Tag: Tortura

  • Su Sky documentario su tortura a difesa della democrazia

    “Mi torturavano mentre firmavano trattati internazionali contro la tortura”. C’è voluto quasi mezzo secolo perché Enrico Triaca arrestato nell’ambito delle indagini sul caso Moro potesse andare in tv a raccontare dove e come fu torturato al fine di estorcergli informazioni. Sul canale 122 di Sky lunedì 13 giugno (possibile vederlo on demand) è andato in onda un documentario sul sequestro del generale americano James Lee Dozier e su altri fatti di lotta armata a cavallo tra gli anni ‘70 e ‘80.
    All’epoca Enrico Triaca per aver denunciato le torture venne condannato per calunnia. Soltanto pochi anni fa con la revisione del processo è stato assolto. I torturatori, in testa il funzionario di polizia Nicola Ciocia, “il professor De Tormentis” l’hanno fatta franca per utilizzare il linguaggio di un famoso magistrato perché ovviamente era intervenuta la prescrizione.
    “Dalla questura dove c’era stato un interrogatorio molto blando mi portarono in una struttura che credo fosse una caserma, mi legarono a un tavolo e così iniziò il trattamento” sono le parole di Triaca che ricorda la tecnica solita in casi del genere del finto annegamento. Al “trattamento”, considerati gli scarsi “risultati” pose fine un superiore del professor De Tormentis che invece avrebbe voluto continuare.
    Il documentario di Sky rende almeno in parte pan per focaccia a chi continua a raccontare la favola del “terrorismo sconfitto senza fare ricorso a leggi e pratiche eccezionali”. Una posizione ribadita in tempi recenti dall’ex ministro Minniti il quale una certa responsabilità politica per quanto capitato ai migranti nei campi libici non può non averla.
    La vera tragedia è politica e riguarda il fatto che le torture ai migranti non hanno provocato cortei e proteste nelle piazze. Come del resto nulla sembra destinato a spostare il documentario di Sky sulle torture inflitte ai responsabili di fatti di lotta armata oltre quarant’anni fa.
    Se il nostro paese non ha tuttora una legge adeguata a sanzionare la tortura come reato tipico del pubblico ufficiale una ragione c’è. E si tratta ancora una volta di una ragion di Stato che neanche il documentario del canale 122 riuscirà a scalfire. Alcuni condannati per il sequestro e le torture all’imam Abu Omar sono stati graziati in parte da Giorgio Napolitano e in parte da Sergio Mattarella. Insomma, torturare non è che sia proprio vietato.
    Speriamo che a chi oggi ha 20 anni o 30 e anche 40 sia utile la visione del documentario di Sky che comunque ha la grave lacuna di non aver contestualizzato storicamente i fatti come accade sempre soprattutto in tv quando si parla di quella storia maledetta. Terminiamo con Triaca ricordando che l’anno scorso è stato tra quelli ai quali hanno preso il Dna perché la procura di Roma è sempre a caccia di improbabili complici e di misteri inesistenti.
    (frank cimini)

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  • G8, il 20 gennaio il caso Vincenzo Vecchi alla corte Ue

    È fissata al prossimo 20 gennaio l’udienza davanti alla corte di giustizia europea del Lussemburgo in cui si discuterà della consegna all’Italia da parte della Francia di Vincenzo Vecchi condannato per devastazione e saccheggio per fatti relativi alle manifestazioni del G8 di Genova e a un corteo antifascista a Milano. A investire della questione la corte del Lussemburgo era stata la Cassazione francese perché il reato per il quale Vecchi era stato condannato non fa parte del codice d’Oltralpe.
    Si tratta di una complicata questione di diritto relativa al principio della doppia incriminazione, delle modalità di esecuzione del mandato di arresto europeo e della proporzionalità della pena.
    La corte di Appello di Angers non aveva riconosciuto le condanne per devastazione e saccheggio ma solo le condanne per l’aggressione a un fotografo e la detenzione di una bottiglia molotov. Secondo la corte Vecchi dovrebbe scontare la pena di 1 anno, 2 mesi e 23 giorni. In Italia Vecchi era stato condannato a oltre 11 anni per il G8 e a 4 anni per la manifestazione di Milano. La condanna per il fatto di Milano non c’è più perché è stata considerata già scontata. Quella per i fatti di Genova deve fare i conti con l’assenza del reato di devastazione saccheggio in Francia.
    Secondo l’avvocato difensore Amedeo Barletta “non sussiste la condizione della doppia incriminazione. Nel caso di specie va valutata la punibilità nell’ordinamento francese della complessa congerie di fatti. Gli episodi riconducibili a Vecchi sono assolutamente marginali rispetto a quelli compresi nell’imputazione. Va tenuto presente che se il mandato di arresto era proporzionato al momento della sua adozione alla stregua della normativa italiana diviene invece grandemente sproporzionato nel momento della sua esecuzione sulla base della disciplina francese vigente”.
    Secondo l’avvocato Barletta “la giustizia francese si troverebbe a concedere l’estradizione per una condanna che supera in maniera assai rilevante il massimo della pena combinabile in Francia in violazione dei diritti fondamentali della Ue”.
    Vecchi era stato arrestato l’8 agosto del 2019 a Rochefort en terredove lavorava da molti anni ed era tornato in libertà il 15 novembre successivo in attesa della decisione della magistratura francese. Va ricordato che la corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato tre volte l’Italia per l’operato della polizia di Genova nel 2001 equiparandone la violenza a atti di tortura.
    In Italia i funzionari di polizia condannati sono stati tutti promossi (frank cimini)

  • Covid e carcere ennesima emergenza nel libro di Berardi

    Se la pandemia è stata trasformata da chi ha responsabilità politica nell’ennesima emergenza italiana negatrice e affossatrice di diritti va registrato che resta il carcere il luogo in cui il Covid o meglio la sua gestione ha prodotto gli effetti più devastanti. Gira intorno a questa realtà descrivendola fin nei minimi particolari il lavoro di Sandra Berardi presidente e animatrice di Yairaiha Onlus associazione per i diritti dei detenuti di Cosenza che si presenta come “abolizionista convinta”. Il titolo del libro è “Carcere e Covid”, 209 pagine, edito da Strade bianche Stampa Alternativae costa almeno 10 euro.
    “Il carcere è un mostro dai denti ben serrati e c’è un meccanismo cattivo che ne rinsalda il morso, un sorta di danza macabra che si muove al ritmo stonato delle poche o nulla quando non false informazioni che dal carcere arrivano – scrive nella prefazione Francesca De Carolis – Il carcere area di sospensione del diritto dove pure la legislazione di emergenza viaggia su un secondo binario complice l’indifferenza di un’opinione pubblica facilmente manipolabile. La cosiddetta emergenza Covid ha fatto esplodere le contraddizioni che vivono i detenuti e ne ha svelato la ferocia”.
    Al centro del lavoro di Berardi una situazione che era già esplosiva prima del Covid. La sospensione delle visite degli operatori e dei colloqui con i familiari portava alle proteste, alle rivolte e al pesante bilancio di 13 detenuti morti. L’autrice ricorda che mentre campeggiavano le immagini dei reclusi sui tetti “i professionisti dell’antimafia e amanti della dietrologia si affrettavano a profilare regie occulte in rivolte che erano spontanee”.
    Insomma i media facevano il loro sporco lavoro nello spostare l’attenzione dall’emergenza squisitamente sanitaria alla sempreverde emergenza mafia inducendo il Governo a varare normative e procedure poi passate al vaglio della Consulta perché di dubbia costituzionalità.
    A gennaio 2020 i detenuti sono 60.971, poi 259 in più al 29 febbraio a fronte di una capienza regolamentare di 50.931 e il tasso di sovraffollamento risulta ancora maggiore nelle regioni colpite dal virus. Le rivolte riguardano gli istituti più affollati. E basterebbe questo dato per ribaltare le ricostruzioni strumentali e le fakenews. Il 21 gennaio del 2020 il rapporto del comitato del consiglio d’Europa per la prevenzione della tortura punta il dito contro le condizioni igienico-sanitarie, la mancanza di misure alternative, il limite minimo di spazio per ogni recluso. Il Comitato invita l’Italia a evitare il sovraffollamento a abolire la misura dell’isolamento diurno imposta come sanzione penale accessoria per i condannati all’ergastolo. Argomenti questi su cui nessuna forza politica eccezion fatta per i radicali dimostra di avere qualcosa da dire. Brilla per il suo silenzio il ministro Bonafede.
    La commissione per i diritti umani del Governo fa sapere di “rammaricarsi per le valutazioni espresso dal comitato europeo per aver avuto la sensazione che esistesse un modus operandi da parte della polizia penitenziaria incline all’aggressione contro i detenuti”.
    Non tutti sono sordi o ciechi. Alcuni giornali, certo di nicchia non i cosiddetti giornaloni, denunciano la situazione vera. Il libro di Sandra Berardi riporta il testo di lettere di diversi detenuti che raccontano le loro esperienze di malati. Alessandro dal carcere di Secondigliano: “Sembra che con questo COVID-19 tutti abbiano perso la ragione”.
    Poi c’è il racconto del balletto sui numeri dei morti nelle rivolte che Bonafede definisce “atti criminali fuori dalla legalità”. La morte dei 13 detenuti “una drammatica conseguenza”.
    Sono le storie di vita in carcere a spiegare il perché delle rivolte con buona pace dei dietrologi la mamma dei quali come quella dei cretini in questo paese è sempre incinta. “La dietrologia impazza – scrive Berardi – dai sindacati di polizia ai politici. La presenza del pm antiterrorismo Nobili che tratta con i detenuti viene associata da un articolo di Repubblica a quella dell’ex Br Maurizio Ferrari che sta insieme ai parenti dei reclusi in un presidio all’esterno”. Il Corriere della Sera fedele alla sua storia almeno fin dal 1969 se la prende con un gruppo di anarchici in piazza. Il “Fatto Quotidiano” insiste sulle regie occulte di cui non esiste nessun riscontro.
    Dall’emergenza sanitaria si è passati al securitarismo a tutti i costi. A farne le spese ovviamente è stata soprattutto la popolazione detenuta che già prima del Covid se la passava malissimo.
    All’inizio del lavoro di Sandra Berardi sono citate le parole di Angela Davis: “La giustizia è una e indivisibile. Non si può decidere a chi garantire i diritti civili e a chi no”
    (frank cimini)

  • Reato di tortura, se non ora, quando?

    Lunedì sera, Teatro Pavoni, periferia di Milano.

    Le storie di Rosario Indelicato e di Giuseppe Gulotta fanno venire i brividi agli spettatori presenti. Un pubblico di addetti ai lavori e non assiste alla serata orgamizzata dalla Camera Penale di Milano per sensibilizzare sul tema della necessità di introdurre nel nostro ordinamento il reato di tortura.

    Gli interventi di Giuliano Pisapia e Monica Gambirasio aprono la prima parte. Si evidenzia la necessità che finalmente il nostro ordinamento si adegui alle convenzioni internazionali sottoscritte dall’Italia, dopo diversi tentativi andati a vuoto. Vengono sottolineati i nodi del disegno di legge che è in discussione in Parlamento. E poi ci sono le storie.

    L’avvocato Baldassarre Lauria racconta quella della lunghissima carcerazione patita dal suo assistito Giuseppe Gulotta che aveva confessato sotto tortura e sottolinea le storture della legislazione emergenziale antimafia, del 41 bis e dei reati ostativi che non consentono che il principio della rieducazione della pena li esplichi.

    Cetta Brancato, curatrice del libro che racconta la terribile detenzione a Pianosa di Rosario Indelicato, evidenzia un aspetto che accomuna le due storie: la difficoltà a raccontare eventi terribili, talmente terribili da non poter trovare credito. Rosario Indelicato e Giuseppe Gulotta non sono stati creduti e finalmente trovano ascolto.

    Vengono letti passaggi del libro ‘L’infermo di Pianosa’, storia degli abusi della carcerazione dura dopo le stragi del 1992; non è solo una storia di detenzione di 41 bis, ma soprattutto è il racconto di una violenza senza confine con lo scopo di indurre alla collaborazione detenuti neppure giudicati in primo grado. Un “libro da divorare, con un sospiro di angoscia per ogni pagine”, commenta Pisapia.

    Infine, va in scena “Come un granello di sabbia”, lo splendido monologo teatrale sulla storia di Giuseppe Gulotta, nel quale torna il tema dell’incredulità di tutti, anche dei magistrati, di fronte al grido disperato di una persona ingiustamente condannata. Il crudo racconto delle violenza subite dalle forze dell’ordine e della confessione storta è un pugno nello stomaco. Per citare il ministro Andrea Orlando: “Sul reato di tortura non c’è tempo da perdere”.

    Avvocato Valentina Alberta

  • Il dossier Regeni in mano ad Alfano, il ministro che non vuole il reato di tortura

    Per chi ha a cuore i diritti dei cittadini (tutti dovrebbero ma sappiamo che non è così) l’aspetto più raccapricciante della risoluzione della crisi di governo è l’approdo agli Esteri di Angelino Alfano noto alle cronache già per aver agito agli Interni come quinta colonna del regime kazaco in Italia. Nelle mani di Alfano finirà il dossier relativo a Giulio Regeni il ricercatore torturato e ucciso dai servizi segreti di Al Sisi, il dittatore a suo tempo sdoganato da Matteo Renzi come campione di democrazia e lotta al terrorismo.

    ”Ebbene Alfano è l’esponente politico che più si oppone alla ratifica della convenzione internazionale in attesa da 32 anni che dovrebbe introdurre nel nostro ordinamento la tortura come reato tipico del pubblico ufficiale. Alfano è in “buona compagnia”: la suo fianco ci sono alcuni sindacati di polizia che evidentemente per “lavorare” non possono fare a meno di certe pratiche e il Quirinale che tra Napolitano e Mattarella ha già concesso la grazia a tre agenti della Cia condannati per  il sequestro dell’imam Abu Omar.

    Alfano succede a Gentiloni traslocato a palazzo Chigi e che non ha avuto nemmeno il coraggio di dichiarare l’Egitto “paese non sicuro””. Nel frattempo gli affari con il Cairo vanno a gonfie vele, aumentano i voli verso le località turistiche e le autorità egiziane continuano a prendere in giro quelle nostrane che fanno finta di niente. Dopo Gentiloni… Alfano. Al peggio non c’è fine. Mai. Giulio Regeni. Chi era costui?

    (frank cimini)

     

     

     

     

  • Mastrogiovanni, i medici condannati tornano in corsia perché manca la legge sulla tortura

     

    Sette anni fa Francesco Mastrogiovanni, “il maestro più alto del mondo” (definizione dei suoi studenti) fu tenuto legato mani e piedi per 87 ore al letto di contenzione dell’ospedale di Vallo della Lucania, reparto psichiatrico. Oggi la corte d’appello di Salerno modificando parzialmente la sentenza di primo grado ha condannato insieme ai 6 medici anche gli 11 infermieri assolti dal tribunale in primo grado. Pene fino a 2 anni di reclusione con la concessione delle attenuanti generiche ma cade l’interdizione dai pubblici uffici: gli imputati, condannati a vario titolo per omicidio come conseguenza del sequestro di persona e falso, torneranno in corsia.

    Ed è questa la conseguenza più preoccupante alla fine di un iter giudiziario tortuoso e che come altre vicende sconta il fatto che l’Italia non ha mai ratificato la convenzione internazionale che prevede la tortura come reato tipico del pubblico ufficiale. In Parlamento da sempre non si riesce a fare un passo in avanti. I sindacati di polizia sono contrarissimi e la politica si adegua al volere di chi è intenzionato a continuare con certe pratiche.

    La situazione di stallo ha poi ricevuto un autorevole avallo dal Quirinale che tra Napolitano e Mattarella ha dato la grazia a ben tre responsabili del sequestro dell’imam Abu Omar, vittima di una operazione di terrorismo di stato o meglio di più stati, torturato e sodomizzato.

    Il caso Mastrogiovanni fa parte di un lungo doloroso elenco dove spiccano le torture inflitte ai manifestanti contro il G8 di Genova del 2001. Chi scrive queste poche righe lo fa per denunciare l’ennesima ingiustizia derivata dall’assenza di una norma sacrosanta a tutela dei cittadini, la protervia e l’arroganza del potere. Ma anche per ricordare un amico e compagno di sovversioni giovanili negli anni ’70 che ha pagato con la vita l’essere considerato “diverso”, “pazzo” dalle istituzioni totali che lui da anarchico aveva sempre combattuto (frank cimini)

  • La tesi di laurea sulla tortura ‘all’italiana’, in attesa di una legge

    “I detenuti hanno subito non singole vessazioni ma una vera e propria tortura durata per più giorni e posta in essere in modo scientifico e sistematico”. Sono le parole con cui il Tribunale di Asti sintetizzava la vicenda, denominata la “Abu Ghraib italiana” in cui furono imputati 5 agenti di polizia penitenziaria, poi non sanzionati a causa di deribricazione del reato, prescrizione e mancanza di querela, ma soprattutto perché nel nostro paese continua a mancare una norma che preveda la tortura come reato. Del caso di Asti parla la tesi di laurea di Silvia Galimberti per dimostrare “come i tempi siano maturi per approvare una legge che dia allo stato la possibilità di punire coloro che non aderiscono al concetto di stato democratico inteso nella sua concezione più ampia, ossia quella di uno stato in grado di assicurare la giustizia e la legalità anche senza l’ausilio di mezzi barbari come la tortura”.

    “Tortura all’italiana” è il titolo della tesi che ricorda altre note vicende di cronaca da Cucchi ad Aldrovandi, al G8 di Genova con i fatti della scuola Diaz e della caserma Bolzaneto fino al caso del giudice di Los Angeles che negò l’estradizione in Italia del boss Rosario Gambino spiegando che l’articolo 41 bis del regolamento carcerario era da considerare una forma di tortura. A questo proposito va ricordato che la nostra Corte Costituzionale non ha mai voluto censurare la norma relativa al carcere duro.

    Nella tesi si ricorda come in Italia durante il sequestro Moro si discusse della possibilità di ricorrere alla tortura. “Si prese la decisione di non impiegarla per le parole del generale Dalla Chiesa: ‘L’Italia può sopravvivere alla perdita di Aldo Moro ma non può sopravvivere all’introduzione della tortura’”.

    Formalmente di scelse di non torturare. I fatti di quegli anni e non solo dicono ben altro. Enrico Triaca (il caso non è tra quelli citati nella tesi), il tipografo di via Foà, arrestato per il rapimento del leader dc, denunciò di essere stato torturato e per questo fu condannato per calunnia. Solo in anni recenti in sede di revisione la condanna è stata annullata dal tribunale di Perugia. Triaca era stato torturato, anche se i responsabili del fatto non potevano più essere perseguiti ovviamente a causa della prescrizione.

    L’Italia secondo il generale Dalla Chiesa non sarebbe sopravvissuta all’introduzione della tortura. Purtroppo è sopravvissuta alla mancata introduzione del reato di tortura, pratica mai caduta in disuso. Chi si oppone spiega che sanzionare la tortura sarebbe penalizzante per agenti di polizia e carabinieri. E lo dice perchè sa benissimo che quei metodi vengono usati. (frank cimini)

  • “La cella liscia”, un e – book racconta la tortura nelle nostre carceri

    “La chiamano “liscia” perché è una cella completamente vuota, senza mobili, senza branda, senza tubi, maniglie o qualsiasi altro oggetto che possa essere utilizzato come appiglio. Fisico e mentale. E’ stretta, buia, ha un odore nauseante e più che a una camera di sicurezza assomiglia a una segreta medievale. Perché – appunto – esattamente di tortura si tratta”. 

    Arianna Giunti, giornalista del gruppo L’Espresso, racconta questo abisso sconosciuto dove viene rinchiuso chi sgarra, chi si oppone a un ordine o è semplicemente colpito da una crisi di nervi, nell’appassionato e documentato e-book “La cella liscia. Storie di ordinaria ingiustizia nelle carceri italiane”, edito da Informant.

    La tortura viene praticata in Italia in quasi tutte le attuali sezioni d’isolamento delle carceri che ancora dispongono di una cella liscia nella quale i detenuti sono costretti anche a fare i bisogni sul pavimento e a convivere con  gli scarafaggi. Un giorno Carlo, recluso al Mammagialla di Viterbo per reati di droga, spiega al padre durante un colloquio cos’è la cella liscia. “Al freddo, nudo, su un pavimento che puzza di pipì rancida, ogni tanto entrano degli agenti che ti portano l’acqua. Ti fanno fare dieci piegamenti e ti danno dieci sberle. Ma tu, pur di non restare solo e impazzire, aspetti  quei momenti come una cosa bella”. Trasferito poi nel carcere di Monza, alla mamma una sera dice al telefono: “Non arriverò a compiere 30 anni”. Carlo morirà pochi giorni prima del suo compleanno per circostanze che il padre, viste le oscure cartelle cliniche del penitenziario, non è mai riuscito a chiarire.

    Non c’è solo la quotidiana violazione dei diritti umani nelle mura carcerarie al centro del libro elettronico ma anche un’indagine, arricchita da storie, che fa emergere l’impossibile ritorno alla vita, e soprattutto al lavoro, fuori dalle sbarre. Chi decide di ricominciare si scontra con un ostacolo insormontabile: il certificato penale immacolato richiesto dai datori di lavoro. Marcello supera in modo brillante un colloquio per diventare promoter in una grande azienda di surgelati. Quando il direttore delle vendite gli chiede di fornirgli il certificato, si spegne il suo sorriso. Racconta una bugia (“Per me sarebbe un lavoro troppo impegnativo”) e se ne va. Nel capitolo “marchiati a fuoco” Giunti mette in fila altre storie  simili a questa, abissi umani che lacerano il cuore e ritraggono il carcere italiano come un inferno con divieto perenne di uscita.  (manuela d’alessandro)

  • Troppo silenzio sulla sentenza che 35 anni dopo riconosce la “tortura di Stato”

    Un assordante silenzio dei vari media (con ben rare eccezioni) sembra accompagnare l’avvenuto deposito delle motivazioni di una recente Sentenza di revisione della Corte di Appello di Perugia, la n. 1130/13 siglata dai Magistrati Ricciarelli, Venarucci e Falfari.

    Si dirà che in fondo è un fatto vecchio che non fa più “notizia” posto che si trattava della condanna a suo tempo inflitta per calunnia ad Enrico Triaca, un oscuro “tipografo” romano arrestato il 15 maggio 1978 in occasione delle indagini sul sequestro Moro.

    Costui aveva a suo tempo denunciato all’allora Giudice Istruttore di Roma, Gallucci, lo stesso Magistrato che nel 1979 attribuirà al veneto Toni Negri la diretta paternità della celebre telefonata fatta dal marchigiano Mario Moretti alla signora Moro, di avere subito pesanti torture nella notte tra il 17 ed il 18 maggio presso il Commissariato romano di Castro Pretorio, prima di rendere il proprio interrogatorio il   18 maggio.

    Per tali affermazioni Enrico Triaca fu puntualmente condannato per calunnia dal Tribunale di Roma il 7 novembre 1978 scontando interamente la propria pena.

    Dopo 35 anni la Corte di Appello di Perugia ha accolto l’ istanza di revisione di Enrico Triaca “revocando”, per quel che ormai può servire, quella condanna per il semplice motivo che quanto a suo tempo dichiarato dall’imputato era vero. (altro…)