assicurati alla giustizia. Si potrebbe ripensare alla funzione di questo edificio, utilizzandolo solo come archivio o per attività meno dispendiose. L’inchiesta della Procura di Milano non potrà portare a nulla perché eventuali reati sarebbero già prescritti, resta invece aperta aperta la possibilità per la Corte dei Conti di valutare i danni alla collettività e gli eventuali responsabili. In ogni caso, il giorno che tutto sarà finito qualcuno dovrà scusarsi per questi 19, incredibili anni. (manuela d’alessandro)

     

  • Lavoro gratis dei detenuti, ecco perché non ci piace

    Il programma di Report ha riproposto un tema che da anni e periodicamente ritorna a galla , quello del lavoro gratuito volontario per i detenuti.
    Coloro che sono favorevoli alternano motivazioni caritatevoli , stanno tutto il giorno a guardare il muro, così gli passa il tempo, motivazioni risarcitorie, hanno fatto un danno alla società lo ripaghino così , motivazioni economiche , così si pagano le spese di detenzione.
    Tali motivazioni si scontrano con due concetti banali e incontrovertibili:
    il lavoro va sempre retribuito, il termine volontario per un soggetto in carcere e’ un non senso.
    Detto questo , se vogliamo porre la questione in termini di rieducazione e reinserimento del detenuto, premesso che il lavoro, e’ una parte di un percorso più complesso, proprio la retribuzione, che contribuisce anche al mantenimento del detenuto, e’ condizione che aiuta ad evitare la recidiva.
    Per anni abbiamo lodato, giustamente , la legge Simeone, che aiutava la retribuzione dei detenuti , anche grazie a sgravi fiscali per le aziende che li assumevano , come potremmo ancora fare ciò quando le stesse aziende, potranno assumere soggetti senza pagarli ?
    Non molto più giustificabile e’ il ragionamento che vorrebbe imporre il lavoro non retribuito per la collettività , come forma sostitutiva di un’attività che il Comune non può svolgere , magari per mancanza di fondi.
    In un ottica di libera concorrenza questa forma di attività gratuita rischierebbe di fare fallire altre ditte, imprese; se per esempio le panchine di un  comune  le aggiustassero gratis i detenuti, fallirebbero tutte le ditte che si occupano di questa mansione, con benefici magari per l’Ente pubblico,ma con perdite di posti di lavoro.
    Ma al di là degli  aspetti economici quello che va combattuto e’ un concetto che, estremizzato, porta a ritenere legittimi i lavori forzati, cioè quello  che il lavoro possa essere di per se stesso e da solo, forma di risarcimento della società per il reato commesso.
    Niente di più sbagliato, i lavori socialmente utili sono altra cosa, ha senso che una persona che ha ferito una persona perché guidava ubriaco, vada a fare una attività risarcitoria in un ospedale dove sono ricoverate persone vittime di incidenti stradali, mentre lo ha molto meno che un rapinatore vada a aggiustare un marciapiede .
    Basterebbe forse fare un semplice ragionamento, le persone detenute sono giustappunto persone e tutte le persone che lavorano ogni giorno sono , più o meno , retribuite, perché quelle ristrette non dovrebbero esserlo? (Mirko Mazzali, avvocato e consigliere del Comune di Milano)

  • Sentenza Ruby, ecco perché Berlusconi non rischia il carcere

    La domanda in queste ore  è: Silvio Berlusconi rischia di finire in carcere se domani e poi in Cassazione verrà confermata la sentenza di condanna nel processo Ruby? Bisogna scartabellare un po’ di articoli del codice, consultare i nostri ‘oracoli giudiziari’  e rimettere in fila il curriculum penale dell’ex premier per arrivare al responso.

    Ebbene, Berlusconi rischia un bel numero di anni ai domiciliari, ma molto difficilmente finirà in carcere come il suo amico Marcello Dell’Utri.  Prendiamo il caso peggiore per il leader di Forza Italia: domani la Corte d’Appello ribadisce la condanna a sette anni di carcere e poi la Cassazione rende definitivo il fardello. A quel punto, ‘rivivrebbero’ i 3 anni di condanna indultati per Mediaset e per Silvio si profilerebbe un Everest di 10 anni di galera.

    In suo soccorso però arriverebbe l’articolo 47 ter dell’ordinamento penitenziario così come modificato dalla legge ex Cirielli secondo cui la pena della reclusione “può essere espiata” da un ultra – settantenne ai domiciliari purché non sia stato condannato per alcuni reati particolarmente gravi indicati dalla legge e “non sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza”. Tra i reati per i quali scatta il carcere vengono annoverati violenza sessuale , strage, terrorismo, rapina armata, mafia, contrabbando, ma non la concussione e nemmeno la prostituzione minorile. Quanto alla dichiarazione di “delinquenza abituale, professionale o per tendenza”, viene pronunciata dal Tribunale di Sorveglianza ma in casi rari e per il momento l’ex Cavaliere non sembra essere a rischio. L’ipotesi che possa finire in carcere è allora tutta condensata nell’espressione “può essere espiata”. In teoria, il Tribunale di Sorveglianza potrebbe non concedergli questa possibilità spedendolo in carcere. Ma è un’ipotesi  che, spiegano fonti giudiziarie, nel caso di Berlusconi non dovrebbe essere presa in considerazione. (manuela d’alessandro)

     

     

  • “Ho visto i miei figli e non riuscivo a parlare”.
    Le lettere di un carcerato dal 41 bis.

    Dentro il disumano c’è anche l’umano. Dentro il carcere c’è un detenuto col 41 bis che scrive al suo avvocato e con la penna in mano è anche un papà: “Dopo un anno e nove mesi siamo riusciti a fare il colloquio coi miei figli, alla presenza dell’assistente sociale, come ordinato dal Tribunale dei Minori di Milano. E’ stato un giorno felice e molto emozionante, mi è venuto un groppo alla gola nel vedere i miei amati figli dopo così tanto tempo, non riuscivo a parlare, mi sono trovato davanti due belle signorine e un bel giovanotto, sono cresciuti tanto e la cosa che mi ha fatto più male è vedere i miei adorati figli piangere per me, non riuscivano neanche a parlare dalla gioia, dalla felicità, dall’emozione”.

    Lui è un boss della ‘ndrangheta,  condannato a 30 anni per un omicidio e reati di droga (“Nella mia vita ho sbagliato tutto, ho fatto del male a tutte le persone a me care”) e dovrebbe uscire il 31 marzo 2033. Sta in un regime carcerario feroce: ore d’aria limitate, cibo razionato, colloqui coi familiari solo attraverso un vetro blindato e video registrati per controllare che non vi siano contenuti messaggi in codice. Abbiamo letto le missive che ha mandato negli ultimi mesi al suo legale, Beatrice Saldarini.

    “Illustrissimo avvocato – scrive in una di queste, datata pochi giorni fa – come sempre lei è molto gentile a rispondere alle mie lettere e per questo voglio ringraziarvi, anche perché in questo posto tetro e scuro fa sempre piacere ricevere una lettera, per me significa molto e mi fa sentire vivo (…) peggio di questo posto schifoso c’è solo il cimitero”. “Di me non m’interessa, il mio destino è segnato”, ma “è assurdo che i miei figli devono venire a trovarmi e ci deve essere presente l’assistente ai servizi sociali”. I figli sono il tormento ricorrente. “Avvocato, aiutatemi a vederli!”, implora. “Mi avete scritto che vi informerete sulla possibilità di agevolare i colloqui con loro, vi ringrazio con tutto il mio cuore. Voglio che vengano a trovarmi quando lo desiderano”. Si preoccupa anche per la ex compagna, difesa dallo stesso legale: “Prego per lei e confido in voi”. Una delle risposte che gli invia il suo difensore non gli viene consegnata perché sarebbe di contenuto “ambiguo”. Chi conosce la solarità dell’avvocato Saldarini sorriderà.

    Dentro il disumano, l’umano può diventare perfino “ambiguo”. (manuela d’alessandro)

     

    lettera giugno 2014-1

  • “Ha scritto il vero”, ma il giudice condanna il giornalista al carcere

    “L’articolo è certamente fedele ai fatti che accadevano all’interno delle discoteche che per tale motivo erano state chiuse (…) ha descritto in toni efficaci l’uso frequente di cocaina, le abitudini di vita, i luoghi in cui veniva fornita o consumata, la situazione di promiscuità in cui uomini e donne si trovavano per assumerla…”. A leggere tre quarti delle motivazioni della sentenza una persona normale si aspetta di trovare in fondo al documento l’assoluzione del giornalista, Luca Fazzo, accusato di aver diffamato P.T. definendolo “accanito cocaimane” sulla base delle stesse dichiarazioni a verbale del diretto interessato, il quale aveva raccontato oltre allo spaccio il consumo della sostanza quattro volte la settimana.

    E invece, in fondo, c’è la condanna a 7 mesi di carcere senza condizionale, ben oltre le stesse richieste dell’accusa che aveva proposto solo una multa. (altro…)