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  • L’attentato di Atene? È tutta colpa di Alfredo Cospito

    Le indagini sull’incendio della macchina di Susanna Schlein, vice ambasciatore in Grecia, fatto avvenuto quindi ad Atene le fanno in Italia, politici e giornalisti, a cominciare dal presidente del Consiglio Giorgia Meloni, la prima persona che ha indicato “la pista anarchica”.
    Ma con la creatività e la fantasia del Bel Paese si fa ancora di più dicendo che l’attentato sarebbe avvenuto ad opera di anarchici in solidarietà con Alfredo Cospito in sciopero della fame da un mese e mezzo nel carcere di Sassari Bancali per protestare contro l’applicazione dell’articolo 41bis, carcere duro: blocco della corrispondenza sia in entrata sia in uscita e solo due ore d’aria al giorno in un cubicolo da cui non si vedono le nuvole o il sole.
    Insomma lor signori non sanno niente dell’incendio di Atene ma fanno ammuina prendendosela con una persona che in pratica stanno torturando. La notizia viene gonfiata perché Susanna Schlein è la sorella di Elly da tempo sotto i riflettori dell’attenzione generale perché candidata alla segreteria del partito democratico. Per cui giornali che sulla vicenda carceraria di Alfredo Cospito non hanno scritto una riga ignorando deliberatamente anche l’udienza dì mercoledì davanti al Tribunale di Soveglianza di Roma ora hanno scoperto il caso, diciamo, perché fa comodo strumentalizzarlo nell’ambito di una caccia alle streghe che nella storia di questo paese ha già fatto danni inanerrabili. E siamo proprio nei giorni che ci avvicinano all’anniversario di piazza Fontana e del “volo” dell’anarchico Pinelli rubricato coma malore attivo da un giudice “democratico e antifascista”. Insomma è tutta colpa di Cospito Alfredo che sta rischiando la vita digiunando per tutelare i suoi diritti che restano tali anche in una prigione dello Stato nato dalla Resistenza.
    (frank cimini)
  • Cospito contro il 41bis Giudici decideranno chissà quando

    L’anarchico Alfredo Cospito è in sciopero della fame da un mese e mezzo per protestare contro l’applicazione dell’articolo 41 bis, carcere duro, con divieto di corrispondenza che viene bloccata sia in uscita sia in entrata e il diritto a solo due ore d’aria in un cunicolo dal quale si fa fatica a vedere il cielo. Ieri mattina davanti al Tribunale di Sorveglianxa di Roma, l’unica autorità abilitata a decidere in merito al 41bis sull’intero territorio nazionale (parlare di una sorta di tribunale speciale non pare proprio azzardato) il difensore Flavio Rossi Albertini ha discusso il ricorso in un’udienza durata un paio d’ore.
    Il Tribunale si è riservato di decidere e non ha termini perentori da rispettare a livello di tempi. Per cui la situazione in cui si trova Cospito, che ha già perso 24 chili digiunando, sembra destinata a peggiorare.
    Secondo l’avvocato Rossi Albertini “le limitazioni imposte a Cospito non sono strettamente correlate e con le esigenze di sicurezza perseguite e assumono natura ingiustificatamente e puramente limitativa divenendo ingiustificate deroghe all’ordinario regime carcerario con una porta puramente afflittiva non riconducibile alla funzione attribuita dalla legge al provvedimento ministeriale”.
    Per la difesa siamo oltre la ratio della norma che serve per impedire i contatti con l’esterno in modo da evitare che siano commessi altri reati. Cospito si vede bloccare la corrispondenza che era fatta di interventi politici da pubblicare sulle riviste dell’area anarchica e non certo di pizzini o strani geroglifici da decrittare. Non è accertato inoltre che la Federazione anarchica informale di cui fece parte Cospito sia tuttora operante e comunque non si tratta di una organizzazione strutturata. “È il primo caso di un anarchico al 41 bis – aggiunge il difensore – regime che nasce per combattere la mafia stragista ma che viene applicato a un anarchico”
    Ieri sia davanti al Tribunale di Sorveglianza di Roma sia a Genova ci sono stati presidi di solidarietà con Cospito organizzati dagli anarchici. E qui bisogna fare attenzione perché come ricorda l’avvocato Margherita Pelazza, esperta delle questioni relative all’articolo 41bis, in passato le manifestazioni di solidarietà fuori dalle carceri e dai palazzi di giustizia sono state considerate una sorta di “aggravante” perché dimostrerebbero la pericolosità sociale delle persone destinatarie dei provvedimenti. Gli anarchici nel capoluogo Ligue hanno esposto striscioni contro il carcere duro definito “tortura di Stato”.
    L’articolo 41bis ha preso il posto dell’articolo 90 che aveva contrassegnato il carcere duro nel corso dei cosiddetti anni di piombo. A firmare il decreto del provvedimento per Alfredo Cospito era stata Marta Cartabia ministro della Giustizia nel governo presieduto da Mario Draghi che si era sempre espressa per meno carcere e il meno afflittivo possibile. A parole.
    (frank cimini)
  • Nordio il gattaro che non risponde su Tigro “intercettato”

    Per dare forza alla promessa di riformare il codice Rocco nei giorni scorsi il ministro della giustizia Carlo Nordio aveva spiegato: “Lo giuro sui miei gatti Rufus e Romeo”.  Ma adesso nella vita dell’ex magistrato è entrato un altro micio perché il deputato Roberto Giachetti gli ha chiesto di attivare i poteri ispettivi su una vicenda che l’esponente di Italia Viva ha definito “tragicomica”.

    Nordio non ha ancora risposto all’ interrogazione parlamentare relativa all’annorazione della Digos poi allegata dai pm di Torino agli atti dell’inchiesta su Askatasuna in cui si leggeva che l’indagata Dana Lauriola nell’agosto del 2020 parlava in camera da letto con il suo gatto.

    Ben difficilmente (eufemismo) le parole della donna potranno risultare di qualche interesse investigativo per cui l’onorevole Giachetti sollecita il ministro a intervenire sugli uffici giudiziari del capoluogo piemontese per conoscere le ragionI della presenza tra gli atti della “intercettazione” relativa a Tigro e alla sua padrona.

    Ci sarebbe da ridere se non ci fosse da piangere. Ma in realtà non c’è da stare allegri per nessun motivo nel constatare il modo con cui si fanno le indagini. Parliamo di una inchiesta per associazione sovversiva accusa poi modificata dal Riesame in associazione per delinquere. Il ricorso dei difensori degli indagati del centro sociale Askatasuna sarà discusso in Cassazione il prossimo 24 novembre.

    Per manacanza in questi tempi di materia prima, la sovversione, gli uffici Digos dell’intero paese sono abbastanza disoccupati. È chiaro che dovendo giustificare la loro esistenza e soprattutto i costi di strutture spropositate rispetto alla bisogna i poliziotti si aggrappino a tutto. Il resto lo hanno fatto i magistrati allegando al fascicolo di indagine le coccole fatte dalla signora Lauriola e i miao di Tigro che nei suoi 17 anni di vita ne aveva già viste di tutti i colori. Dana infatti era finita in carcere a scontare una condanna a due anni di reclusione senza sospensione condizionale della pena per aver parlato con un megafono durante una manifestazione in autostrada. Oggi però avrà gioito anche Tigro perché la sua padrona si è laureata. In attesa dell’udienza in Cassazione e di un eventuale chiarimento in merito all’”ascolto” registrato da agenti che evidentemente hanno poco da fare (frank cimini)

  • Giachetti: intercettata indaga con gatto Nordio si attivi

    “L’intercettazione di un dialogo tra una indagata e il suo gatto, che viene inserita negli atti di un’inchiesta da parte della Procura di Torino, è una vicenda tragicomica che oltrepassa tutti i possibili confini della logica e del buonsenso.” Così in una nota Roberto GIACHETTI, deputato di Azione – Italia viva, sul caso che ha come protagonista Dana Lauriola, raccontato in un articolo a firma di Frank Cimini sul quotidiano Il Riformista lo scorso 7 novembre.
    “La donna, che in passato aveva trascorso due anni in carcere per aver utilizzato un megafono durante una manifestazione avvenuta in autostrada, è stata coinvolta nell’operazione Sovrano, condotta nei confronti del centro sociale Askatasuna, ed è stata intercettata dalla Digos di Torino nella sua stanza da letto mentre ‘conversava’ con il suo gatto Tigro. L’intercettazione, della durata di un minuto e quattordici secondi, risulta allegata dalla Procura di Torino agli atti dell’inchiesta come documentazione utile ai fini del processo. Ho presentato su questa assurda vicenda un’interrogazione – conclude GIACHETTI – chiedendo al ministro se non ritenga di procedere, nell’ambito delle sue competenze, ad attivare i propri poteri ispettivi in relazione alle eventuali irregolarità, anomalie e/o omissioni da parte degli uffici giudiziari della Procura di Torino”. (Public Policy)
    @PPolicy_News
    RED
    161531 nov 2022

  • De Maria ex Br solidale con sciopero fame di Cospito

    Nicola De Maria detenuti ex militante delle Brigate Rosse colonna Walter Alasia attraverso il suo avvocato Giuseppe Pelazza comunuca di aver prolungato l’ora d’aria iL 9 novembre scorso in solidarietà con Alfredo Cospito l’anarchici in sciopero della fame contro il 41bis nel carcere di Bancali Sassari.

    “Crisi guerra repressione contro lavoratori disoccupati studenti. In questo contesto – afferma De Maria – si è ultimamente estesa l’applicazione del regime carcerario del 41bis contro i prigionieri rivoluzionari mirando all’annientamento della loro identità  e integrita’ psicofisica”.

    Questa mattina su due quotidiani nazionali Repubblica e Stampa sono stati pubblicati gli articoli di Luigi Manconi e Massimo Cacciari critici sull’applicazione del carcere duro per Cospito il quale ha la posta bloccata sia in entrata sia in uscita e solo un’ora d’aria in una sorta di cubicolo.

    (frank cimini)

  • Le case occupate del Giambellino e la giustizia di classe

    Organizzavano l’occupazione di case sfitte di Aler per darle a famiglie bisognose in una metropoli dove c’è fame di abitazioni. Non prendevano soldi, non c’era fine di lucro come riconosciuto nel corso delle indagini dagli stessi pm. Ma nove militanti del comitato Giambellino-Lorenteggio sono stati condannati per associazione per delinquere finalizzata all’occupazione abusiva. Le pene, più alte di quelle richieste dall’accusa, vanno da un anno e 7 mesi a 5 anni e 5 mesi. Il Tribunale ha deciso che dovranno anche risarcire Aler. Soprannominato “Robin Hood” quello contro il comitato era un processo simbolo sull’emergenza abitativa.
    “In una città così escludente e spietata come Milano aiutavano povera gente a sopravvivere, offrendo solidarietà senza chiedere nulla e sono stati trattati e un’organizzazione criminale” dice l’avvocato Mauro Straini.
    “La sentenza dimostra che alcuni valori costituzionali sono per alcuni giudici caduti in disuso. A cominciare dal diritto all’abitazione. Per il Tribunale chi si è attivato per adempiere al dovere di trovare una casa è meritevole di essere inserito in una associazione per delinquere – spiega Giuseppe Pelazza altro legale della difesa – È ciò a fonte della violenza delle istituzioni che hanno azzerato i fondi per l’edilizia pubblica omettendo le indispensabili manutenzioni dei pochi stabili di edilizia popolare facendo così aumentare il numero dei senza casa e di chi viene costretto a vivere in situazioni di pesante degrado”.
    Pelazza aggiunge che siamo costretti e sembra paradossale a rimpiangere Giorgio La Pira che da sindaco di Firenze andava personalmente a requisire gli appartamenti sfitti per assegnarli a chi casa non aveva. La sentenza bastona chi cerca di tutelare i diritti dei più deboli, secondo il legale. “E prima o poi non potrà non succedere qualcosa che rimetta le cose a posto”.
    Il comitato del Giambellino aveva creato uno sportello di aiuto per le persone in difficoltà, racconta l’avvocato Eugenio Losco – organizzando attività ricreative, doposcuola, ambulatorio popolare, tutte attività lecite. “Lo scopo era questo e non quello di commettere reati. In particolare trovo fantasioso – aggiunge Losco – che si possa costituire una associazione per delinquere per commettere il reato di resistenza. Un reato dettato da ragioni estemporanee che mal si concilia con una ideazione a tavolino. Le resistenze peraltro non sono state dimostrate. Un conto è opporsi con violenza e minacce alla polizia un conto è partecipare la propria solidarietà e anche protestare l’illegittimità politica degli sfratti. Da condannare sono le istituzioni totalmente assenti. È solo un bene che siano nati questi comitati che portano aiuto a chi ha bisogno”. Insomma una volta si parlava di giustizia di classe e visto quello che accade lo si può ancora fare senza essere sospettati di delirare.
    (frank cimini)
  • Il gatto intercettato dalla Digos… va in Parlamento

    Interrogazione del ministro da parte del deputato Roberto Giachetti che chiede di attivare l’ispettorato

    GIACHETTI. — Al Ministro della Giustizia— Per sapere – premesso che:

    in un articolo a firma di Frank Cimini pubblicato il 7 ottobre 2022 sul quotidiano “Il Riformista” e ripreso da altri siti di informazione online, nello specifico il portale www.dagospia.t e giustiziami.prlb.eu , si riporta la vicenda che vede protagonista Dana Lauriola, alla quale è stato contestato il reato di associazione sovversiva (poi modificato dal Riesame in associazione per delinquere) e per il quale la difesa ha presentato ricorso in Cassazione che sarà discusso nell’udienza fissata per il 24 novembre 2022;
    Dana Lauriola era stata condannata in passato a due anni di reclusione, senza sospensione della pena e quindi scontati in carcere, per aver utilizzato un megafono durante una manifestazione avvenuta in autostrada;
    nell’articolo citato si racconta dell’utilizzo di un’intercettazione ambientale dell’indagata, disposta dalla Digos di Torino nell’ambito dell’operazione denominata “Sovrano” sul centro sociale Askatasuna, e avvenuta nella camera da letto di Dana Lauriola il 7 agosto 2020, per il tempo complessivo di un minuto e 14 secondi, durante la quale l’intercettata “conversava” con il suo gatto di nome Tigro;
    la stessa Dana Lauriola racconta l’episodio in un post pubblicato sul suo profilo personale facebook e intitolato “Intercettazioni nella mia camera da letto”;
    dallo stesso articolo risulta che tale intercettazione sia stata allegata dalla Procura competente agli atti dell’inchiesta come documentazione utile ai fini del processo;
    a parere dell’interrogante una tale vicenda, che ha del tragicomico, oltrepasserebbe tutti i possibili confini della logica e del buonsenso anche in relazione ad un abuso del metodo delle intercettazioni:-

    se il Ministro, a fronte dei fatti esposti in premessa, non ritenga di procedere, nell’ambito delle sue competenze, ad attivare i propri poteri ispettivi in relazione alle eventuali irregolarità, anomalie e/o omissioni da parte degli uffici giudiziari della procura di Torino.

  • Per la prima volta i nomi e le storie dei suicidi in carcere entrano in tribunale

    Si può dire che per la prima volta i suicidi in carcere entrino in un tribunale. Uno a uno, coi loro nomi e cognomi, e anche col loro luogo di morte, che è uno e tutti perché ci si uccide in tutte le gabbie italiane, da Aosta a Messina, ed è già successo 72 volte nel 2022, record del millennio.

    Ecco che sotto le fotografie della mostra ‘Disagio dentro’, scattate dai detenuti e dagli agenti, si appiccicano le 72 identità cancellate e alcune storie piccole ed enormi perché raccontano tanto di come stiamo nella parte più scura della nostra coscienza democratica. Da  Giacomo Trimarco, il più giovane coi suoi 21 anni, che è caduto inalando il gas butano a San Vittore, dove non sarebbe dovuto stare perché, malato psichiatrico, era destinato a un luogo di cura ma non c’era posto, a Donatella Hodo, la ragazza che prima di farlo ha chiesto perdono all’amore suo e per la cui morte ha invocato a sua volta perdono il giudice della Sorveglianza Vincenzo Semeraro che l’ha seguita per anni nel dentro e fuori per droga ma l’ha vista uscire infine dentro a una bara.

    “Vanno guardate con l’emozione dell’uomo che guarda l’uomo”

    Non è stato facile portare questa esposizione nel tribunale di Milano perché sono state poste molte domande da parte di chi ospitava, la magistratura, a chi l’ha organizzata, in prima fila la responsabile per il carcere della Camera Penale, Valentina Alberta. Perché questa mostra scava e raschia il senso di colpa di tutti come ha ammesso con coraggio Giovanna Di Rosa, presidente della Sorveglianza milanese. “Ha un grande valore simbolico perché viene fatta qui, dove si amministra la giustizia e si decidono le pene e come eseguirle. Va guardata lasciandosi andare al senso di umanità perché le foto e le storie grondano umanità. Sono rimasta molto colpita leggendo nomi e storie perché significa personalizzare e dare un senso ai numeri. Vanno guardate e lette lasciandosi andare all’emozione dell’uomo che guarda l’uomo”.

    La giudice Ombrettta Malatesta della giunta locale dell’Anm: “E’ importante che queste storie siano liberamente visitabili nel tribunale di Milano e che la magistratura prenda coscienza del problema e anche che ci sia una sensibilizzazione diretta della popolazione civile”.

    Dice il presidente dell’Ordine degli Avvocati, Vinicio Nardo, durante la presentazione, che “non era scontato che avvocati e magistrati facessero insieme questa mostra. Per tanto tempo non ci siamo fatti carico dell’esecuzione della pena ma solo della celebrazione dei processi. Le foto del carcere servono a favorire questa commistione culturale tra il prima e il dopo ma non a farci sentire più buoni perché il carcere è più di quello che vediamo in queste immagini e, se vogliamo bere la cicuta, dobbiamo berla fino in fondo”.

    Allora, esorta il presidente della Camera Penale, Andrea Soliani, è venuta l’ora di “portare il carcere all’esterno” per mostrare il suo corpo ferito a morte.

    Il Garante nazionale delle persone private della libertà, Mauro Palma, riflette su alcuni reclusi, in particolare. “Mentre parliamo, abbiamo 12353 persone in carcere con una condanna inferiore ai 4 anni e 1419 con una inferiore a un anno per le quali attivita rieducativa è simbolica perché in un anno non riesci a fare niente. Situazioni che interrogano il senso costituzionale della pena. Bisogna allora pensare a strutture di controllo e supporto che intervengano in modo diverso dal carcere”.  Fino al 27 novembre è possibile visitare i morti del carcere in tribunale e dargli una carezza ma darla anche alla loro speranza che è, nonostante tutto, nelle mani tese accolte dagli obbiettivi di chi ha scattato. (manuela d’alessandro)

  • Il Grande Vecchio del terzo millennio è un gatto

    Alle ore 16,38 del 7 agosto 2020 in camera da letto per un minuto e 14 secondi Dana Lauriola parla con il gatto. A scriverlo è la Digos di Torino in una annotazione allegata agli atti dell’inchiesta sul centro sociale Askatasuna dove si contesta il reato di associazione sovversiva che poi il Riesame ha modificato in associazione per delinquere. Le difese degli indagati hanno presentato ricorso in Cassazione che sarà discusso nell’udienza del prossimo 24 novembre.
    Dana Lauriola, già condannata a due anni di reclusione senza sospensione della pena (infatti è stata in galera) per aver usato il megafono durante una manifestazione in autostrada scrive su Facebook: “Intercettazioni nella mia camera da letto. La sintesi in fondo di questo audio ci restituisce la pericolosità del soggetto coinvolto. Se non facesse piangere farebbe molto ridere. Comunque, scherzi a parte, si tratta di una volazione così forte della propria intimità, è un qualcosa che non dovrebbe essere permesso. Ma a Torino, si sa, tutto è possibile”. A Torino va ricordato il bruciacchiamento di un compressore era stato trattato con riferimenti espliciti nero su bianco al pari del caso Moro. Accusa di terrorismo azzerata da Riesame e Cassazione. Ma intanto gli indagati si perdevano la scabbia in carcere.
    L’operazione era stata denominata dalla molto solerte Digos col termine “Sovrano”, alludendo a Giorgio Rossetto, uno dei leader del movimento contro il treno dell’alta velocità. “Ma secondo noi – chiosa un legale della difesa – il vero Sovrano è il gatto di Dana”.
    Il gatto di Dana si chiama Tigro. Non si riesce a capire quali spunti investigativi abbia tratto la polizia dalla “conversazione” tra Dana Lauriola e il micio. E si fatica a comprendere quali motivi abbiano indotto la procura ad allegare agli atti dell’inchiesta l’annotazione della Digos. Bisognerebbe anche chiedere al Consiglio Superiore della magistratura se abbia qualcosa da dire sul comportamento dei magistrati che non depone sicuramente a favore del loro equilibrio mentale. Probabilmente più che andare in Cassazione il prossimo 24 novembre bisognerebbe rivolgersi a una medico, ma uno di quelli molto bravi, per dirimere la questione.
    Al di là dei sorrisi amari che derivano da questa vicenda a dir poco allucinante andrebbe affrontato un problema concreto del quale sia la politica sia i mezzi di informazione non si vogliono occupare. Il fatto è che abbiamo in questo paese apparati antisovversione assolutamente spropositati e che costano un sacco di soldi (quanto pare impossibile sapere) rispetto alla bisogna. La ragione è essenzialmente la mancanza di materia prima. Tanto è vero che la stragrande maggioranza di questo tipo di indagine è da tempo di tipo preventivo. Con scarsi risultati perché dopo la galera gratis di molti indagati soprattutto anarchici poi fioccano le assoluzioni come recentemente a Roma per il caso Balystrok. Ma arrivare a intercettare un gatto appare francamente al di là del bene e del male.
    (frank cimini)
  • Legali: come limitare danni di pessima legge anti rave

    Se davvero l’obiettivo della nuova norma incriminatrice di cui all’art. 434 bis
    c.p. non è quello di impedire l’occupazione di scuole e università, di criminalizzare le lotte sindacali, di evitare manifestazioni di dissenso nella
    più grande crisi economica di sempre; se davvero l’obiettivo non è quello di intercettare le telefonate di tutti i cittadini che possano anche solo
    ipoteticamente essere collegati con situazioni di questo tipo; se davvero l’obiettivo del primo atto normativo urgente del Governo è quello, piccolo
    piccolo, di impedire i rave party per tutelare la salute dei partecipanti, ci permettiamo di suggerire come modificare la disposizione in sede di
    conversione per renderla idonea allo scopo.
    All’art 633 c.p. è aggiunto il seguente comma:
    “Se il fatto è commesso da più di 50 persone e l’invasione è realizzata per
    effettuare un evento musicale senza le previste autorizzazioni, la pena per i promotori o gli organizzatori è della reclusione da tre a sei anni e la multa
    da euro 1.000 a euro 10.000 quando ne derivi un pericolo per l’ordine
    pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica”.
    Così riscritta la disposizione sarebbe effettivamente applicabile solo ai rave illegali (“eventi musicali” in luogo di “raduni”), in presenza di effettiva e non
    solo potenziale messa in pericolo dell’ordine pubblico o della incolumità pubblica o della salute pubblica (“quando ne derivi un pericolo” in luogo di
    “quando può derivare un pericolo”). E solo nei confronti degli organizzatori.
    Resterebbe una norma espressione della peggiore politica criminale, ma
    almeno non si presterebbe a forzature antidemocratiche e incostituzionali.
    avv. Eugenio Losco avv. Mauro Straini

  • Avvocati: sempre più difficile difendere i meno abbienti

    Sono state pubblicate in Gazzetta Ufficiale le nuove tabelle per la determinazione degli onorari.
    Le tariffe, ferme al 2014, sono state aggiornate tenendo conto dell’aumento del costo della vita. Peccato che si sia tenuto conto di quello desunto dall’indice ISTAT 2021 e non di quello attuale. Ne è risultato un aumento ridicolo di alcune decine di euro. Difficile pensare che il Consiglio dei Ministri non sia consapevole che in questi ultimi mesi il costo della vita è aumentato più che negli ultimi dieci anni: le nuove tariffe sono obsolete ancor prima di entrare in vigore. Bisognerà aspettare altri 10 anni per un adeguamento che è già urgenza? Era impensabile un meccanismo di adeguamento automatico?
    Due.
    Si conferma la disparità tra le tariffe in materia civile e amministrativa rispetto a quelle penali. Esempio. Un giudizio civile ordinario relativo ad una causa del valore di 300 mila euro in primo grado può portare alla liquidazione di un onorario di oltre 22 mila euro, quasi 24 mila in un procedimento amministrativo. Prendiamo invece il caso di un reato punito con la pena dell’ergastolo in cui è in ballo la vita stessa dell’imputato. Quanto spetta al difensore per difenderlo davanti alla Corte di Assise? 7.327 euro, al massimo: quanto l’onorario corrispondente ad una causa civile del valore di 30 mila euro. E’ questo il valore della vita umana? Oppure le tariffe penali sono più basse perché nei casi di gratuito patrocinio (e difese di ufficio degli insolventi) gli onorari devono essere liquidati dallo Stato? Se l’obiettivo è quello di fare economia risparmiando sull’effettività della difesa, l’avvocatura dovrebbe denunciarlo.
    Terzo.
    Come è intuibile spesso i processi per le imputazioni più gravi sono anche i più delicati. Non è raro che il dibattimento si protragga per numerose udienze e che si ascoltino decine di testimoni e si affrontino questioni tecniche estremamente complesse. Opportunamente in questi casi nel testo precedente la riforma era prevista la possibilità di aumentare gli onorari dell’ottanta per cento. La riforma ha ora introdotto un novità peggiorativa. Il nuovo decreto ministeriale l’ha ridotta al 50 per cento.
    Per compensare questa drastica riduzione, il Consiglio Nazionale Forense aveva proposto al Governo di determinare la misura degli onorari in considerazioni delle ore effettive di durata delle udienze. Ma il Consiglio dei Ministri, che pure nel resto ha fatto

    sue tutte le osservazioni dell’avvocatura, si è “dimenticato” di questa disposizione. E nessuno (neppure l’avvocatura stessa) sembra essersene accorto.
    Ovviamente l’avvocato può concordare con l’imputato un compenso superiore a quello previsto nella tariffa, ma, appunto, il cliente deve essere economicamente in grado di farlo. Potrà eventualmente beneficiare del gratuito patrocinio, ma in questo caso i compensi per i difensori sono ulteriormente ridotti, di un terzo.
    Risultato: con la nuova tariffa i compensi per l’avvocato si sono ridotti e difendere adeguatamente i meno abbienti sarà sempre più difficile.
    avv. Eugenio Losco avv. Mauro Straini
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  • Processo Byalistock, anarchici assolti da accusa terrorismo

    Già la Cassazione in sede di misura cautelare aveva ridicolizzato l’indagine perchè si era aggrappata alla potenzialità sovversiva della musica hip-ho, ma adesso c’è una sentenza che assolve gli anarchici dall’accusa di terrorismo. La corte d’Assise di Roma ha detto alla richiesta della procura di condannare gli imputati del processo Byalistock a sette anni per partecipazione ad associazione sovversiva. Ci sono alcune condanne per imbrattamento danneggiamento seguito da incendio e altri reati satellit.

    La sentenza era stata emessa lo scorso 29 settembre ma nessun giornale ne aveva dato notizia perché soprattutto nei processi in cui c’è di mezzo il terrorismo e la sempre verde pista anarchica le assoluzioni non fanno clamore mediatico ma costituiscono esclusivamente una sorta di antipatico contrattempo.

    La Cassazione aveva già smontato l’inchiesta spiegando che non basta la mera adesione ideologica ma c’è bisogno di azioni e contributi concreti per sostenere l’accusa di terrorismo. La Suprema Corte rimproverava i giudici per  aver sopravvalutato l’accensui e di alcuni fumogeni durante un sito in davanti al carcere di Rebibbia in solidarietà con i detenuti alle prese con l’emergenza Covid.

    Dalle motivazioni in sede di annullamento delle misure cautelari emergeva che i pm e i giudici territoriali praticano una sorta di emergenza infinita che mette fortemente a rischio il diritto al dissenso.

    Tra le persone assolte l’anarchica Francesca Cerrone arrestata all’estero e poi estradata che era stata indicata dai giornali scritti sotto dettatura della procura come una sorta di pericolo pubblico numero uno..

    Non bisogna dimenticare che nella relazione dei servizi l’anno scorso l’operazione Byalistock al pari della bolognese Ritrovo pure quella miseramente fallita era stata presentata come successo investigativo nonostante fossero già intervenuti gli annullamenti degli arresti da parte della Cassazione.

    Tra 90 giorni la corte d’Assise depositera’ le motivazioni con cui spiegherà l’ennesimo flop delle procure nella caccia agli avversari politici (frank cimini)

  • La moratoria Expo non vale per chi manifestò contro

    La moratoria delle indagini su Expo ideata e praticata dalla mitica procura gestione Bruti Liberati e Greco per salvare “l’evento” con politici e persino giudici che “mangiarono” non vale per chi protestò in piazza. Anni dopo la giustizia presenta il conto a Andrea Casieri condannato complessivamente a 4 anni e 9 mesi per manifestazioni di piazza arrestato in Francia e in attesa dell’udienza per l’estradizione.

    Una condanna a 9 mesi per gli incidenti del primo Maggio 2015 e un’altra a 4 anni per una manifestazione dell’Onda ottobre 2009 dove Casieri lancio un fumogeno. Una pena record e senza la concessione delle attenuanti generiche. Una volta avremmo parlato e scritto di “giustizia di classe”. Ma tocca farlo ancora. Lo stato si vendica di chi manifesta contro un evento cattedrale del lavoro precario e gratuito, con appalti assegnati senza gare pubbliche anche per decisione degli stessi magistrati nel capitolo spinoso di Expo giustizia. Dove un fascicolo di indagine in verità venne pure aperto ma solo per fare il giro d’Italia dei palazzacci prima di essere archiviato a Trento senza neanche fare le iscrizioni al registro degli indagati perché cane non mangia cane.

    Due pedi e due misure come è nella tradizione del tempio di Mani pulite dove si indaga solo se conviene e se risulta opportuno. Per poi usare la clava del processo penale al fine di regolare lo scontro sociale e politico dalla parte del padrone.

    Paga il conto di Expo Andrea Casieri che con ogni probabilità sarà estradato e dovrà attendere di scendere come pena scontata sotto i quattro anni per poter accedere all’affidamento ai servizi sociali. Una storia di democratura (frank cimini)

  • Destra sotto sbornia contro i diritti di Cesare Battisti

     

    Il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria accoglie la richiesta di Cesare Battisti di essere declassificato. Da detenuto ad alta sorveglianza a detenuto comune. Suscitando la reazione di Fratelli d’Italia che attacca: “Decisione inaccettabile, soccorso al terrorismo rosso”.
    “Per giudicare questi provvedimenti bisogna conoscere le norme e le leggi. Dire che non è accettabile vuol dire ammettere di non conoscere” ha replicato il garante regionale delle persone sottoposte a misure interdettive o limitative della libertà in Emilia Romagna, Roberto Cavalieri che aggiunge: “Questa persona ha seguito l’iter normativo in modo corretto, l’amministrazione penitenziaria ha riconosciuto quello che non poteva non riconoscergli. Declassificazione non significa che l’amministrazione penitenziaria cancella i reati terroristici, ma è una questione gestionale e logistica. Non incide sul tipo di condanna che ha avuto. Vuol dire che diventa un detenuto comune”.
    “Ultimo soccorso al terrorismo rosso, una aberrazione dopo anni di latitanza, appena assaggiato il regime carcerario italiano il criminale terrorista ottiene la declassificazione a detenuto comune, una vergogna” sono le parole di Andrea Del Mastro Dellevedove responsabile giustizia di Fratelli d’Italia secondo il quale “ancora più una vergogna che il Dap stia prendendo questa decisione gravissima e scellerata a pochi giorni dal cambio del governo. L’impunita’ del terrorismo rosso non è certamente la politica che il governo di centrodestra intende mettere in campo”.
    Il problema era stato sollevato dalla parlamentare del Pm Enza Bruno Bossio che in una interrogazione aveva ricordato che era stato escluso il regime di cosiddetto ergastolo ostativo e che i reati commessi da Battisti risalgono a oltre quarant’anni addietro.
    “Sono allibito dalle polemiche – dice l’avvocato difensore Davide Steccanella – Battisti continua a scontare l’ergastolo. Non c’è alcun problema di pena o di vittime, è stata emendata una declassificazione di regime carcerario che non aveva ragione di essere”.
    Steccanella ricorda che l’ultimo reato il suo assistito lo aveva commesso nel 1979. “O vogliamo dire che ha bisogno della sorveglianza speciale perché dalla cella non riprenda la lotta armata?” polemizza il legale.
    La stessa procura di Milano nei mesi scorsi aveva depositato il parere favorevole alla declassificazione della condizione di detenuto per Cesare Battisti.
    Fratelli d’Italia si trova evidentemente sotto sbornia elettorale fino al punto di scambiare una declassificazione per una sorta di scarcerazione. In realtà essendo i fatti reato di Battisti così lontani nel tempo l’ex esponente dei Pac avrebbe potuto beneficiare della condizione di detenuto comune praticamente dal giorno del rientro in Italia. I difensori avevano subito posto il problema spiegando che bisognava amministrare la giustizia applicando la legge senza la necessità di procedere a vendette. Battisti ebbe difficoltà anche a veder riconosciuto il diritto a farsi da mangiare in cella il riso bianco per ragioni di salute. Insomma il
    clima politico non lo permetteva. Basta ricordare che ben due ministri ripresero Battisti in manette con i loro smartphone diffondendo poi le immagini. Garbo istituzionale diciamo.
    (frank cimini)
  • SiCobas, ai pm e al gup lezione di diritto dal Riesame

    Non distinguono tra un’associazione sindacale e un’associazione per delinquere come non era mai accaduto nemmeno in momenti di enormi tensioni sociali tipo un cinquantennio fa. È “l’addebito” dei giudici del Riesame di Bologna ai pm di Piacenza e al gup che aveva accolto la richiesta di arrestare i sindacalisti di SiCobas e Usb per associazione per delinquere. Sono state depositate le motivazioni del verdetto con cui lo scorso 3 agosto erano tornati in liberta’ gli indagati.

    Il rischio secondo il Riesane è quello della criminalizzazione in se dell’associazione sindacale per giunta in un settore delicato come quello della logistica dove le condizioni di lavoro sono molato difficili.  Il picchettaggio le occupazioni degli stabilimenti industriali il blocco delle merci non c’entrano nulla  con la contestazione del reato previsto dall’articolo 416 del codice.

    Il Riesame ha smantellato l’impianto accusatorio della procura convalidato dal gip che aveva fatto copia e incolla rispetto alla richiesta di arresto sia pure optando per i domiciliari al posto del carcere.

    La magistratura era intervenuta pesantemente nel conflitto sociale scegliendo di tutelare datori di lavoro senza scrupoli che aumentano lo sfruttamento dei lavoratori con il sistema dei subappalti.

    Una operazione politica travestita da indagine giudiziaria per bloccare le iniziative di lavoratori in lotta per la difesa dei loro diritti.

    I giudici ridicolizzano l’accusa ai sincadacalidti di essersi addirittura arricchiti perché  i numerosi accertamenti patrimoniali hanno portato a un nulla di fatto. Nessun pagamento in nero Messina fattura falsa come del resto ammesso poi dagli stessi pm. Insomma l’associazione per delinquere ipotizzata e esibita a fine luglio in una conferenza stampa è caduta e si è fatta pure molto male.

    (frank cimini)

  • Associazione per delinquere cade… e si fa pure male

    “L’associazione per delinquere è caduta e si è fatta pure male” dice l’avvocato Marina Prosperi. Il tribunale del Riesame di Bologna ha annullato l’ordinanza che aveva portato agli arresti domiciliari sei sindacalisti di SICobas e Usb. Restano gli obblighi di firma per un paio di indagati, ma per la procura di Piacenza e per il gip che aveva fatto un copia e incolla si tratta di una sconfitta su tutta la linea.
    “Abbiamo sostenuto fin dalla notifica del provvedimento la totale insussistenza a carico di tutti gli indagati del reato associativo – commenta l’avvocato Eugenio Losco – Come può sussistere una associazione criminale che abbia finalità tipiche di qualsiasi associazione sindacale, cioè la tutela dei diritti dei lavoratori, dei propri iscritti, l’aumentare il consenso e il numero dei tesserati?”.
    “L’ipotesi associativa non aveva nessun tipo di fondatezza sotto il profilo dei gravi indizi di colpevolezza – aggiunge Marina Prosperi – i giudici che sono stati due giorni in camera di consiglio leggendo migliaia di pagine non potevano arrivare a nessun altra conclusione. Ovvio che con una indagine così complessa e durata cinque anni probabilmente per alcuni capi di imputazione abbiano ritenuto necessaria la misura delle firme, perché evidentemente ci sono degli equilibri giudiziari da mantenere”.
    Per l’avvocato Claudio Novaro “gli indagati hanno fatto il loro mestiere di sindacalisti”.
    Le motivazioni del provvedimento saranno depositate tra un mese e mezzo. È scontato il ricorso in Cassazione da parte della procura che equiparando i picchetti dei lavoratori a una attività criminale sta giocando una partita il cui significato va al di là della vicenda specifica. Una partita dal sapore politico perché con le conseguenze della crisi economica previste per l’autunno di cui ha parlato Draghi ieri si vogliono mettere dei paletti al conflitto sociale restringendo ulteriormente i diritti ricorrendo all’utilizzo del codice penale.
    Il Riesame sembra aver sbarrato la strada all’ipotesi della procura che era stata fatta propria dal gip sia pure disponendo gli arresti domiciliari e non il carcere come avevano chiesto i pm. Le difese in sede di udienza del riesame avevano parlato di “una storia del conflitto sociale vista dal buco della serratura con cui si cerca di veicolare l’idea che dietro ogni rivendicazione non c’è l’agire collettivo dei lavoratori nel caso della logistica ma solo un programma delinquenziale”.
    La procura non aveva portato elementi indiziari a supporto della sua tesi. Aveva convinto il gip evidentemente “poco terzo”. Non è bastato per il Riesame. Se ne riparlerà in Cassazione. Nel frattempo continuerà la mobilitazione  dei lavoratori della logistica uno dei pochi settori che da anni sfugge alla pace sociale a causa di condizioni di lavori inaccettabili.
    (frank cimini)
  • Steccanella: 2 agosto, perché le sentenze non convincono

     

    L’Italia è uno strano Paese dove può accadere che nei confronti delle sentenze passate in giudicato sui due fatti più significativi del decennio dei ’70 (Moro e strage di Bologna) vi sia diffuso scetticismo su quella/e che ci hanno azzeccato (il primo fatto) e non su quella/e (il secondo fatto) che invece non convince/ono per nulla.

     

    La sentenza “base” definitiva su Bologna (cui verranno aggiunti man mano nuovi concorrenti: Ciavardini, Cavallini e Bellini, con decisioni successive), è quella della Cassazione a Sezioni Unite del 23 novembre 1995 (relatore Marvulli) che ha condannato Mambro e Fioravanti.

    Sentenza resa al termine di un percorso processuale a dir poco tortuoso visto che il processo di primo grado si era concluso con la condanna 11 luglio 1988, riformata dalla Corte di Appello con assoluzione 18 luglio 1990, ma il 12 febbraio 1992 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione annullarono e la nuova Corte di Appello, con Sentenza 16 maggio 1994, condannò gli imputati e sarà quest’ultima a diventare definitiva con Sentenza della Cassazione 23 novembre 1995. Successivamente il terzo complice, Luigi Ciavardini, minorenne all’epoca dei fatti, venne assolto in primo grado con Sentenza 30 gennaio 2000, ma la Cassazione annullò anche quell’assoluzione con Sentenza 17 dicembre 2003 rinviando all’Appello bis che con Sentenza 13 dicembre 2004 condannò Ciavardini e sarà quest’ultima a diventare definitiva con la Sentenza della Cassazione 11 aprile 2007.

    Già questo iter altalenante di decisioni opposte da parte di diverse Corti di Assise, sulla cui “ragionevolezza” non è dato di dubitare, pare incrinare quel principio cardine di assenza di dubbio alcuno per pervenire a condanna che sorregge l’art. 533 del codice di rito.

     

    In ogni caso, leggendola in modo “tecnico” da avvocato, la motivazione della condanna 1995 dei due NAR fa acqua da tutte le parti.

    Cominciamo col dire che: 1) manca totalmente l’individuazione di un movente attribuibile ai due, 2) la bomba si pone in totale contrasto con l’intera storia militare (accertata) precedente dei NAR e con quella successiva, dalla fondazione risalente al finale del 1979, fino all’arresto degli ultimi militanti nel finale del 1983 (con Fioravanti e Mambro detenuti da tempo), e 3) si tratterebbe dell’unica azione dei NAR non nota neppure al principale pentito (tra i tanti) di quell’organizzazione (Cristiano Fioravanti), il quale, pur avendo raccontato ogni frammento della sua militanza nel gruppo armato del fratello, su questa vicenda ha sempre smentito vi sia stato alcun coinvolgimento.

    Tre elementi di partenza, se ne converrà, non di poco momento a fronte della più tragica strage della storia italica, cui si è aggiunto, quarto elemento, l’assenza di qualsivoglia contatto accertato tra i NAR e l’ultimo condannato in ordine di tempo, il neofascista Bellini.

    Venendo più nel dettaglio alla sentenza Marvulli, si legge testuale che la condanna poggia su 4 prove: 1) le dichiarazioni di Massimo Sparti; 2) il movente dell’omicidio di Francesco Mangiameli; 3) l’annullamento di un appuntamento a Venezia il giorno prima da parte di Luigi Ciavardini; 4) la scarsa attendibilità dell’alibi offerto dagli imputati.

    1) (Sparti). Trattasi di discutibile “pentito” e accertato menzognero (ebbe a denunciare con falsa documentazione medica di dottori compiacenti un cancro inesistente per uscire di galera) che l’11 aprile 1981 ha dichiarato agli inquirenti di avere incontrato F. e M. il 4 agosto a Roma per procurare loro due documenti falsi e di avere udito in quell’occasione F. commentare la strage di due giorni prima con la frase “hai visto che botto!”. Tutti i familiari dello Sparti, persino il figlio, lo hanno successivamente smentito al processo, affermando che quel giorno Sparti si trovava con loro in villeggiatura in altra località di campagna, fatto confermato dalla circostanza che Cristiano F. appena uscito di galera in quei giorni si recherà in quel luogo da lui, e i due imputati, pur confermando la richiesta di documenti falsi (ma non già per loro, bensì per altri militanti NAR), hanno dichiarato che l’episodio si sarebbe verificato in diversa data e con diverso nominativo, così costringendo lo Sparti a successivamente rettificare, in data 5 maggio 1982, sia la data che il nominativo originariamente indicato, non più Mario Ginesi, bensì tale Fausto De Vecchi.

    2) (Mangiameli). Il militante NAR fu ucciso il 9 settembre 1980 per evitare, hanno detto F. e M, che costui potesse rivelare il progetto NAR di uccidere Piersanti Mattarella di cui aveva saputo in occasione di un loro incontro in Sicilia nel luglio del 1980. Secondo l’accusa invece in quanto a conoscenza del loro coinvolgimento nella strage di Bologna perché l’omicidio Mattarella risaliva al 6 gennaio e quindi a prima dell’incontro del luglio. Ragionamento viziato perché F. ha parlato di un “progetto” che ben poteva essere stato riferito dopo, senza contare che nessuna sentenza ne ha attribuito la paternità a F.

    3) (Ciavardini). Il minorenne NAR si limitò a disdire il giorno prima del 2 agosto un appuntamento che aveva a Venezia con la propria fidanzata, ma poiché Ciavardini ne ha attribuito la ragione alla necessità di procurarsi un documento falso e siccome il 3 agosto ebbe ad esibirne uno in occasione di un incidente stradale (ben lontano da Bologna), l’accusa deduce che avendo già un falso documento il giorno 3, la ragione del rinvio del giorno 2 dovesse per forza essere quella di trovarsi a Bologna il giorno della strage. Sul punto si osserva che è ben poco credibile che il progetto di compiere una strage di quella portata fosse stato reso noto a uno dei tre complici incaricati di compierlo dagli altri due solo il giorno prima, al punto che costui fino alla telefonata del 1° agosto era ancora convinto che il 2 sarebbe stato a Venezia con la ragazza.

    4) (alibi) quanto all’alibi per il giorno 2 gli imputati hanno dichiarato sin dall’inizio di trovarsi quel giorno entrambi nel veneto ospiti di Cavallini il quale ha confermato l’alibi, a sua volta confermato anche dalla di lui fidanzata, Flavia Sbrojavacca, e dalla madre di quest’ultima (Maria Teresa Brunelli), entrambe certe di avere incontrato il 2 agosto gli imputati in veneto. Ma siccome Fioravanti (in isolamento in galera da mesi) aveva ricordato Treviso, mentre la Mambro (idem come sopra) Padova, per l’accusa i due erano a Bologna.

     

    A sostegno della condanna si è speso l’ex magistrato Giuliano Turone nel libro Italia Occulta (chiarelettere)

    Prima di affrontare la disamina degli indizi, ritenuti da Turonecomprovanti la penale responsabilità degli imputati, occorre sottolineare come l’autore glissi su alcuni fatti certi:

    1) anche in questa vicenda, come in tutte le stragi impunite di quegli anni, intervenne un ennesimo caso di depistaggio, accertato con sentenza definitiva del 1995 di condanna per calunnia di Gelli, Pazienza, Musumeci e Belmonte a seguito del ritrovamento sul treno del 13 gennaio 1981 di false prenotazioni aeree di Fioravanti e di armi di provenienza della “galassia nera”.

    2) Il fatto che ai tempi sia miseramente franata miseramente, con l’assoluzione di tutti gli altri, l’iniziale ipotesi di un grande piano eversivo delle destre estreme riunite sotto l’egida di servizi deviati e piduisti vari, e che tutti i nominativi dei coimputati originariamente accusati di concorso con i tre condannati non risultano avere mai avuto a che fare con la storia dei NAR, i quali anzi, proprio in esplicitato dissenso con costoro, ebbero a dare inizio alla loro ben diversa storia per unanime racconto di chi c’era all’inizio e di chi si è aggregato dopo. E questo vale tanto per i soliti noti dei tanti italici misteri (vd. Gelli e servizi deviati), quanto per vari i dirigenti di Ordine Nuovo prima e Terza Posizione poi, nemici giurati sia prima che dopo la strage del 2 agosto, dei NAR.

    3) Il fatto che il fratello Cristiano, che ha condiviso sin dall’inizio la storia di Valerio, seppur distaccandosene a un certo punto prima di riprenderla fino alla sua cattura (successiva a quella di Valerio e precedente a quella della Mambro), si è subito pentito rivelando ogni misfatto del fratello e dei NAR, anche quelli saputi de relato, ma non ha mai detto di avere neppure lontanamente immaginato che il fratello c’entrasse in alcun modo con il delitto più grave ed eclatante oltre che del tutto anomalo per l’organizzazione armata di cui egli a pieno titolo faceva parte. Né prima né dopo (il suo arresto è a metà del 1981), e questo “dettaglio” sempre il Cristiano, non l’avrebbe appreso neppure da quello che era una sorta di suo padre adottivo (Massimo Sparti) che sarebbe stato invece l’unico, secondo la sentenza di condanna, ad averlo saputo, trattandosi anche dell’unico teste di accusa.

    4) Nessun militante o anche solo contiguo ai NAR ha mai riferito, neppure a distanza di anni, di avere saputo alcunché su Bologna, e neppure uno dei tanti pentiti che grazie a tale rivelazione avrebbe potuto conquistare sensibili benefici in termine di pena, eccettuato appunto lo Sparti.

    A tali premesse va aggiunto l’ulteriore dato secondo il quale, a fronte di ripetuti ergastoli comminati per una serie di omicidi confessati dai due imputati, l’aggiunta della condanna in oggetto non ha comportato (e ben si sapeva che non lo avrebbe comportato!) nessun concreto effetto dal punto di vista giudiziario a carico di costoro, per cui trattasi di condanna “a costo zero”, perfettamente adatta a venire incontro alla comprensibile esigenza collettiva di non mandare impunita l’ennesima strage italiana, la più sanguinaria e successiva di soli due mesi alla tragedia di Ustica.

     

    E ora veniamo ai singoli elementi valorizzati nel libro, seguendo l’ordine di esposizione e indicando la pagina.

    • Presilio/Rinani (pag. 285)

    La prima dichiarazione di Presilio al Magistrato di sorveglianza di Padova risale, si legge, al 10 luglio 1980 ed è un de relato di un detenuto (di cui non rivela il nome) che gli avrebbe parlato di un progetto omicidiario di un giudice di Treviso, tale Sriz, che sarebbe stato preceduto da un altro grave delitto compiuto “dalla medesima organizzazione” che avrebbe “riempito le pagine dei giornali”. Qualche giorno dopo la strage dirà che trattavasi di un tale Rinani, legato al noto gruppo veneto di Freda, Ventura e Fachini e solo il 13 novembre aggiungerà che le frasi del Rinani risalivano al giugno-luglio e che costui era furioso perché non otteneva la libertà pur essendosi costituito e infine, in altra e ultima dichiarazione, specificherà meglio che il Rinani solo in un secondo incontro in carcere gli avrebbe parlato anche del fatto grosso “di cui rideranno insieme”.

    Ora, aldilà di queste dichiarazioni generiche (qualsiasi omicidio finisce sui giornali, non necessariamente una strage in stazione, anche quello di un giudice di Treviso, per dire) e mai confermate dal Rinani, resta il fatto che la medesima organizzazione significherebbe che a giugno del 1980 Fioravanti avesse programmato anche (e soprattutto) l’omicidio del giudice Sriz di Treviso, che era l’argomento centrale del Rinani, e che al contempo tutti gli altri membri di quella medesima organizzazione indicata dal Rinani, che operava proprio nel veneto (Fachini) e quindi più interessata alle sorti del Giudice Sriz rispetto ai NAR che con quel giudice non c’entravano nulla, non avessero invece in mente niente, visto che dopo essere stati a diverso titolo e in diverso momento incriminati, tutti gli altri coimputati di Fioravanti e Mambro sono stati tutti assolti, come riporta la nota 3. Il primo indizio pertanto mostra talmente poco pregio che neppure la sentenza di condanna lo valorizza.

    • Massimo Sparti (287)

    Sparti invece è il caposaldo dell’accusa, perché come anticipato è l’unico di tutta la galassia nera che circondava gli imputati (pentiti e non pentiti) che avrebbe saputo a Roma da Fioravanti in persona due giorni dopo l’attentato che la bomba l’avrebbero messa lui e la sua donna, persona della quale fino a quel momento Sparti ignorava l’esistenza, e che, proprio in quella occasione, aveva deciso di presentargli.

    Su questo indizio (cardine), per prima cosa va detto che così come non vi è alcuna prova che i due imputati fossero a Bologna il 2 agosto, non vi è neppure la prova che Sparti fosse a Roma il 4 agosto.

    Tutti i suoi familiari, infatti, quel giorno lo hanno posizionato in campagna dove erano tutti riuniti per le abituali vacanze di agosto, dando anche una ben precisa ragione, ossia che il negozio che gestiva in città era chiuso per ferie, e non si vede che motivo avessero di mentire tutti costoro, accusando il congiunto, per salvare i due imputati, con cui non risulta fossero in particolari rapporti.

    Ed è proprio nella casa di campagna (e non a Roma) che lo raggiungerà, appena uscito di galera, il figlioccio Cristiano il quale, successivamente pentitosi quasi insieme a Sparti, nulla dirà di avere saputo in merito al fatto che l’amico si fosse appena incontrato a Roma con suo fratello e la Mambro.

    Turone riprende la sentenza laddove ricostruisce gli spostamenti degli imputati che vengono localizzati con certezza l’1° agosto ancora in Veneto (vd. più avanti l’indizio relativo alla telefonata alla fidanzata di Ciavardini) e il 3 sera a Roma per ammissione di entrambi presso Soderini e così pure la notte del 4 mentre la notte del 5 si sarebbero trasferiti dopo la rapina in piazza Agrippa (vd. più avanti) all’Hotel Cicerone dove peraltro Fioravanti risulta registrato con il documento falso che aveva in uso (vd. più avanti).

    Ma dove avrebbero passato la notte del 2 agosto, dopo avere posizionato al mattino la bomba alla Stazione di Bologna, Fioravanti, Mambro e Ciavardini? La Sentenza non lo dice, né dice con quale mezzo i tre imputati si sarebbero allontanati dalla Stazione. Hanno proseguito subito per Roma o sono ritornati in Veneto, visto che il minorenne Ciavardini risulta fermato senza i due per un controllo il giorno 3 ben lontano da Bologna? E sarebbero tornati in Veneto dopo la bomba per poi ripartire il successivo giorno 3? Ma che senso avrebbe, se avevano, come dice Sparti, un’urgenza impellente di trovare un documento falso per la Mambro, tanto il fare un inutile avanti e indietro Bologna/Veneto/Roma per la sola notte del 2 quanto il proseguire per Roma lo stesso giorno 2 ed attendere fino al giorno 4 per andare a chiedere il documento falso allo Sparti? Né la Sentenza, nè il libro di Turone lo spiegano e si passa direttamente al 4.

    La frase (attribuita a Fioravanti de relato) “hai visto che botto?” di per sè non avrebbe alcuna valenza accusatoria giacché appare più plausibile come cinico commento ad un fatto accaduto in un tipo come Valerio Fioravanti rispetto ad una “eccentrica” modalità di confessione di avere commesso una strage di tale portata.

    La frase infatti trova senso accusatorio solo se si aggiungono quelle ulteriori frasi (sempre attribuite de relato dallo Sparti) sul suo travestimento da tirolese (turista tedesco non vuol dire niente) e sulla Mambro che dopo la strage si sarebbe fatta tingere i capelli per timore di essere stata riconosciuta, non comprendendosi peraltro perché non lo avesse fatto prima di recarsi a Bologna o non si fosse travisata anche lei come il Fioravanti, ma tant’è.

    Sta di fatto che nessuno dei tanti testimoni presenti a Bologna il 2 agosto ha visto un tizio vestito da tirolese, nessuno riconoscerà mai né Mambro né Fioravanti ai tanti processi o nelle tante apparizioni televisive, e che le prove fatte sul capello della Mambro hanno escluso che la stessa fosse mai ricorsa a tinteggiatura.

    Che Sparti fosse in particolare confidenza con Valerio tanto da riferirgli (e solo a lui e neppure al fratello!) un fatto di tale eclatanza non è certo comprovato dal fatto che tempo addietro avesse fatto una rapina con lui, visto che in quegli anni è stato accertato che Valerio le faceva con tutti, mentre risulta invece che Sparti in particolare confidenza lo fosse molto con il fratello Cristiano che però non ha mai saputo nulla di Bologna né da lui né dal fratello con il quale pure, il Cristiano, era in massima confidenza.

    Per cui la cosa che colpisce in siffatto terzetto, è che l’unico soggetto che era in vera confidenza con entrambi (Cristiano) viene lasciato fuori dagli altri due che invece non lo erano troppo tra di loro, e proprio sul delitto di gran lunga più rilevante della pur sanguinosa e folle storia dei NAR.

    Nella nota 5 si riporta la sentenza dove cita il discorso che Sparti avrebbe fatto in precedenza con Fioravanti sull’omicidio Amato per irrobustire il grado di confidenza tra i due, ma si legge che Sparti avrebbe parlato con Fioravanti di Alibrandi, ed è stato accertato che il giudice Amato fu ucciso da Cavallini mentre Ciavardini attendeva in moto, e non già da Alibrandi che non era c’era, il che, unito al fatto che Sparti sapeva che Alibrandi faceva parte dei primi NAR con Cristiano, mentre non conosceva né Cavallini né Ciavardini(subentrati in un secondo momento), fa ritenere che Fioravanti in realtà non gliene avesse affatto parlato.

    Quanto al fatto che l’emersione dell’omicidio Amato sia intervenuta solo a seguito della confessione di Cristiano, risulta che Cristiano e Sparti abbiano confessato praticamente in semi contemporanea, e peraltro il fatto che il giudice Amato fosse stato ucciso dai NAR non era circostanza difficile da capire sin dallo stesso giorno del fatto per chiunque, visto che come noto era l’unico magistrato che in quel momento stava indagando su di loro.

    Vanno infine ricordate le plurime menzogne di Sparti, ivi compreso un certificato medico falso attestante un inesistente tumore per uscire di prigione e morire nel proprio letto più di 20 anni dopo.

    Ma se la chiamata di reità di Sparti appare già poco verosimile intrinsecamente parlando, la stessa diviene ancor più fragile nel momento in cui se ne sono ricercati i necessari riscontri.

    • Il falso documento per la Mambro (290)

    La storia del documento falso è più complessa di quanto riportato nel libro perché passa attraverso una serie di aggiustamenti di dichiarazioni volta a volta smentite che vengono elencate nel libro Storia Nera scritto per Cairo dal giornalista del Manifesto Andrea Colombo che in quanto ex dirigente di Potere Operaio non può essere tacciato di particolare bonomia “politica” verso gli imputati.

    Dapprima (o dopo) Sparti dice che i falsi erano per due persone diverse, poi (o prima) che non aveva fatto caso per chi fossero, poi (o prima) dice che era un falso per la sola Mambro perché era strasicuro che fosse per una donna, ma quando il primo falsario da lui indicato nell’aprile del 1981, Mario Ginesi, lo smentisce in toto e poiché i due imputati, pur confermando la richiesta di documenti falsi, ma non già per loro bensì per altri militanti NAR, hanno attestato che il fatto si sarebbe verificato in diversa data e con diverso nominativo, allora lo Sparti deve rettificare, in successiva data 5 maggio 1982, sia la data che il nominativo originariamente indicato, non più Mario Ginesi, bensì quel Fausto De Vecchi che si cita nel libro, il quale però, prima smentisce in modo categorico che fosse per una donna e solo alla fine (e quindi molto tempo dopo il fatto, quando solitamente si dice nelle sentenze che i ricordi sarebbero meno “freschi”) nel confronto citato resta sul più generico “non escludo”, fino ad arrivare al nome di Carlostella.

    E’evidente che se cade la tesi del documento falso da procurare con urgenza quello stesso giorno 4 alla Mambro cade tutto, perché allora non si capirebbe perché Valerio avesse portato all’incontro anche la Mambro che Sparti non aveva mai visto con il rischio che questi la denunciasse, e che proprio in quel momento con la Mambro presente abbia deciso di confessare a uno come Sparti un fatto del genere attribuendolo anche alla propria compagna.

    Ma è sulla base di quanto accertato essere successo dopo quel fantomatico incontro del 4 a Roma che la storia raccontata di Sparti finisce nell’assurdo.

    Se come dice lui è riuscito a procurare il documento solo al mattino del 5 consegnandolo a Fioravanti alle 10 del mattino, ciò significa che “a cavallo” di quella consegna urgente di falso per la Mambro i due si sarebbero imbarcati quello stesso giorno 5 nell’impresa di compiere una rapina in piena Roma (questa si che è accertata) con tutti i rischi che questo avrebbe comportato anche per una Mambro che se colta in flagranza di una rapina di quel falso documento non avrebbe saputo che farsene.

    Ma poi, in quella urgenza descritta da Sparti cosa fa Fioravanti? Fa un salto alle 10 del mattino da Sparti tra una rapina e l’altra? E alla sera dopo la rapina cosa fanno i due? Vanno a dormire all’Hotel Cicerone e qui va riportato un dato importante che il libro di Turone non riporta e che si legge invece in quello di Colombo.

    La sera del 5 dopo la rapina è vero che la Mambro si “infratta” al Cicerone nella stanza prenotata da Fioravanti, ma si “infratta” appunto, perché mentre Fioravanti si registra regolarmente con il suo documento, la Mambro decide inspiegabilmente invece di non usare quello asseritamenteappena consegnatole da Sparti e fatto fare di tutta urgenza.

    Infatti, quello di Fioravanti risulta mentre quello della Mambro no.

    La sentenza dice che non si sono trovati i registri dell’hotel di quella sera del 5 agosto, ma non è vero perché poi qualcuno invece li trova, come si legge appunto nel libro di Colombo, e tutti i nominativi femminili registrati quella notte sono riferibili a donne rintracciate e quindi nessuna di loro era la Mambro.

    Quindi secondo l’accusa i due avrebbero farebbero un “casino d’inferno” con Sparti per avere il documento la sera stessa del 4 e poi, invece di starsene nascosti nell’attesa, il giorno dopo prima vanno a fare una rapina con tutti i rischi del caso e quando finalmente la Mambro ottiene l’agognato falso da Sparti che fa: Lo usa? No, si infratta in albergo senza documenti, mentre Fioravanti usa il suo falso che aveva già senza ricorrere a nessuno Sparti.

    Ora, fermo restando che di documenti falsi certamente una clandestina pluriomicida come la Mambro certamente ne abbisognasse tanto il giorno 4 quanto qualsiasi altro giorno dell’anno e non necessariamente per sfuggire al riconoscimento di Bologna, sostenere sulla base di quanto sopra che le dichiarazioni di Sparti avrebbero trovato un riscontro tale da eliminare qualsiasi ragionevole dubbio, pare affermazione ardita.

    • La telefonata di Ciavardini (291)

    Questa è la prova che ha determinato la condanna in concorso dell’allora minorenne Ciavardini, ma anche l’ulteriore elemento che, a detta della sentenza e di Turone, avrebbe confermato la verità della dichiarazione di Sparti.

    Anche se in realtà quella telefonata dell’1° agosto non è mai stata accertata documentalmente, facciamo finta che valgano le dichiarazioni concordi di Ciavardini e del padre della di lui fidanzata e che ci sia effettivamente stata nei termini riferiti.

    Quel che è non convince è il valore accusatorio dato alla stessa, visto che si trattava di una disdetta di un incontro programmato per il giorno dopo a Venezia con la fidanzata e alcuni amici.

    Ora, se l’appuntamento (organizzato ovviamente giorni prima) viene disdetto all’improvviso da Ciavardini solo l’1 sera, ciò significherebbe, se avesse ragione l’accusa ad imputarla alla partecipazione diretta dell’imputato alla collocazione della bomba del mattino dopo a Bologna, che Ciavardini avrebbe saputo di dover partecipare alla più sanguinosa strage del Novecento italiano solo qualche ora prima di doverla fare.

    Ma fino alla sera dell’1° agosto Ciavardini dove stava? Nel Veneto, e questo è certo, con Fioravanti e la Mambro e perché mai costoro non gli avrebbero detto nulla fino a poche ore prima? A meno di non ritenere che Fioravanti, Mambro e Ciavardini abbiano deciso e organizzato la più sanguinosa strage italiana nelle poche ore della sera prima.

    Eppure, le ragioni di sicurezza per cui Fioravanti impose a Ciavardini di rimandare quell’incontro a Venezia sono state ben spiegate dal primo e confermate anche dal successivo comportamento del secondo, visto che solo qualche giorno dopo Ciavardini trasgredisce “gli ordini” di Fioravanti (che non è più in Veneto con lui) recandosi il 6 agosto a Roma dalla fidanzata.

    Ritenere, come si legge nel libro, che Fioravanti volesse uccidere Ciavardini perché coinvolto direttamente nella strage fa a pugni con altri due elementi valorizzati dall’accusa: l’averlo detto senza ragione a uno come Sparti e l’avere invece ucciso Mangiameli (vd. oltre) perché lo sapeva, perché delle due è l’una: se Valerio intendeva uccidere tutti i testimoni pericolosi di Bologna avrebbe ucciso subito Ciavardini (teste diretto) senza pensarci due volte e si sarebbe ben guardato di dirlo a Sparti, altrimenti la minaccia a Ciavardini, peraltro riferita de relato solo dal fratello Cristiano, aveva ragioni diverse e infatti poi non se ne fece nulla tanto che Ciavardinirimarrà a militare nei NAR con la Mambro anche dopo l’arresto di Fioravanti.

    Neppure la telefonata di Ciavardini pare dunque fornire adeguata conferma alla responsabilità degli imputati.

    • La discrasia sugli alibi Padova/Treviso (293)

    Entrambi hanno detto in due momenti diversi (essendo arrestati a distanza di un anno e mezzo l’uno dall’altra) di essere stati in Veneto il giorno 2 agosto, anche se non coincide la città, Fioravanti arrestato nel febbraio 81 ha detto Treviso e la Mambro arrestata un anno e mezzo dopo, Padova, ed è storicamente provato (e la sentenza non lo mette in dubbio) che in quel periodo i due o erano quasi sempre in Veneto a casa di Cavallini a Treviso, quando non erano a Roma (ma solo di passaggio) o a Taranto nella casa trovata da Mauro Addis (ex componente della banda Vallanzasca) per il perenne progetto dell’evasione di Concutelli che era la ragione per la quale nel luglio i due erano stati anche a Palermo da Mangiameli.

    Ora, che due fuggiaschi clandestini in perenne rischio cattura non si facessero vedere da pletore di persone la mattina del 2 agosto e che quindi non sia facile per loro provare ex post dove fossero sarebbe anche comprensibile, senonché la moglie di Cavallini (Flavia Sbrojavacca), e la madre di quest’ultima (Maria Teresa Brunelli), hanno entrambe dichiarate di essere certe di avere incontrato il 2 agosto a Treviso entrambi gli imputati, ma le due testimoni non sono state credute a fronte di una prova che fossero invece a Bologna che non c’è e che neppure il de relato Sparti riesce a dare.

    Sul fatto che i due fossero a Treviso il giorno 2 agosto interverrà, come si legge nel libro di Colombo, un ulteriore testimone, Carlo Digillo, che dichiarerà al giudice Salvini, nel corso di un’ennesima inchiesta su Piazza Fontana, di avere effettivamente dato per il 2 agosto 1980 al Cavallini quell’appuntamento che il Cavallini aveva indicato come “zio Otto” a Fioravanti, Mambro e Ciavardini che si erano ivi recati con lui, ma Digillo, colpito nel 1995 da Ictus e quindi da successiva demenza senile, morirà qualche tempo dopo e la sua testimonianza svanirà.

    Ma soprattutto, se i due/tre fossero stati davvero colpevoli di Bologna avrebbero almeno dovuto concordare la medesima versione sulla città dove erano quel mattino ben prima di essere arrestati e non certo, come si legge a pag. 294 del libro solo anni dopo “nel corso di un colloquio nella fase conclusiva del processo” (SIC!).

    Cosa costava ai due, che in quei mesi vivevano in simbiosi fino all’arresto di Valerio del febbraio 1981, mettersi d’accordo su una sola parola da dire in caso di incolpazione: Padova o Treviso? Eppure, si legge a pag. 295 che “se fossero innocenti e avendo temuto subito di poter finire tra gli indiziati, avrebbero conservato una memoria granitica di ciò che avevano fatto a ridosso dell’attentato”.

    Si consideri che da quel 2 agosto 1980 ne accadranno di cose a quei due fino ai rispettivi arresti e che la Mambro due anni dopo in detenzione isolata e ferita abbia potuto confondere Padova con Treviso non pare così peregrina come ipotesi da potere essere esclusa con radicale certezza e trasformarsi in prova, quale alibi smentito, di accertata colpevolezza.

    • La rapina del 5 agosto a Roma (295)

    La tesi difensiva degli imputati sarebbe smentita secondo la Corte dal fatto che la telefonata di rivendicazione al quotidiano Vita non parla di NAR, ma entrambi hanno ben spiegato che la registrazione inizia con il nomignolo successivo Nucleo Zeppelin riferito a un amico, Elio Di Scala, un giovane simpatizzante del Nar in quel momento detenuto nel carcere minorile di Casal di Marmo, cui volevano rendere onore citandolo nella rivendicazione, e che quindi la parola iniziale “Qui NAR” prima di Nucleo Zeppelin non è rimasta impresa nel supporto sonoro agli atti. Sta di fatto che la rapina in piazza Menenio Agrippa c’è stata e che l’hanno certamente compiuta nel pomeriggio del 5 gli imputati, insieme a Vale, Soderini, Mariani e Belsito, e la sentenza non offre una motivazione diversa e più plausibile ma si limita a ritenere non provata la motivazione degli imputati che quindi avrebbero inscenato una rischiosa rapina con la Mambro secondo la Corte già ossessionata per il fatto Bologna per usare la sigla Zeppelin. In ogni caso quella rapina non prova che tre giorni prima i due fossero alla stazione di Bologna a collocare una bomba.

    • L’omicidio Mangiameli (296)

    Le ragioni dell’omicidio di Mangiameli le hanno puntualmente elencate Fioravanti e Mambro e direi lo stesso Cristiano che del coinvolgimento del fratello su Bologna come detto non ha mai saputo niente, eppure è stato proprio lui a caricare a Roma Mangiameli sull’auto della trappola ed è stato sempre lui quello che ha iniziato a sparare a Mangiameli.

    Fioravanti era arrivato a Mangiameli (come risulta pacificamente da tutti gli atti) un anno prima e solo per un motivo specifico ossia l’aggancio con Concutelli che si era messo in testa di voler fare evadere, ma non ne condivideva affatto la “posizione” da intellettuale che mandava allo sbaraglio i ragazzi e proprio a causa di Mangiameli erano falliti tutti i vari tentativi di fare evadere Concutelli nel corso dell’anno (una volta non si presenta a un appuntamento, un’altra non si fa trovare quando i due scendono a Palermo e gli fa consegnare un biglietto dal portiere con tanto di scritta Giusva che lo rende subito identificabile, un’altra fa saltare con scuse varie l’evasione del 30 aprile 1980 da San Vittore che invece verrà realizzata da altri 13), inoltre parla in modo razzista di Giorgio Vale ormai entrato nelle grazie di Fioravanti e infine viene fuori l’episodio che si è rubato i soldi per la casa di Taranto affittata proprio per l’evasione di Concutelli perché Mauro Addis che la gestiva gli dice di pagare perché Mangiameli non gli ha versato nulla.

    Infine, l’articolo intervista di Amos Spiazzi pubblicata da L’Espresso il 18 agosto, non è così specifica sul fatto che Mangiameli sarebbe un delatore, ma puntava più sul fatto che quel tale “Ciccio” di Palermo secondo lo Spiazzi coordinerebbe un gruppo eversivo a largo raggio, né è così’ vero che dopo quell’articolo Mangiameli temesse di essere ucciso da Fioravanti, si sposta con la famiglia in Umbria (cacciando Ciavardini che in quel momento stava ospitando) perché è stato identificato nell’intervista di Spiazzi e teme di essere arrestato visto che in quel mese di agosto erano all’ordine del giorno le retate contro tutti i “neri” noti agli inquirenti, tanto è vero che invece sale tranquillo in macchina a Roma con Roberto Vale, che sa essere in contatto con Fioravanti e soprattutto con Cristiano che tutti i “neri” di Roma (ma non solo) sapevano essere il fratello minore di Valerio.

    Lo stesso Fioravanti ha detto che non era intenzionato per forza ad ucciderlo e che fu la sua sprezzante riposta “se vuoi i soldi te li ridò” da lui ritenuta oltremodo offensiva a farlo arrabbiare più di ogni cosa.

    E’ vero che poi il cadavere fu nascosto perché a quel punto Fioravanti intendeva regolare i conti anche con gli altri due leader di Terza Posizione, Fiore e Adinolfi, ma proprio questo conferma che il motivo non era il fatto che anche costoro fossero al corrente della sua responsabilità per la strage di Bologna.

    Secondo Turone (pag. 297) rileverebbe anche il fatto che quelli di Terza posizione associno, nel volantino del 12 settembre in ricordo del camerata Mangiameli, la morte di quest’ultimo con la strage di Bologna, ma nel volantino si citano anche piazza Fontana, Brescia e Peteano. In ogni caso quel volantino potrebbe anche significare che quelli di TP sapevano qualcosa che i Nar che con loro nulla hanno mai avuto a che vedere non sapevano e tuttora non sanno, e che quindi certe assoluzioni di certi comprovati bombaroli eversori (cosa che i NAR non erano) abbiano potuto essere un po’ frettolose, ma transeat.

    L’omicidio Mangiameli peraltro è trattato nel dettaglio da altra sentenza passata in giudicato in cui il movente strage di Bologna non compare in nessuna riga, quindi una delle due sentenze “in nome del popolo italiano” evidentemente non fa testo. Quale?

    • Il depistaggio del 13 gennaio 1981

    Qui sinceramente il ragionamento dell’accusa si fa ancora più involuto. Posto che è stato accertato che quel depistaggio è stato commesso e che tra gli elementi artatamente inseriti alcuni facevano risalire la responsabilità di Bologna proprio al Fioravanti, cosa che di fatto avvenne, si sostiene che invece fu fatto da chi voleva proteggerli per indurre gli inquirenti a ricercare i responsabili in altre strutture eversive di destra. Aldilà del ragionamento, evidentemente affrontabile anche in modo diametralmente opposto, non si comprende quale sarebbe stato il ruolo attivo dei due imputati, una volta assolti tutti gli altri asseriti complici. Senza contare che l’unico che avrebbe potuto ben chiarire una parte di quanto fatto trovare con quel depistaggio era Roberto Vale rimasto sempre in contatto con quelli di Terza Posizione, il quale tuttavia troverà la morte in occasione dell’irruzione da parte delle forze dell’ordine nell’appartamento in cui si era rifugiato da solo.

     

    Conclusioni

    Finita la disamina degli elencati indizi, va infine ricordato ad abundantiam che nessun elemento collega i due condannati all’ordigno, non si sa dove lo avrebbero preso e da chi e in nessuno dei tanti ritrovamenti di basi e armamentario NAR si sono trovate tracce analoghe a quell’arma micidiale che sarebbe quindi stata usata per la prima e unica volta e solo quel giorno, facendo sempre tutto da soli Mambro, Fioravanti e un minorenne da poco ingaggiato senza dirlo a nessuno e infine coinvolgendo pure il Bellini con cui mai avevano avuto rapporti.

    E perché mai resta un mistero, temo come i nomi di quelli che quella bomba ce la misero davvero e questo, credo che sia soprattutto per le vittime, la cosa più grave.
    (avvocato davide steccanella)

  • Per i SiCobas pm inventa il “proselitismo autoalimentato”

    “Una volta ottenuto e consolidato il potere di ricattare la parte datoriale minacciando continui dannosissimi blocchi al fine di consolidare la propria presenza all’interno del magazzino con le stesse modalita’ iniziavano a favorire i propri lavoratori affinché ottenessero di svolgere le mansioni più gradite a scapito degli altri in una logica di proselitismo autoalimentato”. È anche questa la “prosa” usata dai pm di Piacenza nella richiesta inoltrata al gip per ottenere l’arresto dei sindacalisti del SICobas eseguiti poi nei giorni scorsi.

    Intanto va registrato che la richiesta risale al primo dicembre dell’anno scorso. Il gip ha impiegato quindi sette mesi e mezzo per firmare i provvedimenti con tanti saluti al principio dell’attualità delle esigenze cautelari.

    La colpa dei sindacalisti indagati per associazione per delinquere è quella, scrive sempre la procura, di aver raggiunto una forza evidente e monopolizzante all’interno dello stabilimento. “Cominciavano a imporsi la proprietà anche per le scelte a questa riservata come appunto l’organizzazione del lavoro ovvero le assunzioni di singoli lavoratori” scrive ancora la procura trasformando una vertenza sindacale, un conflitto sociale con le sue dinamiche e le sue asprezze in un problema penale, chiedendo la reclusione in carcere per poi ottenere dal giudice l’ok agli arresti domiciliari.

    ”Alimentavano situazioni di conflitto prendendo a pretesto ogni normale e banale problematica di lavoro risolvibile tramite fisiologici rapporti datore/lavoratori, avviando attivita’ di picchettaggio illegale all’interno degli stabilimenti impedendo ai mezzi di entrare e uscire, istigando a forme di lotta illecite, compreso il rallentamento pretestuoso e strumentale dell’attività lavorativa o l’uso dell’astensione per malattia anche in assenza di problematiche sanitarie” sono le parole degli inquirenti. Che cosa possa entrarci una situazione così descritta con il reato di associazione per delinquere è spiegabile solo con la volontà politica di reprimere il conflitto sociale.

    (frank cimini)

  • SiCobas a gip: contro di noi accuse paradossali

    Aldo Milani ha parlato del paradosso di essere accusato di associazione per delinquere, mentre Sicobas da anni contrasta le infiltrazioni della criminalità organizzata nella logistica e d è per questo esposto alle minacce, Le parole del segretario nazionale del sindacato SiCobas fanno parte delle dichiarazioni spontanee con cui i sindacalisti arrestati nei giorni scorsi hanno replicato alla procura di Piacenza nei interrogatori di garanzia davanti al  gip

    Aldi Milani, Carlo Pallavicini e Mohaned Arafat si sono avvalsi della facolta’ di non rispondere ma hanno spiegato la loro posizione respingendo gli addebiti e aggiungendo che il capo di imputazione in realtà descrive solo l’attività sindacale.

    Arafat ha fatto presente che la persona che lo accusa di averla minacciate era stata da lui  denunciata per calunnia, con video e testimonianze a supporto, denuncia oggetto di richiesta di archiviazione dopo una sola settimana.

    L’attività contestata dicono gli arrestati non è altro che condotta sindacale, che il si Cobas ha sempre svolto nell’interesse dei lavoratori, in un settore, quello della logistica, dove le condizioni di lavoro erano, prima dell’arrivo del sindaco, inaccettabili.

    Un altro degli arrestati Bruno Scagnelli ha scelto la linea del silenzio totale.

    Secondo la provura  i quattro avrebbero dato vita a un’associazione a delinquere finalizzata a piu’ delitti, tra i quali violenza privata, resistenza a pubblico ufficiale, interruzione di pubblico servizio e sabotaggio. I magistrati contestano al Si Cobas di avere “coagulato un notevole bacino di maestranze, per lo piu’ di origine straniera, nel settore della logistica a Piacenza, da conquistare atraverso le affiliazioni alla sigla sindacale di base e poi strumentalizzare allo scopo di ‘conquistare’ i magazzini e lucrare gli introiti derivanti dalle tessere e dalle conciliazioni, nonche’ consolidare il potere clientelare attorno alle figure degli indagati in grado di garantire assunzioni su base clientelare, stabilizzazioni, ma anche ricche buonuscite in caso di appalto”.
    Nei prossimi giorni i difensori degli arrestati Eugenio Losco Mauro Straini depositeranno il ricorso al Tribunale del Riesame per chiedere la revoca delle misure cautelari di arresti domicilisri emesse dal gip Sonia Caravelli su richiesta della procura di Piacenza.

    Il giudice delle indagini preliminari ha fatto una sorta di copia e incolla rispetto all’istanza della procura a livello di motivazioni del provvedimento. Il gip si è differenziato sulla misura cautelare perché i pm avevano chiesto la reclusione in carcere.

    (frank cimini)

     

  • Cobas agli arresti. Se la lotta di classe è un reato

    Scioperano per ottenere per i lavoratori condizioni migliori rispetto a quanto previsto dal contratto nazionale di lavoro e finiscono agli arresti domiciliari per violenza privata, resistenza a pubblico ufficiale, sabotaggio e interruzione di pubblico servizio. È la “sorte” che tocca al coordinatore nazionale del SI Cobas Aldo Milani e tre dirigenti del sindacato a Piacenza, Mohamed Arafat, Carlo Pallavicini e Bruno Scagnelli. Siamo nel settore della logistica dove si penalizza in ogni senso un ciclo di lotte tra il 2014 e il 2021 che ha visto protagonisti decine di migliaia di lavoratori che si sono ribellati al caporalato e a condizioni di brutale sfruttamento.

    Il problema è prettamente politico, se si pensa che pochi giorni fa il governo ha modificato l’articolo 1677 del codice civile eliminando la responsabilità in solido delle committenze per i furti di salario operati dalle cooperative delle ditte fornitrici. Il problema è quello annoso delle aziende che vincono gli appalti e poi subappaltano. In questo modo diminuiscono ulteriormente i diritti e le garanzie di chi lavora.
    I lavoratori di Piacenza già usciti dai magazzini sono in agitazione. È partito uno sciopero generale e sabato ci sarà una manifestazione nazionale.
    Le lotte contro lo sfruttamento vengono considerate estorsioni ai datori di lavoro. Il settore della logistica è quello che si è dimostrato più in fermento negli ultimi anni. Esiste una finalità politica all’escalation repressiva per impedire che i settori più combattivi della classe operaia possano conquistare consenso attorno a una più ampia maggioranza della popolazione. Il tutto mentre con la guerra in corso aumentano il costo della vita, inflazione e povertà.
    Gli operai della logistica sono tra i pochi se non gli unici a rompere una pace sociale che dura da anni. In un paese in cui quasi 700 morti per incidenti sul lavoro dall’inizio dell’anno non bastano a mobilitare i lavoratori a sensibilizzarli mentre i sindacati ufficiali se la cavano con comunicati di poche righe o con qualche ora di sciopero.
    SI Cobas e Usb reagiscono agli arresti parlando di “teorema antisindacale” che sarà smontato. Ma quello che deve preoccupare è il tentativo continuo di trasformare lo scontro sociale in problema di ordine pubblico e in processi penali. Quello che succede anche in relazione alle lotte contro il treno dell’alta velocità in val di Susa.
    Picchetti, scioperi, occupazioni di magazzini, assemblee vengono equiparati a fatti criminosi. Come se non vi fossero lo sfruttamento della manodopera per lo più straniera e ricattabile, l’utilizzo senza freno di appalti e subappalti, cooperative infiltrate dalla criminalità organizzata, diritti sindacali inesistenti e sistematicamente violati. La logistica è uno degli snodi centrali dell’economia di nuova generazione, la circolazione delle merci è un momento determinante della categoria del valore. Li la contraddizione si esprime a livello più alto.
    (frank cimini)
  • G8, da Europa si a estradizione di Vincenzo Vecchi

    Ventanni dopo. E pure oltre. Come nel rimanzo di Dumas dedicato ai tre moschettieri. La corte di giustizia europea di città del Lussemburgo chiamata in causa dalla Cassazione francese ha deciso che deve essere consegnato all’Italia Vincenzo Vecchi condannato per devastazione e saccheggio per i fatti del G8 di Genova del 2001. Vecchi residente in Francia da tempo avrebbe da scontare circa nove anni di reclusione.

    La corte ha fatto prevalere la necessità della cooperazione europea sul rispetto delle formalità giuridiche. Per i giudici del Lussemburgo il mancato rispetto della condizione relativa alla doppia incriminabilita’ non è sufficiente per evitare la consegna del militante no-global al paese richiedente. I fatti sono qualificati giuridicamente in modo diverso nei due paesi, non c’è corrispondenza dei reati ma tutto ciò non conta.

    “La corte fa una scelta assolutamente  funzionalista garantendo l’effettività del mandato di arresto europeo anche al prezzo di possibili violazioni dei diritti fondamentali delle tradizioni costituzionali nazionali e del principio di proporzionalità“ è il commento di uno dei legali di Vecchi, Amedeo Barletta..

    Insomma vince l’eurorepressione. Adesso gli atti del fascicolo processuale torneranno in Cassazuone a Parigi e poi alla corte di appello di Angers che prenderà contatti con l’Italia. Vecchi potrebbe chiedere di scontare la pena in Francia dove ci sarebbero condizioni più favorevoli. Era stato arrestato tre anni fa. Da allora è stato un susseguirsi di udienze per dirimere la questione. (frank cimini)

  • Loggia Ungheria, archiviazione non spiega. Solo sabbia

    Dal comunicato emesso dalla procura di Perugia per annunciare la richiesta di archiviazione dell’indagine sulla cosiddetta loggia Ungheria non emerge una spiegazione convincente. Nelle poche righe della nota non si fa accenno al fatto che la procura di Milano allora retta da Francesco Greco non procedette immediatamente alle iscrizioni sul  registro degli indagati come sollecitava il sostituto Paolo Storari coassegnatario del fascicolo insieme al l’aggiunto Laura Pedio. Sarebbe cambiato tutto.
    E invece Raffaele Cantone con i suoi sostituti sceglie di spiegare le difficoltà a indagare esclusivamente con la fuga di notizie che avrà sicuramente contribuito ma non in maniera prevalente.

    Storari che poi cercherà di uscire dalle difficoltà consegnando i verbali dell’avvocato Piero Amara sulla loggia a Piercamillo Davigo allora componente del Csm chiedeva da un lato di inserire nel registro degli indagati le persone tirate in ballo e dall’altro il legale siciliano per calunnia. Si trattava di indagare subito per accertare la veridicita’ di quanto affermato.

    Ma si trattava da un lato di indagare su magistrati oltre che su imprenditori ufficiali dei carabinieri e altre persone importanti dall’altro di mettere in difficoltà Amara considerato il testimone della corona nel processo Eni Nigeria poi finito con un clamoroso flop della tesi accusatoria.

    Cantone con il suo comunicato cerca di salvare capra e cavoli. E soprattutto di non causare guai alla gestione della procura di Milano in quel periodo. Insomma siamo al solito cane non mangia cane. Il prossimo 22 luglio ci sarà una riunione di coordinamento tra gli uffici inquirenti di Perugia e di Milano dove adesso non c’è più Greco ma Marcello Viola, nominato dal Csm in aprile proprio per dare un segnale di discontinuità rispetto al passato.
    Poi ci sarà un giudice delle indagini preliminari a valutare la richiesta di archiviazione a decidere se accoglierla o ordinare nuove indagini. Insomma non è detto che accetti la linea del “pappa e ciccia”  con la procura di Milano ”versione greca“.

    La speranza di arrivare alla verità sulla loggia che sarebbe stata costituita per influenzare processi e nomine del Csm si è affievolita non di poco. Se fosse tutta la vicenda una bufala ci sarebbe comunque da chiedersi perché l’avvocato Amara avrebbe parlato in quel modo inframmezzando cose vere sia pure non riscontrabili (Cantone dixit) a bugie, per poi ridimensionare le sue affermazioni come riporta il comunicato della procura di Perugia.

    In un paese normale uffici giudiziari e Csm dovrebbero essere case di vetro. Il condizionale è d’obbligo (frank cimini)

     

     

     

  • Estradizioni, Pg e Macron giocano l’ultima carta

    La procura generale di Parigi non demorde. Ha formalizzato l’impugnazione della decisione con cui il 29 giugno scorso la corte d’Appello sezione istruttoria aveva rigettato la richiesta di estradizione in Italia per dieci ex appartenenti a gruppi della lotta armata responsabili di fatti reato che risalgono a 40 anche 50 anni fa.
    Dunque formalmente tutto ritorna in discussione in attesa della decisione della Cassazione per Giorgio Pietrostefani il dirigente di Lotta Continua condannato come mandante dell’omicidio del commissario Luigi Calabresi da tempo in precarie condizioni di salute, per gli ex brigatisti Giovanni Alimonti, Roberta Cappelli, Marina Petrella, Sergio Tornaghi, Maurizio di Marzio, Enzo Calvitti, per l’ex militante di Autonomia Operaia Raffaele Ventura, per l’ex militante dei Proletari Armati per il Comunismo Luigi Bergamin e per Narciso Manenti dei Nuclei Armati per il contropotere territoriale.
    Va ricordato che la procura di Parigi esercitando il ruolo dell’accusa nel corso dei quindici mesi di udienze non aveva concluso con la richiesta di dare avviso favorevole all’estradizione come era quasi sempre accaduto in situazioni del genere. La procura della capitale francese aveva sollecitato un supplemento di informazioni all’Italia e chiesto se il nostro paese fosse in grado di celebrare nuovamente i processi degli estradandi perché in passato erano stati condannati in loro assenza.
    L’Italia sul punto non ha mai dato una risposta certa perché a causa della differenza di ordinamenti tra Il nostro paese e la Francia non si poteva procedere in tal senso. Oltralpe non sono possibili deroghe alla contumacia per cui la corte d’Appello decideva che in Italia nella lotta al terrorismo era stato violato il principio del doppio processo. Inoltre la richiesta di estradizione presentata a tanti anni dai fatti violava pure la vita privata di persone residenti da tempo in Francia.
    A questo punto però la procura generale che in Francia dipende dal ministero della Giustizia ha scelto di giocare l’ultima carta anche se ricorsi del genere davanti alla Cassazione nella lunga storia dei processi estradizionali non hanno mai ribaltato la situazione.
    La decisione di impugnare ha un sapore molto politico nel senso di cercare di tener fede all’impegno che il presidente Macron e il ministro della giustizia Dupont Moretti avevano preso con l’Italia nel momento in cui il guardasigilli Marta Cartabia aveva inoltrato le richieste mettendo tra l’altro in pratica una precisa volontà del presidente Mattarella che il giorno del ritorno di Cesare Battisti aveva annunciato: “E adesso gli altri”.
    (frank cimini)
  • Ricorsi al Tar contro Viola ultima spiaggia di chi ha perso

    La decisione del Csm di nominare Marcello Viola come procuratore della Repubblica di Milano fu illegittima perché fondata sulla applicazione  dell’invero inesistente automatismo valutativo relativo alla pretesa prevalenza del candidato che ha rivestito funzioni direttive in luogo di quelle semidirettive. Questo tra l’altro si legge nel documento di 42 pagine con cui il procuratore aggiunto di Milano Maurizio Romanelli si è rivolto al Tar per far annullare la delibera con cui il Csm il 7 aprile scorso designò Marcello Viola come successore di Francesco Greco.
    Romanelli si presenta come portatore di un percorso “più ampio e pertinente rispetto alla trattazione di reati come mafia terrorismo e delitti contro la pubblica amministrazione“ rispetto a Marcello Viola.

    Romanelli si ritiene penalizzato dai criteri adottati dal Csm che aveva dato priorità agli incarichi direttivi di Viola come procuratore di Trapani e Pg di Firenze. Romanelli invece aveva fatto parte della Dna prima di fare l’aggiunto a Milano. Non aveva mai diretto un ufficio.

    La decisione del Csm è stata impugnata in sede amministrativa anche dal procuratore di Bologna Giuseppe Amato l’altro sconfitto della partita per la procura di Milano.

    Nell’impugnativa i legali di Romanelli lamentano che il consigliere Nino Di Matteo avesse acennato a rapporti tra il magistrato milanese e Luca Palamara in prossimità della votazione finale al Csm senza che fosse garantito il diritto al contraddittorio. La circostanza non aveva mai costituito in precedenza oggetto di una contestazione formale.

    I ricorsi al TAR contro la nomina di Viola appaiono comunque come l’ultima spiaggia dei candidati sconfitti. Il ricorso di Romanelli inoltre dimostra che la procura di Milano non trova pace dopo le polemiche relative al processo Eni-Nigeria sfociate in inchieste a carico di pm del capoluogo lombardo a Brescia. Il clima insomma non è sereno mentre il nuovo procuratore sta cercando di riorganizzare l’ufficio inquirente. I ricorsi al Tar non sembrano avere molte speranze di essere accolti. Ma potranno avere un peso sicuramente su altri piani a cominciare da quello della magistratura associata e delle correnti soprattutto nella prospettiva delle elezioni per il nuovo Csm programmate per settembre. A Milano nel recente passato c’era già stata la dura vertenza di un altro aggiunto Alfredo Robledo con l’allora procuratore Bruti Liberati.

    (frank cimini)

  • Steccanella contro l’abuso di carcere preventivo

     

    Che in Italia vi sia – e da anni – un numero inaccettabile di persone sbattute in galera prima di essere dichiarate colpevoli è un dato di fatto, e così pure che a questa deriva abbiano in larga parte contribuito i GIP nostrani con il continuo e indiscriminato ricorso a formule standard tipo “spregiudicato”, “protervia e pervicacia”, “incurante ai più elementari doveri”, “esigenze di eccezionale rilevanza”, utilizzate, senza distinzione alcuna, tanto per chi è accusato di strage quanto per chi avrebbe esibito una bolla d’accompagnamento tarocca.

    Che sul punto pertanto occorresse intervenire in modo drastico e con urgenza era una priorità da cui non potevano sottrarsi tutti quelli che hanno ancora a cuore il diritto e in specie gli addetti ai lavori (anche se non solo).

    Molto grave quindi, a mio modesto parere, che in occasione del recente referendum flop si sia così palesemente sbagliato tanto il metodo quanto, cosa ancor più grave, il merito.

    In un momento storico particolarmente segnato da una diffusa orda manettara-etico-populista, dovuta a un disagio sociale che non trova altro sollievo se non quello di vedere il potente in gattabuia, se proprio si voleva ricorrere alla volontà popolare bisognava essere chiari e mirati al punto.

    Il “problema” non era all’evidenza l’applicazione di misure cautelari tout court, ma appunto la galera indiscriminata a chiunque prima del processo, perché se si confondono le due cose facendole coincidere si precipita esattamente in quell’identica stortura culturale di chi ritiene che solo il rinchiudere un essere umano tra due sbarre d’acciaio possa tutelare la collettività da qualsivoglia rischio di recidiva.

    E così si è strutturato un quesito assurdo mirato a colpire l’art. 274 anziché il successivo 275 che era proprio quello fino ad oggi palesemente applicato in modo distorto.

    Con l’effetto che se mai fosse passato, cosa peraltro impensabile anche per un bambino di due anni, si sarebbe continuati a finire in gabbia per un ceffone in mezzo alla strada, mentre per l’accusato di avere rubato milioni di euro neppure l’obbligo di firmare una volta al mese presso la più vicina Questura.

    Una follia di inaccettabile matrice classista, perché una giustizia che esclude per principio da ogni sanzione i reati dei ricchi tale deve essere definita, che oltretutto ha dato la facile stura ai manettari di professione per snocciolare in TV i tipici slogan di immediato effetto che tanto piacciono alla gente che piace, tipo “se passa il referendum da domani il ladro che ti svaligia la casa e il molestatore di donne indifese la faranno franca!”.

    Puntando sulla guerra al lassismo invece che al cl-assismo, si è così determinata una altrettanto incoerente difesa del quesito da parte di alcune frange della sinistra antigiustizialista, insomma un vero disastro su tutta la linea.

    Ma poiché non mi piace criticare a basta e visto che ho sostenuto che la modifica avrebbe dovuto riguardare l’art. 275 (e non già l’art. 274), ecco la mia proposta per novellare il numero 3 per chi avrà voglia di leggerla.

    “Fuori dai casi di arresto in flagranza (ancorchè non convalidato per intervenuta decadenza dei termini indicati all’art. 390), la custodia cautelare in carcere (285) può essere disposta soltanto se il PM richiedente ha indicato specifici elementi intervenuti successivamente alla commissione del/i fatto/i per cui si procede attribuibili all’indagato (o a chi nello stesso procedimento è accusato di avere concorso con lui nella commissione dello/gli stesso/i), tali da rendere non eludibile con l’applicazione di diversa misura il concreto rischio di reiterazione (274, lett. c. Cpp).

    In ogni caso non può essere disposta la custodia cautelare in carcere quando risultano trascorsi 3 mesi tra la richiesta del PM e il provvedimento del giudice senza che siano statisuccessivamente acquisiti nuovi elementi dai quali dedurre la perdurante attualità dell’esigenza cautelare a suo tempo indicata dal PM richiedente”.

    Per il resto può rimanere così com’è, anche se per mio conto eliminerei anche l’obbligatorietà presuntiva per taluni reati, ma il meglio, come diceva qualcuno, è nemico del…bene.

    (avvocato Davide Steccanella)

     

  • Su Sky documentario su tortura a difesa della democrazia

    “Mi torturavano mentre firmavano trattati internazionali contro la tortura”. C’è voluto quasi mezzo secolo perché Enrico Triaca arrestato nell’ambito delle indagini sul caso Moro potesse andare in tv a raccontare dove e come fu torturato al fine di estorcergli informazioni. Sul canale 122 di Sky lunedì 13 giugno (possibile vederlo on demand) è andato in onda un documentario sul sequestro del generale americano James Lee Dozier e su altri fatti di lotta armata a cavallo tra gli anni ‘70 e ‘80.
    All’epoca Enrico Triaca per aver denunciato le torture venne condannato per calunnia. Soltanto pochi anni fa con la revisione del processo è stato assolto. I torturatori, in testa il funzionario di polizia Nicola Ciocia, “il professor De Tormentis” l’hanno fatta franca per utilizzare il linguaggio di un famoso magistrato perché ovviamente era intervenuta la prescrizione.
    “Dalla questura dove c’era stato un interrogatorio molto blando mi portarono in una struttura che credo fosse una caserma, mi legarono a un tavolo e così iniziò il trattamento” sono le parole di Triaca che ricorda la tecnica solita in casi del genere del finto annegamento. Al “trattamento”, considerati gli scarsi “risultati” pose fine un superiore del professor De Tormentis che invece avrebbe voluto continuare.
    Il documentario di Sky rende almeno in parte pan per focaccia a chi continua a raccontare la favola del “terrorismo sconfitto senza fare ricorso a leggi e pratiche eccezionali”. Una posizione ribadita in tempi recenti dall’ex ministro Minniti il quale una certa responsabilità politica per quanto capitato ai migranti nei campi libici non può non averla.
    La vera tragedia è politica e riguarda il fatto che le torture ai migranti non hanno provocato cortei e proteste nelle piazze. Come del resto nulla sembra destinato a spostare il documentario di Sky sulle torture inflitte ai responsabili di fatti di lotta armata oltre quarant’anni fa.
    Se il nostro paese non ha tuttora una legge adeguata a sanzionare la tortura come reato tipico del pubblico ufficiale una ragione c’è. E si tratta ancora una volta di una ragion di Stato che neanche il documentario del canale 122 riuscirà a scalfire. Alcuni condannati per il sequestro e le torture all’imam Abu Omar sono stati graziati in parte da Giorgio Napolitano e in parte da Sergio Mattarella. Insomma, torturare non è che sia proprio vietato.
    Speriamo che a chi oggi ha 20 anni o 30 e anche 40 sia utile la visione del documentario di Sky che comunque ha la grave lacuna di non aver contestualizzato storicamente i fatti come accade sempre soprattutto in tv quando si parla di quella storia maledetta. Terminiamo con Triaca ricordando che l’anno scorso è stato tra quelli ai quali hanno preso il Dna perché la procura di Roma è sempre a caccia di improbabili complici e di misteri inesistenti.
    (frank cimini)

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  • Moro, l’archivio sotto un dominio pieno e incontrollato

    Oggi un anno. Un anno fa il sequestro. Il sequestrato si trova sotto un dominio pieno e incontrollato. Parafrasiamo quanto scrisse Aldo Moro prigioniero delle Brigate Rosse perché a essere sequestrato l’8 giugno del 2021 fu l’archivio del ricercatore Paolo Persichetti sulla base di presunte molto presunte violazioni di segreti. Che infatti sono state escluse dal perito nominato dal giudice secondo il quale nell’archivio del ricercatore indipendente non c’erano atti coperti da segreto della commissione parlamentare di inchiesta sul caso Moro.
    Ma nonostante ciò l’archivio non è stato dissequestrato. Sono state resitituite solo due pendrive che tra l’altro non c’entravano nulla con Persichetti.
    L’archivio come dicevamo resta sotto il dominio di un’operazione di propaganda politica targata Magistratura Democratica, la corrente “di sinistra” alla quale appartengono sia il pm Eugenio Albamonte sia il gip Valerio Savio. L’indagine insomma continua, è senza confini, sempre a caccia di improbabili complici di misteri inesistenti relativi a servizi segreti di mezzo mondo che sarebbero stati dietro le Br per i fatti di via Fani.
    È una storia assurda che si spiega solo con la politica, attività a cui la magistratura italiana da tempo immemore dedica molto tempo e tantissime energie.
    L’accusa di associazione sovversiva finalizzata al terrorismo era caduta praticamente subito. Del resto parliamo di una indagine nata a Milano su presunti favoreggiatori della latitanza di Cesare Battisti, archiviata senza neanche perquisire Persichetti come aveva chiesto la polizia. Il fascicolo è stato preso in carico a Roma dalla procura già nota per aver preso il Dna dei condannati per la strage di via Fani e altre persone a oltre 40 anni dagli accadimenti.
    Paradossalmente la ricerca storica indipendente pur avendo raggiunte le stesse conclusioni di cinque processi (dietro le Br c’erano solo le Br) viene criminalizzata. Siamo nel paese dove la Fondazione Flamigni che da decenni spaccia bufale dietrologiche sul caso Moro riceve finanziamenti pubblici. Dove il presidente della Repubblica ripete ossessivamente di ricercare la verità come se non avesse in qualità di capo del Csm il dovere di prendere atto degli esiti processuali.
    La caccia alle streghe continua. Il sequestro dell’archivio tra l’altro impedisce l’uscita del secondo volume della storia delle Br “Dalle fabbriche alla campagna di primavera” di cui Persichetti è coautore insieme a Marco Clementi e Elisa Santalena. Una sorta di censura preventiva. È tutto nel silenzio dei mezzi di informazione che di questa “strana” indagine non hanno mai sostanzialmente scritto al di là di qualche lodevole eccezione (frank cimini)

  • Caso Moro, siamo passati dai misteri ai miracoli

    Nel caso Moro siamo passati dai misteri inesistenti ai miracoli che si verificano. È comparsa improvvisamente una strana figura di cui mai si era avuto sentore in passato, quella di un tecnico del suono che come secondo lavoro per arrotondare fa il vice procuratore onorario al tribunale di Roma. Si chiama Mario Pescilavora per la Pantheon Sel che fornisce servizi tecnici a Radio Radicale. In sostanza si tratta di fare le registrazioni che l’emittente commissiona.
    Pesce era stato incaricato di registrare il 12 maggio scorso il dibattito relativo alla presentazione del libro di Paolo Persichetti “La polizia della storia” sulle fake news del caso Moro e sulla vicenda del sequestro dell’archivio più pericolo del mondo.
    Pesce era stato riconosciuto e mostrava di non gradire la circostanza e nemmeno la sua presenza sul posto. Avrebbe potuto chiedere di farsi sostituire. Mario Pesci invece andava a farsi un giro per poi tornare restandosene appartato. Alla fine affermava di aver registrato ma che il microfono non aveva funzionato. Bisogna considerare che i tecnici portano sempre del materiale di scorta come un secondo microfono.
    Insomma non c’è la registrazione del dibattito con l’autore del libro, la filosofa Donatella Di Cesare, l’avvocato Francesco Romeo. Esiste invece la possibilità di una singolare coincidenza, che si sia trattato di un sabotaggio al fine di evitare la divulgazione della registrazione. Non si può non considerare il secondo lavoro del signor Pesci. Lavora in quell’ufficio giudiziario che ha messo in piedi una indagine che non sta in piedi a carico di Paolo Persichetti. Il perito del giudice infatti ha accertato che non c’erano atti riservati della commissione Moro nell’archivio del ricercatore quindi non può esserci la violazione del segreto d’ufficio.
    Raccontiamo questa ulteriore storia di democratura relativa a un caso che dopo 44 anni non sembra voler smettere di sorprendere. Ma le sorprese continuano ad andare in una sola direzione.
    Perché ci sono uffici giudiziari e commissioni parlamentari che tentano in tutti i modi di andare oltre l’esito di cinque processi secondo i quali dietro le Br c’erano solo le Br. Perché lor signori insistono “a ricercare la verità” tanto per usare le patetiche parole di Mattarella. E per raggiungere l’obiettivo fanno carte false arrivando a impedire la registrazione di un dibattito su un libro di ricerca storica indipendente (frank cimini)

  • Archivio Persichetti, perizia smentisce pm nessun segreto violato

    Dopo quasi un anno emerge che la montagna non ha partorito neanche il classico topolino. “Non sono stati rinvenuti elementi riferibili alla richiesta del pm” scrive il perito che ha esaminato l’archivio più pericoloso del mondo, quello di Paolo Persichetti, il ricercatore perquisito l’8 giugno dell’anno scorso indagato per associazione sovversiva finalizzata al terrorismo tramite la violazione del segreto d’ufficio in relazione alla divulgazione di atti della commissione parlamentare di inchiesta sul caso Moro. Non c’erano non ci sono documenti riservati, come aveva sostenuto in qualità di testimone della corona Giuseppe Fioroni ex presidente della commissione che aveva giocato di sponda con la procura.
    Il pm Eugenio Albamonte ha fatto un buco nell’acqua ma nessuno gliene chiederà conto. Di questa surreale indagine i grandi giornali non hanno mai parlato evitando di riferire che l’associazione sovversiva era caduta quasi subito e che il capo di incolpazione è cambiato cinque volte. C’è l’assoluta irrilevanza giudiziario del materiale di archivio. Le carte indicate come riservate era in realtà scaricabili dal portale della commissione. L’indagine aveva e ha lo scopo di colpire la ricerca storica indipendente e di protrarre la caccia alle streghe intorno al caso Moro, ipotizzando la presenza di improbabili complici dei responsabili del sequestro già condannati.
    La vicenda comunque approderà il 22 maggio all’udienza in cui la perizia sarà discussa dalle parti. A Persichetti non è stato ancora restituito nulla di quanto “sigillato” un anno fa, nemmeno le carte mediche di Sirio il figlio diversamente abile. L’indagine penale copre la realtà di una operazione di propaganda politica targata Magistratura Democratica la corrente alla quale aderiscono sia il pm Albamonte sia il gip Valerio Savio. Il sequestro impedisce a Persichetti di fare il suo lavoro di ricercatore e ha bloccato l’uscita del secondo volume della storia delle Br di cui è coautore con Marco Clementi e Elisa Santalena.
    Questi sono i frutti velenosi della commissione parlamentare, non ricostituita in questa legislatura, che aveva fatto della dietrologia e del complotismo il fulcro del suo lavoro. E adesso a chiedere di rifare la commissione sono paradossalmente esponenti di Fratelli d’Italia intervenendo in un campo che era stato in gran parte gestito dalla “sinistra”. Sono giochi politici intorno a fatti di 44 anni fa per inquinare e depistare, nascondere la verità, compresa quella accertata dai processi dove è emerso che dietro le Br c’erano solo le Br. E che non ci sono altri ergastoli da distribuire (frank cimini)

  • Le bufale su Moro un affare per l’archivio Flamigni

    L’archivio Flamigni che da decenni diffonde bufale dietrologiche sul caso Moro riceve una consistente mole di finanziamenti pubblici soprattutto dal ministero della Cultura. 40 mila euro il 9 gennaio del 2019, 38 mila euro il 15 aprile, 2000 euro il 15 ottobre. Vanno aggiunti 40 mila euro il 20 maggio dall’istituto centrale per gli archivi convenzione per portale della rete degli archivi, 3491 euro il 7 agosto dall’Agenzia delle entrate.
    Altri soldi nel 2020. Dal ministero 49.157 euro il 22 giugno, 8300 euro il 29 dicembre. Dall’Agenzia delle entrate 4512 euro il 30 luglio, 4474 euro il 6 ottobre.
    Insomma si tratta di un vero e proprio affare. Per carità tutto regolare, tutto secondo la legge.
    Il primo febbraio del 2021 l’archivio della fondazione Flamigni era stato trasferito presso lo spazio Memo per gentile concessione della Regione Lazio con visita e complimenti del governatore Zingaretti. Insomma la dietrologia e il complottismo hanno molto successo in questo paese. Vengono più che incoraggiati. Del resto siamo dove siamo. Dove ogni 16 marzo ogni 9 maggio a dire che “bisogna cercare la verità” è il presidente della Repubblica e del Csm a discapito di 5 processi dove sono state escluse responsabilità diverse da quelle delle Brigate Rosse.
    Si tratta di esiti processuali ignorati dalle commissioni parlamentari di inchiesta e dalla procura di Roma che continuano la caccia alle streghe e a improbabili complici che non sarebbero stati individuati. L’ultima bufala in ordine di tempo è quella partita l’8 giugno dello scorso anno con il sequestro dell’archivio più pericoloso del mondo, le carte di Paolo Persichetti, ricercatore storico indipendente. Un’operazione di propaganda mediatica targata Magistratura Democratica alla quale appartengono sia il pm Albamonte sia il gip Savio con la sponda dell’ex presidente della commissione Fioroni dove il capo di incolpazione è cambiato cinque volte.
    Il 30 di aprile sarà depositata la perizia che verrà discussa nell’udienza del 22 maggio con estrazione della copia forense. A quasi un anno dal sequestro dell’archivio Persichetti che non riceve finanziamenti pubblici a differenza della fondazione Flamigni ma solo avvisi di garanzia. Cioè con la garanzia che la caccia ai fantasmi e il depistaggio sul caso Moro non finiranno mai. Probabilmente perché tutto serve per governare adesso (frank cimini)

  • Il Papa straniero si insedia in procura dopo Pasqua

    Si insedierà in procura a Milano dopo Pasqua il procuratore generale di Firenze Marcello Viola scelto ieri dal Consiglio Superiore della Magistratura per succedere a Francesco Greco andato in pensione a metà novembre.
    Il ministro della Giustizia Marta Cartabia aveva espletato la formalità pressoché burocratica del concerto già prima della decisione finale del plenum del Csm. Nel senso che per il ministero non ci sarebbero stati problemi per nessuno dei tre candidati usciti dalla commissione incarichi direttivi.
    Dal momento che il procuratore facente funzione Riccardo Targetti va in pensione il 15 aprile la procura di Nilano sarà retta per pochi giorni dall’aggiunto Tiziana Siciliano indicata per l’incarico dallo stesso Targetti in attesa che il nuovo procuratore prenda possesso dell’ufficio. (frank cimini)

  • Arriva il Papa straniero, la fine di Mani pulite e di Md

    Con 13 voti il Csm ha designato il Pg di Firenze Marcello Viola nuovo procuratore di Milano. Si tratta dell’ormai famoso Papa straniero per rimarcare il fatto che da decenni il capo della procura arrivava sempre dall’interno del palazzo di corso di Porta Vittoria. Questa volta il vento è cambiato, si è imposta la scelta per la discontinuità perché la procura di Milano era diventata un ufficio allo sbando e non sarà facile metterci le mani.
    Era finita sotto accusa da parte della maggior parte dei pm l’organizzazione del lavoro scelta da Francesco Greco andato in pensione a metà novembre. Il segnale di sfogo era arrivato con 57 magistrati su 64 che firmavano il sostegno a Paolo Storari entrato in collisione con i vertici dell’ufficio nell’ambito del caso Eni.
    Ma il fuoco covava sotto la cenere da tempo. Basti pensare che poco più della metà dei pm era esentata dai turni per le ragioni più varie da quelle familiari a quelle di servizio.
    Con il risultato di far gravare il peso del lavoro ordinario solo su una parte dell’ufficio. Particolare “scandalo” suscitava l’esenzione dai turni dei pm del dipartimento corruzione internazionale che aveva istruito i processi ai vertici Eni poi conclusi con raffiche di assoluzioni.
    Ma a risentirne era il complesso dell’attività investigativa. I dati dicono che solo in relazione al Tribunale siamo al 40 per cento di assoluzioni a cui vanno aggiunte quelle davanti al gup e anche quelle mei gradi successivi di giudizio. Un pm che vuole restare anonimo ammette che spesso il capo di incolpazione è quello redatto dalla polizia giudiziaria e che poi non regge al vaglio del dibattimento.
    Insomma intorno a Greco c’era una sorta di cerchio magico di privilegiati o comunque di pm che avevano condizioni di lavoro migliori rispetto ad altri.
    Per cui si arrivava all’esplosione e ai fuochi di artificio con le chat di discussioni interne seguite al tonfo dell’ipotesi accusatoria nel processo Eni. Da allora non c’è stata più pace mentre diversi pm finivano indagati a Brescia dove ci sono vicende ancora da definire oltre ai procedimenti disciplinari che potrebbero portare ai trasferimenti per incompatibilità ambientale.
    Mani pulite di cui è appena ricorso il trentennale appare nolto lontana mentre dall’iter che ha portato alla nomina di Viola esce sconfitta la corrente di Magistratura Democratica che da tempo considerava la procura di Milano come suo territorio esclusivo. Di Md erano stati espressione gli ultimi due procuratori Edmondo Bruti Liberati e Francesco Greco. Md aveva proposto l’aggiunto Maurizio Romanelli che nel plenum ha raccolto alla fine solo 6 voti La corrente di sinistra probabilmente punterà a ottenere la presidenza del Tribunale libera dopo il pensionamento di Roberto Bichi. Ma si tratta di un incarico di peso nettamente inferiore a quello di procuratore.
    Toccherà dunque a Marcello Viola far ripartire resettandola la seconda procura italiana per importanza. Non è un compito facile ma appare difficile per lui fare peggio dei suoi due predecessori Bruti Liberari impantanato nel clamoroso contenzioso con l’aggiunto Robledo e Greco in pratica messo in minoranza e isolato dai suoi sostituti per un finale di carriera inglorioso. Come quello di Md che vive il momento più difficile della sua storia. Una corrente nata 50 anni fa per democratizzare la magistratura, per la orizzontalità delle decisioni e finita nella pure gestione del potere di casta. Come disse uno dei suoi fondatori che da tempo non è più tra noi Romani Canosa: “Sarebbe stato meglio se non fosse mai nata”. Aveva visto le cose in grande anticipo. (frank cimini)

  • I consigli dell’avvocato Gabriele Fuga dalla cella accanto

    Quando in Italia accadeva quello che accade oggi per esempio in Turchia. Arrestavano gli avvocati o licostringevano a rifugiarsi all’estero. Con l’alibi della “lotta al terrorismo” lo stato democratico nato dalla Resistenza antifascista massacrava il diritto di difesa identificando i legali con la “banda armata” di cui eranoaccusati di far parte i loro assistiti. Gabriele Fuga racconta la sua vicenda giudiziaria politica e umana nel libro che ha per titolo “La cella dell’avvocato”, circa 300 pagine, 17 euro, edito da Colubri’ cioè Renato Varani uno dei pochi editori rivoluzionari rimasti a combattere nel modo in cui è possibile farlo adesso.
    Fuga, già autore insieme al compianto Enrico Maltini di “La finestra e’ ancora aperta” (la più completa ricostruzione dell’omicidio Pinelli) ricostruisce un periodo storico, parte integrante del più serio tentativo di rivoluzione nel cuore dell’Occidente.
    Sulla base esclusiva delle dichiarazioni a verbale del “pentito” Enrico Paghera l’avvocato Fuga fu incarcerato con l’accusa di far parte di Azione Rivoluzionaria gruppo anarchico. Verrà assolto dopo
    unanon breve carcerazione preventiva e dovette fronteggiare un altro mandato di arresto spiccato a Milano in relazione all’attività di Prima Linea. Il giudice che aveva firmato il provvedimento poi revocato dopo l’assoluzione nel processo di Livorno sarà eletto parlamentare europeo nelle liste del Pci.
    Fuga racconta la vita in carcere, l’assistenza legale fornita agli altri detenuti, istanze, consigli, suggerimenti. A Livorno dopo aver litigato con i suoi legali amici tentò anche la strada dell’autodifesa, spiegando che il consiglio dell’ordine di Milano non lo aveva sospeso e che quindi lui era nel pieno delle sue funzioni. Il pm diede parere contrario dicendo rivolto ai giudici: “io non posso stare sullo stesso piano di un imputato che condannerete come terrorista”. Questo era il clima in cui si svolgevano i processi. I giudici negarono l’autodifesa, ovviamente.
    Nel libro sono evocate le storie di altri legali accusati di terrorismo. Da Sergio Spazzali a Edoardo Arnaldi il quale si uccise a Genova nel suo studio durante una perquisizione per non finire in carcere. Da Luigi Zezza che si rifugiò a Parigi lavorando nel quotidiano Liberation a Giovanni Cappelli andato pure lui all’estero.
    “Qualunque sia la vostra sentenza qualunque sia l’esito dell’ istruttoria in corso a Milano io continuerò a fare l’avvocato- aveva detto Fuga in sede di dichiarazioni spontanee a Livorno- perché come anarchico e come legale rivendico il diritto e il dovere di difendere tutti i compagni che si rivolgono a me anche quelli che vengono ritenuti ‘compagni che sbagliano’ distinzione che non mi interessa e che non mi permetterei mai fare”. (frank cimini)

  • Moro per sempre. Neanche la guerra frena i dietrologi

    Neanche la guerra in Ucraina riesce a frenare i dietrologi sempre a caccia di fantasmi e misteri inesistenti a 44 anni dal rapimento Moro. L’onorevole Federico Mollicone di Fratelli d’Italia dice che il mosaico è incompleto e propone la ricostituzione della commissione parlamentare di inchiesta “accelerando l’iter della nostra proposta di legge ora incardinata presso la commissione Affari Costituzionali”.
    Mollicone riesce a definire prezioso il lavoro della commissione presieduta da Giuseppe Fioroni nella scorsa legislatura che come i suoi predecessori non aveva portato risultati concreti.
    In tempi che dovrebbero essere di spending review evidentemente prevalgono le necessità della propaganda e il rifiuto di prendere atto degli esiti processuali che avevano escluso responsabilità diverse da quelle delle Brigate Rosse.
    Insomma in Parlamento c’è chi è pronto a buttare altri soldi dalla finestra per inseguire piste che parlano di congiure di palazzo di servizi segreti di mezzo mondo che avrebbero preso parte o addirittura organizzato l’operazione.
    La mamma dei dietrologi come quella dei cretini è sempre incinta. La novità in occasione del quarantaquattresimo anniversario è che a muoversi sul punto ci pensa un esponente della destra muovendosi in un campo che era stato fin qui quasi esclusivo appannaggio della “sinistra”. E soprattutto degli eredi di un partito troppo interessato a negare che i fatti del 16 marzo del 1978 furono lo sbocco di un durissimo scontro sociale e politico sfociato in una guerra civile a bassa intensità e neanche troppo bassa a dire il vero.
    In questa legislatura la commissione non era stata ricostituita ma evidentemente ci sono persone in crisi di astinenza a destra oltre che a sinistra.
    Rimpiangono il presidente Fioroni la cui ultima attività conosciuta è stata quella di aver fatto da sponda all’operazione di propaganda messa in piedi da Magistratura Democratica con il pm Eugenio Albamonte insieme a un gip della stessa corrente per sequestrare l’archivio del ricercatore indipendente Paolo Persichetti. Accadeva questo l’8 di giugno dell’anno scorso. Da allora il reato contestato è stato cambiato cinque volte e ruota intorno a una molto presunta violazione del segreto relativo a atti della commissione.
    Non è stata ancora estratta la copia forense. A Persichetti nulla è stato restituito bloccando tutta la sua attività. Tutto ovviamente nel silenzio generale perché gli organi di informazione del caso Moro scrivono solo se c’è da rimestare nel torbido a caccia di improbabili complici. E adesso a dare una mano alla “sinistra” arrivano gli ex fascisti di Fdi. L’Unità’ nazionale della dietrologia erede del partito della fermezza (frank cimini)

  • Dopo 7 anni Mantovani assolto. Pm ormai sempre ko

    La mitica procura di Milano ormai non vince più un processo che sia uno. In appello è stato assolto tra gli altri Mario Mantovani ex parlamentare di Forza Italia ex vicepresidente della Regione Lombardia il quale era stato anche arrestato con la misura cautelare firmata dal gup a un anno di distanza dalla richiesta dei pm. Sono passati ormai sette anni, una vita.
    La seconda sezione penale d’appello oltre a confermare l’assoluzione di Garavsglis e di un altro imputato (gia’ decise dal Tribunale), ha ribaltato in toto il verdetto di primo grado per tutti gli altri (una decina gli imputati in totale) assolvendoli nel merito. Assolto, dunque, dopo essere stato arrestato quasi 7 anni fa e condannato in primo grado a 5 anni e mezzo di reclusione, l’ex numero due del Pirellone ed ex assessore alla Sanita’ Mario Mantovani, difeso dal legale Roberto Lassini. Assolto, tra gli altri, anche il contabile Antonio Pisano, difeso dall’avvocato Davide Steccanella. Per Garavaglia anche ex viceministro all’Economia, il pg Massimo Gaballo aveva chiesto una condanna a un anno e 6 mesi. Rispondeva solo di uno dei 13 capi di imputazione al centro del processo. In primo grado la Procura aveva chiesto 2 anni per Garavaglia, ma per il Tribunale mancavano “elementi adeguatamente dimostrativi per affermare” che l’ex assessore avesse dato un contributo “anche solo nella forma della agevolazione alla turbativa” e non c’erano “elementi per affermare una sua consapevolezza”. Secondo l’accusa, l’allora assessore lombardo all’Economia nel giugno 2014 avrebbe dato, assieme a Mantovani, “disposizioni” e “l’input iniziale” per “vanificare gli esiti del bando” di una gara da 11 milioni di euro.
    I difensori degli imputati osservano che la corte d’appello ha evitato un errore giudiziario. Da un po’ di tempo nei processi per reati contro la pubblica amministrazione la procura esce sempre sconfitta e questa volta divide il ko con la procura generale che aveva deciso di sostenere la tesi colpevolista.
    Insomma restiamo nel clima del presunto credo Eni-Nigeria che aveva prodotto la sentenza di assoluzione oltre alla guerra interna alla procura tra il sostituto Paolo Storari e i capi dell’ufficio inquirente con l’intera vicenda finita sul tavolo del procuratore di Brescia. Nel momento in cui si celebra (si fa per dire) il trentennale Mani pulite appare sempre più lontana e la procura completamente allo sbando. Toccherà al nuovo procuratore capo che il Csm dovrà nominare a breve riorganizzare l’ufficio e istruire i processi in modo più convincente al fine di interrompere il momento nero dell’accusa (frank cimini)

  • NoTav, da eredi Caselli 67 faldoni di atti per 4 fumogeni

    Per quattro fumogeni accesi durante i presidi contro il Tav la procura di Torino ha costruito un’inchiesta che ammonta a 67 faldoni di atti, fin qui utili a ottenere 13 misure cautelari ma anche la bocciatura da parte del gip dell’accusa relativa all’associazione sovversiva.
    Trattandosi degli eredi di Caselli e Maddalena che cercarono d trasformare un compressore bruciacchiato in una sorta di rapimento Moro del terzo millennio non esistono dubbi. La procura chiederà il processo anche per il reato associativo pur avendo subito per il momento uno stop significativo.
    Questa mattina c’è stata la conferenza stampa per replicare agli arresti.
    Le misure cautelari sono 13, due dei quali, Giorgio Rossetto e Umberto Raviola sono stati tradotti nel carcere delle Vallette, a Torino, e riguardano una serie di iniziative e manifestazioni che, dall’estate 2020, si sono svolte in Val Clarea, dove si trova il cantiere Tav di Chiomonte e a San Didero, dov’è situata la recinzione per quello che dovrebbe diventare il nuovo autoporto valsusino. I reati contestati sono quelli di violenza privata e resistenza aggravata a pubblico ufficiale.
    “Procura, Magistratura e Mass media hanno tentato da sempre di sporcare questa lotta con una narrazione falsa che tenta di dividere tra buoni e cattivi – afferma Nicoletta Dosio, storica No Tav – di riproporre la solita retorica legata alla distinzione tra “buoni e cattivi – all’interno del Movimento No Tav, cercando di ricostruire fantomatiche regie dietro ad ogni iniziativa o manifestazione. “Quando il potere è ingiusto la resistenza è diritto e dovere di tutti – continua Nicoletta Dosio – Non basteranno i tribunali, il carcere e le fandonie sul nostro conto per farci tornare a casa. Solidarietà dal movimento No Tav ai nostri compagni che stanno subendo queste misure cautelari”.
    Inoltre, ieri le forze dell’ordine, senza grandi risultati, hanno perquisito anche i Presidi No Tav dei Mulini e di San Didero, da tempo vissuti dal movimento, all’interno dei quali sono state realizzate numerose iniziative popolari e varie azioni di monitoraggio e disturbo dei cantieri.
    “L’operazione di ieri è stata di uno squallore universale – tuona Alberto Perino, No Tav di vecchia data – ed è la dimostrazione che il movimento No Tav è estremamente forte e fa paura a tutti. Se essere sovversivi significa opporsi a questo sistema e a questo governo inutile, che punta solo a garantirsi la pensione e che può decidere qualsiasi cosa, allora noi continueremo ad essere “sovversivi” e a resistere come facciamo da 30 anni e continueremo a farlo per altrettanti se necessario”. Facendo poi eco alla Dosio “questo perché, al di là della narrazioni tossiche dei mass media rispetto al Tav, ormai si è svelata quale è la vera utilità di questi corridoi ferroviari che ormai sono diventati corridoi di guerra e morte” ha concluso Alberto Perino.
    “La finalità è lampante – afferma Andrea Bonadonna – continuano ad essere utilizzati strumenti atti a silenziare e reprimere qualsiasi dimensione di dissenso sociale, e questo è molto grave. Ogni capo di imputazione è inserito in una cornice posta lì per tentare di delegittimare e silenziare quello che è il movimento più longevo della storia del nostro Paese, che da 30 anni si batte contro la costruzione della linea ad Alta Velocità Torino – Lione, con il solo e unico obiettivo di salvaguardare la salute del territorio, di chi lo vive e del futuro delle nuove generazioni. (frank cimini)

  • Arresti tra i NoTav per i fumogeni nei sit-in ai cantieri

    La magistratura appare sempre più in prima linea a tutela dell’affare alta velocità. 2 militanti NoTav sono finiti in carcere altri 2 ai domiciliari e in 9 sono destinatari di obbligo di firma con divieto di risiedere nei comuni della Val di Susa accusati di Resistenza aggravata a pubblico ufficiale è violenza privata in relazione a sit-in e manifestazioni sia davanti ai cantieri sia a Torino città. “Utilizzo di artifici pirotecnici” si legge nella misura cautelare. Cioè nell’Italia del governo di migliori si finisce in galera per quattro fumogeno mentre si protesta legittimamente contro un’opera che da 30 anni sta devastando un territorio un tempo tra i più incontaminati del paese.
    Il movimento NoTav in un comunicato fa osservare: “In Val di Susa abbiamo vissuto anni di pandemia in cui mentre chiedevamo risorse per affrontare la crisi sul territorio, mentre cercavamo di prenderci cura della nostra comunità e dei nostri affetti il sistema del Tav occupava intere porzioni del nostro territorio con migliaia di uomini, idranti e lacrimogeni per installare cantieri che servono solo a drenare denaro pubblico. Il nostro è un movimento con decenni di storia alle spalle, abbiamo visto passare governi, questori e prefetti. Abbiamo sempre deciso collettivamente come portare avanti la nostra resistenza, come affrontare la violenza istituzionale che nonostante la contrarietà popolare all’opera ha militarizzato senza remore un’intera valle. Non ci faremo certo intimorire da questa operazione, consapevoli che in questi tempi di guerra, crisi climatica e sociale la nostra lotta, nel nostro piccolo, è uno spiraglio per costruire una speranza per il futuro”.
    Il movimento denuncia il tentativo con questa operazione di arrivare a una divisione tra buoni e cattivi. È stato perquisito il centro sociale Askatasuna del quale politici particolarmente zelanti insistono a chiedere la chiusura.
    Il problema è politico ma come al solito viene presentato come questione primaria di ordine pubblico. Nel caso specifico magistratura e politica appaiono sempre più unite nella lotta a tutelare tra l’altro appalti e lavori sulla cui trasparenza si è sempre fatto a meno di indagare in profondità. Ogni energia investigativa è concentrata su chi si oppone all’opera forzando fino a contestare nel recente passato la finalità di terrorismo poi caduta in Cassazione dove alcuni giudici facevano notare che il troppo è troppo. La procura di Torino però non demorde: per chi accende fumogeni c’è persino la galera (frank cimini)

  • Chi indaga sulla loggia Ungheria? Tutti… cioè nessuno

    Tra le diverse procure e il Csm si è perso il conto di tutti quelli che indagano sulla loggia Ungheria senza che se ne sappia qualcosa considerando particolare importantissimo la complicità dei giornali e dei telegiornali i quali semplicemente non ne parlano. Della loggia di cui l’avvocato Piero Amara aveva ipotizzato (diciamo così) l’esistenza a verbale davanti ai pm di Milano parlando del caso Eni-Nigeria farebbero parte magistrati imprenditori persone con incarichi importanti nel settore pubblico e privato al fine di aggiustare processi e varare nomine al Csm. Insomma una cosa gravissima in qualsiasi caso.
    Se la famosa loggia esistesse veramente ci sarebbero responsabilità da accertare. Ma anche in caso contrario, cioè se fossimo alle prese con una bufala, sarebbe inquietante uguale perché bisognerebbe chiedersi per quale motivo Amara avrebbe verbalizzato tali fantasie.
    La procura di Milano avrebbe tergiversato (eufemismo) prima di procedere con le iscrizioni nel registro degli indagati secondo il pm Paolo Storari appena assolto a Brescia dall’accusa di rivelazione del segreto d’ufficio in riferimento ai verbali di Amara consegnati a Piercamullo Davigo all’epoca componente del Csm. Gli atti per competenza sarebbero finiti a Roma e a Perugia. Infine anche a Brescia che entrava in contrasto con i colleghi di Milano in relazione e alle carte sul cosiddetto “depistaggio” in merito al fascicolo Eni-Nigeria.
    La loggia Ungheria insomma sembra avviata a ingrossare la lista dei tanti misteri d’Italia e appare forte il sospetto che ciò avvenga perché la magistratura in pratica non gradisce indagare su se stessa. E mancano pure quelle fughe di notizie che caratterizzano da sempre ogni indagine che si rispetti perché i giornali sul punto non tengono passione. Cioè le cronache giudiziarie non vogliono disturbare il manovratore. E va considerato che troppo spesso hanno come “datore di lavoro” quelle procure, quegli uffici inquirenti chiamati a dirimere la questione.
    Che i singoli magistrati fin qui coinvolti nelle indagini penali e nei procedimenti disciplinari siano prosciolti o condannati o trasferiti è sicuramente secondario rispetto alla causa principale. Ma questa benedetta loggia Ungheria c’era o non c’era? È esistita davvero? È ancora operativa? Blaterare di riforma della giustizia senza rispondere a tali domande sembra perfettamente inutile. Alla magistratura l’ardua sentenza. Per cui siamo messi non male ma malissimo. (frank cimini)

  • Il carcere istituzione reietta, saggio dI Valeria Verdolini

    Ci sono addirittura ex magistrati che in servizio lo usarono per acquisire fonti di prova estorcere confessioni a proclamare l’inutilità del carcere a proporre la necessità di superarlo come unica sanzione possibile.
    Quindi bisogna chiedersi come definire il carcere nel terzo millennio. Un contributo rilevante e controcorrente arriva da Valeria Verdolini, sociologa, docente all’Universita’ Bicocca. 247 pagine, 18 euro, Carrocci Editore. Il titolo è “L’istituzione reietta”.
    Per spiegare come arriva a tale definizione, Verdolini afferma che il carcere si presenta come istituzione residuale che svolge una serie di compiti non richiesti dal mandato formale ma ascrivibili a un welfare a basso costo, housing sociale per i senza fissa dimora, centro di accoglienza per i migranti, comunità terapeutica per i tossicodipenfenti, comunità psichiatrica per le fragilità, centro impiego per i disoccupati, residenza sanitaria e di lungodegenza per anziani.
    Si tratta di vulnerabilità che raramente trovano una risposta integrata fuori dalle mura del penitenziario. “Proprio perché contiene, incapacita, raccoglie e gestisce ho scelto l’aggettivo ‘reietta’ – scrive l’autrice – Reietto deriva dal latino reiectus, participio passato di reicere. Il primo significato è respingere rigettare, un’eccezione che comprende le riflessioni sul carcere come discarica sociale, come pattumiera senza speranza”.
    L’istituzione è reietta proprio perché si demanda a essa una serie di funzioni che si sono ritirate o che comunque non presentano risorse sufficienti per gestire la popolazione che ne richiede il sostegno. La funzione di discarica sociale viene assolta solo in parte perché non è risolutiva, non ingloba tutta la sofferenza sociale ne’ tantomeno la marginalità.
    Si potrebbe parlare di funzione vicaria del carcere, ennesima puntata dell’infinita emergenza italiana, iniziata almeno mezzo secolo fa con la magistratura chiamata dalla politica a risolvere la questione della sovversione interna per delega totale. E che dura fino si giorni nostri. Verdolini ricorda il doppio binario pentitismo/carcere durissimo. Un meccanismo che non disinnesca i processi di devianza ma tende ad amplificarli o ad affievolirli solo sulla base di un criterio di opportunità.
    E infatti stiamo a parlare oggi di ergastolo ostativo e delle difficoltà per arginarlo perché grandissima parte della politica e della magistratura in questo unite nella lotta fanno prevalere il bisogno di sicurezza sulla necessità di rispettare i diritti delle persone. Che restano persone portatrici di diritti anche dopo aver preso l’ergastolo e non possono essere inchiodate per sempre a reati commessi moltissimo tempo fa (frank cimini)

  • Modelli 45 e 44 le spine per nuovo procuratore Milano

    Due voti per il Pg di Firenze Marcello Viola, un voto a testa per il procuratore di Bologna Giuseppe Amato e per l’aggiunto di Milano Maurizio Romanelli. Dalla commissione incarichi direttivi arrivano queste tre indicazioni per la nomina del nuovo procuratore di Milano in sostituzione di Francesco Greco andato in pensione a metà novembre per ereditare un ufficio che non sarà facile riorganizzare devastato da una guerra interna e dove da tempo regnano insoddisfazione e confusione senza dimenticare i diversi pm indagati a Brescia.
    In attesa di sapere chi uscirà vincitore dal Csm in questo momento è importante capire cosa potrà dovrà e vorrà fare il neo procuratore.
    Va ricordato che in ogni procura che si rispetti e Milano non può fare certo eccezione una sorta di armadio degli scheletri è costituito dal l’insieme dei fascicoli rubricati a modello 45 senza ipotesi di reato ne’indagati e a modello 44 con reati ipotizzati a carico di ignoti. Si tratta spesso di rubricazikni per svolgere accertamenti senza comunicare nulla ai diretti interessati al fine di guadagnare tempo o di anticamere dell’insabbiamento.
    Il nuovo procuratore andrà a spulciare quei fascicoli o no? Col tempo sapremo. Ma non è certo questo l’unico problema. A Milano l’organizzazione del lavoro la geografia dei dipartimenti e tutto il progetto di Greco ha lasciato strascichi di lamentele e scontentezze che erano sfociate nelle 57 firme su 64 pm di solidarietà a Paolo Storari che rischiava il trasferimento nell’ambito della battaglia interna relativa alla loggia Ungheria e al caso del processo Eni.
    Che fine farà il dipartimento riguardante i reati transnazionali la cui creazione aveva suscitato disaccordi interni all’ufficio fin dall’inizio? Il destino del dipartimento dipende anche da quello del suo responsabile Fabio De Pasquale il procuratore aggiunto indagato a Brescia per omissione in atti d’ufficio che rischia il trasferimento per incompatibilità ambientale insieme al sostituto Sergio Spadaro nel frattempo approdato alla procura europea.
    Sarà il nuovo procuratore a decidere se mantenerlo in piedi o inglobarlo come era in precedenza nel dipartimento dei reati contro la pubblica amministrazione oggi diretto da Romanelli. Poi sarà da vedere chi resta e chi va. L’aggiunto Eugenio Fusco ha chiesto di andare a fare il procuratore a Verona. L’aggiunto Laura Pedio è indagata a Brescia sempre per gli strascichi Eni e Ungheria e rischia di essere trasferita.
    Insomma si prospetta per il nuovo procuratore, probabilmente un “papa straniero” perché Romnnelli tra i tre resta quello con meno chance, un durissimo e delicato lavoro. Tutto ciò nel trentennale di Mani pulite e in una situazione profondamente diversa se non proprio opposta a quella di allora.
    (frank cimini)

  • Ombre rosse no a Bergamin prescritto pesa Il Quirinale

    Nel giorno in cui Sergio Mattarella giura per il suo secondo mandato la Cassazione ribaltando le decisioni dei giudici milanesi nega la prescrizione a Luigi Bergamin uno dei nove rifugiati politici a Parigi per i quali l’Italia ha chiesto l’estradizione. Era stato Mattarella il giorno del rientro di Battisti ad annunciare “e adesso gli altri”, E la Cassazione con una sentenza prettamente politica accogliendo la richiesta della procura decide che la condanna di Bergamin a 16 anni 11 mesi per concorso morale negli omicidi del maresciallo Santoro e dell’agente Campagna non è “scaduta”.
    La dichiarazione di “delinquenza abituale” a carico di Bergamin dell’anno scorso ha influito sulla decisione della Cassazione. Secondo Giovanni Ceola difensore di Bergamin la scelta della Cassazione è di tipo politico e muta l’indirizzo giurisprudenziale. Il legale ipotizza il ricorso alla giustizia europea.
    Non è scontato ma la decisione sulla mancata prescrizione rischia di pesare sulle scelte delle autorità francesi in materia di estradizione. Il caso di Bergamin sarà ridiscusso in udienza a Parigi il prossimo 20 aprile.
    Secondo il provvedimento di delinquenza abituale Bergamin ha dimostrato prontezza anche in Francia a sottrarsi alle misure limitative della libertà personale e potrebbe avvalersi di una rete di persone disponibili a sostenerlo e ad aiutarlo a evitare di scontare la condanna.
    I difensori dei rifugiati italiani in Francia lamentano la mancanza di una soluzione politica che sarebbe dovuta intervenire da tempo per fatti che risalgono a 40 anche 50 anni fa. Di recente rispondendo a una lettera del professor Vasapollo suo interlocutore da tempo che gli aveva sottoposto il problema Papa Francesco si era espresso a favore di una giustizia che non fosse vendetta. Ma pare che non sia proprio aria per andare in tale direzione. Mattarella e il ministro Marta Cartabia sono decisi a ottenere i corpi di persone ormai anziane da esibire come trofei di guerra magari sotto i obiettivi di smartphone in mano a un paio di ministri come era accaduto per Cesare Battisti.
    (frank cimini)

  • Morto a 74 anni l’ex Br Corrado Alunni dissociato dal 1987

    È morto a 74 anni a Varese Corrado Alunni che fece parte delle prime Brigate Rosse per poi aderire a Prima Linea e successivamente militare nelle Formazioni Comuniste Combattenti Nel 1987 si era dissociato dalla lotta armata. Nel 1989 aveva trovato lavoro come archivista all’Enaip di Bergamo.
    Negli anni ‘80 era stato protagonista di una clamorosa evasione dal carcere di San Vittore insieme ad altri detenuti tra i quali Renato Vallanzasca.
    L’ultimo “rapporto” con la giustizia di Alunni risale all’anno scorso perché inserito nell’elenco di una ventina di ex appartenenti a gruppi armati ai quali la magistratura romana prese il Dna nell’ambito dell’ennesimo fascicolo di inchiesta sul caso Moro. Alunni era uscito dalle Br nel 1974 ma la procura della capitale a caccia di misteri inesistenti sospetta ancora che possa aver avuto un ruolo nella strage di via Fani.
    Il pm dell’inchiesta è Eugenio Albamonte di Md lo stesso che ha sequestrato l’archivio del ricercatore Paolo Persichetti sempre alla ricerca di complici a oltre quarant’anni dai fatti.
    (frank cimini)

  • Greco e Davigo s’erano tanto amati e pure armati

    Era assolutamente inimmaginabile fino a non molto tempo fa. Francesco Greco il procuratore di Milano andato in pensione a metà novembre rischia il processo per diffamazione ai danni di Piercamillo Davigo.
    La storia è quella dei verbali dell’avvocato Piero Amara consegnati dal pm Paolo Storari a Davigo all’epoca consigliere del Csm. C’è un passaggio della dichiarazione a verbale di Greco davanti ai pm di Brescia che Davigo non ha proprio digerito.
    “L’uscita dei verbali era nell’interesse di Davigo che non si è preoccupato assolutamente della sorte del procedimento è quando ha lasciato il Csm quei verbali li ha abbandonati. Fatto imbarazzante”.
    Secondo Greco Davigo era interessato a far uscire soprattutto le parole con cui Amara chiamava in causa il magistrato Sebastiano Ardita un tempo suo alleato con il quale aveva successivamente rotto ogni rapporto.
    La procura di Brescia ha chiuso le indagini su Greco e si appresta a chiedere il rinvio a giudizio. Recentemente Greco aveva visto archiviare l’accusa a suo carico per omissione in atti d’ufficio per la ritardata iscrizione al registro degli indagati di Amara che era stata sollecitata da Storari.
    È la storia della famosa loggia Ungheria tirata fuori da Amara sulla quale formalmente indagano diverse procure ma di cui non si è saputo più niente.
    Questo accade nel trentennale di Mani pulite. Si erano tanto amati ì componenti del mitico pool del quarto piano di corso di Porta Vittoria e pure armati per rivoltare l’Italia come un calzino, combattere come “fenomeno” quella corruzione che in realtà c’era anche prima del magico 1992. Quando la magistratura inquirente in testa giusto la procura di Milano aveva fatto finta di non vedere e non sentire perché evidentemente non era ancora ora di attaccare la politica.
    A trent’anni esatti dalla grande farsa, utilizzata dalle toghe per aumentare il loro potere, in procura a Milano si sta vivendo un tutto contro tutti, ufficializzato dal 57 pm su 64 i quali più che votare un documento contro il trasferimento di Storari si schierarono contro l’allora procuratore Francesco Greco. La maggior parte di loro si sentiva penalizzata dal modo in cui il capo aveva organizzato l’ufficio.
    Greco dovrà fronteggiare la diffamazione a carico di Davigo. Davigo e Storari il 3 febbraio si troveranno in udienza preliminare per quei verbali di Amara un tempo ritenuto il testimone della corona per vincere il processo contro i vertici dell’Eni che invece finiva in una sconfitta totale.
    Nei prossimi giorni il Csm sarà a Milano per sentire Storari che rischia il trasferimento per incompatibilità ambientale. Al pari di Fabio De Pasquale il procuratore aggiunto indagato a Brescia insieme al collega Sergio Spadaro nel frattempo approdato alla procura europea. Il prossimo 17 febbraio, anniversario dell’arresto di Mario Chiesa, ci sarà niente da celebrare anche se la procura di Milano continua a godere di ottima stampa. Il Corriere della Sera non smette di scrivere che è stata un baluardo dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura. 30 anni fa i grandi editori italiani sotto schiaffo del pool per altre loro attività appoggiarono Mani pulite il che permise loro di “farla franca” per dirla con Davigo. Insomma la riconoscenza esiste ancora in questo mondo.
    (frank cimini)

  • Steccanella racconta il tribunale compresi “gli indifendibili”

    “Alcuni imputati spesso per ragioni mediatiche sono di fatto considerati indifendibili. Ciò significa che essere il loro avvocato vuol dire non contare quasi nulla perché tutti quelli che incontri magistrati compresi ti ripetono che si è giusto assumere la loro difesa e denunciare l’eventuale lesiine dei loro diritti ma non si può fare molto pena la violenta reazione dell’opinione pubblica”. Gli indifendibili clienti dell’avvocato Steccanella sono Cesare Battisti e Renato Vallanzasca.
    A loro l’avvocato dedica un capitolo del suo ultimo lavoro “La giustizia degli uomini” edito da Mimesis 234 pagine, 18 euro.
    “Tutto ciò che riferirò è realmente accaduto perché la giustizia è amministrata da uomini per definizioni fallibili. Chi preferisce pensare che nei processi venga sempre accertata la verità farà meglio a lasciar perdere questo libro” avverte Steccanella.
    Ma torniamo agli indifendibili il capitolo più interessante a parere di chi scrive queste povere righe. “Il caso Vallanzasca è stato per ne ancora peggiore del caso Battisti perché dopo lo schiaffo subito da un magistrato di sorveglianza ho dovuto rinunciare seppure con amarezza alla sua difesa. Questo giudice scrisse che per concedere la semilibertà a un ultra settantenne dopo 47 anni di galera e responsabile negli ultimi anni soltanto di un tentato furto di mutande in un supermercato occorreva ‘un percorso graduale’ senza considerare le relazioni favorevoli degli esperti del carcere e la disponibilità ad accoglierlo di due comunità di recupero”.
    “Battisti è l’emblema del terrorista mentre Vallanzasca è semplicemente l’embkema del criminale” scrive l’avvocato Steccanella ricordando che Battisti prese parte a quella violentissima fase di lotta sociale armata che per circa 15 anni contrassegnò la storia del nostro paese.
    Dopo la consegna di Battisti da parte della Bolivia in violazione degli accordi stipulati tra Italia e Brasile Steccanella ricorda che è stato impossibile ottenere un documento capace di spiegare la pericolosità del soggetto “in modo da poter impugnarla davanti alle sedi competenti”.
    Una pericolosità che a distanza di oltre 40 anni dai fatti Steccanella definisce assurda. “Anche la semplice richiesta di ottenere cibo compatibile con il proprio stato di salute è sempre risultata difficile” ricorda il legale a proposito del riso in bianco negato a Battisti, “il solo protagonista di quel particolare periodo storico a scontare la pena in condizioni carcerarie speciali come fossimo ancora negli anni ‘70 in piena ‘emergenza terrorismo’, anni di cui peraltro sanno poco o nulla tutti quelli che si stanno occupando di lui ora”.
    (frank cimini)

  • Lettera evento del Papa sui rifugiati di Parigi

    C’è una lettera di Papa Francesco che ha il sapore di un evento in risposta a una missiva consegnata lo scorso dicembre dal professor Luciano Vasapollo contenente un appello a favore degli italiani rifugiati a Parigi e che rischiano l’estradizione per fatti di lotta armata risalenti a 40 anche 50 anni fa,
    Il Pontefice su carta intestata della segreteria di Stato ha fatto pervenire la lettera in cui si riferisce “alla vicenda giudiziaria causa di preoccupazione per diverse persone e per le loro famiglie” auspicando che si possano realizzare “le legittime aspirazioni di ciascuno ispirando nel rispetto della giustizia gesti concreti di reciproca comprensione e riconciliazione”.
    Si tratta di parole importanti anche ricordando l’intervento del Papa contro l’ergastolo e quanto lo stesso Francesco aveva sostenuto in udienza generale sottolineando che non ci può essere condanna senza una finestra di speranza, invocando il rifiuto di una giustizia vendicativa.
    Il Papa rispondendo al professor Vasapollo, vicepresidente dell’Associazione Padre Virginio Rotondi per il giornalismo di pace, ovviamente non entra nel merito della vicenda giudiziaria relativa ai rifugiati politici in Francia.
    La risposta del Papa costituisce senza dubbio un evento inedito anche in relazione a fatti del passato che si richiamano allo stesso tema, a cominciare da quando nel 2005 Giovanni Paolo secondo davanti alle camere riunite chiese un provvedimento di clemenza per i detenuti. Col risultato di essere lungamente applaudito ma senza che i politici poi assumessero iniziative concrete.
    Della lettera del Papa resa nota dal professor Vasapollo non ha parlato nessun giornale. Le parole del Pontefice da un lato potrebbero rivelarsi utili per la sorte dei rifugiati soprattutto se non venissero ignorate dal ministro Cartabia e dal presidente Mattarella entrambi protagonisti nella vicenda delle richieste di estradizione inoltrate alla Francia. Dall’altro lato va considerato che la situazione generale in riferimento a possibili provvedimenti di clemenza appare molto peggiorata sia rispetto al 2005 sia rispetto agli anni precedenti.
    Replicando a una persona con la quale si confronta da tempo Papa Bergoglio ha lanciato una sorta di sasso nello stagno auspicando una soluzione. Per la prima volta un Pontefice accenna alla storia della sovversione interna degli anni ‘70. I toni e i contenuti tanto per fare un altro esempio sono molto diversi da quando Paolo Sesto chiedendo alle Br di rilasciare Moro “senza condizioni” chiuse in pratica il caso decretando la morte dell’ostaggio (frank cimini)

  • G8, battaglia su estradizione Vecchi davanti a corte Ue

    La corte di giustizia europea del Lussemburgo deciderà entro l’estate in merito alla consegna all’Italia da parte della Francia di Vincenzo Vecchi condannato per devastazione e saccheggio in relazione ai fatti del G8 di Genova del 2001. La corte deve rispondere ai chiarimenti chiesti dalla Cassazione francese in merito alle differenze tra i codici dei due paesi.
    Oggi davanti alla terza sezione della Corte di giustizia presieduta dalla estone Küllike Jürimäe hanno partecipato alla discussione
    gli avvocati di Vincenzo Vecchi, Paul Mathonnet e Amedeo Barletta, i rappresentanti della Commissione UE e i rappresentanti del Governo francese.
    La Corte é apparsa molto attenta ponendo una serie di questioni agli avvocati intervenuti nel corso di una discussione durata oltre due ore.
    Il tema centrale riguarda l’applicazione del principio della doppia punubilitá in relazione al mandato di arresto europeo.
    La difesa di Vecchi ha sostenuto una interpretazione tesa a valorizzare la differenza sostanziale esistente tra il reato di devastazione e saccheggio previsto dalla disciplina italiana e le condotte previste dal codice penale francese, che non tutelano a dispetto della disciplina italiana l’ordine pubblico.
    Il Governo francese ha di contro difeso una interpretazione sostanzialista della decisione quadro a tutela della effettivitá dello strumento di cooperazione giudiziaria mentre la Commissione europea ha fatto emergere maggiori aperture verso una interpretazione del principio che possa valorizzare le differenze tra i sistemi giudiziari nazionali, consentendo anche la non esecuzione dei mandati di arresto o la esecuzione parziale in presenza di divergenze sostanziali tra le ipotesi penali dei diversi Stati membri.
    E’ intervenuto anche l’Avvocato generale della Corte di giustizia Rantos che ha preannunciato le proprie conclusioni scritte per il prossimo 31 marzo.
    La decisione della corte del Lussemburgo è attesa nel giro di tre o quattro mesi. Poi gli atti torneranno alla Cassazione francese dove aveva presentato ricorso la procura di Angers contro la decisione della corte locale.
    Vincenzo Vecchi vive e lavora in Francia da diversi anni. Era stato arrestato nel 2019 poi rimesso in libertà in attesa delle decisioni della giustizia francese. Sia Roma sia Parigi sollecitano la consegna del militante no-global all’Italia dove dovrebbe scontare un residuo di pena di un anno e 2 mesi. La condanna per gli scontri relativi alla manifestazione antifascista di Milano infatti era stata considerata già scontata. (frank cimini)

  • G8, Roma e Parigi pressano Corte Ue: Vecchi in Italia

    Il governo italiano e quello francese insieme alla procura di Angers pressano la corte di giustizia europea del Lussemburgo al fine di ottenere la consegna alle autorità del nostro paese di Vincenzo Vecchi condannato per devastazione e saccheggio in relazione ai fatti del G8 di Genova del 2001. Vanno in questa direzione le memorie depositate presso la corte Ue che è impegnata nell’udienza dì giovedì 20 gennaio al fine di rispondere alla Cassazione francese.
    La Cassazione d’Oltralpe si è rivolta alla Ue per avere spiegazioni in relazione all’esecuzione del mandato di arresto europeo perché il reato di devastazione e saccheggio non è riconosciuto dal codice francese. Secondo la procura di Angers e i governi dei due paesi invece la condizione della doppia incriminazione è ugualmente soddisfatta e il mandato di arresto va eseguito dal momento che sarebbe pacifico secondo la condanna che Vincenzo Vecchi alcuni dei fatti contestati li ha commessi.
    L’iter giudiziario è ancora lungo. Alla prima udienza interverranno le parti in causa. Vecchi ha come difensori Paul Mathonnet e Amedeo Barletta. Poi i giudici rivolgeranno domande ai legali. Tra alcune settimane ci sarà l’intervento dell’Avvocato generalepresso la Corte di giustizia europea che emetterà la sentenza non prima di tre o quattro mesi. Poi tutto tornerà nelle mani della Cassaziond francese.
    Per il governo italiano il rifiuto opposto dalla corte di Angers alla consegna di Vecchi “equivale a garantire all’interessato l’impunita’ per la totalità dei fatti anche se la la maggior parte di essi non è contestato che per la maggior parte di essi la consegna sarebbe stata possibile”.
    I due governi e il pm di Angers vogliono evitare la verifica delle imputazioni temendo che in questo modo salti il sistema della cooperazione giudiziaria. Si muovono in una logica repressiva con una visione di giustizia sostanziale.
    (frank cimini)

  • Ombre Rosse, giudici francesi senza la fretta di Cartabia

    I giudici francesi che devono decidere sull’estradizione d nove rifugiati politici italiani a Parigi non hanno la stessa fretta del ministro Marta Cartabia e del suo mentore Sergio Mattarella. La corte infatti ha spacchettato le varie posizioni fissando nuove udienze tra fine marzo e aprile.
    Le toghe d’Oltralpe non sono frenetiche come vorrebbe il governo italiano anche perché tecnicamente i dossier arrivati a Parigi non sono completi nonostante di recente il ministro Caetabia abbia invitato le varie procure a sbrigarsi.
    Enzo Calvitti è stato convocato per il 23 marzo lo stesso giorno in cui è fissata l’udienza per Giorgio Pietrostefani dal momento che il 5 gennaio scorso all’ex esponente di Lotta Continua era stato accordato un rinvio per ragioni di salute. Pietrostefani si trova in ospedale, risulta inamovibile e intrasportabile, ma il governo di Roma insiste per la sua consegna nonostante siano passati giusto 50 anni dall’omicidio Calabresi.
    Il 30 marzo toccherà a Giovanni Alimonti e Narciso Manenti. Il 6 aprile le udienze per Roberta Cappelli e Marina Petrella. Il 13 aprile Sergio Tornaghi e Raffaele Ventura. Il 20 aprile Luigi Bergamin e Maurizio Di Marzio. Per Bergamin a febbraio potrebbe arrivare la decisione della Cassazione sulla prescrizione.
    Insomma i tempi si allungano e i giornali italiani di destra scrivono della loro delusione e insoddisfazione. Insomma ribadiscono di essere assetati di sangue. Hanno bisogno di corpi da esibire come trofei di guerra. E non solo a destra. Anzi. Il padre dell’operazione Ombre Rosse resta Mattarella che il giorno del rientro di Battisti annunciò “e adesso gli altri”.
    C’è chi dalla Francia fa osservare che non è scontato che i giudici decidano di andare dietro a Macron il quale avrebbe agito anche per dimostrare che a livello di sicurezza lui non è secondo a nessuno. Ma i tempi lunghi della decisione sulle estradizioni potrebbero portare anche al dopo Macron. Sperando ovviamente che non arrivi all’Eliseo uno ancora più forcaiolo (frank cimini)

  • Moro per sempre, toghe rosse a caccia di fantasmi

    Parliamo di toghe rosse. Ma qui Silvio Berlusconi c’entra niente. Sono passati giusto sette mesi dal giorno in cui si trova sotto sequestro l’archivio di Paolo Persichetti ricercatore storico che si occupa della vicenda degli anni ‘70 è in particolare del caso Moro. L’inchiesta è coordinata dal pm di Roma Eugenio Albamonte noto esponente di Magistratura Democratica e l’atto relativo alla perquisizione dell’8 giugno scorso si fregiava addirittura della firmato dell’allora procuratore capo Michele Prestipino eletto anche con i voti di Md e poi detronizzato perché la sua nomina era stata dichiarata irregolare dal Tar e dal Consiglio di Stato.
    Il capo di incolpazione è cambiato già cinque volte su interventi sia del Riesame sia del gip, ma finora nessun giudice ha avuto il coraggio di dissequestrare.
    L’accusa di associazione sovversiva finalizzata al terrorismo era caduta già a luglio scorso. È rimasta quella del favoreggiamento di latitanti, Alvaro Lojacono e Alessio Casimirri, entrambi da tempo condannati all’ergastolo per la strage di via Fani.
    Persichetti aveva mandato per posta elettronica a Lojacono atti della commissione parlamentare sul caso Moro che il presidente Giuseppe Fioroni aveva etichettato come riservati nonostante fossero destinati a distanza di due giorni alla pubblicazione con la relazione.
    Fioroni è stato sentito come testimone a carico di Persichetti. Un gioco di sponda tra procura procura generale che aveva riaperto la caccia ai misteri inesistenti del caso Moro e commissione parlamentare che non è stata rinnovata nell’attuale legislatura ma che continua a incombere sulla vita politica e giudiziaria del paese.
    Il 17 dicembre scorso il gip Valerio Savio anche lui aderente a Md si riservava al termine dell’udienza di decidere sulla richiesta di dissequestro dell’archivio presentata dall’avvocato Francesco Romeo. Con ogni probabilità si arriverà al 14 gennaio con le carte ancora sotto sequestro.
    A 43 anni dai fatti il pm Albamonte, lo stesso che ha chiesto e ottenuto di prendere il Dna dei condannati per il caso Moro, è a caccia di complici non individuati di improbabili mandanti esterni. I sei processi già celebrati dai quali emerge in modo chiaro che dietro le Brigate Rosse c’erano solo le Brigate Rosse non contano nulla. La ricerca storica indipendente viene criminalizzata paradossalmente per essere in linea con gli esiti processuali. Il sequestro dell’archivio ha provocato lo slittamento dell’uscita del secondo volume del libro “Dalle fabbriche alla campagna di primavera” la storia delle Br di cui Persichetti è coautore con Elisa Santalena e Marco Clementi. Una sorta di censura preventiva che evidentemente è parte integrante di questa mega operazione di propaganda politica da parte di una corrente della magistratura.
    La mamma dei dietrologi come quella dei cretini è sempre incinta. Ma siamo nel paese in cui è il Presidente della Repubbluca oltre che capo del Csm a gridare ogni 16 marzo ogni 9 maggio: “Bisogna ricercare la verità”. Lo stesso Sergio Mattarella che il giorno del rientro di Cesare Battisti ripreso dagli smartphone di due ministri da lui nominati annunciò “E adesso gli altri”. Così diede il via al l’operazione Ombre Rosse arpionando una decina di ormai anziani residenti a Parigi da decenni responsabili di fatti di lotta armata che risalgono a 40 anche 50 anni fa. E tra i dietrologi non manca chi si aspetta dai parigini “la verità su Moro”. La fissazione dicono in Sicilia è peggio della malattia (frank cimini)

  • Pietrostefani in ospedale inamovibile Cartabia insiste

    Un’udienza per dirimere una questione relativa a un fatto avvenuto ci quant’anni fa è un evento più unico che raro. Succede che alle due del pomeriggio in punto al palazzo di giustizia di Parigi i giudici sono chiamati a decidere sull’estradizione di Giorgio Pietrostefani condannato a 22 anni di reclusione perché ritenuto mandante insieme a Adriano Sofri dell’omicidio del commissario Luigi Calabresi, il 17 maggio del 1972.
    Pietrostefani non è presente in aula per motivi di forza maggiore. È da tempo in ospedale, inamovibile, intrasportabile, come spiega l’avvocato Irene Terrel che lo difende al pari di altri rifugiati italiani a Parigi arrestati il 28 aprile dell’anno scorso e poi tornati liberi in attesa della decisione sull’estradizione.
    Siamo all’ennesimo rinvio perché l’Italia non desiste e non demorde. Il ministro della Giustizia Marta Cartabia è impegnata al massimo in questa operazione politico-giudiziaria ispirata dal colle più alto perché il giorno del rientro di Cesare Battisti il presidente della Repubblica Sergio Mattarella disse: “E adesso gli altri”.
    La legge francese, a differenza di quella italiana, non ammette la contumacia. Il diretto interessato, “il prevenuto” non può essere assente dall’udienza. Quindi è impossibile procedere per esaminare il caso di Giorgio Pietrostefani e i giudici decidono di rinviare tutto al prossimo 23 marzo.
    Mercoledì prossimo 12 gennaio toccherà agli altri rifugiati che rischiano l’estradizione. Persone condannate per fatti di lotta armata avvenuti quaranta e più anni fa, approdati in Francia dove hanno ricostruito la loro vita, sposandosi, facendo figli, lavorando. Insomma una vita da normali cittadini ospiti di un paese che li ha accolti anche in omaggio alla dottrina Mitterand.
    Fino all’operazione denominata “Ombre rosse” partita su richiesta del governo italiano, eseguita dai francesi, utilizzata da Macron per fare concorrenza agli avversari di destra e dimostrare che a livello di politiche securitarie lui non è secondo a nessuno.
    La ministra Cartabia che proclama di battersi per meno carcere e meno processi penali ne ha fatto una questione priorItaria. La banda di anziani che in pratica mezzo secolo fa partecipò al più serio tentativo di rivoluzione nel cuore dell’Occidente deve pagare fino in fondo il suo conto con la giustizia. L’avvocato Irene Terrel ha definito più volte “assurda” la situazione a distanza di tanto troppo tempo dai fatti ribadendo che la soluzione del problema spetta alla politica e non ai giudici.
    L’Italia non cambia idea. Del resto allora delegò interamente ai giudici la questione della sovversione interna dando alle toghe un potere enorme che sarà utilizzato anni dopo proprio contro i politici che a loro si erano affidati. Adesso il nostro governo si affida ai giudici francesi con l’ultima parola che spettera’ alla politica. Non si sa se a Macron o a un suo successore perché i tempi dei procedimenti estradizionali sono molto lunghi e i dossier arrivati dall’Italia sono stati giudicati incompleti. E Cartabia ha sollecitato le procure a sbrigarsi
    (frank cimini)

  • La mitica procura allo sbando ma Csm non ha fretta

    Il Consiglio superiore della magistratura non sembra proprio avere fretta di nominare il nuovo procuratore capo di Milano dopo l’uscita per pensionamento di Francesco Greco avvenuta a metà del novembre scorso. Ci vorranno settimane se non addirittura mesi. Intanto la mitica procura che fu di Mani pulite continua a funzionare con l’organizzazione che le aveva dato Greco generando con il passare del tempo insoddisfazioni e incertezze. Una situazione simboleggiata poi dai 57 pubblici ministeri su 64 che votarono contro il trasferimento di Paolo Storari chiesto dal pm della Cassazione in seguito alla vicenda dei verbali di Amara consegnati a Davigo. Fu un voto che andava al di là dell’episodio specifico e che suonava come la generale sfiducia dei sostituti per il capo della procura, avversario di Storari nell’intervista vicenda Eni.
    Attualmente c’è un procuratore della Repubnlica facente funzione Riccardo Targetti che andrà in pensione nel prossimo mese di aprile a dimostrazione ulteriore del quadro estremamente fluido dell’ufficio. Il Csm si sarebbe “tranquillizzato” dopo aver risolto il caso della procura di Rona con la nomina di Lo Voi al posto di Prestipino. Era considerato il caso più spinoso dopo che TAR e Consiglio di Stato avevano deciso per l’irregolarità della nomina di Prestipino accogliendo il ricorso del Pg di Firenze Marcello Viola.
    Una vittoria che a Viola non ha portaro bene perché la sua candidatura a capo della procura di Roma è stata bocciata per la seconda volta e a vantaggio di Lo Voi. A viola insomna continuano a nuocere i ricami di chiacchiere intorno alla famosa riunione dell’hotel Champagne con i politici nonostante la sua conclamata estraneità alle operazioni sottobanco.
    Al punto che Viola non sarebbe messo bene nemmeno per diventare capo della procura di Milano e sarebbe costretto a puntare su quella di Palermo. Viola sarebbe considerato eccessivamente discontinuo per una procura ritenuta territorio di Md dopo le gestioni di Bruti Liberati e Greco. La lotta vede in pole position il procuratore di La Spezia Antonio Patrono e quello di Bologna Giuseppe Amato. Sarebbe in vantaggio a livello di titoli Amato perché proveniente da una procura sede di distrettuale antimafia e antiterrorismo. Tra i candidati c’è anche il procuratore aggiunto di Milano Maurizio Romanelli ma stavolta la scelta sembra matura a favore del cosiddetto “papa straniero”.
    Ma ci vorrà ancora almeno un po’ di tempo. A Milano restano i problemi di diversi pm indagati a Brescia. Il 3 febbraio ci sarà l’udienza preliminare per Storari e Davigo. La procura di Brescia deve ancora decidere sulle posizioni di Fabio De Pasquale Sergio Spadaro e Laura Pedio in relazione sempre alla vicenda Eni. L’ufficio gip invece deve valutare la richiesta di archiviazione per Francesco Greco (frank Cimini)

  • G8, il 20 gennaio il caso Vincenzo Vecchi alla corte Ue

    È fissata al prossimo 20 gennaio l’udienza davanti alla corte di giustizia europea del Lussemburgo in cui si discuterà della consegna all’Italia da parte della Francia di Vincenzo Vecchi condannato per devastazione e saccheggio per fatti relativi alle manifestazioni del G8 di Genova e a un corteo antifascista a Milano. A investire della questione la corte del Lussemburgo era stata la Cassazione francese perché il reato per il quale Vecchi era stato condannato non fa parte del codice d’Oltralpe.
    Si tratta di una complicata questione di diritto relativa al principio della doppia incriminazione, delle modalità di esecuzione del mandato di arresto europeo e della proporzionalità della pena.
    La corte di Appello di Angers non aveva riconosciuto le condanne per devastazione e saccheggio ma solo le condanne per l’aggressione a un fotografo e la detenzione di una bottiglia molotov. Secondo la corte Vecchi dovrebbe scontare la pena di 1 anno, 2 mesi e 23 giorni. In Italia Vecchi era stato condannato a oltre 11 anni per il G8 e a 4 anni per la manifestazione di Milano. La condanna per il fatto di Milano non c’è più perché è stata considerata già scontata. Quella per i fatti di Genova deve fare i conti con l’assenza del reato di devastazione saccheggio in Francia.
    Secondo l’avvocato difensore Amedeo Barletta “non sussiste la condizione della doppia incriminazione. Nel caso di specie va valutata la punibilità nell’ordinamento francese della complessa congerie di fatti. Gli episodi riconducibili a Vecchi sono assolutamente marginali rispetto a quelli compresi nell’imputazione. Va tenuto presente che se il mandato di arresto era proporzionato al momento della sua adozione alla stregua della normativa italiana diviene invece grandemente sproporzionato nel momento della sua esecuzione sulla base della disciplina francese vigente”.
    Secondo l’avvocato Barletta “la giustizia francese si troverebbe a concedere l’estradizione per una condanna che supera in maniera assai rilevante il massimo della pena combinabile in Francia in violazione dei diritti fondamentali della Ue”.
    Vecchi era stato arrestato l’8 agosto del 2019 a Rochefort en terredove lavorava da molti anni ed era tornato in libertà il 15 novembre successivo in attesa della decisione della magistratura francese. Va ricordato che la corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato tre volte l’Italia per l’operato della polizia di Genova nel 2001 equiparandone la violenza a atti di tortura.
    In Italia i funzionari di polizia condannati sono stati tutti promossi (frank cimini)

  • Moro per sempre… codici usati come proiettili

    La procura di Roma non demorde cambiando di nuovo l’accusa nella vicenda relativa al sequestro dell’archivio informatico di Paolo Persichetti. Siamo approdati al quinto capo di incolpazione dall’8 giugno il giorno del sequestro. Il pm Eugenio Albamonte di Magistratura Democratica torna a contestare il favoreggiamento di latitanti, ipotesi già bocciata lo scorso 2 luglio in sede di riesame insieme all’associazione sovversiva finalizzata al terrorismo.
    Il pm ha presentato una richiesta di incidente probatorio sulla quale dovrà decidere il giudice delle indagini preliminari che rigettando analoga richiesta da parte della difesa aveva bacchettato la procura osservando che non c’era un capo di incolpazione minimamente delineato.
    Siamo ai codici, penale e di procedura penale, utilizzati come proiettili contro la ricerca storica indipendente e lo stato di diritto nel silenzio complice di quasi tutti i media e della politica.
    Sembra una storia senza fine. L’avvocato Francesco Romeo difensore di Persichetti replica al pm accusandolo di sequestrare per cercare il reato e non come dovrebbe essere di sequestrare perché c’è un reato. Il legale insiste anche sull’impossibilità di contestare il favoreggiamento di latitanti in relazione a fatti per i quali Alessio Casimirri e Alvaro Lojacono sono già stati condannati all’ergastolo tra i responsabili della strage di via Fani e del sequestro dell’onorevole Aldo Moro.
    Persichetti avrebbe trasmesso per posta elettronica a Casimirri e Lojacono atti della commissione parlamentare di inchiesta sul caso Moro. Questi documenti erano stati etichettati come riservati da Giuseppe Fioroni presidente della commissione nonostante fossero destinati alla pubblicazione come parte della relazione a distanza di soli due giorni.
    Nell’indagine avviata dal pm Albamonte, sotto il coordinamento del procuratore capo Michele Prestipino, Fioroni è stato sentito come testimone di accusa. Tutta questa storia è frutto di un gioco di sponda tra procura, procura generale che aveva riaperto la caccia ai misteri inesistenti del caso Moro e la commissione parlamentare non rinnovata in questa legislatura ma che continua a far sentire il suo peso.
    Il problema è politico. Sotto inchiesta in realtà c’è la ricerca storica indipendente e il lavoro della procura con il sequestro dell’archivio impedisce di fatto la pubblicazione del secondo volume della storia delle Brigate Rosse “Dalle fabbriche alla campagna di primavera” di cui Persichetti è coautore insieme a Marco Clementi e Elisa Santalena. Il 17 dicembre è fissata l’udienza in cui il gip dovrà decidere sull’istanza di dissequestro. Va ricordata la recente circolare del Pg di Trento Giovanni Ilarda mandata anche al Pg della Cassazione in cui si chiedono criteri e pratiche uniformi a livello nazionale nel senso che in caso di sequestro di contenuti di pc e cellulari gli inquirenti una volta estratta la cosiddetta copia forense devono restituire tutto. A Persichetti non è stato ridato indietro niente dopo aver preso persino la certificazione medica del figlio diversamente abile.
    (frank cimini)

  • “Mani pulite per chi non c’era” Leggete ma sappiate che…

    “Tangentopoli per chi non c’era”, 174 pagine a 15 euro, editore Nutrimenti, scritto dal bravo cronista de Il Giorno Mario Consani. Leggetelo ma sappiate che… La corruzione c’era anche prima del 1992 quando le procure, in testa quella di Milano (e c’era già Santo Francesco Saverio Borrelli) facevano finta di non vederla. Per accorgersene nel mitico 1992 con una politica indebolita alla quale le toghe saltarono al collo per riscuotere il credito acquisito ai tempi della madre di tutte le emergenze quando iniziò l’opera di ridimensionamento della Costituzione a vantaggio di una Carta materiale adeguata alle leggi varate contro la sovversione interna.
    Fu uno scontro tra le classi dirigenti del paese, in cui la politica scelse di suicidarsi abolendo l’immunità parlamentare sotto la forma dell’autorizzazione a procedere e consegnandosi ai magistrati ai quali anni prima aveva dato troppo potere delegando loro completamente “la lotta al terrorismo”.
    Sappiate che Mani pulite godette di buona stampa, ottima direi, perché gli editori dei giornaloni trovandosi sotto lo schiaffo del mitico pool appoggiarono l’inchiesta per farla franca, usando l’espressione cara a Pierbirillo Davigo. Fu un do ut des un accordo corruttivi nel nome della lotta alla corruzione.
    I grandi imprenditori italiani prima si misero d’accordo con i politici per fare i soldi e poi con i giudici per non andare in galera. I poteri forti in primis quello economico finanziario ne uscirono indenni. Fiat, Mediobanca tanto per non fare nomi. “Nel caso il dottor Di Pietro decidesse di fare un giro dalle parti di via Filodramnatici io lo accompagnerei volentieri” disse l’avvocato Giuliano Spazzali al tele processo Cusani. Di Pietro quel giro ovviamente non lo fece.
    L’unico grande imprenditore investigato a fondo ebbe guai perché costretto a fare politica direttamente a causa dei debiti delle sue aziende. Lui che all’inizio dimostrò di averci capito molto poco appoggiando l’inchiesta che era “il nuovo” come lui del resto. E dopo 30 anni è ancora lì ma sempre e solo per un motivo, tutelare la sua roba.
    Pure la procura di Milano è ancora lì ma come un ufficio allo sbando dilaniato da guerre interne e da processi persi dopo aver puntato le proprie carte su testimoni di accusa improbabili. In attesa di un “Papa straniero” e del trentesimo anniversario di una grande farsa dove l’inchiesta che avrebbe dovuto rivoltare il paese come un calzino ebbe come uomo simbolo un magistrato che viveva a scrocco degli inquisiti del suo ufficio. Prosciolto a Brescia sulla base di un comunicato dell’Anm che per la prima volta nella sua storia si schierò con l’indagato. Ovviamente fu anche l’ultima. (frank cimini)

  • Innocenti in galera, il libro nero di Stefano Zurlo

    “La lettura di questo libro di Stefano Zurlo dovrebbe essere resa obbligatoria per l’accesso agli esami di magistratura perché nulla quanto una sequenza di errori funesti avverte i giudici sui pericoli del potere” scrive l’ex pm Carlo Nordio nella prefazione di “Il libro nero delle ingiuste detenzioni, edizioni Baldini+Castoldi, 191 pagine, 18 euro. Nordio aggiunge che il lavoro di Zurlo, cronista del Giornale, “dovrebbe sempre stare accanto ai codici sullo scranno del giudice naturalmente a maggior ragione sul tavolo dei pubblici ministeri”.
    Dal 1991 al 2020 i casi di innocenti in galera sono stati 29659 in media poco più di 998 l’anno. Il tutto per una spesa gigantesca da parte dello Stato per risarcimenti, oltre 869 milioni di euro. E per spiegare “la fragilità del nostro apparato” Zurlo racconta storie di prigioni di pochi giorni o di molti anni, ambientate al Nord come al Sud con protagonisti famosi o illustri, sconosciuti, trasversali alle classi sociali: Jonella Ligresti, Edgardo Mauricio Affe’, Antonio P., Diego Olivieri, Pietro Paolo Melis, Paolo Baraldo, Ciccio Addeo, Angelo Massaro, Giuseppe Gulotta.
    Circa trentamila persone sono finite in cella e poi sono state assolte. Sono i numeri di una fisiologia in un sistema malato. Inutile parlare di patologia per mettersi a posto con la coscienza.
    Le ingiuste detenzioni macchiano come una brutta malattia la quotidianità della giustizia. Giuseppe Gullotta ha passato in galera 21 anni prima che saltasse fuori la verità: non c’entrava niente con l’assassinio di due carabinieri. La confessione gli era stata estorta con una sequenza agghiacciante di vessazioni, umiliazioni e torture. In Italia si, è vero si tortura e va ricordato che non esiste una legge adeguata per sanzionare la tortura come reato tipico del pubblico ufficiale.
    Pietro Paolo Melis è stato in galera 18 anni e mezzo per sequestro di persona sulla base di una intercettazione coperta dal rumore di fondo, la voce che si sentiva non era la sua. Angelo Massaro è stato scambiato per un criminale e confinato in prigione per 21 anni a causa di una frase captata dalle cimici in cui accennava alla moglie che non avrebbe accompagnato il figlioletto all’asilo perché impegnato nel trasporto di qualcosa di pesante. Una pala meccanica. Per gli inquirenti invece il carico sarebbe stato costituito da un morto ammazzato.
    Jonella Ligresti: “Sono stati mesi anni di sofferenze terribili. Una condanna in primo grado per falso in bilancio e aggiotaggio informativo. Poi gli atti passarono da Torino a Milano. Assolta dopo otto anni. Sbattuta in carcere per una ragione che non sono mai riuscita a capire. In carcere il mio frigo personale era il bidet l’ambiente più fresco per conservare gli alimenti perché scende l’acqua fredda”.
    La figlia di Ligresti chiederà l’indennizzo per ingiusta detenzione, ma saranno briciole spiega rispetto a quello che ha sofferto.
    “Nella mia Venezia prima di irrogare una grave condanna – ricorda Nordio – i giudici venivano ammoniti con una frase rimasta celebre, ‘Ricordatevi del povero fornaretto’ – conclude Nordio – Si trattava di un salutare avvertimento a rievocare in scienza e coscienza il caso di un garzone giustiziato e poi trovato innocente”.
    (frank cimini)

  • L’addio di Greco alla mitica procura, storia Amara

    Domani davanti all’aula magna del triplice resistere di Borrelli “come sulla linea del Piave” il procuratore Francesco Greco desiste con il brindisi di addio per andare in pensione nel momento più difficile della storia della procura che fu di Mani pulite e nella consapevolezza che stavolta con ogni probabilità “passerà lo straniero”.
    Per la prima volta da tempo immemore il nuovo procuratore arriverà da fuori Milano. Non sarà un magistrato interno al palazzo costruito dal Puacentini. Il cosiddetto “Papa straniero”. Greco lascia dopo aver visto 57 magistrati del suo ufficio rivoltarsi contro di lui dando solidarietà a Paolo Storari e di fatto impedendone il trasferimento dopo che aveva consegnato i verbali di interrogatorio dell’avvocato Piero Amara all’amico Piercamillo Davigo membro del Csm voglioso di vendetta nei confronti dell’ex alleato Ardita.
    Una storia davvero Amara, amarissima, e che non fa benissimo come nello spot del famoso liquore. Mezza procura è indagata a Brescia e serve a poco che per il procuratore in uscita per quiescenza sia stata chiesta l’archiviazione in relazione alla tardiva iscrizione nel registro degli indagati delle persone chiamate in causa da Amara. Loggia Ungheria. Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro i pm del processo Eni finito con una raffica di assoluzioni rischiano il rinvio a giudizio. Così pure l’aggiunto Laura Pedio. Greco e Davigo sono alle denunce reciproche.
    Ma al di là dei risvolti penali c’è una procura da tempo allo sbando dove il procuratore per il modo in cui aveva organizzato l’ufficio aveva concentrato su di de critiche lamentele e proteste. Che sono diventate di pubblico dominio con la fine del processo Eni quando Storari scrisse in risposta a Greco un messaggio molto chiaro: “Francesco non prendiamoci in giro”.
    L’ex mente finanziaria del pool Mani pulite ha avuto un fine carriera senza gloria. E mentre si avvicina a grandi passi il trentesimo anniversario del terremoto politico giudiziario sarebbe meglio per tutti chiedersi se pure quella fu vera gloria. Una ragione ci sarà se allora arrestarono a destra e a manca per rivoltare l’Italia come un calzino e ora si arrestano tra loro. La corruzione c’era anche prima del 1992 e le procure in testa Milano avevano fatto finta di non vederla. Poi improvvisamente la scoprirono perché la politica si era indebolita al punto da poter essere aggredita per riscuotere il credito acquisito dai magistrati ai tempi della madre di tutte le emergenze. Quando Francesco Greco era stato un giovane magistrato rivoluzionario militando in una pattuglia minoritaria ma combattiva che dall’interno di Md si opponeva alle leggi e alle pratiche dell’emergenza. Una emergenza che non è mai finita diventando prassi normale di governo. E con Francesco Greco ormai uomo di potere. Si nasce incendiari e si muore pompieri. Ma per fortuna non vale per tutti. Per tanti si, purtroppo.
    (frank cimini)

  • Steccanella: decreto per non restare beceri e vendicativi

    Il consiglio dei ministri ha approvato il decreto legislativo che recepisce la direttiva Ue 343/2016 sulla presunzione d’innocenza e che aveva già ricevuto il parere positivo delle commissioni Giustizia di Camera e Senato e del CSM (con la sola opposizione dei consiglieri Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita).
    Molto critico Il Fatto Quotidiano che ne dà notizia sotto la voce “Giustizia e impunità”, e parla di “bavaglio a PM e forze dell’ordine”.
    Sotto accusa l’articolo 3 che prevede che: “Il procuratore della Repubblica mantiene personalmente i rapporti con gli organi di informazione esclusivamente tramite comunicati ufficiali oppure, nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, tramite conferenze stampa“, e più in generale, laddove si stabilisce che: “la diffusione di informazioni sui procedimenti penali è consentita solo quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre rilevanti ragioni di interesse pubblico” e che tali informazioni debbano essere fornite: “in modo da chiarire la fase in cui il procedimento pende e da assicurare, in ogni caso, il diritto della persona sottoposta a indagini e dell’imputato a non essere indicati come colpevoli fino a quando la colpevolezza non è stata accertata“.
    Viene anche criticata l’aggiunta, rispetto alla bozza di agosto, in base alla quale: “è fatto divieto di assegnare ai procedimenti pendenti denominazioni lesive della presunzione di innocenza” nonché la previsione di cui all’articolo 2 che fa divieto “alle autorità pubbliche di indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini o l’imputato fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili”.
    Si stigmatizza il fatto che eventuali violazioni comportino “l’obbligo di rettifica della dichiarazione resa con le medesime modalità” su richiesta dell’interessato, pena, in caso contrario, sanzioni disciplinari e diritto al risarcimento del danno e facoltà di rivolgersi al giudice civile per ottenere la pubblicazione con provvedimento d’urgenza.
    Sotto accusa anche il nuovo articolo 115-bis che stabilisce che: “Nei provvedimenti diversi da quelli volti alla decisione in merito alla responsabilità penale dell’imputato la persona sottoposta a indagini o l’imputato non possono essere indicati come colpevoli fino a quando la colpevolezza non è stata accertata”, e che: “nei provvedimenti che presuppongono la valutazione di prove, elementi di prova o indizi di colpevolezza l’autorità giudiziaria limita i riferimenti alla colpevolezza della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato alle sole indicazioni necessarie a soddisfare i presupposti, i requisiti e le altre condizioni richieste dalla legge per l’adozione del provvedimento”.
    Parrebbero semplici accortezze per contrastare un diffuso malvezzo imperante da anni in Italia, dove è sufficiente un avviso di garanzia per finire nel tritacarne mediatico come colpevoli acclarati e ci si è abituati a leggere provvedimenti giudiziari cautelari, e quindi per definizione di natura provvisoria, che abusano di aggettivazioni quali “spregiudicato”, “incallito” et similia all’indomani di ogni arresto.
    Peraltro, come si ama sempre dire quando si tratta di imporre pesanti sacrifici economici a chi fatica ad arrivare a fine mese, “ce lo chiede l’Europa”, per cui non si capisce quale sarebbe “l’impunità” cui fa riferimento il Fatto, né si ritiene che Forze dell’ordine e ogni singolo PM di qualsiasi procura italiana debbano necessariamente intrattenere continui interscambi con i giornalisti fuori dalla loro porta, mentre sono impegnati in indagini delicate.
    Si è molto criticato un noto PM milanese che dopo essere andato in pensione ha recentemente dato alle stampe un’autobiografia, però quel PM, che pure è stato impegnato per anni in indagini di notevole risonanza mediatica, si era sempre ben guardato dall’utilizzare la stampa come cassa di risonanza alle proprie indagini.
    In un paese civile, gli inquirenti lavorano nel silenzio e parlano con gli atti giudiziari e per avere conferma della bontà dei risultati raggiunti si rivolgono al giudice e non ai giornalisti.
    Leggere ogni volta “sgominata la banda di killer” o “acciuffato il pedofilo seriale” prima ancora che un Tribunale abbia stabilito se l’accusa è fondata o meno, al termine di un processo che prevede regole ben precise per garantire il contraddittorio tra chi accusa e chi si difende, non fa bene alla crescita cultura di un Paese.
    Molti anni fa, quando esplose il “caso Tortora” Enzo Biagi scrisse un articolo dal titolo “E se fosse innocente?”, Tortora lo era allora, perché in quel momento era solo accusato, e lo sarà quando verrà giudicato, eppure anche il bravo giornalista si sentì in dovere di usare la formula dubitativa, perché quello era il “clima”.
    Oggi, con la diffusione via internet di ogni notizia che diventa immediatamente “virale” la situazione è ancora più grave, e abituare i lettori a ritenere che ogni accusato sia un colpevole e che ogni assolto l’abbia solo fatta franca, ci fa solo diventare tutti più beceri e vendicativi, perché frustrati da tutto quello che non va.
    Forse lo siamo già diventati, ma mi meraviglia leggere che c’è chi vorrebbe che lo restassimo per sempre.
    Avvocato Davide Steccanella

  • Moro, gip a pm: niente tempo da perdere soldi da buttare

    L’8 giugno scorso la polizia di prevenzione su ordine della procura di Roma sequestrava l’archivio di Paolo Persichetti nell’ambito delle infinite indagini sul caso Moro contestando i reati di associazione sovversiva e favoreggiamento di latitanti. Il 2 luglio il Riesame affermava che al massimo si poteva contestare il reato di violazione di segreto politico in relazione alla diffusione di atti della commissione parlamentare di inchiesta. Oggi il gip Valerio Savio ha negato accertamenti con la formula dell’incidente probatorio sull’archivio perché “manca una formulata incolpazionr anche provvisoria”. Cioè non c’è reato.
    Savio aggiunge che la decisione viene adottata allo scopo di evitare accertamenti non utili e anche costosi per l’erario. Cioè spiega il giudice che la giustizia non ha tempo da perdere e denari da buttare. Si tratta di una bocciatura su tutta la linea dell’indagine coordinata dal pm Eugenio Albamonte esponente di spicco della corrente di Magistratura Democratica e dallo stesso procuratore capo Michele Prestipino la nomina del quale era stata definita irregolare prima dal TAR e poi dal Consiglio di Stato.
    Il gip boccia in pratica una sorta di caccia ai misteri inesistenti che dura da quarant’anni e che viene praticata ora dalla sola procura di Roma dopo la “sparizione” della commissione parlamentare di inchiesta non rinnovata nella presente legislatura.
    “Sosteniamo dall’inizio che qui non c’è reato, la decisione del giudice conferma questo assunto – spiega l’avvocato difensore Francesco Romeo – Siamo di fronte alla ricerca del reato impossibile. Stiamo inseguendo dei fantasmi. I contenitori ci sono e li hanno indicati ma non basta citare le norme, la pubblica accusa deve circostanziare le condotte di reato ed è quello che da giugno a oggi non è venuto fuori. Si tratta di un’accusa senza pilastri”.
    Ma l’archivio storico di Persichetti resta sotto sequestro. La decisione di oggi del gip non basta a liberarlo. Adesso bisognerà aspettare l’esito del ricorso in Cassazione.
    Dice Persichetti: “Tre anni di indagini estremamente invasive per giunta ancora non concluse attraverso forzature continue, clonazione di telefonini, intercettazioni ambientali e pedinamenti costate migliaia di euro di soldi pubblici sono pervenute all’impossibilità di formulare una contestazione chiara e definita. Questa è la storia iniziata nel gennaio del 2019 da una grottesca indagine della Digos di Milano conclusa con una archiviazione ma subito ripresa dalla procura di Roma. Una caccia ai fantasmi una pesante intromissione nella ricerca storica e nel lavoro giornalistico”.
    Il sequestro dell’archivio tra l’altro ha avuto come conseguenza l’impossibilità di pubblicare il secondo volume della storia delle Brigate Rosse dal titolo “Dalle fabbriche alla campagna di primavera” di cui Paolo Persichetti è coautore con Elisa Santalena e Marco Clementi. Il volume due è dedicato alle fabbriche dove nacquero le Br con buona pace di inquirenti che inseguono dopo 43 anni i misteri di servizi segreti e affini andando a prelevare il DNA delle persone già condannate sperando di individuare “i complici”.
    (frank cimini)

  • Greco e gli interrogatori con conflitto di interessi

    A poco meno di un mese dalla pensione il procuratore Francesco Greco si occupa personalmente dell’interrogatorio dell’avvocato Piero Amara, ex legale dell’Eni nonostante la gestione relativa sui verbali delle precedenti deposizioni sia costata al magistrato l’indagine per omissione in atti d’ufficio. La procura di Brescia ha chiesto l’archiviaziobe e si è in attesa della decisione del gip.
    Ma il problema riguardo alle scelte di Greco non è prettamente penale. Anzi. Ragioni di opportunità avrebbero dovuto indurre il procuratore a fare a meno di procedere lui al nuovo interrogatorio chiesto da Amara.
    C’è un evidente conflitto di interessi dal momento che Greco è il suo aggiunto Laura Pedio sono finiti nei guai proprio perché non aver proceduto alle iscrizioni sul registro degli indagati delle persone accusate da Amara di far parte dell’ormai famosa loggia Ungheria.
    E come se non bastasse l’aggiunto Pedio ha interrogato Vincenzo Armanna il sodale di Amara. Sia Armanda sia Amara erano stati tirati in ballo dal pm Paolo Storari come “calunniatori” ma i vertici della procura facevano finta di niente perché entrambi erano testimoni di accusa al processo Eni/Nigeria poi finito con l’assoluzione di tutti gli imputati.
    Il quadro che emerge è quello di una procura allo sbando dove i pm si accusano tra loro a verbale davanti ai colleghi di Brescia e dove
    il capo dell’ufficio si comporta come se non fosse accaduto nulla. Il tutto in attesa che il Csm decida il nome del successore di Francesco Greco. Ma il cosiddetto organo di autogoverno dei magistrati si occuperà prima della procura di Roma dove dovrà scegliere il successore di Michele Prestipino attualmente in carica la nomina del quale è stata bocciata dal TAR e dal Consiglio di Stato. I tempi insomma per il caso Milano non si annunciano brevissimi. Nel frattempo la procura del capoluogo lombardo vedrà coincidere il trentesimo anniversario di Mani pulite con il periodo più buio della sua storia. Forse è l’ennesima occasione per avviare una riflessione seria per capire che quella del 1992 1993 non fu vera gloria.
    (frank cimini)

  • Steccanella recensisce la Boccassini story

    Mi sono letto in soli due giorni le 341 pagine del libro che ha fatto tanto discutere chi invece quel libro non l’ha letto e si è basato su anteprime di stampa quanto mai fuorvianti.
    La prima annotazione “a caldo” è che per poter scrivere un’autobiografia che ti viene voglia di leggere tutta d’un fiato, e senza essere un’attrice famosa, un calciatore o un front man di una rock band, bisogna avere vissuto una vita come quella della Boccassini, vita che lei stessa dichiara di essere stata quella che voleva vivere, anche se, aggiunge a pag. 341, il suo racconto “non piacerà a tutti, soprattutto a molti miei colleghi”.
    La seconda annotazione sempre “a caldo” è che si tratta di un potentissimo J’accuse senza sconti al mondo della magistratura presso cui ha operato per 40 anni, perché non si salva quasi nessuno, ivi compresi molti miti mediatici che per anni hanno monopolizzato giornali e TV come eroici paladini dell’antimafia o dell’anticorruzione, e che dal racconto di fatti e aneddoti che li hanno personalmente riguardati ne escono davvero a pezzi, come peraltro ex Ministri, Capi della Polizia, Onorevoli e Senatori.
    Perché il libro è principalmente un racconto di fatti, dettagliati e difficilmente smentibili, seppure intervallati a considerazioni personali che l’autrice non manca di inserire, anche in questo, le va dato atto, senza ipocrisie o prudenze da galantuomini del ne quid nimis, per citare quella categoria manzoniana tanto invisa al Cardinal Federico.
    E’ come se, dopo avere maniacalmente evitato di rilasciare qualsiasi dichiarazione alla stampa, l’ex PM avesse voluto, una volta raggiunta la pensione, togliersi tutti i sassolini accumulati in oltre 40 anni di professione in una volta sola, e non mettere più piede in quel Palazzo dove aveva trascorso gran parte della propria vita.
    Ovviamente trattandosi di personaggio viscerale e privo di mezze misure, ma lei di questo non ne fa mistero, sono molti i passaggi del libro che destano perplessità in chi ha diversa sensibilità in tema di devianza, carcere, repressione, forze di polizia e persino gabbie in aula “mi erano del tutto indifferenti ma turbavano i sonni del presidente del tribunale dell’epoca”, scrive a pag. 302.
    Come è fuor di dubbio che la sua comprovata conoscenza del fenomeno mafioso non riveli altrettanta autorevolezza laddove si estende a indagini su antagonismi politici, dove si leggono considerazioni più da vulgata come “compagni che sbagliano” “misteri sul sequestro Moro” et similia.
    Quelli che lei chiama “danni collaterali” nel capitolo numero 11, per me sono invece gli imputati ingiustamente incarcerati nei tanti blitz (di due di loro ne ho esperienza diretta), a tacer del processo Ruby, la cui nota conclusione viene liquidata in due righe a pag. 306 con “la sentenza fu ribaltata in secondo grado e il presidente del collegio Enrico Tranfa si dimise in aperta polemica con quella decisione. La Cassazione confermò l’assoluzione”.
    E così pure, alla fine della lettura del libro, sembra di ricavare la conclusione che in Italia ci siano stati solo un magistrato e un giornalista capaci, Giovanni Falcone e Giuseppe D’Avanzo, il che peraltro personalmente mi trova poco d’accordo nel secondo caso, perché di certo non sento particolare nostalgia delle sue celebri “dieci domande”, ma è indubbio che sulla dottoressa Boccassini queste due persone abbiamo avuto un’influenza anche personale notevole, e che la loro prematura morte, seppur per ragioni diverse, l’abbia segnata nel profondo.
    A proposito del criticatissimo racconto del suo rapporto con Falcone, va sottolineato che la Boccassini si limita a dire di averlo amato profondamente lei mentre lui amava la propria moglie, per cui non vedo dove sia l’oltraggio al morto, e del resto oggettivamente non poteva omettere il racconto di un amore che ha segnato a tal punto la sua vita non solo professionale, ma anche privata, da non essere più stato sostituito né in un campo né nell’altro.
    Mi è piaciuta molto la parte in cui si racconta nel suo privato di donna che fino ad oggi era stato tenuto rigorosamente schiacciato dall’immagine della PM virago alla quale, va detto, nulla ha mai fatto per sottrarsi.
    Le sue intense e durature amicizie con persone totalmente estranee all’ambiente del tribunale, il suo rapporto con Napoli, la città dove è cresciuta e si è formata, i figli, i fratelli, la madre, e anche aneddoti divertenti, come l’incontro con Nanni Moretti prima dell’uscita del “Caimano” e in generale la sua passione per il cinema e per la mostra di Venezia, dove confermo personalmente di averla più volte incontrata e che, solare e simpatica, sembrava davvero un’altra persona rispetto a quella che talvolta mi capitava di incontrare in tribunale per ragioni professionali.
    Mi è piaciuta anche la parte in cui confessa debolezze e paure, i suoi primi giorni in Sicilia in un albergo orrendo e isolato da tutto, l’uso di orecchini sempre diversi o la scelta di certi abiti a seconda dell’occasione, l’appellativo di “agave” che le riserva lo psicologo Kantzas, e ho trovato fantastico leggere a pag. 300 “sono sempre stata considerata una bella donna (e sono assolutamente d’accordo!) per certe caratteristiche quando ero giovane e per altre quand’ero più adulta”.
    Fa anche una certa impressione leggere che indagini che hanno sconvolto il Paese (dalla Dumo Connection alla strage di Capaci e dai processi al cavaliere al processo Infinito che rivelò le infiltrazioni della ‘ndrangehrta in Lombardia) siano state condotte sostanzialmente da lei sola senza grandi apparati “in alto” e con la sola collaborazione fidata di forze di polizia, “il PM è l’avvocato della Polizia”, aveva detto Falcone al momento dell’approvazione del nuovo codice e lei lo ha applicato alla lettera.
    Per cui se c’è stato un PM che ha davvero separato la propria carriera da quella di un giudice senza bisogno di grandi riforme è stata lei, che infatti riserva ai giudici, come agli avvocati, un ruolo davvero modesto nel libro, quasi non fossero parti necessarie al processo.
    Però questo libro merita di essere letto al di là di quello che si possa pensare di chi l’ha scritto, perché volendo fare un’analogia (ovviamente solo metodologica) con un personaggio più volte nominato nel libro, se Buscetta era stato il primo mafioso a raccontare come funzionava la mafia dal suo interno, l’ex PM Boccassini è il primo magistrato a raccontarci come funziona la magistratura dal suo interno, e tutta, da Milano e Roma e dalla Sicilia a Catanzaro.
    La pessima abitudine di “lavare i panni sporchi in famiglia” con lei è saltata tutta d’un colpo non appena ha fatto ritorno a quella che era invece la sua vera famiglia e agli adorati nipotini, ai quali può riservare, lo scrive lei stessa, quelle attenzioni che il suo lavoro aveva sottratto ai figli, e quanto ai recenti “casi” Palamara e Procura di Milano vi lascio intendere quali siamo i lapidari commenti.
    Quasi glissa via con malcelato fastidio, visto che lei si era dimessa da ogni corrente a far tempo dal lontano 2010 intuendone le gigantesche falle e subendo per questo l’esclusione da ogni “potere”, come dimostra il dato eclatante che non sia mai stata presa in considerazione per la Commissione antimafia dove pure sono passati (lei non lo scrive ma si intuisce “cani e porci”).
    Lei, a differenza di Buscetta ovviamente, non è affatto “pentita” di quello che ha fatto, ma il suo j’accuse non è meno potente, e questo libro rivela coraggio e non, come pure ho letto, voglia di ribalta, quella, se l’avesse voluta, se la sarebbe presa quando migliaia di cronisti assediavano il suo ufficio a qualunque ora del giorno mentre lei li chiudeva fuori dalla porta.
    Oppure, facendo una qualsivoglia carriera dirigenziale, come centinaia di suoi colleghi dal curriculum assai meno prestigioso, e invece il libro si chiama stanza numero 30 perché da quella stanza del quarto piano – dove io la incontrai per la prima volta nel 1990 – non si è mai mossa, tranne che per andare tre anni in Sicilia a catturare “gli assassini di Giovanni”.
    Avvocato Davide Steccanella