Tag: giustizia

  • Un pomeriggio d’agosto nel tribunale, caccia al pm di turno nel deserto

    Bella la giustizia a Milano, ad agosto. Ci vado sempre in vacanza.

    Ieratica come i grattacieli in costruzione che svettano lucidi e snelli dalle finestre ai piani alti del palazzo, l’emblema del dèmone di questa città inseguito dalla Procura.

    Tutto azzurro oggi, vista panoramica che nemmeno in costiera e in più la pace dei sensi. What else?

    Cinque del pomeriggio: l’ora delle rese dei conti. Non qui, non ora.

    “Andiamo dal pubblico di ministero di turno a vedere se succede qualcosa a Milano” si motivano due cronisti habitué del tribunale che cercano sul sito della Camera Penale e annotano il nome del pubblico ministero a cui spettano gli affari urgenti di giornata.

     

    Non sia mai, in fondo il Watergate nacque da un’incursione di Bob Woodward e Carl Bernstein alla direttissime.Ma torniamo ai duri marmi del palazzo. Il pm è un nome mai sentito, sarà appena arrivato.

    Parte una caccia che di piano in piano si fa sempre più allucinata. L’umidità  amazzonica aiuta a trasecolare. Consultiamo i fogli con l’elenco dei nomi e dei numeri delle stanze. Il pm D. non è indicato.

    Transitiamo a fianco di cumuli di sedie e vecchi condizionatori accatastati.

    Tutto inanimato, se non fosse che le persone che si occupano delle pulizie stanno bagnando il pavimento potremmo essere nel deserto.

    Disturbiamo uno di loro per chiedere se sappiano dove stia il nostro magistrato. Negativo.  Chiediamo a  a un uomo che cammina nei paraggi, potrebbe essere un  cancelliere. Elegante.“Sa dove si trova D.?”. Il cenno negativo del capo è la risposta.

    Troviamo un pubblico ministero al lavoro dopo avere bussato invano in altre stanze. Chiacchiere di rito e la domanda: “Sa dov’è la stanza di D.?”. Risponde che forse l’ha visto in una riunione ma non sa dove sia. Saliamo, inerpicandoci negli strettti ‘vicoli’ della Direzione distrettuale antimafia. Passiano accanto a una fotocopiatrice che ha un sussulto e ce lo abbiamo pure noi, naufraghi straniti in mezzo a un mare di calda ovatta.

    Ecco una persona, un dipendente di un ufficio. “Dov’è D.?”.  Risponde, un po’ accigliato. “Dovete chiedere in centrale penale ma alle 17 di venerdì dubito che troviate qualcuno…”.

    Riscendiamo al quarto. C’è vita in un ufficio, due impiegati della giustizia si danno da fare dietro a malloppi di fascicoli. “Cercavamo D., siamo due giornalisti”. “Sì, vi conosco. Perché lo cercate?”. “Per sapere se durante il turno ci siano stati dei fatti rilevanti…”.

    Prende il telefono e chiama D. Rasserenati dalla sua esistenza, ascoltiamo la telefonata dalla quale il nostro gentilissimo interlocutore apprende dal magistrato che no, non ci sono notizie. Ma, per curiosità, insistiamo con una tigna effettivamente degna di miglior causa, dove ha la stanza il pm D.?. Lui sorride, quasi intenerito. Dai, ci siamo, pensiamo: ora ce lo dirà! E invece: “Ve lo dico lunedì”.

    Buon week end, giustizia.

    (Manuela D’Alessandro)

  • Pena già scontata in Albania, per l’Italia non conta
    Di nuovo a processo col ‘viva bis in idem’


    Condannato per droga a casa sua, in Albania, grazie anche a indagini italiane. Pena già interamente scontata. Stessi fatti, stessi tempi, stesse contestazioni: “non vi è dubbio”, scrive il giudice. Ma siccome adesso è l’Italia a volerlo processare, dei suoi quattro anni e rotti passati in carcere a Kruje, il nostro Paese francamente se ne infischia.
    E.F. finisce in un’inchiestona della Dda di Milano nei primi anni del millennio. Richiesta d’arresto del 2005, cioè 16 anni fa, per traffico internazionale di droga. Arriva la condanna, 6 anni e 8 mesi. Di galere, intanto, incontra quelle patrie. La Procura di Milano ha contribuito con i suoi atti d’indagine all’inchiesta del procuratore di Tirana, con tanto di incontro tra magistrati avvenuto in Albania nel 2005. Oggi la procura di Milano insiste per processare di nuovo E.F.. Per gli stessi identici fatti. A dirlo non è solo il suo legale italiano, Daniele Sussman Steinberg, che da mesi chiedendo il proscioglimento sollevando in aula la questione, ma lo stesso giudice a cui viene posta.
    “Non vi è dubbio – scrive il gup Roberto Crepaldi – che i fatti per i quali si è proceduto in Albania costituiscono i medesimi per i quali è a processo oggi: la lettura della sentenza consente di comprendere come il procedimento estero si sia svolto, a carico di E.F., in relazione al delitto di traffico di sostenze stupefacenti (quattro episodi) e si sia concluso con la condanna alla pena di anni 6 e mesi 8 di reclusione. Inoltre, la stessa motivazione della sentenza della Corte evidenzia che si tratti di procedimenti fondati sui medesimi atti di indagine, portati avanti in sinergia dalle autorità inquirenti dei due Paesi. Ciò non è, tuttavia, sufficiente a comportare la (automatica) improcedibilità dell’azione penale: dando per scontata l’esatta corrispondenza tra i fatti per cui si procede e quelli già giudicati in Albania – argomenta Crepaldi – vi è un ostacolo giuridico di un’automatica preclusione derivante dal bis in idem“. Cioè: sappiamo benissimo che hai già pagato per i reati che hai commesso, ma ti riprocessiamo comunque. Com’è possibile? C’è un “difetto di accordi bilaterali”, spiega il giudice, e dunque non è preclusa la “rinnovazione del giudizio in Italia per gli stessi fatti, non essendo quello del ne bis in idem un principio generale del diritto internazionale”. Non basta “la Convenzione sul trasferimento delle procedure penali, aperta alla firma a Strasburgo nel 1972 ma mai ratificata dall’Italia”. E neppure il richiamo alla Carta di Nizza, essendo l’Albania “estranea al territorio dell’Unione europea”. Del resto il ne bis in idem è solo “un principio tendenziale cui si ispira oggi l’ordinamento internazionale”. E allora si rigetta l’istanza della difesa e si dispone il procedersi oltre. A processo, di nuovo, per gli stessi fatti, con le stesse prove, quelle di 16 anni fa. Poi un giorno, magari, alla fine del processo, dopo udienze celebrate, soldi spesi, vedremo quel che accadrà…intanto viva bis in idem.
    Nel frattempo l’albanese, riarrestato in Italia per la seconda tranche della stessa inchiesta e poi messo ai domiciliari, nel 2015 ha pensato bene di darsela a gambe e tornare in Albania, dove si è fatto una famiglia e ha dei figli. Difficile negare che dal suo punto di vista la fuga dalla giustizia italiana abbia una sua razionalità.

  • “La giustizia è regredita al Medioevo durante la pandemia”

     

    La giustizia non sta uscendo migliore dal Covid secondo Vinicio Nardo, presidente dell’Ordine degli Avvocati di Milano. Anzi, non sta proprio uscendo, è la sua spina: “Mentre il paese reale torna a vivere, nei negozi, nei bar, nelle spiagge, noi restiamo chiusi  e, di fronte al bivio tra fare un salto nel futuro e tornare al passato, stiamo assurdamente scegliendo di regredire al Medioevo”.

    E’ un contesto in cui “si combattono ‘battaglie tra poveri’”, come quelle tra cancellieri e avvocati, protagonisti di reciproci episodi di insofferenze nelle settimane del contagio. In una recente delibera, l’Ordine, oltre a chiedere di riprendere a celebrare tutti i procedimenti rinviando solo quelli la cui trattazione “è impossibile” per questioni sanitarie”, parla di “situazione ghettizzante per gli avvocati”.

    Mi arrivano segnalazioni – precisa – non solo riguardo le cancellerie dove in alcuni casi l’accesso ci è stato precluso e siamo stati invitati a lasciare dei decreti fuori in una scatola di plastica, con un atteggiamento antiscientifico e medievale. Ma anche da parte dei magistrati. Un collega mi ha fatto sapere che, di fronte alla sua richiesta di consegnare alla Corte d’Appello un foglio di carta per la liquidazione delle spese, si è sentito rispondere dal giudice che non poteva ricevere materiale cartaceo. Ancora una volta, ecco la distanza dalla realtà. La città pullula di rider che ti portano da mangiare, Amazon ti porta qualsiasi cosa e l’unica cosa che non può passare di mano in mano sono gli atti giudiziari”.

    La responsabilità “è del Ministero della Giustizia che non può chiudersi a riccio ma deve fare il possibile per risolvere le questioni. Per esempio, i lavoratori non possono accedere al Processo civile telematico solo per colpa del Ministero, altrimenti come io lavoro da casa potrebbero farlo anche loro”.

    Per Nardo, c’è poi un’Italia che non ha nessuna voglia di riempire di nuovo le aule dei tribunali: “Ci sono intere parti della penisola – riflette – dove il contagio non sanno cosa sia da tempo. Per carità, fanno bene a riguardarsi ma potrebbero far funzionare tranquillamente la giustizia e se ne stanno fermi, soprattutto al sud, a rinviare alla grande, anche a dopo l’autunno. Non mi stupisce perché a Milano si vedono meno quei fenomeni per cui se vai in giro per l’Italia il giudice invece se ne approfitta appena può per rinviare. Mi è capitato di andare a processi aggiornati senza nessun tipo di vergogna. E su questo trend, col coronavirus ci stanno marciando”. Il timore espresso da Nardo è che, se non si riapre ora “che la situazione è sotto controllo e non lo dicono i decreti ma i dati, il rischio è che, se dovesse esserci un paventato ritorno del virus in autunno, non si ripartirebbe più”.

    “Non è importante che ad agosto si lavori, sarebbe una cosa solo simbolica che baratterei volentieri con l’estensione al penale del processo civile telematico che c’è già nel civile, con un’apposita piattaforma e con la possibilità delle notifiche telematiche, approfittando dell’opportunità che la pandemia potrebbe darci”.

    Diverso è il processo remoto, quello con cui sono stati celebrati i pochi procedimenti ammessi nell’era Covid in cui si sono visti avvocati fissare schermi dove i volti, o parti del corpo, dei giudici andavano e venivano: “È grave che si sia sbandierato questo come un processo tecnologico, quando è stato fatto con strumenti ridicoli, senza appositi programmi. Non è stato un passo avanti, ma indietro”. (Manuela D’Alessandro)

  • Fondi Expo giustizia, il gip di Trento archivia tutto

    Ha attraversato città, lagune e monti il fascicolo sui fondi Expo assegnati alla giustizia milanese. Senza un’iscrizione nel registro degli indagati, senza un’attività investigativa visibile all’esterno. Alla fine, nella pace delle montagne trentine, a pochi passi dal confine italiano, ha trovato requie dopo un solo anno di vita. Il gip di Trento ha archiviato il fascicolo dell’inchiesta sulle presunte irregolarità nella gestione da parte del Comune di Milano e dei magistrati di una decina di milioni di euro destinati per lo più al processo informatico. Non è colpa di nessuno se da anni i monitor comprati coi soldi pubblici (appalto da quasi due milioni) rimandano solo buio e silenzio e non le indicazioni al cittadino su come orientarsi nel Palazzo, com’era stato promesso. E se la maggior parte del tesoro è  stato distribuito con affidamenti diretti e non con gare pubbliche può forse destare stupore ma non suggerisce, nemmeno a titolo di ipotesi, un reato. Nella primavera di un anno fa, l’Anac, ‘bastonata’ ieri dal procuratore Francesco Greco per i ritardi nella trasmissione delle segnalazioni, aveva presentato un esposto a Milano. Molto tempo prima, notizie di stampa nel 2014 avevano avanzato dubbi sull’utilizzo di questi soldi, ma a nessuno è venuto in mente di fare approfondimenti.  Fatto sta che i pm si sono accorti dopo un po’ di mesi che non potevano tenere le carte a Milano perché potenzialmente erano coinvolti dei loro colleghi seduti al tavolo attorno al quale si decideva la spartizione dei fondi. Atti a Brescia, allora, dove però il presidente delle Corte d’Appello è Claudio Castelli che a Milano da gip di era occupato del processo digitale. Tutto a Venezia ma anche qui si è scoperto che c’era un magistrato forse coinvolto nella vicenda. Infine, l’approdo a Trento, procura guidata dall’ex milanese Sandro Raimondi. Titoli di coda. Resta da attendere la Corte dei Conti che sta compiendo gli accertamenti di sua competenza prima di tirare una linea definitiva dal punto di vista giudiziario su una storia che dietro di sé lascia comunque molte perplessità.

    (manuela d’alessandro)

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  • Fondi giustizia Expo: inchiesta da Milano a Brescia, possibili reati toghe

    I monitor sono sempre lì, forse qualcuno sta pensando di trasmetterci i mondiali di calcio anche se l’assenza dell’Italia non aggiungerebbe molto pathos alla loro muta presenza. Ma c’è una piccola novità nelle indagini sull’utilizzo dei fondi Expo per la giustizia milanese in cui viene ipotizzato anche lo spreco di denaro pubblico per comprare le decine di schermi Samsung appesi nel palazzo destinati, in teoria, a rendere più facile l’orientamento del cittadino. Il procuratore aggiunto Eugenio Fusco e il pm Paolo Filippini hanno trasferito le carte alla Procura di Brescia per valutare possibili ipotesi di reato a carico delle toghe meneghine coinvolte nella gestione del denaro. Nei mesi scorsi, i magistrati hanno iscritto una persona nel registro degli indagati (non un magistrato) e poi si sono resi conto che non avrebbe avuto senso trattenere un fascicolo che, prima o poi, li avrebbe chiamati a valutare una possibile responsabilità dei magistrati. Gli accertamenti compiuti a Milano entrano nel fascicolo già aperto a Brescia da mesi, dopo che, nel novembre del 2017, l’Anac aveva chiuso la sua indagine ipotizzando colpe sia del Comune di Milano che della magistratura milanese “per un improprio ricorso alle procedure negoziate senza previa pubblicazione del bando di gara” in relazione all’utilizzo di dieci dei quindici milioni di euro arrivati alla giustizia milanese in nome di Expo. Somme utilizzate per lo più per svecchiare la giustizia milanese attraverso il processo digitale.  In conclusione della sua delibera, l’autorità presieduta da Raffaele Cantone aveva annunciato l’invio del report alle Procure di Milano, Brescia e Venezia, quest’ultima competente sui reati del magistrati in servizio a Brescia, dove è presidente della Corte d’Appello l’ex giudice milanese Claudio Castelli.  Gli altri nomi dei magistrati fatti da Anac erano quelli dell’ex presidente del Tribunale Livia Pomodoro e del giudice Laura Tragni. Sulla vicenda sono in corso da tempo anche gli accertamenti della Corte dei Conti. In generale, la sensazione è che nessuno abbia troppa voglia di scavare anche perché non è facile fare indagini ‘a freddo’, senza la possibilità di intercettazioni, su fatti che risalgono a molto tempo fa.

    (manuela d’alessandro)

  • “Aiuto, ci tagliano lo stipendio”, le paure delle toghe sul governo M5S

    “Un conto è il taglio degli stipendi pubblici (tutti, però) nell’ottica di un risparmio generalizzato. Tutt’altra cosa è che una forza politica che si presenta come nuova ma che di nuovo, rispetto ai tradizionali populismi del passato, ha solo le forme del suo postmoderno linguaggio propagandistico, individui la magistratura, nell’ambito della pubblica amministrazione, quale unico settore a cui tagliare, peraltro maldestramente, gli stipendi”.

    Considerazioni acuminate di uno dei magistrati che partecipa al dibattito più caldo del momento nella mailing list di Anm, quello sul possibile Governo a 5 stelle e sull’attuazione del programma per la giustizia stilato dal Movimento   “Non raccontiamoci storie – prosegue – in questo caso non c’entra nulla l’Unione Europea, che ormai è diventata solo l’alibi dei fallimenti nazionali e che l’internazionale sovranista e populista, a trazione russa, prende a pretesto per agguantare facilmente il potere e ridisegnare i futuri assetti geo – politici. Si tratta solo di un espediente demagogico che ha facile presa nel ‘popolino’ ignorante e/o superficiale e in certe élite rancorose e disoneste”.

    Il tema è, anzitutto, come interpretare il punto del programma sulla retribuzione dei magistrati: “il riconoscimento dell’indennità aggiuntiva avvenga solo per coloro che ricoprono davvero il ruolo corrispondente (ad esempio, l’indennità magistrato di Cassazione valga solo per coloro che lavorano in Cassazione”.  Che vuol dire? Stipendio e indennità sono sinonimi? Ecco qualche ipotesi provenienti da vari partecipanti alla discussione (sono magistrati che lavorano in diverse sedi). Dice uno: “La parola stipendio è molto più chiara…però hanno usato la parola indennità…non sopravvalutiamoli…purtroppo semplicemente non sanno”. E un altro: “E’ ovvio che intendono stipendio, ma dovendolo spiegare al diciottenne e al disoccupato poco scolarizzato, hanno utilizzato il loro tipico linguaggio social – media popolare, con categorie retributive comprensibili, come indennità”. E un terzo, più tecnico: “Il timore è che la cosa potrebbe essere intesa nel senso che lo stipendio previsto un anno dopo la terza sia dato solo a chi svolge funzioni di appello, quello della quinta solo a chi sta in Cassazione e via così. (il riferimento è alle valutazioni periodiche che danno luogo all’aumento di grado e stipendio, ndr). Ovviamente è tutta una follia, ma viste le premesse…”.

    Un altro, netto: “La buona notizia è che non esiste già alcuna indennità aggiuntiva…la cattiva è che evidentemente non sanno nulla di ciò di cui parlano”.  Un’altra gli risponde: “Nel programma ci sono anche proposte di tagli dei nostri stipendi, non più progressione per anzianità, ma per le funzioni effettivamente svolte”.  Non tutti hanno paura di un eventuale esecutivo guidato da Luigi Di Maio. E anzi ci vanno giù pesante coi colleghi: “Certi privilegi vanno meritati, oppure sono sentiti come ingiusti. Per il nuovo che avanza siamo solo parte della razza padrona. Ed effettivamente, ormai tutti avvoltolati nelle nostre questioni impiegatizie, di carriera, di rancori che non si riesce a sopire, di miserabili ambizioni, come certe volte appariamo, anche nei dibattiti in questa lista, incapaci di andare oltre la nostra pancia, possiamo facilmente essere scambiati come tali”. E un altro, riferendosi al sorteggio per la composizione del Csm pure ipotizzato nel programma, scrive: “C’è una parolina che terrorizza centinaia e centinaia di magistrati…Sarà questo che comincia a preoccupare alcuni nostri rappresentanti associativi e correntizi?”. (manuela d’alessandro)

  • La protesta dei lavoratori della giustizia: lo Stato ci ‘deve’ 40 milioni

    I lavoratori della giustizia chiedono alla Corte dei Conti di accertare che fine abbiano fatto i 64 milioni di euro risparmiati attraverso l’introduzione del processo civile telematico (PCT). Circa 40 di questi milioni, sostengono nell’esposto presentato nei giorni scorsi all’organo contabile del Lazio, dovrebbero essere redistribuiti a chi è impiegato nei tribunali, come prevede la legge.

    “Abbiamo chiesto alla Dgisia (Direzione centrale degli appalti informatici del Ministero della Giustizia) come sia stata impiegata questa somma – spiegano i rappresentanti della FLP, il sindacato che ha firmato l’esposto – ma né il suo direttore Pasquale Liccardo, né il Ministro della Giustizia Andrea Orlando hanno risposto”. Secondo i calcoli di chi protesta, spetterebbero circa 1000 euro annui a ciascun lavoratore. E, visto che nessuno ha mosso ciglio di fronte alla rimostranze, il sindacato ha deciso di rivolgersi alla Procura Generale della Corte dei Conti chiedendole di “accertare i fatti esposti; l’avvenuta violazione delle disposizioni normative e le ragioni del loro mancato rispetto; le ragioni della mancata destinazione delle somme dovute al personale dipendente; la destinazione che hanno avuto le somme risparmiate: la sussistenza di illeciti contabili”.

    La legge invocata da chi ha promosso il ricorso alla Corte dei Conti prevede che “una quota fino al 30% dei risparmi sui costi di funzionamento derivanti da processi di ristrutturazione, riorganizzazione e innovazione all’interno delle pubbliche amministrazioni è destinata, in misura fino ai due terzi, a premiare il personale coinvolto”. Una norma che appare molto chiara ma molto di quello che accade attorno al PCT diventa oscuro, a cominciare dall’utilizzo dei milioni di fondi Expo destinati a digitalizzare la giustizia milanese sui quali dovrebbe indagare, oltre alle Procure di 3 città, anche la Corte dei Conti lombarda.  (manuela d’alessandro)

  • Fondi Expo, l’Anac allarga le indagini a 25 appalti e manda al Comune le conclusioni

    L’Anac di Raffaele Cantone allunga il tiro sui fondi Expo per la giustizia milanese.Con le ‘comunicazioni delle risultanze istruttorie’ inviate oggi al Comune aumenta il numero delle gare sospette – da 18 a 25 per un valore di 10 milioni – e arricchisce di nuovi dettagli quanto scritto nell’esposto denuncia finito anche in Procura, in Cassazione e alla Corte dei Conti.

    Nell’atto di contestazione, inviato per conoscenza anche al Ministero della Giustizia, viene evidenziato come il Comune, quale stazione appaltante, non avrebbe effettuato indagini di mercato per la ricerca di fornitori che potessero consentire di risparmiare soldi pubblici e avrebbe chiuso gli occhi dinnanzi a potenziali conflitti di interessi e alla partecipazione ai ‘tavoli di lavoro’ di persone che non vi avevano titolo.

    Le procedure di evidenza pubblica, come scrivevamo su  questo blog tre anni fa, sono state evitate senza quelle adeguate motivazioni che la legge prevede per consentire l’affidamento diretto anche sopra i 40mila euro. Il procedimento amministrativo di Anac sul Comune si chiuderà entro sei mesi e Palazzo Marino dovrà far pervenire le proprie deduzioni entro 30 giorni. Diversi gli epiloghi possibili, da una delibera pubblica all’invio delle carte ad altri organi inquirenti. Insomma, Cantone sembra fare sul serio, e la Procura? Dopo l’inedita auto – assegnazione del fascicolo da parte del procuratore capo Francesco Greco e del vice Giulia Perrotti, nulla per ora si è mosso, perlomeno in modo visibile. L’inchiesta è a carico di ignoti e il reato è turbativa d’asta. Il  presidente del Tribunale Roberto Bichi, uscito  da una riunione straordinaria coi giudici, aveva scaricato sul Comune come stazione appaltante. Ma alcuni funzionari di Palazzo Marino che scelgono l’anonimato, da noi incontrati nei giorni scorsi, sostengono di avere “eseguito gli ordini” che provenivano dai magistrati. E la sensazione è che, se accerchiati, potrebbero decidere di raccontare la loro versione.

    (manuela d’alessandro)

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  • L’avvocato Diodà ‘zittisce’ Scola e Canzio: “Non c’è misericordia in questa giustizia”

     

    “Parlate della misericordia ma io vedo solo la cultura della sanzione”. L’avvocato Nerio Diodà irrompe dal “fronte”, come lui stesso lo definisce, a spezzare  l’aura di pace che gli interventi del presidente della Cassazione Giovanni Canzio, del capo della Sorveglianza Giovanna Di Rosa e dell’arcivescovo Angelo Scola hanno creato al convegno organizzato in aula magna  dall’associazione Laf (Libera associazione forense)  sul tema ‘Diritto, giustizia e misericordia’.

    Alle raffinate enunciazioni di principio degli alti oratori, Diodà oppone parole stridule. “Io sto nell”ospedale da campo’, condiviamo i grandi principi ma dal fronte i segnali che arrivano sono faticosi e difficilmente rimovibili. Cosa c’entra la misericordia col mestiere di avvocato? Apparentemente c’entra poco  anche se nella storia della nostra professione ci sono molte cose più nobili di quelle che la comunicazione diffonde. Dal fronte vedo che molte volte la vera pena sono il processo, la custodia cautelare e la comunicazione mediatica. Lo dico con molta fatica, ma sono fatti veri che non riguardano solo i poveri ma anche i ‘colletti bianchi’, che io spesso difendo, nella stessa misura”.

    “La custodia cautelare – argomenta il legale protagonista di tanti, importanti  processi – è spesso o quasi sempre un meccanismo perverso per cui la vita di una persona che subisce il carcere spesso è devastata e poi si apre un periodo indefinito che forse porta alla Cassazione dopo anni in cui la pena ha logorato pressoché totalmente la persona”. Sulla misericordia, concetto evocato dagli altri oratori come elemento integrante di una buona giustizia,  Diodà spegne ogni illusione. “Non c’è neppure il presupposto per parlarne. La giustizia non funziona non perché gli avvocati presentano eccezioni sui timbri ma per le ragioni che ho spiegato. Ho un grandisssimo rispetto per i giudici dell’esecuzione ma finché si farà il discorso della sanzione pari al bene leso e non ci sarà un nuovo umanesimo seguendo la via della giustizia riparativa non si cambierà. Il nostro compito è diventare ‘facilitatori’ nell’interpretare la legge come strumento di modifica profonda della persona”. (manuela d’alessandro)

     

  • Il Ministero della Giustizia manda gli ex barellieri a fare i cancellieri e scoppia la rivolta

    Saltano i nervi ai dipendenti della giustizia per la decisione del Ministro Andrea Orlando di supplire ai buchi nell’organico mandando nei tribunali personale della Croce Rossa in esubero. La surreale prospettiva di ex barellieri e autisti delle ambulanze trasformati in cancellieri ispira  la violenta reazione del ‘comitato lavoratori giustizia‘: “Ci vediamo letteralmente scavalcare da personale completamente sprovvisto delle competenze – si legge in una nota – (…) Evidenziamo che da parte dell’Amministrazione non vi è stata alcuna trasparenza. Non è chiaro chi e con quali criteri abbia operato l’inquadramento degli ex barellieri nel profilo professionale del cancelliere”.

    A Milano sono tre i crocerossimi, un capitano e due sottufficiali della Croce Rossa militare in via di smantellamento, che dal primo settembre si chiedono smarriti nei corridoi del palazzo quale contributo potranno offrire alla dolente giustizia.

    In tutto, informa il Comitato, dal primo settembre, sono “359 le unità provenienti da enti in esubero come le Province e la Croce Rossa, tra cui personale già inquadrato nella Croce Rossa italiana con mansioni di autista/ barelliere, per la maggior parte in possesso del titolo di studio in licenza media e inquadrato nei ruoli dell’amministrazione giudiziaria che prevedono collaborazione qualificata al magistrato, ruoli che vanno dall’assistente giudiziario al cancelliere al funzionario giudiziario”.

    La rabbia è tale da addebitare futuri smacchi all’inserimento dei poveri crocerossini. “Oltre alla frustrazione per la negazione delle prospettive di carriera evidenziamo che l’intero servizio giustizia, lungi dal beneficiare di questi fallimentari innesti, subirà, a seguito dell’inserimento di personale non competente, ulteriori rallentamenti e disfunzioni dei quali, stando così le cose, non vogliamo essere ritenuti responsabili“.  (manuela d’alessandro)

  • Ruby non parla ai pm
    Ma leggetevi le domande…

    E all’improvviso, Ruby non parla più. Vi ricordate la scenetta di Karima El Marough sullo scalone del palazzo di giustizia mentre mostra il suo passaporto alle telecamere? E l’intervista al programma di Santoro? Naturalmente, i processi sono un’altra cosa. Qualunque affermazione uno faccia in aula ha un peso molto diverso da quello che avrebbe di fronte a una telecamera. E Ruby, anche in aula di cose ne ha dette, con la sua deposizione fiume davanti ai giudici che processavano Emilio Fede, Lele Mora e Nicole Minetti.

    Ora però, nell’indagine ‘ter’, davanti ai pm Tiziana Siciliano e Luca Gaglio, preferisce non rispondere alle domande degli inquirenti. I quali ci provano comunque a raccogliere le sue dichiarazioni e non si accontentano di un semplice “mi avvalgo della facoltà di non rispondere”: ne raccolgono infatti ben nove. Loro domandano, mettono la giovane marocchina davanti a una serie di elementi accusatori e lei quasi meccanicamente risponde: “Mi avvalgo”.

    L’interesse di questo verbale sta allora nelle domande, e non nelle risposte. Vale la pena dargli un’occhiata. Qui sotto.

     

    prosegue

     

     

  • Sequestrata per ‘spaccio’ la discoteca a Rimini
    Penalisti italiani senza locale per festeggiare

    Una due giorni impegnativa, “dedicata a osservatori e commissioni, alle prospettive dei giovani penalisti, alla specializzazione e alla formazione“, richiede un momento di distensione collettiva finale. Per i legali d’ogni parte d’Italia, più che auspicabile è necessario. Tanto più se sei a Rimini in un fine settimana di metà giugno, con il sole che spacca le pietre e rischia di attenuare le capacità dei più fini intelletti giuridici dello Stivale.

    Per questo, in occasione del primo “Open day dell’Unione delle Camere Penali Italiane“, era prevista una “cena estiva alla discoteca Coconuts“, con “musica dal vivo” a cura del celebre “Vando Scheggia e il suo gruppo”, come recita il programma del 12 e 13 giugno.

    E invece, al Coconuts, la festicciola non si terrà. Il locale è stato chiuso questa mattina, per 30 giorni. “Trentadue risse in due anni, l’ultima meno di un mese fa, 19enne accoltellato da coetanei”, scrive l’agenzia Ansa da Rimini. Nell’ambito dell’operazione ‘Titano’, è stato mandato agli arresti domiciliari uno dei fratelli titolari del locale, in cui, stando agli inquirenti, lo spaccio era abituale e in sostanza tollerato. La discoteca è stata anche passata al setaccio da due cani antidroga della polizia, un pastore tedesco femmina, Delta, “vicina alla pensione, e Wally, un labrador di 35 chilogrammi e fiuto veloce”, come riporta fedelmente l’Ansa.

    Insomma sembra destinato a saltare il momento di svago dell’Open Day. E ora i penalisti in trasferta da Milano e non solo si chiedono: “Dov’è la festa?”. (ndr)

  • Ferito sta ancora male, processo a Giardiello rinviato a ottobre

    Trovata la soluzione. Claudio Giardiello non sarà in aula e non ci sarà neppure l’udienza di domani, con un rinvio che permetterà di calmare le acque, come chiedevano gli avvocati.

    Il nuovo collegio della seconda sezione penale presieduto dal giudice Lorella Trovato ha rinviato al 15 ottobre il processo per bancarotta a carico di Claudio Giardiello, l’autore della strage in Tribunale. Decisione che arriva accogliendo il legittimo impedimento presentato da Davide Limongelli, coimputato e parente di Giardiello, ferito gravemente nella sparatoria, ora fuori pericolo di vita ma comunque in condizioni serie. In secondo luogo, per attendere la pronuncia della Cassazione sulla richiesta di spostare il processo a Brescia avanzata dal nuovo difensore di Giardiello, l’avvocato Antonio Cristallo, che giudica impossibile celebrare quel dibattimento, a Milano, con la necessaria serenità. La scorsa settimana altri legali avevano scritto al collegio chiedendo di riflettere sull’opportunità di un rinvio: avevano assistito alla sparatoria in aula, avevano soccorso i feriti, lo choc era stato duro, non si sentivano pronti a riprendere il processo con il rischio di trovarsi di fronte proprio a Giardiello il quale, in quanto imputato, aveva diritto e intenzione di prendervi parte.

  • Giardiello presto in aula nel processo della strage
    Lettera dei legali al giudice: non siamo pronti

    L’assassino torna sempre sul luogo del delitto? Immaginatevi che Claudio Giardiello voglia tornare in aula. Ne ha diritto: è imputato di un processo per bancarotta, è detenuto a Monza, ma alle udienze che lo riguardano può prendere parte, come chiunque. Persino gli imputati di mafia al 41bis possono chiedere di assistere in videoconferenza ai loro processi.

    Ecco, stando a fonti legali, Giardiello avrebbe intenzione di partecipare alla prossima udienza, il 14 maggio. Il collegio di giudici non sarà lo stesso davanti al quale ha compiuto la strage del Palazzo di giustizia. Quei giudici si sono astenuti: non avrebbero avuto la serenità per giudicare chi davanti a loro ha ucciso due persone, ha quasi ammazzato un coimputato, ha ferito un testimone appena fuori dall’aula per poi dirigersi verso la stanza di un altro magistrato e colpirlo con due proiettili letali.

    Ora, fate un altro sforzo di immedesimazione: immaginate di essere uno degli avvocati che il giorno della strage erano in aula. Avete assistito alla sparatoria, avete visto morire due persone davanti a voi, ne avete soccorsa una terza in fin di vita. Con quale stato d’animo tornereste sul posto, a distanza di poche settimane, per celebrare il medesimo processo? Con un imputato ancora grave in ospedale, e uno – l’assassino reo confesso – pronto a presentarsi davanti a voi? E’ quello che si domandano alcuni legali che per questo hanno scritto al presidente del nuovo collegio, Lorella Trovato, chiedendole una pausa. Valutando di rinviare il dibattimento a dopo l’estate. “Non è così che si volta pagina”, spiega uno di loro. I giudici non sono “le uniche figure in toga a meritare la necessaria serenità delle udienze”, gli fa eco un collega, spiegando come non vi siano ragioni d’urgenza per riprendere a ritmo serrato. Quello a carico di Giardiello e dei suoi coimputati è infatti un processo senza detenuti e senza problemi di prescrizione. Semmai da parte dei giudici, ritengono i legali, potrebbe prevalere un ragionamento di “opportunità e rispetto di tutti”, spiega un avvocato che chiede tempi più rilassati per un processo assai teso. C’è persino chi inizia a ipotizzare un’istanza di remissione: processo via da Milano. In questo Palazzo di Giustizia mancherebbe del tutto la serenità per un processo equo.

    Lo choc è ancora troppo vivo nell’animo di chi era in aula. Parafrasando Jonathan Safran Foer: “molto forte, incredibilmente vicino”.

  • I ‘tappabuchi’ della giustizia
    Chiamati per 8 giorni al mese

    Da lavoratori socialmente utili – e sempre più esperti di cose di Tribunale – a ‘tappabuchi’ a chiamata da otto giorni al mese.

    Mentre Tribunale e Procura denunciano la cronica carenza di personale, solo in minima parte alleviata dagli arrivi di personale annunciati dieci giorni fa dal ministro della Giustizia Orlando, ci sono lavoratori che il palazzo lo vedono dieci-quindici giorni al mese. Non perché non abbiano voglia di faticare – anzi, fanno parte di un programma che serve proprio a integrare il reddito di chi il lavoro l’ha perso incolpevolmente, con una spesa minima per la pubblica amministrazione e beneficio massimo per la macchina della Giustizia – ma semplicemente perché vengono chiamati al in Tribunale per poche ore. Volonterosi tappabuchi.

    Sono i 140 lavoratori socialmente utili (Lsu) dell’accordo tra Provincia di Milano e Tribunale. Gente in cassa integrazione o mobilità. L’ultima infornata è di venerdì scorso, quando un’email succinta dalla segreteria dell’ufficio Personale annuncia: “Si comunica che il personale assegnato alle rispettive cancellerie, presterà attività lavorativa dal dal 16-17 febbraio al 28 febbraio per un totale di 50 ore lavorative: dal lunedì al venerdì dalle ore 8 alle ore 14. Cordiali saluti”. Dieci giorni, dieci. Part-time. Cinquanta ore in tutto. L’equivalente di otto giornate intere. (altro…)

  • Davanti a tutti in graduatoria da sostituto Pg
    Ma Robledo rischia il trasferimento da Milano

    Tra i magistrati in corsa per ottenere un posto da sostituto in Procura Generale c’è proprio colui che potrebbe dover lasciare Milano per incompatibilità ambientale. Per oggi è attesa la proposta della Prima commissione del Csm su un eventuale trasferimento di Alfredo Robledo (e di Edmondo Bruti Liberati?). E proprio oggi si scopre, dalle graduatorie interne pubblicate dal Csm, che lo stesso Robledo è primo in una lista di 26 magistrati che hanno chiesto un posto nell’ufficio guidato da Manlio Minale.

    Tra chi ha chiesto di diventare sostituto Pg non ci sono solo magistrati milanesi, ovviamente. Ma c’è anche chi parla di una “mezza fuga dalla Procura” guidata da Bruti. Robledo risulta primo in graduatoria (valutazione: 31) davanti ad Amato Barile (30), pm alla Procura di Lagonegro, e a Celestina Gravina (26), attuale Procuratore a Matera che farebbe così ritorno nella Milano che la vide impegnata da inquirente, tra le altre cose, nell’inchiesta sulla strage di Linate. Al settimo posto c’è un’altra pm milanese, Laura Gay, attualmente all’esecuzione (dipartimento guidato da Robledo dopo la nota estromissione dal pool anticorruzione). Più indietro i sostituti procuratori Maria Mazza, Paola Pirotta (di quel secondo dipartimento che fu guidato da Robledo), Angelo Renna, Silvia Perrucci, Maria Teresa Latella.

    Chiedono un posto al terzo piano lato Manara anche l’ex giudice milanese Gemma Gualdi (quinta in graduatoria), l’ispettore del ministero Paolo Fortuna, il pm di Pavia Giovanni Benelli, i pm dei minori di Milano Maria Saracino e Ciro Cascone e la pm di Brescia Silvia Bonardi, magistrato che negli ultimi mesi ha indagato per concussione il collega milanese Ferdinando Esposito.

    I posti messi a bando sono solo due. Con l’eventuale trasferimento di Robledo, qualcuno verrebbe ripescato.

    (Aggiornamento delle ore 16: sulla questione trasferimenti per incompatibilità ambientale il Csm ha deciso di rinviare. Prima verrà ascoltato il presidente di Corte d’Appello Giovanni Canzio, il 16 dicembre, poi si vedrà).

  • La mafia saluta Milano
    e si fa processare sul lago
    Legali: crolla teorema della Dda

    La mafia saluta e se ne ritorna su quel ramo del lago. Mafia presunta, si intende. Anzi, per la precisione: ‘ndrangheta. Con una decisione innovativa, che contrasta con le tesi della Dda, il presidente della settima sezione penale di Milano, Aurelio Barazzetta, ha stabilito che il processo a carico di sette imputati nato dall’inchiesta denominata ‘Metastasi’, si dovrà celebrare a Lecco. E’ la prima volta che Milano perde pezzi di un processo sulle cosiddette ‘locali’ di ‘ndrangheta individuate a partire dall’inchiesta ‘Infinito’.
    Se la competenza sul reato previsto dall’articolo 416bis in fase di indagini è indubbiamente della procura distrettuale, il tribunale competente è un altro se, come ha stabilito il giudice in questo caso, le condotte mafiose si sono concretamente realizzate al di fuori dei confine milanese. Per radicare nel capoluogo il dibattimento non basta che il potere intimidatorio della locale poggi sulla forza dell’organizzazione mafiosa sovraordinata, quella ‘Lombardia’ già individuata nel corso di Infinito. Bisogna guardare alle condotte materiali che sustanziano il reato di associazione di stampo mafioso. E in questo caso, sarebbero avvenute tutte in territorio lecchese. Al tribunale sul lago finiscono tra gli altri Mario Trovato (fratello del più noto Francesco ‘Coco’ Trovato), e Antonio Rusconi, ex sindaco di Valmadrera. Nel collegio difensivo c’è una certa euforia tanto che qualcuno parla di provvedimento che per la prima volta “fa crollare un teorema della Dda milanese”. Molti legali, ora, dovranno lavorare in trasferta. E anche i pubblici ministeri faranno avanti e indietro. Non proprio comodissimo.

  • La ‘ndrangheta saluta Milano
    e si fa processare sul lago
    Legali: crolla teorema della Dda

    La mafia saluta e se ne ritorna su quel ramo del lago. Mafia presunta, si intende. Anzi, per la precisione: ‘ndrangheta. Con una decisione innovativa, che contrasta con le tesi della Dda, il presidente della settima sezione penale di Milano, Aurelio Barazzetta, ha stabilito che il processo a carico di sette imputati nato dall’inchiesta denominata ‘Metastasi’, si dovrà celebrare a Lecco. E’ la prima volta che Milano perde pezzi di un processo sulle cosiddette ‘locali’ di ‘ndrangheta individuate a partire dall’inchiesta ‘Infinito’.
    Se la competenza sul reato previsto dall’articolo 416bis in fase di indagini è indubbiamente della procura distrettuale, il tribunale competente è un altro se, come ha stabilito il giudice in questo caso, le condotte mafiose si sono concretamente realizzate al di fuori dei confine milanese. Per radicare nel capoluogo il dibattimento non basta che il potere intimidatorio della locale poggi sulla forza dell’organizzazione mafiosa sovraordinata, quella ‘Lombardia’ già individuata nel corso di Infinito. Bisogna guardare alle condotte materiali che sustanziano il reato di associazione di stampo mafioso. E in questo caso, sarebbero avvenute tutte in territorio lecchese. Al tribunale sul lago finiscono tra gli altri Mario Trovato (fratello del più noto Francesco ‘Coco’ Trovato), e Antonio Rusconi, ex sindaco di Valmadrera. Nel collegio difensivo c’è una certa euforia tanto che qualcuno parla di provvedimento che per la prima volta “fa crollare un teorema della Dda milanese”. Molti legali, ora, dovranno lavorare in trasferta. E anche i pubblici ministeri faranno avanti e indietro. Non proprio comodissimo.

  • Dopo il “testa di c.”
    ‘Depenalizzato’ il vaffa all’omofobo

    Il “testa di c.” al sindaco omofobo era già praticamente depenalizzato, come vi raccontavamo qui. Ora l’elenco degli insulti a disposizione per rivolgersi all’ex primo cittadino di Sulmona, Fabio Federico, senza incorrere in conseguenze penali, si allarga a dismisura, grazie al provvido provvedimento di un pm di Torino, Chiara Maina, e a quello del gip Gianni Macchioni.

    “Se per normale intende un come lui allora viva l’anormalità. Che c… c’entrano gli ormoni, c…, l’Italia è ferma all’800. Comunque caro Federico, vai affan*§#@ [per esteso nel testo, ndr] tu e tutti quelli ignoranti e idioti come te”, scriveva Enzo C. a corredo del famoso video “Federico e i gay“.

    Ragiona il pm di Torino: “Deve ritenersi che non si ravvisano  [brrrrr!, ndr] gli estremi oggettivi e soggettivi della diffamazione, tenuto conto dell’intrinseco contenuto del video (…) a commento del quale l’odierno indagato avrebbe inserito una frase asseritamente diffamatoria (…). Orbene, la frase incriminata, certamente forte nei toni utilizzati, va comunque contestualizzata nel contenuto instrinseco al video, sicuramente poco rispettoso nei confronti degli omossessuali  [quadrupla S nel testo originale, ndr], definiti, tra l’altro, come “persone con problemi”. Tanto premesso, il comportamento dell’indagato, persona omossessuale  [di nuovo, ndr] e, dunque, ritenutasi offesa dal contenuto del video, appare una reazione alla provocazione intrinsecamente contenuta nel video rispetto alla condizione di omossessualità [ancora, ndr] e, pertanto, configurante, quantomeno nei termini putativi, l’esimente di cui di cui all’art 599 c.p. della cosiddetta provocazione”.

    Enzo C. avrebbe agito “in uno stato d’ira determinato dall’altrui provocazione”.
    Il pm chiede l’archiviazione, il gip la dispone con un provvedimento di quattro righe scarse: “La richiesta del pm appare condivisibile”.
    Ripiloghiamo: “Testa di c.”. “Sembra uno che va a trans“. “Vai affan*§#@”. “Ignorante”. “Idiota”. In caso di provocazione omofoba tale da farvi arrabbiare, è tutto lecito. Bisogna “contestualizzare”.

    Lo scrivente, augurandosi la fine delle provocazioni e del conflitto su temi sociali-etnici-sessuali, si augura sommessamente che i provvedimenti di cui sopra facciano giurisprudenza. Salvo per le brutture linguistiche, ovviamente. Con un “bravo” a quegli avvocati, come Barbara Indovina, che l’hanno avuta vinta fin qui, nella difesa dei loro presunti diffamatori. Altra considerazione non richiesta: se uno proprio proprio se la prende, beh, facesse causa civile invece di intasare le procure.

  • Cupola degli appalti Expo
    Ecco i patteggiamenti di Greganti, Frigerio & Co.

    Ecco il risultato dell’inchiesta che per qualche mese ha fatto tremare la macchina di Expo. Qui trovate i patteggiamenti ratificati dal gup Ambrogio Moccia per Primo Greganti, Gianstefano Frigerio, Luigi Grillo, Angelo Paris, Enrico Maltauro e Sergio Cattozzo. Ovvero i componenti della cosiddetta ‘cupola degli appalti’, così come la definirono nel giorno degli arresti i pm Claudio Gittardi e Antonio D’Alessio.

    Alle pagine 8 e 9, i perché dell’assenza di confische e le ragioni per cui tutti beneficiano delle attenuanti generiche equivalenti o prevalenti sulle aggravanti.

    Frigerio, condannato in passato, aveva già ottenuto la riabilitazione. Greganti ha tenuto un “discreto comportamento post factum”. Maltauro ha fornito “ampia collaborazione”, così come Luigi Grillo, incensurato. Paris non ha precedenti penali e dimostra un “non minimo impegno risarcitorio” (100mila euro). Buona lettura.

    Patteggiamenti Expo Greganti Frigerio

  • Da Bruti ok alla Boccassini
    Forno dà il via libera a Robledo
    Ma chi valuta Bruti?
    E comunque i pareri sono da buttare

    Un girotondo spezzato. Il Procuratore dà un giudizio su un suo vice, un altro procuratore aggiunto valuta un collega pari-grado, ma poi nessuno valuta il procuratore stesso.

    Questo accade alla Procura di Milano. In valutazione, tre pedine fondamentali, che aspettano di sapere dal Consiglio giudiziario, e poi dal Csm, se saranno riconfermate nei propri ruoli per i prossimi quattro anni. Ciascuno ha bisogno di un parere, tranne il procuratore stesso. Quindi Bruti Liberati valuta positivamente Ilda Boccassini, capo della Dda. Pietro Forno, numero uno del pool sui reati che riguardano i soggetti deboli, valuta positivamente Alfredo Robledo, capo dell’anticorruzione fino al giorno in cui Bruti l’ha esiliato all’Esecuzione. Ma chi dà il voto a Bruti, anche lui attualmente in valutazione? Nessuno, è capo di un ufficio e non è previsto che sia il Procuratore generale, per esempio, a formulare una valutazione da sottoporre al consiglio giudiziario.

    Fatto singolare, poi, è che il consiglio giudiziario ha appena rispedito al mittente i pareri di Bruti su Boccassini e di Forno su Robledo. Perché? Troppo generici, non rispettavano i quesiti previsti. In sostanza, secondo alcuni membri dell’articolazione locale del Csm, quelle schede di valutazione assomigliavano troppo a una specie di copia-incolla del bilancio di responsabilità sociale della Procura, il rapporto che annualmente viene distribuito a tutti i sostituti, ai vertici del Palazzo di Giustizia, e anche ai giornalisti. Non una valutazione specifica sui magistrati in questione, insomma, ma un riepilogone dei dati che riguardano i loro dipartimenti. Curiosa in particolare la carenza di dettagli su un punto: la capacità di rapportarsi con i sostituti. Chissà cosa ne pensano i pm della Dda, o quelli del secondo dipartimento. Bruti per Boccassini, e Forno per Robledo, pare si siano astenuti dal precisarlo.

  • Alla riunione convocata da Bruti
    molti pm avranno altro da fare

    Rischia di trasformarsi in un autogol la riunione convocata per giovedì prossimo dal procuratore capo Bruti Liberati con tutti i colleghi magistrati del quarto piano. Dove si farà? Nella sua anticamera. Ma non è un posto un tantino piccolo per più di 80 pm? “E chi ha detto che ci andranno tutti?”, risponde un magistrato ancora incerto sul da farsi: “Di certo non ci andranno alcuni ‘anziani’”. Nome ovvio, e di peso, tra gli assenti, è quello di Ferdinando Pomarici il quale, stando ai bookmakers di Freguglia Street, non si presenterà all’appuntamento. Ma come lui sono parecchi i pm che potrebbero essere impegnati in altre faccende. In tal caso allora la grande stanza con il tavolo a ferro di cavallo in cui il Procuratore organizza le conferenze stampa potrebbe bastare e avanzare. “C’è il rischio che si parlino con il megafono per sentirsi”, scherza il magistrato di cui sopra, implicitamente sbilanciandosi sulle proprie intenzioni.

    C’è anche chi, invece, da altri e più alti uffici, medita una discesa al quarto piano, a sostegno emotivo di chi tra i pm vorrà esserci, per sorreggere idealmente i colleghi che vorranno sollevare qualche obiezione sulla gestione dell’ufficio fin qui condotta dal Procuratore della repubblica. C’è chi immagina colpi di scena, come l’annuncio di dimissioni anticipate da parte di Bruti Liberati per evitare una possibile valutazione negativa da parte del consiglio giudiziario sulla sua conferma a capo dell’ufficio. E chi invece ritiene che giovedì non avverrà nulla di particolarmente eclatante, al di là di una riunione condita da un certo imbarazzo viste le divisioni in atto e l’altrettanto forte speranza – fin qui tradita – di superare il momento di difficoltà. Quasi tutti danno per scontata l’assenza del rivale di Bruti, Alfredo Robledo, ‘esiliato’ al dipartimento esecuzione penale, il quale potrebbe magari motivare la propria defezione con una spiegazione scritta.

  • Che fai, mi cacci?
    Bruti spedisce Robledo
    al dipartimento esecuzione

    Ecco il documento con cui il procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati toglie l’aggiunto Alfredo Robledo dal dipartimento pubblica amministrazione ‘esiliandolo’ al dipartimento esecuzione penale. Poche righe molto formali e ben scritte. Ultimo atto della guerra in Procura. Disposizioni sul coordinamento dei Dip. II, VI ed Esecuzione penale

     

     

  • La candida divisa da gelataio non piace
    a chi fa le pulizie per i giudici

    Bella la nuova divisa del gelataio, no? Trasmette senso di pulizia. Ah no, a Palazzo di giustizia, di gelatai non ce ne sono. (Certo, qualcuno potrebbe avere obiezioni sul punto). Ci sono invece una cinquantina di addetti delle pulizie assunti da una cooperativa, la Coop Multiservice, che ha pensato di imporre a tutti quanti, uomini e donne, una bella divisa bianca e azzurra. Il colore più adatto per chi ripulisce il Tribunale, capirete bene. New look. Prima, erano blu. Come le tute blu, che non ci stanno più. Forse per questo gli addetti alle pulizie sono diventati bianchi e azzurri. Dalla cinta in giù, candidi come la neve (fino alla prima ramazzatura, ça va sans dire). Sopra, la camiciola a righine bianche e azzurre.


    Per gli utenti di palazzo il dettaglio che aggiunge colore al già eccitante panorama piacentiniano. Un po’ meno estasiati sono coloro che quelle divise le devono indossare. “A fare le pulizie, sai, ci si sporca. E di divise ce ne danno solo due. Scrivilo, siamo un po’ arrabbiati”. Più che arrabbiato, chi pronuncia queste parole sembra vergognarsi un po’, ha lo sguardo triste. Cinquecento euro al mese per un part-time, sui 900 per chi lavora a tempo pieno. La camicia è a maniche corte. D’estate va benissimo, d’inverno un po’ meno, ma è comoda. Così è e così sia, nel palazzo di giustizia.

  • Guerra in Procura al Csm
    ‘Indignato Jo’ in via Freguglia
    con tarallucci e vino

    Noi del suo parere teniamo sempre conto. Perché la sua è una visione ‘laterale’, frutto della forma mentis di chi conosce la Procura come le sue tasche ma non risponde esattamente alle logiche della quotidianità tribunalizia. Ebbene, Giorgio Dini Ciacci, sabato scorso, si è presentato all’ingresso di via Freguglia così.

    Ha provato a entrare ma lo hanno fermato al metal detector di via Freguglia. Meglio di un editoriale. Il modo più diretto per esprimere la previsione sul finale della lunga guerra in Procura tra Bruti Liberati e il suo aggiunto Robledo. Come andrà a finire al Csm? Prima ancora che si conoscesse il contenuto delle proposte della prima e della settima commissione, l’Indignato Jo aveva già detto la sua. Con tarallucci e vino.

  • Tao Scatenato fa tutto da solo
    Falsifica un legittimo impedimento e si smaschera
    Dieci mesi, per lui neanche le generiche

    Un po’ pasticcione, ma l’audacia non gli manca mai. Per questo è il numero uno. Da avvocato o da imputato, poco cambia, Carlo Taormina mena sempre colpi micidiali. Qualche volta per se stesso. E’ Tao Scatenato.

    Vi avevamo raccontato qui della sua recente condanna a dieci mesi. Tutto per un legittimo impedimento non esattamente legittimo, corredato da un piccolo falso. La storia è ancora meglio di quanto credessimo. Perché leggendo le motivazioni della sentenza, si scopre che il Taormina ha combinato tutto da solo: tenta un trucchetto, si accanisce contro un giudice e si smaschera da solo. E così rimedia la condanna.

    L’8 maggio 2009 invia un fax al Gup di Milano Giorgio Barbuto con un’istanza di legittimo impedimento. Chiede il rinvio dell’udienza del 15 maggio, in cui sarà imputato per diffamazione ai danni dell’ex procuratore di Aosta Maria Del Savio (le loro strade si erano incrociate nell’inchiesta sul delitto di Cogne). Avvisa che gli sarà impossibile essere in udienza dovendo quello stesso giorno difendere, come unico difensore, un imputato per droga in Sardegna. E allega la citazione della Corte d’Appello di Cagliari.
    Il 13 maggio Taormina “trasmetteva segnalazione al Presidente del Tribunale di Milano e al Presidente dell’Ufficio Gip nella quale evidenziava che il suo difensore – nel corso di un colloquio del 12 maggio – aveva percepito che il magistrato, che si era riservato di decidere in udienza, avrebbe potuto non ritenere valido l’impedimento addotto”. Il Tao-legale-imputato lamentava, si legge nelle motivazioni, “la particolare attenzione al processo che lo riguardava da parte del Gip e una ‘solerzia’ così accentuata da parte del magistrato che se avesse riguardato tutti i processi di Milano avrebbe consentito ‘l’eliminazione di ogni più pesante arretrato’”. Insomma Taormina calca la mano sul povero Gip Barbuto. Passa all’attacco: “l’atteggiamento del dott. Barbuto si configurerebbe in caso di celebrazione dell’udienza, illegittimo e inopportuno in quanto per un verso pregiudizievole per l’esercizio del diritto di difesa e per un altro non adeguato alla trattazione di una constroversia penale di non eccessivo rilievo, se non fosse che controparte del sottoscritto siano due magistrati”. Altra bordata. (Saggio è chi evita di attaccare un giudice per la sua solerzia nel celebrare un processo con altri magistrati in veste di parte civile). Ai due presidenti, allega di nuovo la citazione. Solo che questa volta compare un nome che invece non compariva in quella spedita al giudice Barbuto. Compare un codifensore di Taormina nel processo sardo. Mannaggia. E che è successo? Per il Tribunale di Milano, è successo che dell’originale era stata fatta una prima fotocopia oscurando il nome del codifensore. Mentre ai due presidenti era arrivato per fax l’originale. Fatto il confronto, svelato l’inganno. (altro…)

  • Doppia fuga dalla toga
    L’addio ai grandi processi milanesi
    per un alberghetto sul mare in Marocco

    Dibattimento Parmalat, fatto. Processo a Berlusconi, provato anche quello. E’ il momento giusto: fuga dalla toga. “Mollo tutto, lascio Milano, provo con una vita diversa, più semplice, a contatto con la natura e con gente normale”. Sara Caletti, molte volte in aula al fianco del professor Carlo Federico Grosso, a gennaio si è cancellata dall’albo degli avvocati. “Cambiare vita significa anche condividere momenti belli con le persone che incontri tutti i giorni. Incontrarle in aula per un processo, beh…”.
    La vita diversa è un alberghetto sulla costa atlantica del Marocco, una decina di chilometri a sud di Essaouira. Località con un passato hippie (a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 vi lasciarono le proprie tracce Jimi Hendrix e Cat Stevens) che ha molto poco a che vedere con la severità del palazzo di Giustizia del Piacentini. Anche il marito di Sara è un avvocato, Alessandro Cesaris, socio dello studio Della Sala & Associati. “In epoca ormai remota ho seguito il processo di Piacenza per la strage del Pendolino (otto morti e quasi trenta feriti, ndr). Più di recente, come parte civile, il caso Aleotti-Menarini a Firenze (truffa ai danni dello Stato)”. Lui aspetterà giugno per cancellarsi dall’albo, quando la coppia si trasferirà. “Appena nostra figlia avrà finito la prima elementare. Dall’anno prossimo andrà alla scuola francese”, spiegano.
    In Marocco hanno rilevato una proprietà affacciata sull’oceano, al margine di una spiaggia di surfisti. Si chiama Auberge de la Plage. Di turismo, dicono, non ne sanno niente. Un’altra sfida. (altro…)

  • Sbianchetta un documento in Tribunale
    E voilà il Tao è di nuovo nei guai

    Il personaggio è uno che in tribunale, quando ce n’è bisogno, sa usare i fuochi d’artificio. E i colpi li mette a segno, non c’è che dire, se è vero per esempio quanto dichiarò a qualche mese fa a ‘la Zanzara’ su Radio24: “Il più grande criminale che ho difeso? Un politico della Prima Repubblica, un criminale vero, ma io l’ho fatto assolvere, una grande soddisfazione”. Carlo Taormina le aule di giustizia le ha viste da ogni angolatura. Da avvocato prima, da magistrato poi, infine di nuovo da legale. Ma pure da imputato. Le ultime due posizioni non sono affatto inconciliabili, per altro. Si può essere avvocato in un processo e imputato in un altro. Proprio quello che è capitato a lui. Tanto che gli impegni, nel caso che vi raccontiamo, si sono accavallati portandolo a cadere in un pasticcio che gli è costato una condanna a 10 mesi di reclusione, pena sospesa, per falso. Tutto per una cosa da poco, quasi uno scherzo da liceo: la sbianchettatura di un documento.

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