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  • Dare dell’imputato a un indagato è diffamazione

    Dare dell’imputato a una persona che è solo indagata è diffamatorio?

    Sì, è la risposta delle sezioni unite della Cassazione che si sono espresse su una giurisprudenza contrastante su questo tema. Il caso è quello di un articolo pubblicato dal sito del settimanale ‘L’Espresso’ nel giugno del 2013 (12 anni dopo, benvenuta giustizia!).  Il numero uno di una banca d’affari era indagato con l’accusa di avere tentato una truffa ma non era ancora stato raggiunto dalla richiesta di rinvio a giudizio.

    In primo grado il Tribunale di Roma aveva assolto il cronista “perché gli errrori non avevano scalfito l’aderenza al vero nella complessiva ricostruzione dei fatti per la corrispondenza tra lo scritto e la realtà visto il coinvolgimento significativo nell’attività truffaldina”.

    La sentenza è stata ribaltata in appello con la condanna del giornalista a 5mila euro di sanzione pecuniaria.

    Ed eccoci alla decisione della Suprema Corte secondo la quale  “la differenza tra i due status, in termini giuridici, è significativa, riverberandosi sulla percezione sociale del grado di probabilità del coinvolgimento del soggetto che ne è titolare nel reato che gli viene addebitato. Non si può, quindi, relegare, di per sé e in astratto, una infedeltà narrativa di tale portata all’ambito della mera marginalità, attribuendole impropriamente neutralità ai fini del riconoscimento del carattere diffamatorio della notizia propalata. Ne deriva che i due atti non sono confondibili e non possono essere impropriamente sovrapposti”

    Insomma quel che conta è la percezione dell’opinione pubblica sullo “stato di avanzamento della vicenda giudiziaria che riguarda un soggetto la cui progressione tende ad alimentare un effettivo coinvolgimento”.

    Certo viene da pensare che la Cassazione sia molto ottimista sul garantismo dell’opinione pubblica in un Paese dove  essere indagati equivale a una condanna.

    (manuela d’alessandro)

  • Per la Cassazione la morte in cella per overdose è colpa (anche) dello Stato

    I giudici civili hanno sancito la corresponsabilità dell’apparato penitenziario, condannando il ministero della Giustizia a risarcire madre e vedova di un ragazzo tossicodipendente deceduto a Regina Coeli.

    Ventidue anni per avere giustizia

    Lo Stato ha il dovere di garantire la tutela della vita delle persone che tiene chiuse in carcere, anche di quelle che in cella riescono a procurarsi sostanze stupefacenti e si espongono a rischi. E se non lo fa, e la droga arriva in cella e uccide, deve risarcire chi perde un figlio o un marito. Sembra un principio sacrosanto, scontato, declinato concretamente in automatico. Ma la Cassazione lo ha dovuto ribadire, chiudendo un caso dopo più di 22 anni, per dare giustizia e ristoro economico ad una madre e una vedova.

    Il concorso di colpa e i risarcimenti

    I giudici della Terza sezione civile, con l’ordinanza 29.826 depositata a fine 2024 e pubblicizzata di recente, hanno reso definiva la condanna del ministero della Giustizia, tenuto a pagare quasi 223 mila euro alla mamma e circa 212mila alla moglie di un giovane detenuto stroncato da un’overdose di cocaina durante la carcerazione a Regina Coeli. Gli “ermellini” hanno dato ragione ai colleghi della Corte d’appello civile di Roma, dopo una girandola di ricorsi e ribaltamenti di decisioni precedenti, inizialmente sfavorevoli alle due donne. Alla struttura carceraria è stata addebitata metà della colpa.  Il comportamento rischioso del ragazzo non basta ad escludere del tutto le responsabilità dell’apparato penitenziario, che per legge ha il compito e il dovere di controllo e di vigilanza.

    Lo Stato ha cercato di chiamarsi fuori

    Lo Stato ha cercato in tutti i modi di chiamarsi fuori e opporsi, attraverso l’Avvocatura di Stato, provando a ribaltare sul ragazzo cocainomane l’intero peso di una fine tragica.  Ha perso e ora il pronunciamento della Cassazione, richiamate precedenti decisioni in materia, potrebbe spianare la strada a cause simili e ad altri pesanti indennizzi. In Italia, ogni anno, si contano decine di decessi in carcere per suicidi, a volte prevedibili e annunciati, per cause accidentali o non meglio specificate, per abuso di stupefacenti e mix di psicofarmaci, per inalazione di gas dei fornelletti da campeggio utilizzati per cucinare, per malattia o per omicidi (come documenta il dossier Morire di carcere di Ristretti orizzonti, in www.ristretti.it/areestudio/disagio/ricerca/)

    Le responsabilità dell’amministrazione penitenziaria

    Quando un detenuto tossicodipendente muore in carcere per un’assunzione di stupefacenti – dice l’ordinanza, sintetizzata sul portale della stessa Cassazione e in siti per addetti ai lavori – c’è la responsabilità della struttura penitenziaria nella misura del 50 per cento. E questo concorso di responsabilità, nel caso trattato, è riconducibile a colpa omissiva e per due ordini di motivi. Non è stato controllato adeguatamente il ragazzo con problemi di droga, pur essendoci segnali da non sottovalutare, e non è stato impedito che la cocaina circolasse all’interno del carcere e arrivasse fino a lui.

    Ecco le norme di legge violate

    Le norme violate, dell’ordinamento penitenziario, sono richiamate nel provvedimento di piazza Cavour. L’articolo 1 della legge 354 del 1975 impone che siano rispettati i diritti fondamentali delle persone ristrette, in primis il diritto alla vita e all’integrità fisica. Il regolamento di esecuzione, il Dpr 230 del 2000, garantisce la sicurezza nei luoghi di detenzione, almeno sulla carta, e individua gli oggetti che i detenuti possono ricevere e possedere in carcere. Invece il personale non ha vigilato adeguatamente su ragazzo fragile con trascorsi di dipendenza e non ha messo in atto le misure necessarie per evitare che la cocaina venisse portata e girasse tra le celle.

    L’arresto per un furto e la carcerazione

    Il giovane detenuto era stato arrestato il 10 marzo 2002 per il furto di un telefonino e portato nella casa circondariale di Regina Coeli. Al momento dell’immatricolazione e della visita d’ingresso aveva dichiarato di essere tossicodipendente ed era stato preso in carico dal Sert interno. Lo avevano dimesso il 12 luglio 2002, e collocato in una cella comune, perché «risultava aver superato il problema» e aveva comunicato «la volontà di condurre una nuova vita».

    Morte in cella per overdose di cocaina

    Non è andata così. Il 18 luglio 2002 il ragazzo ha sniffato cocaina ed è morto in carcere a 24 anni. L’autopsia ha escluso ipotesi alternative e ha certificato che lo ha stroncato l’assunzione di droga, un’overdose. Mamma e moglie si sono affidate a una avvocata e hanno portato in giudizio il ministero di Giustizia, chiedendo di essere risarcite per il danno e per le sofferenze subite e innescando il procedimento civile concluso dopo anni e anni.

    Sottovalutazione del rischio di ricadute

    Il ragazzo ha assunto droga per libera scelta, riconoscono i giudici di Appello e di piazza Cavour. Ma la sua «situazione era tale da rendere altamente probabile una ricaduta nella tossicodipendenza qualora, una volta dimesso dal Sert, avesse avuto la disponibilità di sostanze stupefacenti». Il quadro era noto, Nel diario clinico compilato nel carcere romano «emergeva che era tossicodipendente dall’età di 19 anni e che, pur avendo manifestato di aver avviato un percorso di affrancamento, non poteva ipotizzarsi che si fosse definitivamente disintossicato», come provato anche dall’ammissione ad un programma di recupero in una comunità di Trapani, dove avrebbe dovuto essere ricoverato e curato.

    Chiusa una indagine nel giorno della morte del ragazzo

    Lo stesso giorno del decesso del ragazzo, di cui nelle agenzie si stampa e negli archivi dei giornali consultati non si trova traccia, si era avuta ampia notizia dell’esecuzione di 36 ordinanze di custodia cautelare, un punto fermo messo alle indagini sullo spaccio all’interno dei penitenziari della capitale. Alcuni pregiudicati detenuti a Regina Coeli e a Rebibbia, in una intercettazione paragonata a un villaggio vacanze con tanto di animatore, avevano organizzato l’approvvigionamento di droga con l’aiuto di familiari e di poliziotti penitenziari, finiti in quattro in manette. Cocaina ed eroina entravano negli istituti nascoste in oggetti e cibi, da tacchi di scarpe a forme di pecorino scavate per far posto alle dosi.

    Lorenza Pleuteri, collaboratrice di Osservatoriodiritti.it

  • L’Ad di Trenord denuncia il pendolare imbufalito
    Ma perde fino in Cassazione e paga le spese

    Amministratorone delegato contro umile pendolare di Saronno. Talvolta vince il secondo. Lo avevamo raccontato quiCerto accanirsi fin davanti agli Ermellini e perdere, beh.


    Riassumiamo. Un pendolare inferocito per ritardi e rimborsi latitanti, Marco Malatesta, si sfoga sulla pagina Facebook “Pendolari Trenord“. Prende di mira l’Ad e, a corredo della di lui foto, gli rivolge un commento sopra le righe e non privo di amarissima ironia. “Questa è la bella faccia di Marco Piuri, amministratore delegato di Trenord che non restituisce i rimborsi degli abbonamenti annuali (…) io di voglia di sputare in faccia a uno che da diversi mesi si tiene i miei soldi ingiustamente ne ho tanta, forse lo sa e porta gli occhiali per questo”.

    Piuri denuncia per diffamazione aggravata, in qualità di Ad ma anche di persona fisica. Il Tribunale condanna Malatesta. La Corte d’appello invece ribalta il verdetto e assolve. Diritto di critica legittimo, in un contesto, per altro, di “esasperazione di persone costrette a compilare moduli su moduli, inviare raccomandate, con ulteriori esborsi, senza ottenere nulla”. Fatto dunque “veridico”, oltre che di interesse pubblico, atteso che la vicenda interessava “pressoché tutti gli utenti di Trenord ed era molto sentita in quel particolare momento”.
    La corte milanese, in motivazione, aggiunge una stilettata al querelante. “Risulterebbe, del resto, molto arduo ipotizzare la liquidazione di un risarcimento a favore dell’amministratore delegato di Trenord ed ancora di più della stessa Trenord, per i fatti in esame, che non meritavano di pervenire all’attenzione del Tribunale”. Come dire: anche meno, potevate pure evitare di ingolfare la giustizia con questa roba, ché già il mondo è difficile.

    Piuri però non segue il suggerimento e va avanti, ci tiene che il pendolare saronnese sia punito per la sua impudenza, e impugna in Cassazione. Che ieri – quinta sezione – si è espressa con questo dispositivo: “Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali”. Per il pendolare Malatesta, patrocinato da Roberto Dissegna, un sollievo gigantesco (rischiava che lo scherzetto gli costasse in totale sui 15mila euro). E chissà se poi i treni per portare gli avvocati verso la capitale sono stati puntuali.

    (NdR)

  • Terrorismo, Cassazione: per Cerrone motivazione carente

    “La motivazione sull’esistenza dell’ipotizzata associazione con finalità terroristiche è carente. La sovrapposizione della struttura associativa e quella del centro sociale è affermata ma non sufficientemente illustrata e non fa comprendere  in che modo la frequentazione e del centro sociale Bencivengasia già di per se espressiva dell’esistenza di un rapporto di stabile e organica compenetrazione e del sodalizio tale da implicare un ruolo dinamico e funzionale”. Questo scrive la Cassazione in merito all’attività politica dell’anarchica Francesca Cerrone arrestata per  ordine dei giudici di Roma.

    La Cassazione ha annullato con rinvio degli atti al Riesame per un nuovo giudizio l’ordinanza di custodia cautelare in carcere. Cerrone nel frattempo resta detenuta e va ricordato che la Cassazione ha impiegato dai primi d dicembre a oggi due mesi e mezzo depositare la motivazione. Non sono stati ancora depositati invece i motivideella decisione relativa ad altri quattro anarchici i quali ai primi di novembre erano stati rimandati gli atti al Riesame sempre  con annnullamento dell’ordine di carcerazione.

    Per quanto riguarda la posizione di Cerrone la Cassazione ha annullato senza rinvio il mandato di arresto in riferimento alla stesura del documento “Dire e se dire” dove veniva contestata l’istigazione a delinquere anche in rapporto alla campagna di solidarietà con i detenuti. Sempre senza rinvio cassata l’accusa riguardante i fumogeni accesi durante una manifestazione davanti al carcere di Rebibbia.

    In pratica il lavoro della procura, del gip autore del solito copia e incolla, e del Riesame responsabile dell’assenza totale di qualsiasi sforzo critico è stato fatto a pezzi dalla Cassazione. La suprema corte già in pasto aveva fissato dei paletti ben precisi in tema di associazione sovversiva ma le procure fanno di non capire sempre ligi ai canoni dell’emergenza infinita.

    (frank cimini)

  • Cassazione rinvia al Riesame il “terrorismo anarchico”

    La Cassazione ha annullato con rinvio a un nuovo Riesame l’accusa di associazione sovversiva finalizzata al terrorismo contestata a quattro anarchici arrestati a giugno scorso a Roma. All’origine della decisione potrebbe esserci una carenza di motivazione come avevano sottolineato i difensori degli indagati nei loro ricorsi. Bisognerà aspettare almeno una ventina di giorni per conoscere i motivi della scelta operata dalla Suprema Corte. Nel frattempo gli indagati restano in carcere.

    G,i avvocati della difesa avevano presentato ricorso contro gli arresti paventando che il costante richiamo alla vicinanza ideologica a una determinata area dell’anarchismo diventasse l’unico criterio alla base degli arresti. I legali ricordavano che proprio la Cassazione aveva nel recente passato fissato dei paletti ben precisi affinché non si perseguisse il fatto ma il “tipo di autore”. Si tratta della tendenza che è storicamente rappresentata nel concetto di “diritto penale del nemico”.

    Del resto al centro dell’inchiesta c’erano una serie di manifestazioni sit-in volantinaggi contro il carcere come istituzione e per denunciare le condizioni di detenzione aggravate dall’emergenza Covid. C’era e c’è il rischio di criminalizzare un pubblico attivismo politico impostato su una critica radicale anche dura a istituzioni pubbliche.

    Sempre la Cassazione ha chiuso almeno per il momento un’altra partita quella relativa all’inchiesta “sorella” di quella romana avviata dalla procura di Bologna rigettando il ricorso del pm Stefano Dambruoso contro le scarcerazioni di un gruppo di anarchici finiti in carcere a maggio e poi rimessi fuori dal Riesame. Per Dambruoso noto per essere finito sulla copertina della rivista Time come cacciatore di terroristi islamici si tratta di una sconfitta su tutta la linea.

    Per quanto riguarda l’indagine romana la Cassazione dovrà esaminare il prossimo 16 dicembre il ricorso di un’altra indagata Francesca Cerrone arrestata in Spagna e poi estradata.

    Non è stata ancora fissata invece l’udienza sempre davanti alla Suprema Corte per discutere il ricorso dell’avvocato Ettore Grenci per conto dell’indagato Nico Aurigemma al quale era stato negato il colloquio con i genitori e la sorella. Tra i motivi del no al colloquio spiccava il parere del pm relativo al fatto che Aurigemma si era avvalso della facoltà di non rispondere nell’interrogatorio di garanzia. Cioè era stato penalizzato e “punito” per aver esercitato un suo diritto (frank cimini)

     

  • Niente diritto di sciopero se l’avvocato lo comunica via mail

    Cosa c’è di più autentico, di una Pec, ovvero un messaggio certificato di posta elettronica, di cui le moderne tecnologie garantiscono “al di là di ogni ragionevole dubbio” l’identità del mittente e del destinatario, nonché l’avvenuta consegna?

    Nulla, si direbbe: tant’è vero che una cospicua serie di atti giudiziari vengono notificati ai difensori con questo strumento. Bene, è il progresso! Peccato che lo stesso non valga nella direzione opposta. E che si sia recentemente arrivati al paradosso di un cinquantenne milanese, imputato di truffa, che si è visto rifilare una condanna definitiva perché il suo avvocato il giorno dell’udienza d’appello era sceso in sciopero aderendo all’astensione decida dall’Unione delle camere penali, dandone la comunicazione alla cancelleria della Corte: ma lo aveva fatto in ritardo e soprattutto utilizzando la Pec. Per la Cassazione, quella mail è carta straccia, perché “nel processo penale alle parti private non è consentito effettuare comunicazioni, notificazioni ed istanze mediante l’utilizzo della posta elettronica certificata”. E’ un orientamento già espresso dalla Cassazione in altre sentenze, ma che in questo caso viene portato alle estreme conseguenze, perché di fatto – rifiutando la mail inviata dall’avvocato – l’apparato giudiziario da un lato non riconosce il diritto di sciopero del difensore, e dall’altro rende definitiva la condanna di un cittadino che ha avuto modo di difendersi solo in primo grado. 

    Il pronunciamento della Cassazione è espresso nella sentenza 44236 di quest’anno, depositata dalla Seconda sezione penale il 4 ottobre scorso. L’imputato, M.F., era accusato di avere “bidonato” un concessionario di motociclette, facendosi consegnare una due-ruote e sparendo poi nel nulla senza pagare. Per questo nel luglio 2015 era stato condannato con rito abbreviato per truffa, ma contro questa sentenza aveva fatto ricorso in appello. L’udienza in camera di consiglio viene fissata per il 22 marzo 2017. Ma all’inizio di marzo l’Unione delle camere penali indice cinque giorni di sciopero per contrastare il decreto legge del ministro Andrea Orlando, in particolare contro la modifica dei termini di prescrizione e l’ampliamento degli interrogatori per videoconferenza: astensione da tutte le udienze (tranne quelle con imputati detenuti) dal 20 al 24 marzo. Il 21, alla vigila dell’udienza, l’avvocato di M.F. comunica alla cancelleria della Corte d’appello che intende aderire all’iniziativa dell’Ucpi.

    La mattina successiva, il presidente della sezione davanti alla quale è chiamato il processo decide: adesione irrituale, il processo si fa lo stesso. E la condanna inflitta in primo grado viene confermata integralmente. L’imputato non ci sta, e ricorre in Cassazione spiegando di non avere avuto modo di difendersi. Niente da fare: per la Cassazione “la comunicazione del difensore di fiducia di voler partecipare all’astensione era avvenuta tramite Pec, circostanza che legittimava la Corte a non tener conto della richiesta di rinvio”. La condanna diventa definitiva, e per soprammercato oltre alle spese processuali M.F. viene condannato anche a pagare “la somma di duemila euro alla cassa delle ammende, commisurata all’effettivo grado di colpa dello stesso ricorrente nella determinazione della causa di inammissibilità”.  (Orsola Golgi)

  • Lui condannato gli altri assolti, revisione del processo per Daccò

    Pierangelo Daccò l’abbiamo visto molte volte in questi anni nelle aule milanesi. Sempre più sottile e sofferente. Ha trascorso 4 anni di carcerazione preventiva, davvero un eccesso, al di là della sua colpevolezza o innocenza, per uno strumento che non dovrebbe costituire una condanna anticipata.

    Quando il 3 ottobre del 2012 il gup Maria Cristina Mannocci gli inflisse per il crac del San Raffaele 10 anni col rito abbreviato (sarebbero stati 15 in ordinario) era incredulo non solo il suo avvocato ma anche il pm che aveva chiesto 5 anni e mezzo, in pratica la metà.  In appello gli venne tolto un anno e si arrivò alla sentenza definitiva a 9 anni di carcere.

    Nel frattempo, è successo che alcuni imprenditori coimputati di Daccò che avevano scelto il rito ordinario siano stati assolti per dei reati che, secondo l’accusa, avevano commesso in concorso con l’uomo d’affari amico di Roberto Formigoni e suo compagno delle gite in barca (per la vicenda Maugeri è stato condannato in primo grado a 9 anni e due mesi).

    Ora la Cassazione accoglie l’istanza di revisione  presentata dai legali Gabriele Vitiello e Massimo Krogh e già respinta nel settembre del 2016 dalla Corte d’Appello di Brescia. “E’ apodittica e alquanto priva di significato –  ragionano gli ‘ermellini’ –  l’affermazione dei giudici bresciani per i quali la vera ragione della diversità dell’esito dei due processi stava nella diversità del rito col quale erano stati detenuti”. Insomma, qualcosa non torna e la condanna a Daccò è stata quantomeno esagerata, se tanto o poco lo stabiliranno i giudici della Corte d’Appello di Venezia ai quali spetta il nuovo giudizio.

    Secondo la Procura di Milano, a partire dal 2005, dalle casse del San Raffaele, fondato da don Luigi Verze’, sarebbero stati distratti circa 47 milioni, cinque dei quali arrivati direttamente a  Daccò, accusato, oltre che di concorso in bancarotta, anche di associazione per  delinquere finalizzata alla distrazione di fondi, all’appropriazione indebita e alla frode fiscale. Col rito  ordinario erano stati  assolti Giovanni Luca Zammarchi, Fernando Lora e Carlo Freschi in relazione a presunte sovrafatturazioni a un paio di  società.

    “Siamo fiduciosi che venga scritta una pagina positiva per la giustizia italiana in una vicenda che ha tante ombre – commenta l’avvocato Vitiello – Daccò ora è domiciliari dal gennaio del 2017 dopo essere entrato in carcere, da incensurato, il 14 febbraio del 2011”. (manuela d’alessandro)

    i-4-anni-di-carcerazione-preventiva-di-dacco-la-foto-simbolo-di-un-abuso

  • NoTav, Cassazione ai pm: rassegnatevi, non fu terrorismo

    “Il ricorso tende ancora una volta a sollecitare una diversa valutazione dei fatti che non compete alla corte di legittimità”. Questo scrive la Cassazione nel motivare perché respinge il ricorso della procura e della procura generale di Torino contro la sentenza che aveva assolto i militanti NoTav dall’accusa di aver agito con finalità di terrorismo nell’azione contro il cantiere dell’alta velocità di Chiomonte quando fu danneggiato un compressore.

    Quel riferimento ad “ancora una volta” ricorda che si tratta della terza volta, tra misure cautelari e processo, in cui i rappresentanti dell’accusa puntano a dimostrare l’agire per finalità di terrorismo. In pratica è un invito esplicito a rassegnarsi. Innanzitutto perché il ricorso contro la decisione della corte d’assise d’appello non è in diritto ma nel merito. E anche perché non c’era volontà di ledere la vita degli operai del cantiere o del personale di polizia ma solo di provocare danni ai mezzi. La Cassazione inoltre nega che vi fosse l’obiettivo di far recedere i pubblici poteri dal realizzare l’opera dell’alta velocità in Val Susa.

    La motivazione che ricalca quella del Riesame e della corte d’assise d’appello assume particolare importanza anche alla luce di recentissime diatribe giuridico-politiche legate alla giunta regionale del Veneto che aveva approvato una mozione con cui si chiede al governo e al parlamenti di “innovare” la legislazione introducendo il reato di “terrorismo da piazza”.

    L’ accusa legata alla finalità di terrorismo, rivelatasi poi insussistente, era costata ai militanti NoTav una lunghissima carcerazione preventiva in regime di alta sorveglianza proseguita anche quando l’imputazione era già caduta. Insomma i pm torinesi Antonio Rinaudo di esplicite simpatie destrorse, Andrea Padalino ex militante dei giovani comunisti, l’ex procuratore generale Marcello Maddalena ora in pensione, impegnati a inseguire fantasmi, avrebbero fatto bene a dedicarsi ad altro. Magari agli appalti dell’alta velocità in Val Susa che sembrano gli unici onesti e trasparenti in un paese dove la corruzione dilaga. (frank cimini)

  • La sentenza Riina parla di tutti noi anche se ci fa ribrezzo

    La sentenza della Cassazione su Totò Riina non parla di pietas, di perdono, di  pentimento. E’ bene leggerla prima di esprimersi.

    Parla invece dei diritti fondamentali dell’uomo e lo fa scegliendo parole importanti che vanno ben al di là del ‘capo dei capi’ e ci riguardano tutti, anche se oggi ci ripugna ammetterlo.  E’ una sentenza che parla anche di chi va a morire all’estero  per avere una fine dignitosa perché, come scritto dai pm milanesi del caso Cappato – Dj Fabo, esiste un “diritto alla dignità garantito sia dalla Costituzione che dalla Convenzione europea”. Parla anche dei nostri vecchi genitori quando  negli ospedali o negli ospizi vengono brutalizzati perché non possono difendere la loro estrema dignità di esseri viventi. E ne parla con in mano la nostra costituzione e la legge, quindi se si vuole criticare questa sentenza bisogna farlo usando il suo stesso linguaggio.

    Bisogna allora spiegare con le categorie del diritto perché per Riina non valga la “giurisprudenza costante di questa Corte affinché la pena non si risolva in un trattamento inumano e degradante, nel rispetto degli articoli 27 della Costituzione (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”) e 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (“Nessuno può essere sottoposto a totura né a pene né a trattamenti inumani o degradanti”)”. “Lo stato di salute incompatibile con il regime carcerario – scrivono i magistrati citando diverse pronunce –   idoneo a giustificare il differimento dell’esecuzione della pena per infermità fisica o l’applicazione della detenzione domiciliare della persona non deve limitarsi alla patologia implicante un pericolo di vita per la persona, dovendosi piuttosto avere riguardo a ogni stato morboso o scadimento fisico capace di determinare un’esistenza al di sotto della soglia di dignità che deve essere rispettata pure nella condizione di restrizione carceraria”.     

    Bisogna allora avere davanti le cartelle cliniche di Riina, che sappiamo avere 87 anni, essere immobile dalla vita in giù, col respiratore, due tumori, il Parkinson, un filo di voce, e dimostrare che le sue attuali condizioni non siano al di sotto di quella soglia di dignità.

    Bisogna anche spiegare se la sua “pericolosità possa considerarsi attuale in considerazione della sopravvenuta precarietà delle condizioni di salute”. Ma chiarirlo bene, con cura. Perché non basta dire che nel 2013 nel cortile di Opera minacciava di uccidere nell’ora d’aria, peraltro durante quel regime di 41 bis che dovrebbe garantire l’assoluto isolamento oggi  invocato da chi non vuole scarcerarlo. Sono passati 4 anni: il magistrato Felicia Marinelli, che ha in carico la questione, è in grado di dimostrare che in questo momento Totò Riina è ancora un uomo pericoloso? A questo domande per fortuna risponderà, in diritto, un Tribunale.

    (manuela d’alessandro)

    Testo sentenza Cassazione – Riina

  • Cassazione, censura al giudice milanese che ha irriso l’avvocato

     

    Avviso ai giudici: prendere in giro un avvocato non si può, anche se ha torto. A fare sfoggio di eccessiva ironia era stato il magistrato milanese Benedetto Simi De Burgis incappato qualche tempo fa in una sanzione disciplinare del Csm per avere tenuto un “tono irridente e allusivo” nei confronti di una curatrice nell’ambito di una procedura di sostegno. La suprema corte ha depositato ora una sentenza con la quale conferma la censura inflitta dal Csm, che è una “dichiarazione formale di biasimo” a carico di Simi De Burgis per avere violato il “i doveri di correttezza, imparzialità ed equilibrio, ponendo in essere abitualmente provvedimenti lesivi della sua immagine, gravemente scorretti nei confronti di parti, difensori, personale amministrativo, colleghi e ausiliari” (legge 109 del 2006 sugli illeciti disciplinari dei magistrati).

    Il magistrato si era preso gioco per iscritto di una curatrice ironizzando sulla sua esosa richiesta di liquidazione rispetto all’entità del patrimonio da lei amministrato e su altre strategie procedurali del legale.  Con la sentenza, gli ermellini smontano le tesi difensive del magistrato anche in relazione ad altre incolpazioni, tra cui cui avere fornito a una delle parti di un procedimento di interdizione suggerimenti in virtù di “un rapporto di conoscenza personale” e avere revocato a una professionista la nomina di curatrice di un minore a seguito dell’accusa, poi rivelatasi “infondata, di avere trattenuto illecitamente somme di proprietà dell’assistito”.  De Burgis nel ricorso ha scritto  che l’avvocatessa redarguita “aveva specifici motivi di astio nei suoi confronti” ma per le sezioni unite i sei capi di incolpazione costituiscono nell’insieme”comportamenti abitualmente e gravemente scorretti”. E, in ogni caso, anche se il legale aveva torto, come rivendicato da De Burgis, per la suprema corte poco conta: non doveva permettersi di sbeffeggiarla.  (manuela d’alessandro)

    Sentenza Cassazione su Simi De Burgis

  • Stasi condannato, la giustizia non ha ammesso di poter fallire

     

    Due ore. Solo centoventi minuti sono serviti ai giudici della Cassazione per affrontare un dubbio enorme che ieri aveva fatto tremare le gambe persino a un anziano procuratore generale, Oscar Cedrangolo, costretto  ad ammettere: “Io non sono in grado di dirvi se Alberto Stasi è colpevole o no”.

    Ha vinto la paura dei magistrati assieme alla fretta di sbarazzarsi subito di quel dubbio che li avrebbe potuti paralizzare fino ad ammettere l’ impotenza di un sistema quando le indagini, come in questo caso, sono state fatte male e decine di perizie con esiti contraddittori non hanno poi saputo rimediare.  Stasi viene condannato a 16 anni di carcere e non a 30, come sarebbe avvenuto riconoscendo l’aggravante della crudeltà, perché il dubbio ha comunque lasciato il suo seme nella sentenza.

    E’ vero, due dei giudici facevano parte del collegio che ha assolto Amanda Knox e Raffaele Sollecito per l’omicidio di Meredith Kercher, ma lì c’era un colpevole, Rudy Guede, già assicurato alle carceri. Qui si doveva dire: “Ci dispiace, ma otto anni non sono bastati per trovare l’autore del massacro di Chiara Poggi”. Ci si doveva tappare le orecchie di fronte a quello che ieri il pg ha definito “il grido di dolore dei genitori della vittima”, e invece quell’urlo disperato ha fatto irruzione in una sentenza mandando in galera un non colpevole “al di là di ogni ragionevole dubbio”. (manuela d’alessandro)

    L’incredibile requisitoria del pg di Garlasco, “non sono in grado di dirvi se Stasi è colpevole”

    Il ricorso della difesa Stasi in Cassazione

    memoria parti civili

    STASI-memoria parti civili(2)

    La strana Cassazione su Alberto Stasi che per 3 volte diventa Mario

    Le motivazioni della condanna a 16 anni

  • L’incredibile requisitoria del pg di Garlasco: “Non sono in grado di dire se Stasi è colpevole o no”

     

    “Io non sono in grado di decidere e nemmeno voi”. Premio onestà 2015 a Oscar Cedrangolo, il sostituto procuratore generale della Cassazione che, rivolgendosi ai giudici, ha ammesso di non essere in grado di chiedere né l’assoluzione né la condanna per Alberto Stasi. Nella sua requistoria ha scavato negli anfratti di un’indagine  lunga 8 anni, da quando Chiara Poggi venne assassinata a Garlasco. Dopo due assoluzioni, decine di perizie, una condanna arrivata dopo un annullamento da parte della Cassazione, Cedrangolo alza le braccia.  “In questa sede non si giudicano gli imputati ma le sentenze. Io non sono in grado di stabilire se Alberto Stasi è colpevole o innocente. E nemmeno voi, ma insieme possiamo stabilire se la sentenza sia da annullare”. Così, dopo aver comunque evidenziato la “debolezza dell’impianto accusatorio”, il magistrato ha concluso chiedendo di accogliere entrambi i ricorsi: quello dell’accusa che chiede di alzare la pena sancita dall’appello bis a 16 anni di carcere, riconoscendo l’aggravante della crudeltà, e quello della difesa che voleva l’annullamento della condanna.  Il pg ha affermato che a suo avviso “potrebbero esserci i presupposti di un annullamento senza rinvio, che faccia rivivere la sentenza di primo grado” e quindi l’assoluzione di Alberto.
    E poi ha aggiunto che la prima sentenza della Cassazione dell’aprile 2013 volle  “ascoltare il  grido di dolore” dei genitori di Chiara Poggi nel chiedere di
    trovare l’assassino della figlia: “Ho apprezzato lo scrupolo della Cassazione, quando dopo le due assoluzioni ha chiesto un  nuovo giudizio. E vi chiedo di concedergli lo stesso scrupolo”.
    Così ha suggerito che si dispongano “nuove acquisizioni o differenti apprezzamenti”. Insomma, il pg ci ha capito poco di questo enorme pasticcio giudiziario, originato da indagini maldestre, e nel suo incredibile esercizio di onestà ha perfino ammesso che “forse non ci pensate, ma i giudici possono essere condizionati dai media che spettacolarizzano i processi“. E adesso: potrà mai la Cassazione condannare Alberto Stasi beffandosi del basilare principio di civiltà giuridica ‘in dubio pro reo’?  (manuela d’alessandro)

  • NoTav, da Cassazione nuova batosta per il teorema Caselli

    E due. La Cassazione per la seconda volta boccia il teorema Caselli e afferma che nell’azione contro il cantiere di Chiomonte di cui rispondono 3 militanti NoTav non è ravvisabile la finalità di terrorismo. La norma prevede che chi agisce deve volere un danno grave per un paese o una organizzazione internazionale, ribadisce la Suprema Corte, spiegando inoltre che le bottiglie molotov furono lanciate solo contro i mezzi di cantiere e non contro le persone che stavano lavorando.

    Le censure della procura alla motivazione del tribunale del riesame che avveva annullato l’ordinanza del gip “rasentano l’inammissibilità” scrivono i giudici della prima sezione penale della Cassazione. La Suprema Corte conferma quanto deciso dal Tribunale al quale i pm addebitavano una lettura frammentaria degli elementi di prova e l’illogicità della motivazione.

    Insomma i pm torinesi se ne dovranno fare una ragione, anche se appaiono chiaramente intenzionati in tutt’altra direzione. Dal momento che il procuratore generale Marcello Maddalena, alla vigilia della pensione è presente come rappresentante d’accusa al processo d’appello contro i 3 militanti NoTav che riprenderà il prossimo 11 dicembre.

    In pensione da un po’ è invece l’ideatore del teorema, l’ex procuratore capo di Torino Giancarlo Caselli, un professionista dell’emergenza fin dagli anni ’70 che ha cercato invano di trasformare un compressoricidio in una sorta di rapimento Moro. Nell’azione che risale alla notte tra il 13 e il 14 maggio del 2013 fu danneggiato infatti un compressore. Ma da quell’episodio partì non solo un’inchiesta con arresti e detenzione in regime di alta sorveglianza protrattasi per altri 4 militanti NoTav anche quando l’aggravante della finalità di terrorismo era caduta ma una campagna mediatica martellante sul pericolo della sovversione nell’alta velocità.

    Del resto quando alla prima udienza del processo ai tre, poi assolti dall’accusa di terrorismo e condannati a 3 anni e 6 mesi per i reati fine, il presidente della corte comunicò che la Ue, citata dai pm tra le parti offese, comunicava di non volersi costituire parte civile, la notizia non apparve su nessun giornale. I grandi quotidiani di questo paese sono controllati direttamente o indirettamente dalle banche, molto interessate (eufemismo) alle opere dell’alta velocità. E quindi un po’ tutti i poteri hanno dato il loro contributo al cosiddetto “sistema paese” al fine di realizzare la Torino Lione devastatrice del territorio e che costa una montagna spropositata di soldi. E al sistema paese ha dato il suo ok anche la magistratura se si considera che gli appalti del Tav sembrano gli unici onesti e trasparenti in un mare di corruzione (frank cimini)

  • Colpo ai blog, la Cassazione rivoluziona l’informazione online ma solo per le testate giornalistiche

     

    Le sezioni unite penali della Cassazione hanno stabilito  qualche giorno fa che le garanzie previste dalla Costituzione a tutela della stampa si applichino anche all’informazione attuata in modo professionale e diffusa in rete.

    Una simile pronuncia è rivoluzionaria sia per il tenore della decisione, sia per alcuni passaggi della motivazione. Ma mentre l’esito ci pare condivisibile, sul ragionamento che ha condotto a tale risultato nutriamo più di una perplessità. La Corte prende le mosse da un’esigenza comunemente sentita. La diversità di disciplina tra la carta stampata e online può urtare contro un certo qual senso di uguaglianza sostanziale che indurrebbe, viceversa, ad applicare ai due fenomeni, obiettivamente molto simili, medesime regole.

    Per giungere a questo risultato, però, le sezioni unite forniscono quella che ritengono essere un’interpretazione evolutiva del concetto di stampa, contenuto nell’articolo 21 della costituzione e nella stessa legge sulla stampa del 1948 , a cui non si riesce ad aderire. Secondo la Corte, tale nozione va intesa in senso ‘figurato’ e in quest’ottica corrisponderebbe esclusivamente alla stampa periodica, ovvero all’informazione giornalistica professionale, qualunque sia il mezzo con cui viene diffusa.

    Una simile presa di posizione, quasi del tutto inedita nel panorama dell’ordinamento, travolge l’interpretazione tradizionale, che riconduceva alla stampa, seguendo la lettera della definizione normativa, solo le riproduzioni effettuate con mezzi meccanici e fisico chimici destinate alla pubblicazione, senza distinzione di contenuto. A tale definizione appartenevano certamente i giornali, ma anche i volantini, i libri, i manifesti,qualunque fosse l’argomento in essi trattato, mentre ne era escluso qualunque messaggio diffuso in via telematica poiché era assente, se non altro, la moltiplicazione delle copie.

    L’indirizzo scelto dalla recente sentenza, discutibile di per sé, suggerisce ancora maggiore scetticismo se si considerano i corollari che la Corte esplicitamente ne trae. Sono conseguenze che vanno ben al di là della questione di diritto sottoposta dalla sezione remittente. In sintesi si tratta di questo: tutte le disposizioni previste dall’ordinamento per la stampa, e in particolare per quella periodica, trovano già oggi applicazione alle manifestazioni del pensiero diffuse in rete, a patto che queste ultime abbiano appunto natura giornalistica. Così il collegio sottolinea nella motivazione come sussista fin d’ora un obbligo di registrazione per le testate  telematiche presso la cancelleria del Tribunale, con la relativa commissione del reato di stampa clandestina per chi non adempie a tale obbligo. Ancora: i giornali online dovrebbero dotarsi di un direttore , a cui sarebbe praticabile l’articolo 57 del codice penale, con la relativa responsabilità colposa per omesso controllo  nel caso di reato commesso dal periodico da lui diretto . La giurisprudenza delle sezioni semplici, finora, aveva escluso simili ipotesi poiché, come acennato, la definizione di stampa non comprendeva la rete, circostanza che escludeva l’applicabilità a quest’ultima delle disposizioni incriminatrici previste per la stampa, in base al divieto di analogia in malam partem.

    Non nascondiamo un certo scoramento dopo la lettura delle motivazioni e ci permettiamo di sperare che di questo arresto, proveniente da un organo così autorevole, resti nei repertori il dispositivo più che l’apparato di argomento che lo sostiene. (Carlo Melzi d’Eril e Giulio Enea Vigevani da ‘Il sole 24 ore’ del 22 luglio 2015)

    La sentenza della Cassazione

  • Il caso del magistrato ubriaco in bici fa giurisprudenza

    Fa giurisprudenza la sentenza di condanna inflitta dalla Corte di Cassazione a un magistrato milanese sorpreso a guidare ubriaco la sua bicicletta. La Suprema Corte ha confermato a febbraio la pena a due mesi e venti giorni di arresto e a un’ammenda di 800 euro per il ciclista togato, verdetto che da giorni viene commentato sui principali siti specializzati in diritto.

    Il reato di guida in stato di ebbrezza – questo è il cuore della pronuncia – può essere commesso anche sulle due ruote.  Per la Corte “ciò che conta è l’effettiva idoneità del mezzo ad interferire con il regolare e sicuro andamento della circolazione stradale, con la conseguente creazione di un obiettivo e concreto pericolo per la sicurezza e l’integrità del pubblico degli utenti della strada”.  Fermato e sottoposto all’etilometro che aveva accertato un tasso alcolemico pari a 1,97 grammi per litro, il magistrato ha provato in tutti i modi a convincere i colleghi ad annullare le precedenti condanne che gli erano state inflitte a Brescia nei primi due gradi di giudizio. Implacabili gli ‘ermellini’: non solo hanno confermato le sentenze,  ma si sono rivelati molto severi nel distruggere tutti i motivi d’appello, a cominciare dalla “pretesa inapplicabilità della disciplina penalistica della guida in stato di ebbrezza alla conduzione di veicoli non motorizzati (e segnatamente della bicicletta)”. L’imputato aveva sostenuto inoltre di essere montato in sella alla bici “spinto dalla “necessità di sottrarsi al pericolo di una danno grave alla persona” perché aveva fretta di tornare a casa per curare una fastidiosa “cefalea a grappolo”. Un argomento definito dalla Cassazione “congetturale”. Respinta, infine, la richiesta del ricorrente di riconoscere la tenuità del fatto. Non si può dire che al povero magistrato, cui va la nostra umana simpatia, sia stato riservato un trattamento di favore. Magistrato mangia magistrato, a volte. (manuela d’alessandro)