Tag: Tribunale Milano

  • Incendio in Tribunale, era già tutto scritto

    Già prima del varo e dell’entrata in vigore delle direttive europee in tema di sicurezza il palazzo di giustizia non era in regola. Figurarsi in epoca successiva e adesso in uno stabile che ha 90 anni di vita. In pratica ci si dovrebbe meravigliare se non accadesse nulla a mettere a repentaglio le cose e la vita delle persone.
    Il problema era riemerso in epoca recente quando restava paralizzato un avvocato colpevole di essersi sbilanciato nel tentativo di sporgersi. Mancavano protezioni adeguate. I responsabili dei vari uffici procura generale corte d’appello procura facevano osservare giustamente di non avere capacità di spesa e quindi di essere impossibilitati a predisporre misure adeguate comunque molto difficili da attuare data la vetustà del palazzo.

    La procura generale ovviava acquistando delle piante verdi allo scopo di nascondere la mancanza di strutture adeguate suscitando anche ilarità.

    Bisogna ricordare a proposito del sesto e del settimo piano che la sopraelevazione, accertarono le indagini di Mani pulite, era stata realizzata utizzando materiali scadenti allo scopo di risparmiare e di realizzare il massimo profitto. Dei lavori si occupò la Grassetto società del gruppo di Salvatore Ligresti anche pagando tangenti.

    Nei giorni di vento molto forte i vetri del palazzo tremano e continuano a tremare mettendo a repentaglio la vita delle persone. Il palazzo non è “riformabile” più di tanto. A un certo punto la soluzione era sembrata quella di costruire una cittadella giudiziaria in periferia ma poi il discorso era caduto “per mancanza di piccioli”. L’incendio scoppiato alle 22.55 di ieri sera, registrato dalle telecamere di sicurezza, ma scoperto solo sei ore e mezza dopo, attorno alle 5 di stamattina, ripropone un vecchio e drammatico problema. Adesso si tratta di salvare il salvabile a livello di atti processuali sperando che una gran parte sia stata informatizzata. La motivazione dolosa sembra esclusa. Non ci sono elementi che vanno in tale direzione tanto che uno dei magistrati intervenuti, Alberto Nobili, ha parlato apertamente di cortocircuito, e ciò appare più che plausibile. In ogni caso, si tratterebbe del terzo principio di rogo in pochi anni. Negli altri due casi era andata bene. (frank cimini)

  • La visita del Ministro Bonafede dove è caduto il giovane avvocato

    Dice il procuratore Francesco Greco guardando le balaustre alte pochi centimetri al terzo piano del Palazzo di Giustizia: “Ma vi rendete conto quante sentenze abbiamo ascoltato appoggiati qua?”.  E’ appena finito un incontro durato circa un paio d’ore nell’ufficio del Presidente della Corte d’Appello Marina Tavassi tra i vertici della giustizia milanese e il Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Antonio Montinaro, l’avvocato di 31 anni precipitato da un parapetto al quarto piano, è a pochi metri da qua, in un letto del Policlinico. “Abbiamo ascoltato e preso in carico le istanze della giustizia milanese che merita la nostra particolare attenzione – promette il Guardasigilli – Non può accadere che in un tribunale e in uno Stato come il nostro una persona si faccia male perché si appoggia a un parapetto”.

    Stavolta non si puo’ dire che non fosse stato annunciato: “Abbiamo presentato 5 – 6 segnalazioni negli ultimi due anni, l’ultima un paio di mesi fa, sia sulla sicurezza in generale che sulle balaustre in particolare – spiega Greco – dossier mandati alla Commissione Manutenzione (di cui fanno parte Tavassi, il Presidente del Tribunale Roberto Bichi e il Procuratore Generale Roberto Alfonso) che li ha girati a sua volta al Ministero”. Risposte zero. Il  lungo torpedone di magistrati, ministro, giornalisti, avvocati, sovrintendenti si sofferma prima dove Antonio è cascato sei metri più sotto, poi in altri  punti critici, con una particolare attenzione per le acciaccate vetrate. Ha un senso di solenne e ridicolo vedere il corteo snodarsi nel vecchio Palazzo mentre Antonio rischia di non camminare mai più. (manuela d’alessandro)

  • La battaglia del giudice contro i microfoni ‘silenziosi’

    Chi parla di una violenza sessuale subita non ha certo voglia di farlo a voce alta. E se i microfoni non funzionano bisogna ripetere più volte le stesse cose e i processi diventano lenti, così impacciati da violare la recente direttiva del Csm che impone una ‘corsia’ più veloce per i procedimenti in cui si contestano reati di genere.

    Per questo il giudice Mariolina Panasiti, che presiede la nona sezione penale davanti alla quale si celebrano questo tipo di processi,  sta combattendo da qualche tempo una battaglia contro i microfoni ‘silenziosi’. Nelle aule 9, 9 bis e N del Tribunale di Milano, come è facile appurare per chiunque ci metta piede,  i microfoni non amplificano e non registrano le voci delle parti in causa. Il risultato è che i dibattimenti proseguono da diversi mesi con grandi difficoltà perché chi parla è costretto a dover ripetere molte volte le proprie dichiarazioni. Panasiti ha per due volte, nel giro di poche settimane, messo a verbale i problemi che derivano da questa situazione e, durante un’udienza che si è svolta ieri, anche gli avvocati delle parti e il pm Rosaria Stagnaro si sono associati alla sua richiesta di adottare delle soluzioni. Entrambi i verbali sono stati inviati al Presidente della Corte d’Appello, al Presidente del Tribunale e al Procuratore Generale, i quali al momento non hanno fatto pervenire alcuna risposta alle sollecitazioni.

    Il giudice sostiene che “la carenza di microfoni e di impianti di amplificazione rallenta notevolmente l’attività giudiziaria” in contrasto con la direttiva del Csm e fa anche presente che “parte civile, difensore e pm dispongono, in banchi diversi, di un unico microfono che per il suo funzionamento, ancorché precario, ha necessità di essere sostenuto da basi di appoggio tra i codici o i supporti di plastica occasionalmente reperiti”. (manuela d’alessandro)

  • “Alla domenica non lavoriamo”, protesta dei dipendenti del Tribunale

    “Alla domenica a queste condizioni non vogliamo più lavorare”. Monta dall’ufficio gip di Milano la protesta del centinaio di dipendenti che affiancano i giudici nell’impegno quotidiano al settimo piano del Tribunale e che, da due giorni, hanno proclamato lo stato di agitazione e l’astensione dal lavoro straordinario. “I magistrati vogliono sfruttare i lavoratori – spiega Lino Gallo, segretario nazionale della FLP (Federazione Lavoratori Pubblici e Funzioni Pubbliche) –  Ci fanno venire a lavorare alla domenica riconoscendoci solo 4 ore di straordinario e non concedendoci il riposo settimanale, previsto dalla Costituzione”. Lo stato di agitazione è stato deciso al termine di in un’assemblea molto partecipata e vivace convocata dopo che, si legge nel documento finale, non sono arrivate risposte dai dirigenti al disagio manifestato dai lavoratori. In particolare, lamentano “l’inasprirsi delle relazioni sindacali determinato dalle decisioni unilaterali assunte dal dirigente del Tribunale in materia di organizzazione del lavoro e del personale e segnatamente l’imposizione dell’obbligo, non conforme alla normativa contrattualistica, di prestazione di lavoro straordinario nella giornata di domenica”. Le proteste erano state sospese “su invito del presidente dei gip Aurelio Barazzetta, che si era impegnato a dare una concreta risposta alle richieste del personale entro il 3 settembre, ma allo stato prendiamo atto dell’assenza di cambiamenti nella direzione auspicata”. “Non possiamo essere obbligati a venire a lavorare alla domenica”, insiste Gallo che preannuncia, se non dovessero esserci evoluzioni, un possibile ricorso anche allo sciopero generale. (manuela d’alessandro)

     

  • Dite al Ministro che nel 62% dei casi la prescrizione è prima del processo

     

    Il blocco della prescrizione dopo il primo grado di giudizio invocato dal Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede “è inutile perché è fatto notorio che il 70 per cento dei procedimenti penali finisce in prescrizione al termine delle indagini preliminari”. Lo scrivono in una nota gli avvocati delle Camere Penali di Milano, Como, Lecco, Pavia, Sondrio, Varese, Monza  e Busto Arsizio secondo i quali sarebbe una “riforma dannosa e anticostituzionale che renderebbe eterni i processi di primo grado”.

    Le ultime statistiche ufficiali disponibili sul sito del Ministero della Giustizia danno ragione ai legali, anche se indicano con una percentuale un po’ più bassa, il 62%, la fetta dei procedimenti che spirano quasi agli albori: il 58% nella fase preliminare del giudizio più il 4% di casi che si prescrivono con le sentenze di gip e gup. Solo il 19% dei casi di prescrizione riguarda il primo grado, il 18% la corte d’appello e l’uno per cento la Cassazione.

    Sempre i numeri del Ministero offrono una panoramica sulle incredibili diversità tra i vari tribunali in materia di prescrizione, difficilmente spiegabili. A Tempio Pausania la prescrizione incide nel 51,1% dei casi, a Vallo della Lucania nel 41% e a Spoleto nel 33,1%, per indicare le prime 3 sedi più colpite dal trascorrere del tempo. Le ultime in questa speciale graduatoria (Urbino, Rovereto, Napoli Nord, Aosta, Piacenza, Trento, Asti, Bolzano) sembrano essere su un altro pianeta, con percentuali di incidenza della prescrizione comprese tra lo zero e lo 0,5 per cento.  E’ il ‘fattore umano’, cioé l’organizzazione dei Tribunali, a determinare queste differenze?  Gli avvocati lombardi invitano prima di fare una riforma, definita dal Ministro e avvocato Giulia Bongiorno “una bomba atomica sui processi, a “esaminare le cause, le possibili soluzioni per le criticità del sistema e le ripercussioni negative sui cittadini” che potrebbero venire condannati a “processi eterni”.

    Sembrano molto sagge  le parole scritte  dal Guardasigilli Alfredo Rocco nei lavori preliminari al suo Codice, ancora base del nostro diritto penale sebbene elaborato in epoca fascista: “Il passare del tempo influisce inevitabilmente su tutte le umane vicende , qualunque sia la valutazione che possa farsene dal punto di vista etico o razionale. Il tempo, anche se non riesce a cancellare il ricordo degli avvenimenti umani, lo attenua o lo fa impallidire. E se, di per sé, non può creare o modificare o distruggere i fatti umani, può ben peraltro, con la sua lenta e continua azione demolitrice, influire sulla vita dei rapporti giuridici che da quei fatti hanno origine”. (manuela d’alessandro)

  • “Giudici in crisi quando danno l’ergastolo”, i 40 anni in Assise della cancelliera

    Quarant’anni nel palazzo di giustizia di Milano. Trenta di questi, in Corte d’assise, a contatto ogni giorno con gli aspetti più violenti dell’animo umano. Centinaia di processi, e solo una volta la cancelliera Flavia Fabi si è commossa: quando sul banco degli imputati si è trovata davanti Marco Cappato, il  radicale accusato di avere aiutato a morire Dj Fabo. Davanti ai filmati di Fabo e alle testimonianza strazianti dei suoi familiari, gli occhi di Flavia si sono riempiti di lacrime. Ma in quell’aula erano pochi gli occhi asciutti.

     

    Ora Flavia Fabi gira pagina. Va in pensione, a 66 anni di età compiuti da poco. Si porta dietro una miniera di ricordi: facce, storie, processi che attraversano ere diverse della giustizia milanese raccontati dal punto di vista particolare di un cancelliere. Dal suo banco, silenziosa e insostituibile, non si perdeva una parola.

     

    Come sei arrivata alla cancelleria dell’Assise?

    “Per caso. Sono milanese, dopo avere vinto il concorso sono arrivata subito qui a Palazzo di giustizia. Dopo una decina d’anni si è creato un problema in Assise perché un collega si era ammalato e l’ho sostituito per un processo. Poco dopo il cancelliere della Seconda sezione, Pillerio Plastina, ha superato gli esami per diventare avvocato e si è dimesso. Così ho preso il suo posto”.

    In tribunale di storie allegre ne approdano poche, ma in Assise si sente il peggio. Non ti è pesato passare tutti questi anni in mezzo a tragedie di ogni tipo?

    “Niente affatto. Non posso dire che mi staccavo da quanto accadeva in aula, perché comunque ti rendi conto di quanto è in gioco davanti a te. Ma sai di essere un’altra cosa rispetto a quanto sta succedendo e di avere un tuo ruolo da svolgere. Io mi concentravo sul mio ruolo anche se questo non mi impediva di essere coinvolta dal processo: a partire dal rapporto con l’imputato. All’inizio del processo partivo sempre critica, prevenuta; mi dicevo che questo signore se era in gabbia qualcosa doveva avere fatto. Poi nel corso del processo, mentre le udienze vanno avanti, ti fai delle convinzioni diverse. Oltretutto io mi sono sempre letta le carte dei processi a cui dovevo lavorare, sia per interesse personale sia perché sapere bene di cosa si parla torna comodo all’ufficio. In questo modo inevitabilmente una idea te la fai”.

    Hai mai visto condannare un imputato che consideravi innocente?

    “No”.

    E assolvere uno che per te era colpevole?

    “Nemmeno. Dal mio punto di osservazione, mi sento di dire che la giustizia funziona”.

    In Corte d’assise oltre che con i giudici di professione hai a che fare anche con i giudici popolari, i cosiddetti giurati. Che tipi sono? Che ruolo svolgono davvero nel chiuso della camera di consiglio?

    “Inizialmente sono tutti un po’ sbalestrati, perché tutto comincia con la polizia che arriva a casa loro ad avvisarli che sono stati scelti per fare parte della Corte: ma a volte la cosa avviene in modo un po’ brusco, e prima di capire che la polizia è lì solo per quello ci mettono un po’… Dopodiché cominciano a entrare nella parte. Una volta erano molto sprovveduti, bisognava spiegar loro tutto. Adesso invece appena realizzano cosa li attende vanno su Google, si documentano, si studiano le leggi, e arrivano alla prima riunione già abbastanza pronti. Almeno dal punto di vista tecnico, intendo. Non sono pronti a affrontare l’aspetto emotivo del processo, il suo carico di responsabilità. Così accade che giudici popolari che arrivano da noi dicendo “ci vorrebbe la pena di morte”, poi cambiano, e quando bisogna decidere la sentenza e magari condannare l’imputato all’ergastolo vanno in crisi, non se la sentono, e al momento del verdetto si commuovono. Ma devo dire che anche i giudici effettivi sentono il peso della responsabilità. Al processo per l’uccisione di un tassista anche il giudice che leggeva  il dispositivo si commosse, perché si era reso conto che se uno degli imputati aveva avuto un ruolo da leader gli altri gli erano più che altro andati dietro. Erano colpevoli, ma anche vittime delle circostanze”.

    Cosa accade in camera di consiglio? I giurati si fanno valere, o seguono le indicazioni dei due giudici effettivi?

    “Ci sono Corti piatte piatte, che non si discostano dalle indicazioni dei giudici. Ma anche Corti con una dialettica interna vivace, in cui i giudici popolari non rinunciano a fare sentire la loro voce. Non ho mai visto i giudici di mestiere messi in minoranza sulla questione principale, la colpevolezza o l’innocenza dell’imputato. Ma al momento di quantificare la pena è accaduto che i giudici popolari imponessero la loro linea”.

    Tranne che per Cappato non ti sei mai commossa. Ma ti è accaduto di provare orrore?

    “Sicuro. Il processo a un giovane che aveva ammazzato la madre e l’aveva fatta a pezzi non lo dimenticherò facilmente. La fidanzata era in casa e non ha capito niente di quello che stava succedendo…Oltretutto lui era recidivo!”

    E’ giusto che esista la pena dell’ergastolo?

    “Sì, anche perché non è quasi mai effettivo”.

    Quanto conta in Corte d’assise la figura del presidente?

    “Moltissimo. Io ho avuto la fortuna di lavorare accanto a presidenti di grande levatura. Il primo fu Antonino Cusumano, era l’epoca dei processi ai terroristi, in aula il clima era pesante, spesso i giurati avevano paura fisica; ma Cusumano riusciva a condurre il processo con polso e anche con umanità, riuscendo anche a dialogare con gli imputati. E non era facile”

    Il più tosto?

    “Renato Samek Lodovici”

    La giustizia funziona meglio per i ricchi, che si possono permettere gli avvocati più bravi?

    “No. E’ brutto dirlo, ma l’avvocato non ha un peso determinante sulla vicenda processuale”

    E il pubblico ministero, quanto conta?

    “Molto. Sia nella chiarezza della relazione introduttiva, che si usava una volta, sia nella gestione degli interrogatori dei testimoni. Non tutti sono bravi allo stesso modo, e le giovani generazioni non sono all’altezza di quelle che le hanno precedute. Di pm come Alberto Nobili e Armando Spataro non ne fanno più”.

  • Strage in Tribunale, assolto il vigilante accusato di aver fatto entrare l’arma

     

    Roberto Piazza, il vigilante che stava davanti al monitor all’ingresso del Tribunale di Milano quando Claudio Giardiello entrò per compiere la strage, è stato assolto dai giudici di Brescia. Cadono le accuse di omicidio e lesioni colpose in un processo che il suo avvocato, Giacomo Modesti, definisce “basato solo sulle dichiarazioni inattendibili di Giardiello mentre non c’era nessun indizio che l’arma fosse stata visibile dal macchinario a cui era addetto Piazza”.

    Un’assoluzione che viene salutata con gioia non solo da tutti gli ex colleghi della guardia giurata (che ora si è trasferito in Veneto) di cui è stata sempre sottolineata la precisione e l’abnegazione  sul lavoro, ma anche da Alberta Brambilla Pisoni, la mamma del giovane avvocato Lorenzo Claris Appiani, freddato mentre leggeva il giuramento del testimone.

    Spiega il legale della famiglia, l’avvocato Vinicio Nardo: “La Procura ha deciso di procedere solo con l’ultima ruota del carro. La mamma di Lorenzo è contenta per la sentenza di oggi”.  Altre due guardie erano state archiviate dalla Procura bresciana al termine delle indagini preliminari.

    Fin qui, tutto bene. Ma allora cosa successe quel giorno?

    Giardiello entrò poco prima delle 9 del 9 aprile 2015 dall’ingresso posteriore di via San Barnaba, uno dei quattro accessi. Passò attraverso il metal detector e mise  la borsa sul nastro dei controlli. Due ore dopo sotto i colpi della pistola  caddero assieme a Claris Appiani anche il coimputato di Giardiello nel processo per bancarotta, l’imprenditore Giorgio Erba, e il giudice Fernado Ciampi, ucciso nel suo ufficio mentre si confrontava con la sua cancelliera sul perché non funzionasse la stampante.

    In un interrogatorio Giardiello, contraddicendo quanto da lui dichiarato in precedenti occasioni, rivelò di avere introdotto l’arma tre mesi prima dell’eccidio ma non è stata  trovata nessuna prova, né il killer ha fornito altre dettagli.

    L’avvocato Modesti critica l’inchiesta bresciana: “Toccava a uno dei colleghi di Piazza, la cui posizione è stata poi archiviata, svolgere ulteriori accertamenti su Giardiello perché, quando la borsa passò sul nastro, si accesero le luci che indicavano la presenza di un oggetto con grandi quantità di metallo”.

    In realtà, più che cercare altre responsabilità degli esecutori di un sistema di sicurezza che la stessa magistrarura bresciana ha definito “sottovalutato e definito solo per approsimazione”, sarebbe stato utile, come sottolinea Nardo, appurare eventuali “responsabilità apicali”.

    L’avvocato Giampiero Biancolella, per conto della famiglia Ciampi, aveva presentato un esposto assieme all’opposizione all’archiviazione delle 2 guardie giurate, in cui chiedeva di accertare le responsabilità della Commmisione Manutenzione del Palazzo, nella quale siedeva, tra gli altri, l’attuale Presidente della Cassazione Giovanni Canzio. Il giudice di Brescia chiamato a esprimersi si limitò a rigettare l’opposizione all’archiviazione senza entrare nel merito delle valutazioni su eventuali lacune dei vertici nella gestione del sistema sicurezza. E oggi più che mai ci chiediamo perché siano mancati la forza e il coraggio alla magistratura di provare a indagare anche sulle sue (eventuali) fragilità.

    (manuela d’alessandro)

  • Tutti nell’aula del processo, Belen affossa la produttività del Tribunale

     

    Si sta stretti come sardine nell’aula che non è una delle più piccole del palazzo di giustizia. La curiosità è contagiosa, il pubblico è vasto potendo contare su un buon numero di cancellieri, assistenti e magistrati, tutti formalmente in orario di lavoro ma qui ad assistere allo “spettacolo”: Belen Rodriguez testimone della difesa di Fabrizio Corona nel processo in cui l’imprenditore fotografico più famoso d’Italia risponde di tanti soldi incassati in nero e poi distribuiti tra controsoffitti e cassette di sicurezza in Austria.

    Il corridoio che conduce all’ingresso principale dell’aula è transennato per arginare la folla di cameraman, un carabiniere invita a entrare dal retro “perché questo è l’ingresso dei vip, l’abbiamo inventato oggi”.

    Belen  utilizza la panca vicino alla porta come sala trucco con la sorella che l’aiuta che in origine dovrebbe deporre pure lei, ma poi la difesa vi rinuncia.

    Il personale giudiziario che dovrebbe stare in ufficio è qui “al cinema”. Materia di riflessione vi sarebbe per i sindacati del settore, in testa l’Anm gran fustigatrice dei costumi nazionali e custode di moralità, sempre bravi a pontificare sulla carenza di organici, che impedirebbe alla giustizia di funzionare. Oggi si lavora poco e male “per colpa di Belen”, che abbassa la produttività del tempio della farsa di Mani pulite ma avrà alzato di sicuro il testosterone (frank cimini)

  • Se c’è vento state lontani da questa minacciosa finestra

     

    (foto di Alfredo Faieta)

    Siamo in un ufficio minacciato dai venti glaciali della Patagonia? Purtroppo no: la vista, comunque mirabile, è quella offerta dal settimo piano del Palazzo dove le folate della giustizia fanno temere per un vetro molto delicato. Tanto che l’ignota mano invita a tenersi a prudente distanza se dovessero manifestarsi ire eoliche. (m.d’a.)

  • In 2 anni quadruplicate le domande degli aspiranti rifugiati, Tribunale in crisi

    Ci sono cifre che erompono dal Bilancio di Responsabilità Sociale del Tribunale di Milano presentato oggi nell’aula magna del Palazzo di Giustizia.  Riguardano il numero di stranieri che chiedono la qualifica di rifugiato. Un pezzetto del loro percorso di dolore e speranza passa dai giudici civili, competenti a valutare i ricorsi contro il diniego di concedere lo status da parte della comissione territoriale della Prefettura. Il lavoro di quest’ultima, si legge nel documento, “è aumentato in maniera esponenziale negli ultimi anni con conseguente immediato riflesso sul numero dei ricorsi proposti a seguito dei provvedimenti di diniego: 636 i ricorsi iscritti nel 2014, 1679 nel 2015 (fino a  tutto settembre 2015 sono stati 715, nei mesi di ottobre e dicembre i ricorsi sono aumentati a 964), con ulteriore tendenza all’aumento nel 2016 (in gennaio e febbraio il numero dei ricorsi è stato di 807, con una proiezione per il 2016 di oltre 4000 ricorsi)”. Nel giro di 2 anni, si sono più che quadruplicati. La spiegazione sembra facile: le istanze si impennano in concomitanza con la crisi siriana  e la chiusura delle frontiere da parte dei paesi del’Est Europa.

    Una situazione definita “critica” a livello giurisizionale nel Bilancio anche se sono arrivati dei rinforzi per far fronte all’emergenza e “dare una risposta alla domanda di protezione in tempi ragionevoli”: l’applicazione alla sezione prima civile, competente per tale materia, di ulteriori 9 giudici ordinari e 6 onorari e l’applicazione di un giudice extragiudiziale, a fronte dei 3 richiesti dalla Presidenza del Tribunale, per i prossimi 18 mesi”. Basterà?

    (manuela d’alessandro)

  • Cadono lastre dal soffitto del nuovo Tribunale. Un avvocato, “salva per un soffio”

    “Camminavo al piano terra quando ho sentito un boato, come un colpo di pistola”. Sono le nove di lunedì mattina e l’avvocato Annalisa Premuroso sta percorrendo il corridoio della nuova palazzina del Tribunale di Milano. “Un collega, mentre ancora non mi rendevo conto di cosa fosse successo – racconta –  mi avverte che è caduto a terra un pannello che si è staccato dal soffitto, che mi ha sfiorata alle spalle e non mi ha preso per un niente…”.

    Se il giudice imprigionato nel bagno con la maniglia rotta aveva strappato un sorriso (qui), quanto accaduto all’avvocato Premuroso fa paura, ancor più perché la settimana scorsa era piombato dal soffitto un altro tassello. “E in quel caso non si era neppure chiuso il corridoio, come sarebbe stato logico fare. Stiamo aspettando il morto? – si chiede il legale – La lastra era molto pesante, di cemento e intonaco, se mi avesse colpito mi sarei fatta molto male”.

    Oggi, invitata da un giudice, l’avvocato ha presentato una denuncia alla commissione logistica del Tribunale allegando le immagini del crollo.

    Maniglie che si rompono, cellulari che non prendono, luci al neon definite “insostenibili” da chi ci lavora e adesso parte del soffitto che viene giù. Bella è bella, la nuova palazzina destinata ai processi di lavoro e famiglia, lo dicono tutti. Ma sembra la bellezza di una donna troppo truccata per nascondere imperfezioni pericolose.

    Manuela D’Alessandro

     

  • Cacciata dall’ufficio di Presidenza del Tribunale, “qui i giornalisti non possono starci”

    Cacciata dall’ufficio della Presidenza del Tribunale negli istanti successivi alla sparatoria perché “qui i giornalisti non possono stare”.  Abbiamo aspettato che si celebrassero i funerali delle tre vittime per raccontare un grave episodio che ha coinvolto una cronista dell’Ansa e il Presidente facente funzione del Tribunale Roberto Bichi, mentre non si sapeva se Claudio Giardiello si aggirasse armato per il Palazzo dopo avere sparso sangue.

    La giornalista, che da anni si occupa di cronaca giudiziaria, quella mattina non avrebbe dovuto essere in Tribunale perché era la sua giornata di riposo, ma intorno alle undici è arrivata per recuperare un documento lasciato nella sala stampa. Nel’atrio del terzo piano, mentre scambiava qualche battuta con dei giudici accanto alla lapide che ricorda Guido Galli, la collega viene travolta dai carabinieri con le pistole ad altezza d’uomo che corrono urlando: “Hanno sparato! Hanno sparato! Mettetevi al riparo!”. A quel punto, come ci ha raccontato, si è rifugiata con altri giudici nella vicina anticamera della Presidenza, dove si trovava anche Bichi. C’era una grande confusione e sembrava che stessero ancora sparando. Mentre arrivavano le prime informazioni, la collega si è sentita dire da Bichi: ‘qui i giornalisti non ci  possono stare’, ed è stata invitata  ad uscire. Spaventata, quando non era chiaro se Giardiello fosse ancora in Tribunale, la cronista è corsa verso la sala stampa nella quale si erano chiuse a chiave altre persone. Ha battuto i pugni sulla porta chiedendo di entrare mentre fuori c’era il coprifuoco. (manuela d’alessandro)

  • La sala stampa del Palazzo di Giustizia sta per chiudere

    “La sala stampa del Palazzo di Giustizia chiuderà a settembre”. L’annuncio, questa volta apparso implacabile rispetto ad altri analoghi negli anni passati, è stato dato sabato scorso dal Presidente del Gruppo Cronisti di Milano, Rosi Brandi, durante la cerimonia del ‘Premio Vergani’.

    Le testate giornalistiche non riescono a pagare l’esorbitante canone d’affitto di 14mila euro all’anno per la malmessa stanza di circa venti metri quadri che ospita i giornalisti da più di  due decenni. “Alcune aziende editoriali,  Poligrafici, Mediaset, La7, Il Fatto Quotidiano, nonostante le ripetute sollecitazioni”, si legge in una nota del Gruppo Cronisti, non versano la loro quota. Proprietaria dello spazio è l’Agenzia del Demanio (Ministero dell’Economia) che stipulò a suo tempo un contratto col Gruppo e  l’ha data in gestione al Comune di Milano. La cifra a carico dei giornalisti è salita nell’ultimo anno a causa dei continui lavori di manutenzione di tutto il Palazzo, e adesso la gestione della sala stampa pesa come un ‘rosso’ non più sostenibile sui bilanci del Gruppo. “Le aziende in difetto – spiega Rosi Brandi – verranno di nuovo sollecitate, ma se non si decideranno a dare il loro contributo la chiusura sarà inevitabile”.

    Una soluzione potrebbe essere l’abbassamento dell’affitto da parte del Demanio, altrimenti non resterebbe che cercare una nuova ‘casa’ all’interno del Palazzo per i cronisti. Nei mesi scorsi, era stata ventilata dalla Procura la possibilità di concedere gratis ai giornalisti uno spazio, ipotesi non gradita da alcuni per ragioni di opportunità. (manuela d’alessandro)

  • La candida divisa da gelataio non piace
    a chi fa le pulizie per i giudici

    Bella la nuova divisa del gelataio, no? Trasmette senso di pulizia. Ah no, a Palazzo di giustizia, di gelatai non ce ne sono. (Certo, qualcuno potrebbe avere obiezioni sul punto). Ci sono invece una cinquantina di addetti delle pulizie assunti da una cooperativa, la Coop Multiservice, che ha pensato di imporre a tutti quanti, uomini e donne, una bella divisa bianca e azzurra. Il colore più adatto per chi ripulisce il Tribunale, capirete bene. New look. Prima, erano blu. Come le tute blu, che non ci stanno più. Forse per questo gli addetti alle pulizie sono diventati bianchi e azzurri. Dalla cinta in giù, candidi come la neve (fino alla prima ramazzatura, ça va sans dire). Sopra, la camiciola a righine bianche e azzurre.


    Per gli utenti di palazzo il dettaglio che aggiunge colore al già eccitante panorama piacentiniano. Un po’ meno estasiati sono coloro che quelle divise le devono indossare. “A fare le pulizie, sai, ci si sporca. E di divise ce ne danno solo due. Scrivilo, siamo un po’ arrabbiati”. Più che arrabbiato, chi pronuncia queste parole sembra vergognarsi un po’, ha lo sguardo triste. Cinquecento euro al mese per un part-time, sui 900 per chi lavora a tempo pieno. La camicia è a maniche corte. D’estate va benissimo, d’inverno un po’ meno, ma è comoda. Così è e così sia, nel palazzo di giustizia.

  • Giustizia sprint: l’ordinanza del Tribunale “contro” il difensore su modulo pre – stampato

     

    “Contro”, a prescindere. La giustizia va lenta e il Tribunale di Milano la velocizza tirando fuori dal cassetto un’ordinanza con la scritta “contro” pre – stampata (di solito è a penna) per rispondere alla richiesta di revoca del provvedimento presentata da un avvocato.

    Un ‘leggero’ pregiudizio contro la difesa? Così parrebbe, però concediamo al magistrato di avere dimostrato un verecondo riguardo verso il legale cerchiando la parola “contro” a penna: come a dire, mi è scappato il pre – stampato, ma poi stai tranquillo che ci ho anche pensato su. (m.d’a.)

  • A Milano record di avvocati che non pagano la quota
    Nomi e cognomi vanno in bacheca

    E’ record di toghe non paganti nelle aule del Palazzo. “Da dicembre a oggi abbiamo convocato per sollecitare il pagamento della quota annuale 260 legali. Non sono mai stati così tanti in passato”, fa i conti Cinzia Preti, tesoriera dell’Ordine degli Avvocati. La curiosità di chiederle in quanti non pagano l’obolo ce l’ha fatta venire l’insolitamente nutrito elenco degli avvocati morosi, con tanto di nomi e cognomi (ma la privacy?), esposto nelle bacheche dell’Ordine a Palazzo.

    “La ragione sta in parte nella crisi, ma bisogna considerare anche i tanti colleghi che si trasferiscono all’estero, e che smettono di  pagare”, è la lettura l’avvocato Preti. Una volta ‘ammoniti’ dall’Ordine, la maggior parte degli inadempienti tuttavia rimedia in fretta. “Dei 260 richiamati, 35 li abbiamo sospesi, e sono quelli che si possono leggere in bacheca, mentre gli altri si sono messi in regola “. Il nuovo regolamento approvato nella primavera scorsa obbliga  gli Ordini a inviare al Consiglio Nazionale Forense la lista dei non paganti e i provvedimenti presi nei loro confronti. Il mancato avvio nei 60 giorni successivi alla comunicazione dell’elenco della procedura di sospensione dall’albo comporta per gli Ordini  una segnalazione al Ministero della Giustizia. Un meccanismo che rende gli Ordini ancora più zelanti nello scovare e ‘denunciare’ gli avvocati riottosi. (manuela d’alessandro)

     

     

  • Inchiesta, milioni di fondi Expo per il Tribunale assegnati senza gara. Perché?

    Alcuni milioni di fondi governativi sono stati destinati al Tribunale di Milano nel nome di Expo col meccanismo degli appalti diretti, lo stesso che viene indicato nelle inchieste della Procura di Milano sull’Esposizione Universale come la possibile anticamera delle tangenti. Progetti per consegnare al mondo un’immagine efficiente della giustizia ambrosiana messi nelle mani di imprese senza gara, né italiana, né europea, sebbene la legge preveda l’affidamento diretto come un’ipotesi residuale quando in ballo ci sono appalti ghiotti.

    E’ una storia lunga quella che vi stiamo per raccontare, iniziata molti mesi fa da un passaparola nei corridoi del Palazzo. “C’è qualcosa che non quadra sui fondi Expo”. Abbiamo bussato alle porte di alcuni uffici giudiziari e a quelle del Comune per capire come siano stati spesi i 12, 5 milioni di euro destinati a rendere scintillante il Tribunale. La gestione del denaro è avvenuta su un doppio fronte, politico e giudiziario: da un lato la magistratura milanese e il Ministero della Giustizia, dall’altro Palazzo Marino. Non è stato facile capirci qualcosa. La richiesta di esaminare le carte degli appalti formulata al Presidente della Corte d’Appello Giovanni Canzio è stata ritenuta “irricevibile” con l’invito di rivolgersi al Comune. In Comune, il funzionario che si occupa degli appalti degli uffici giudiziari, Carmelo Maugeri, ci ha rimandati all’assessore ai Lavori Pubblici Carmela Rozza. Quest’ultima, con molto garbo e appellandosi alla “trasparenza” dell’amministrazione di fronte alle ritrosie di Maugeri,  ha consentito l’accesso, con divieto di farne copia, a un file stracolmo di documenti, delibere, determinazioni.  Un mare di burocrazia. (altro…)