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  • Video inedito di Berlusconi
    “Balotelli negro”, tu Polanco “solo abbronzata”

     

     

    Raffaella Fico…Raffaella…”ma quella sta con Balotelli che se la tromberà due tre volte e poi la molla“, dice Marysthelle Polanco a un Silvio Berlusconi stanco, appesantito e spaparanzato su un divano damascato, nella sua villa di Arcore, in maglioncino blu d’ordinanza. L’ex cavaliere interviene sul punto: “Che poi, te lo dico, a me una che va con un negro mi fa schifo”. La Polanco si sente chiamata direttamente in causa: “Papi, ma io sono negra!”. “No tesoro, lascia stare, tu sei abbronzata”. Sorrisino.
    Ritratto inedito di Berlusconi che emerge da un video di 27 minuti depositato agli avvocati dalla Procura di Milano e proveniente dalla rogatoria Svizzera condotta nell’ambito dell’inchietsa Ruby ter. Una scenetta che rievoca il famoso “abbronzato” di Obama, ma che rivela un linguaggio fin qui sconosciuto sulla bocca di Silvio Berlusconi. Il quale parla rilassato, in una situazione di grande famigliarità con le sue ospiti, non sapendo di essere ripreso di nascosto dalla soubrette Marysthelle. Oltre a lei, altre due giovani donne, le quali piombano ad Arcore per supplicare di avere un lavoro di rilievo e visibilità nell’azienda del Cavaliere. Come la Fico, oppure come “quella di Sipario” o addirittura come un certo Emilio Fede. “Devi chiamare e dire, lui non fa più il direttore, lo faccio io il direttore del Tg4“, insiste, scherzosa, la Polanco.

  • La parte civile Canalis cala la carta: “Ecco la prova che Selvaggia e Neri guadagnavano coi gossip”

     

    “Non è vero che quei  gossip non avevano rilevanza economica e ve lo dimostro con questo documento”. Nel giorno in cui il giudice Stefano Corbetta prova per l’ennesima volta a convincere i litiganti a trovare un accordo prima della sentenza, il legale della parte civile Elisabetta Canalis deposita una carta che dimostrerebbe il valore economico delle notizie sui vip al centro del processo, sempre negato da Selvaggia Lucarelli e Gianluca Neri.

    E’ la copia di una pagina del blog ‘very inutil people’ dove si riporta che la prima a dare la notizia della separazione tra Scarlett Johansson e Ryan Reynolds fu proprio Selvaggia nel dicembre del 2010. Della rottura  tra gli attori, ricorda Giordano, ne parlano Neri e la giornalista del ‘Fatto’ in alcuni sms sequestrati a ‘Macchianera’ dove i due si compiacciono della pubblicazione e parlano della possibilità di creare un blog tutto loro.

    Nell’interrogatorio della scorsa udienza, Neri aveva negato di essersi intrufolato illecitamente nelle mail delle celebrity sostenendo di avere ricavato i pettegolezzi e le foto del compleanno di Elisabetta Canalis nella villa comasca di George Clooney attraverso la navigazione del sito 4chan, un grande contenitore di gossip. News golose che però, questa la tesi dei due imputati, si scambiavano solo per ridere tra loro senza nessuna ambizione di guadagnarci. Per l’accusa invece, Lucarelli avrebbe cercato di piazzare le 191 foto del party lacustre al settimanale ‘Chi’. Sembra lontano al momento l’accordo auspicato con toni quasi accorati dal giudice. “Valutate se ci sono margini per raggiungerlo – ha affermato Corbetta – il fatto che la trattativa all’inizio del processo (che vede imputata anche Guia Soncini, ndr)  non sia andata a buon fine non preclude che si possa ritentare, anche alla luce di com’è andato il dibattimento”. (manuela d’alessandro)

    La difesa di Neri, io e Selvaggia volevamo solo spettegolare

  • “De Sousa in India”, un altro 007 Usa potrebbe non scontare la pena in Italia per Abu Omar

     

    Ad aprile la corte costituzionale portoghese aveva stabilito che Sabrina De Sousa, una degli agenti della Cia condannati per il sequestro di Abu Omar, doveva venire in Italia a scontare la pena. E’ arrivata l’estate, è iniziato l’autunno e il mandato di arresto europeo è rimasto a prendere polvere per i fascinosi vicoli di Lisbona, senza che nessuno, nel paese dove a 3 di quegli agenti è stata concessa la grazia da Giorgio Napolitano, invitasse ad accellerare la pratica. Ora si viene a sapere che De Sousa, condannata a 7 anni ridotti a 4 per l’indulto e poi fermata l’8 ottobre dell’anno scorso a Lisbona,  si troverebbe in Oriente. Stando a quanto filtrato dall’udienza a porte chiuse  fissata per discutere sulle richieste di De Sousa di affidamento in prova ai servizi sociali e di sospensione dell’ordine di carcerazione in attesa della decisione sulla domanda di grazia, il suo avvocato Dario Bolognesi avrebbe spiegato che  la donna è in India.

    Non c’è una comunicazione ufficiale al Tribunale di Sorveglianza ma se davvero De Sousa se ne fosse andata, scommettiamo che non dispiacerebbe a nessuno. Né all’Italia che per l’ennesima volta si toglierebbe dall’imbarazzo di incarcerare un agente degli amici americani, né ovviamente agli Usa e neppure al Portogallo di cui la donna è per metà cittadina (l’altra metà è americana). Dispiace invece alla giustizia e alla dignità del nostro paese che soffrono in questa storia l’ennesima mortificazione dalla politica.

    (manuela d’alessandro)

    ps nei giorni seguenti a questo articolo, l’avvocato Bolognesi ha precisato in una nota che la sua assistita è andata in India “in visita alla madre gravemente inferma” con l’autorizzazione delle autorità portoghesi e ha poi fatto ritorno nel Paese dove attende che sia eseguito il mandato di arresto.

  • Il pg: condannate in appello gli agenti, Uva morì per lo stress provocato dalle loro ingiustizie

     

    Vanno condannati gli agenti che trattenero due ore in caserma Giuseppe Uva “in modo illegittimo” perché gli provocarono un tale stress da farlo morire per  arresto cardiaco. Lo scrive la Procura Generale nelle motivazioni del ricorso in appello che potete leggere integralmente qui contro l’assoluzione dei due carabinieri e dei tre poliziotti accusati dell’omicidio preterintenzionale di Giuseppe Uva, il manovale morto la mattina del 15 giugno 2008 dopo aver trascorso parte della notte nella caserma dei carabinieri di Varese ed essere poi stato trasferito nel reparto di psichiatria.

    “Se è vero  – argomenta il pg Massimo Gaballo – che le modeste lesioni personali riscontrate sulla persona offesa non possono avere determinato direttamente il decesso, deve però ritenersi che abbiano contribuito ad aumentare lo stato di stress in ragione della percezione del relativo dolore fisico e della loro ingiustizia”. I giudici varesini avevano assolto nell’aprile 2015  i componenti delle forze dell’ordine dopo aver riscontrato l’”insussistenza di atti diretti a percuotere o a ledere” ma ora la Procura Generale chiede di ribaltare la sentenza definita nelle sue motivazioni “molto sommaria” alla Corte d’Assise d’Appello di Milano.

    “Lo stato di stress – si legge nel ricorso – integra pacificamente una malattia quale evento del reato di lesioni personali, consistendo in un’alterazione funzionale dell’organismo, anche in assenza di alterazioni anatomiche”. Per questo, viene considerata “erronea” la sentenza “laddove esclude la configurabilità del reato di omicidio preterintenzionale per insussistenza di atti diretti a percuotere o a ledere”.

    Tutti gli imputati per l’accusa “devono essere dichiarati responsabili del delitto di omicidio preterintenzionale” perché “hanno posto dolosamente in essere condotte di costrizione fisica, dirette a commettere il delitto di lesioni personali e illegittima privazione della libertà personale che, per la loro durata e connotazione violenta e ingiusta, devono ritenersi causa del grave stato di stress che, innestandosi sulla precedente patologia cardiaca, ha determinato il decesso di Uva”.  (manuela d’alessandro)

    le tappe della vicenda

    ricorso in appello pg

     

     

     

     

     

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  • L’avvocato Diodà ‘zittisce’ Scola e Canzio: “Non c’è misericordia in questa giustizia”

     

    “Parlate della misericordia ma io vedo solo la cultura della sanzione”. L’avvocato Nerio Diodà irrompe dal “fronte”, come lui stesso lo definisce, a spezzare  l’aura di pace che gli interventi del presidente della Cassazione Giovanni Canzio, del capo della Sorveglianza Giovanna Di Rosa e dell’arcivescovo Angelo Scola hanno creato al convegno organizzato in aula magna  dall’associazione Laf (Libera associazione forense)  sul tema ‘Diritto, giustizia e misericordia’.

    Alle raffinate enunciazioni di principio degli alti oratori, Diodà oppone parole stridule. “Io sto nell”ospedale da campo’, condiviamo i grandi principi ma dal fronte i segnali che arrivano sono faticosi e difficilmente rimovibili. Cosa c’entra la misericordia col mestiere di avvocato? Apparentemente c’entra poco  anche se nella storia della nostra professione ci sono molte cose più nobili di quelle che la comunicazione diffonde. Dal fronte vedo che molte volte la vera pena sono il processo, la custodia cautelare e la comunicazione mediatica. Lo dico con molta fatica, ma sono fatti veri che non riguardano solo i poveri ma anche i ‘colletti bianchi’, che io spesso difendo, nella stessa misura”.

    “La custodia cautelare – argomenta il legale protagonista di tanti, importanti  processi – è spesso o quasi sempre un meccanismo perverso per cui la vita di una persona che subisce il carcere spesso è devastata e poi si apre un periodo indefinito che forse porta alla Cassazione dopo anni in cui la pena ha logorato pressoché totalmente la persona”. Sulla misericordia, concetto evocato dagli altri oratori come elemento integrante di una buona giustizia,  Diodà spegne ogni illusione. “Non c’è neppure il presupposto per parlarne. La giustizia non funziona non perché gli avvocati presentano eccezioni sui timbri ma per le ragioni che ho spiegato. Ho un grandisssimo rispetto per i giudici dell’esecuzione ma finché si farà il discorso della sanzione pari al bene leso e non ci sarà un nuovo umanesimo seguendo la via della giustizia riparativa non si cambierà. Il nostro compito è diventare ‘facilitatori’ nell’interpretare la legge come strumento di modifica profonda della persona”. (manuela d’alessandro)

     

  • Ecco le motivazioni alla condanna di Bossetti, “uccise perché Yara lo respinse”

    Ecco perché la corte d’assise di Bergamo ha condannato Massimo Bossetti all’ergastolo ritenendolo colpevole dell’omicidio della piccola ginnasta Yara Ganbirasio, uccisa il 26 novembre 2010 con più colpi sferrati con un’arma sconosciuta, e abbandonata in un campo di Chignolo d’Isola. In sostanza, a provare la sua colpevolezza è “il rinvenimento del profilo genetico di Bossetti” sul corpo della vittima, “un dato privo di qualsiasi ambiguità e insuscettibile di lettura alternativa”. Tutto il resto ruota attorno a questo nucleo di certezza: dall’assenza dell’alibi (“quella sera rientrò a casa più tardi del solito e neppure nell’immediato, non solo a 4 anni di distanza, disse alla moglie cosa aveva fatto”) al movente (“”un contesto di avances sessuali verosimilmente respinte  dalla ragazza”). Per il legale Michele Salvagni, che presenterà ricorso, queste motivazioni sono frutto di “un appiattimento acritico dei giudici sulle tesi dell’accusa” e la corte “con un proprio film assolutamente disancorato da ogni risultanza processuale ha descritto un movente di tipo sessuale”. (m.d’a.)

    Le motivazioni alla condanna di Bossetti

  • Il crollo finale dell’inchiesta sul Sistema Sesto, assolti gli ultimi 2 imputati

    E adesso è proprio finita. L”utopia’ investigativa sul Sistema Sesto, il guazzabuglio di malaffare ipotizzato dalla Procura di Monza 6 anni fa, si stempera in un pomeriggio d’autunno dove al giudice basta una camera di consiglio di 5 minuti per dire che è finita.

    L’architetto Renato Sarno e l’imprenditore Roberto De Santis escono con un’assoluzione ‘perché il fatto non sussiste‘ dall’ultimo processo figlio dell’indagine che travolse Filippo Penati. Erano accusati di finanziamento illecito ai partiti per 368mila euro perché attraverso l’associazione ‘Fare Metropoli’ avrebbero occultato somme destinate all’ex presidente della Provincia per le campagne elettorali del 2009 e del 2010.

    Un’assoluzione scontata, chiesta anche dal viceprocuratore onorario che ha avuto la sventura di rappresentare l’accusa in questo processo mandato a Milano per competenza territoriale. “Non è emerso nessun elemento idoneo a sostenere l’accusa”, ha detto sconsolato durante la requisitoria. Considerazioni che rimandano alla sentenza con la quale il Tribunale di Monza aveva assolto (in parte prescritto) Penati e altri 10 a dicembre. “Il finaziamento ricevuto dall’associazione fu certamente legittimo”, era scritto nelle motivazioni a quel verdetto, anche alla luce  dei documenti “evidententemente sfuggiti sia alla Guardia di Finanza che ai pm”.

    Titoli di coda sull’avvocato Giuseppe Fornari, legale di De Santis. “Crolla così l’intero impianto accusatorio sul Sistema Sesto. Questo processo non doveva nemmeno inziare: gli stessi elementi che aveva oggi il Tribunale li aveva già il giudice per l’udienza preliminare tanti anni fa”.

    (manuela d’alessandro)

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  • “Un film per aiutare i giovani a non finire come noi”, gli ergastolani senza scampo alla prima a Opera di ‘Spes contra Spem’

    “Noi abbiamo deciso. Con questo film, vogliamo aiutare i giovani ad avere la possibilità di scegliere che non abbiamo avuto.  Direttore, se qualcuno è uscito dalla sala non ce ne frega niente. Noi andiamo avanti!”.

    Orazio, Gaetano: dal palco del carcere di Opera scolpiscono la loro scelta libera di ergastolani ostativi. E a quella scelta mettono le ali, la fanno volare alta, lontana da quei (pochi) colleghi detenuti che hanno lasciato la platea prima che finisse la proiezione di ‘Spes contra Spem’.

    Esiste testimonianza più tersa della riuscita di un percorso rieducativo? Ma alla legge non basta perché per sgretolare le sbarre dell’ergastolo eterno viene richiesta la ‘collaborazione’ dei detenuti. Salvatore, Gaetano e tutti gli altri protagonisti del docufilm ‘Spes contra Spem – Liberi dentro’ firmato da Ambrogio Crespi in prima visione a Opera dopo la presentazione al festival di Venezia, devono sfiorire in cella per sempre.

    Eppure,  qualcosa brilla, un vento nuovo attraversa questa sala tenebrosa dove scorrono i racconti di uomini ancora giovani, rinchiusi da 20,30 anni per omicidi di criminalità organizzata. Il tempo sembra essere maturo per raccogliere la speranza. Nel film e poi sul palco i detenuti si svelano con la capacità introspettiva di chi ha ricamato pensieri sottili in decenni di solitudine. “Sono in carcere da 22 anni, mi manca quel giovane estasiato nei profumi della notte siciliana”. “Ho fatto 21 anni di 41 bis, le celle lisce. Ai processi si possono dire bugie, ma il mio tribunale interiore non perdona. Alle famiglie di chi è stato ammazzato dico: non aggiungete altro dolore con altri morti”. “Ieri, 21 settembre (anniversario della morte del ‘giudice ragazzino, ndr), ho scritto una lettera pensando a Rosario Livatino. Non mi rendevo conto che stava lavorando per me. Riposi in pace”. “Mia figlia l’ho chiamata Speranza, per 24 anni siamo stati staccati, ora è la cosa più importante che ho”.

    La speranza sta per bucare le mura perché nel docufilm e nel dibattito alcune istituzioni la incitano.  Le guardie penitenziarie e i loro comandanti spiegano che “le persone cambiano in carcere”.  Il neo presidente del tribunale di sorveglianza di Milano, Giovanna Di Rosa, si rivolge agli ‘attori’: “Grazie, avete fatto delle riflessioni che ci insegnano a fare bene il nostro mestiere. Lo Stato ci ha tolto la possibilità di decidere nel merito se uno deve stare in carcere, dobbiamo farlo in base a calcoli asettici. Spero che venga ridata ai magistrati la possibilità di usare il libero convincimento”. Gli avvocati applaudono, tanti tra i presenti hanno contribuito a questo film e lottano per cambiare la legge.

    Tutti, a cominciare dai radicali Sergio D’Elia e Rita Bernardini, ricordano Marco Pannella che il motto ‘Spes contra Spem’ l’aveva praticato. “E’ il mio angelo custode, è vivo”, assicura Ambrogio Crespi, 200 giorni in carcere e ancora a processo per una storia di presunta ‘ndrangheta. “Questo film all’inizio non lo volevo fare, non riuscivo a tirare fuori un messaggio che potesse uscire da queste mura”. E poi com’è andata lo spiega il direttore di Opera, Giacinto Siciliano: “Ne abbiamo parlato a un congresso radicale, abbiamo scelto di fare le interviste agli ergastolani a ruota libera, nessun copione, c’era solo l’idea”.

    Il direttore non è turbato dai pochi che hanno lasciato la sala. Gli importa degli altri, li chiama per nome tra il pubblico, anche quell’ergastolano che un giorno gli chiese di poter possedere un pelouche per 24 ore in cella, di più non si può per regolamento penitenziario, “perché non ne aveva mai avuto uno”

    Il film è richiesto da tribunali, carceri e cinema di tutta Italia, anche nelle terre da dove provengono i suoi ‘attori. Lì Orazio, Gaetano e gli altri calano la loro speranza. “Per noi sarebbe una vittoria solo dare ai giovani la possibilità di riflettere. Se poi evitiamo che cadano nella devianza, saranno liberi anche per noi che non abbiamo potuto scegliere”. (manuela d’alessandro)

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  • “Favori in cambio del condizionatore”, così cade il poliziotto di Mani Pulite che bussò a Craxi

     

    Fu lui da capo della Digos a suonare il campanello di casa Craxi nel 1993 per consegnargli il divieto di espatrio su ordine di Antonio Di Pietro. ‘Benedetto’ da Mani Pulite ebbe la sua stella al merito, la carica di assessore alla sicurezza nella giunta Albertini, e poi una carriera scorrevole da buon funzionario dello Stato.

    Ora è notte profonda per l’ex questore di Bergamo Fortunato ‘Dino’ Finolli. Il gip gli ha risparmiato l’arresto ma le carte dell’inchiesta sul crac della società Maxwork spa  che ha portato ieri all’arresto dell’imprenditore Giovanni Cottone lo massacrano.

    Secondo la Procura della ‘città dei mille’, l’ex questore, che già a causa dei primi sviluppi di questa indagine aveva dovuto lasciare l’incarico,  avrebbe ricevuto da Cottone doni e promesse in cambio del suo impegno a risolvergli piccole grane burocratiche e a girargli qualche ‘soffiata’ sulle indagini che lo riguardavano.

    Viaggi e due bracciali d’oro per un totale di oltre 5000 euro di valore,  per lui e per la moglie. L’i-phone 6 per la figlia. Soggiorni sul mare ligure di Arenzano. E perfino un “impianto di condizionamento composto da split e unità esterna per gli uffici della questura”. Aria fresca ‘pagata’ dall’allora questore con l’impegno a far ottenere a Cottone “il porto d’armi per uso a difesa personale”, la cittadinanza alla sua fidanzata brasiliana e “l’aggiornamento di alcune segnalazioni arrivate in baca dati”. Peculato, corruzione e istigazione alla corruzione. Tutti reati per i quali una volta Finolli suonava alle porte altrui. (manuela d’alessandro)

  • Il procuratore Greco, ok a togliere all’imputato il diritto di mentire

    “Non ho nulla in contrario che si tolga all’imputato il diritto di mentire, che è una cosa molto particolare che abbiamo in Italia”. Alla presentazione in aula magna del libro ‘Estetica della giustizia’ firmato dall’avvocato Ennio Amodio, il procuratore capo Francesco Greco prende posizione sulla possibilità di eliminare una delle garanzie difensive previste nel nostro ordinamento.

    Greco guarda agli Stati Uniti, patria dell’obbligo di essere onesti,  ma solo a metà. “Nei film americani emerge come figura fondamentale quella dell’avvocato perché i diritti non vengono tutelati dalla magistratura. In Italia è diverso: abbiamo un pubblico ministero indipendente che non viene eletto né controllato e si pone nell’immaginario come tutore vero, poi che lo sia o meno è un altro discorso Il pm svolge la funzione che negli Usa ha un avvocato”. Che non vada proprio così lo dimostrano la politicizzazione del Csm, ormai lampante anche a molte toghe, e l’ormai celebre ringraziamento di Matteo Renzi alla Procura milanese per la “sensibilità istituzionale” dimostrata a proposito delle non indagini su Expo.

    Ma sulla carta per Greco dobbiamo essere orgogliosi del nostro sistema. “Nel confrontarci col resto del mondo e ragionare sui concetti di garantismo e giustizialismo, dobbiamo chiederci: l’obbligatorietà dell’azione penale e l’autonomia della magistratura sono valori positivi o negativi? Io dico che ci fanno essere un paese più civile degli altri e, nella mia esperienza, vedo che i colleghi stranieri  ci invidiamo e ammirano”. Almeno l’estetica, tanto cara al professor Amodio, è rispetatta.  (manuela d’alessandro)

  • Tiziana contro il web, perché vince contro Fb e perde contro Google la battaglia sul video

    Tiziana contro il web, un disperato tentativo di cancellare le orme di quel video pornografico che le aveva rovinato la vita. Dalla sentenza del giudice civile a cui si era rivolta a luglio per far oscurare le immagini traspare la lotta della ragazza contro tutti, grandi e piccoli della rete. Tiziana Cantone, pentita per avere lei stessa contribuito a diffondere la sua intimità, vince su facebook e su due testate online ma perde contro google, yahoo Italia e youtube e altri giornali . E’ il 10 agosto. Poco più di un mese dopo si toglie la vita.

    Tiziana contro Facebook: “come hosting provider”, spiega il giudice di Aversa Monica Marrazzo , “non ha un generale obbligo di controllo preventivo sui sempre più estesi contenuti immessi in rete”, ma qui ce l’avrebbe avuto perché “l’articolo 16 del decreto 70/123 dispone per gli hosting provider che l’irresponsabilità viene meno ove sia al corrente di fatti che rendono manifesta l’illegalità dell’attività o dell’informazione”. In questo caso, “tenuto conto della manifesta illiceità dei contenuti lesivi della reputazione della Cantone propalati in rete, il social avrebbe dovuto rimuovere i contenuti, senza aspettare l’arrivo della magistratura”.

    Tiziana contro Yahoo Italia: il legale sbaglia indirizzo. “La società che fornisce il servizio non è Yahoo Italia ma la diversa società avente sede in Irlanda, la Yahoo Enea Limited”. Yahoo vince.

    Tiziana contro Google: “non c’è l’obbligo per i catching provider (che memorizzano solo temporaneamente contenuti di terzi al fine del loro successivo inoltro ad altri destinatari a loro richiesta) di rimuovere tutte le pagine e i siti web che siano il risultato della ricerca a seguito della digitazione del nome e del cognome della ricorrente”. In questo caso ci sarebbe voluto un provvedimento del garante o della magistratura per obbligare il motore di ricerca a intervenire.

    Tiziana contro Youtube: “in linea teorica” ci sarebbero stati i presupposti per l’accoglimento della domanda della ragazza ma nel ricorso il legale non ha precisato “con chiarezza” i video illeciti pubblicati sulla piattaforma.

    Tiziana contro i giornali online: è diritto di cronaca pubblicare delle immagini solo perché sono diventate di interesse pubblico? Il diritto di cronaca, argomenta il magistrato, non può risultare utile a pubblicare qualsiasi notizia riguardante la vita privata di una persona solo perché la stessa sia entrata a far parte della curiosità collettiva ove la notizia non venga riportate con le cautele che si impongono per il rispetto della dignità della persona”.

    Tiziana e il diritto all’oblio:  per il giudice “non si ritiene che rispetto al fatto pubblicato sia decorso quel notevole lasso di tempo che fa venir meno l’interesse della collettività all conoscenza di questa vicenda”.

    Alla fine Tiziana viene condannata a pagare 20mila euro di spese legali. Conseguenza beffarda dell’applicazione della legge.

    (manuela d’alessandro)

     

  • Quasi 4 anni per l’appello Telecom, così la giustizia lenta ha ucciso il processo sui dossier

     

    Chi vuole la prescrizione? La legge cattiva, gli avvocati che affogano i processi per salvare la pelle ai clienti?

    Ecco un caso che ci da’ spunto per cambiare prospettiva.

    Dopo quasi 4 anni è stato fissato il processo d’appello di uno dei capitoli dell’appassionante ‘spy story’ che travolse Telecom e Pirelli all’inizio degli anni duemila quando si scoprì che la security, guidata da Giuliano Tavaroli, confezionava dossier illeciti all’ombra della società.

    Il 3 novembre si aprirà davanti alla prima corte d’assise d’appello il giudizio di secondo grado chiamato a pronunciarsi sulla sentenza che il 13 febbraio 2013 condannò 7 imputati, tra i quali l’ex appartenente del Sisde Marco Bernardini (7 anni e mezzo) e l’ex investigatore privato Emanuele Cipriani (5 anni e mezzo). I due vengono considerati ‘promotori ‘ di un’associazione a delinquere che si sarebbe consumata tra il 2000 e il settembre 2006, quindi per loro la prescrizione arriva proprio a ridosso dell’inizio dell’appello.

    Il primo grado si era chiuso con 7 condanne oltre che per associazione a delinquere, anche per corruzione, accesso abusivo a sistema informatico e  rivelazione di notizie coperte da segreto di Stato. Solo quest’ultima ipotesi di reato è rimasta intatta, tutto il resto è stato sgretolato dal trascorrere del tempo nell’infinito dipanarsi di un’inchiesta partita nel 2005.

    Nel frattempo, Tavaroli e  altri imputati hanno patteggiato una pena che avrebbe potuto essere molto inferiore se avessero atteso che la polvere del tempo cancellasse le accuse. (manuela d’alessandro)

     

     

  • La verità di Neri: io e Selvaggia volevamo solo spettegolare, non sono un pirata della rete

    “Io e Selvaggia volevamo solo spettegolare: su Clooney, se era etero oppure no, sulla Venier e sugli altri vip”. Al processo sul presunto spionaggio nelle mail delle celebrità e sul ‘furto’ delle 150 foto del compleanno di Elisabetta Canalis, il principe dei blogger Gianluca Neri  raffigura lui e la giornalista del ‘Fatto’ come due “scemotti” che, dietro lo schermo dei loro pc,  si raccontavano “cose cretine”.

    “Ci saremmo visti non più di 5 volte in 10 anni, ma siamo amici”, assicura Neri che ha negato al giudice Stefano Corbetta di essersi intrufolato in modo abusivo nei segreti dei famosi. “Le foto le ho trovate nel sito 4chan, una specia di ‘wikileaks’. Un link rimandava alla mail ‘giorgioclone’ e alla sua password, da lì sono arrivato alla cartelletta con le 191 immagini. Non avendo mai avuto la passione per il gossip (ndr ma per il pettegolezzo sì?) non gli ho dato molto valore: erano foto carine, sincere, con loro due che festeggiavano il compleanno”.

    “Allora le ho mandate a Selvaggia in modo scherzoso. Lei aveva un’ossessione per Clooney, e chi non ce l’ha, è così bello. C’era in ballo tra me e Selvaggia il discorso su Clooney etero o no e allora le dissi ‘te le faccio vedere e vedrai che lui non la bacia mai in bocca’”. Dietro il pc, l’amica però fa un balzo: “Mi ha detto ‘ma stai scherzando? Quelle foto sono una cosa bellissima’ e poi mi ha detto di averne parlato con Gabriele Parpiglia (ndr giornalista gossipparo)”. Della trattativa che ne è seguita, con la compravendita sfumata per volontà del direttore di ‘Chi’ Alfonso Signorini, l’imputato giura di non averne saputo nulla e di non avere mai chiesto soldi per le foto. “Io e Selvaggia ci siamo visti a cena e abbiamo concordato che dalla trattativa con ‘Chi’ volevamo stare fuori”. Il pm Grazia Colacicco lo stuzzica sui messaggini che per l’accusa dimostrerebbero la consapevolezza sua e di Selvaggia di ‘spiare’ i vip. “Erano solo ‘sbruffonerie’ tra me e Selvaggia, anche la Venier l’abbiamo trovata tra quelle tenute sotto osservazione in 4chan, di qui il messaggio ‘habemus Mara”.

    “E come mai – insiste il pm – lei sostiene di frequentare assiduamente 4chan, mentre a noi risulta che non ci va mai?”. “Perché – ribatte –  il pc in sequestro è stato acquistato un anno dopo i fatti”.

    Questa la verità di ‘Macchianera’. Un po’ diversa da quella di Selvaggia che ha sempre detto di avere ricevuto attraverso la posta del suo blog una mail dall’indirizzo ‘giorgioclone’, non citando mai Neri. E da quella del fotografo Giuseppe Carriere che descrive Lucarelli come intermediaria nell’operazione per la vendita dei diritti delle preziose foto. (manuela d’alessandro)

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  • Il Ministero della Giustizia manda gli ex barellieri a fare i cancellieri e scoppia la rivolta

    Saltano i nervi ai dipendenti della giustizia per la decisione del Ministro Andrea Orlando di supplire ai buchi nell’organico mandando nei tribunali personale della Croce Rossa in esubero. La surreale prospettiva di ex barellieri e autisti delle ambulanze trasformati in cancellieri ispira  la violenta reazione del ‘comitato lavoratori giustizia‘: “Ci vediamo letteralmente scavalcare da personale completamente sprovvisto delle competenze – si legge in una nota – (…) Evidenziamo che da parte dell’Amministrazione non vi è stata alcuna trasparenza. Non è chiaro chi e con quali criteri abbia operato l’inquadramento degli ex barellieri nel profilo professionale del cancelliere”.

    A Milano sono tre i crocerossimi, un capitano e due sottufficiali della Croce Rossa militare in via di smantellamento, che dal primo settembre si chiedono smarriti nei corridoi del palazzo quale contributo potranno offrire alla dolente giustizia.

    In tutto, informa il Comitato, dal primo settembre, sono “359 le unità provenienti da enti in esubero come le Province e la Croce Rossa, tra cui personale già inquadrato nella Croce Rossa italiana con mansioni di autista/ barelliere, per la maggior parte in possesso del titolo di studio in licenza media e inquadrato nei ruoli dell’amministrazione giudiziaria che prevedono collaborazione qualificata al magistrato, ruoli che vanno dall’assistente giudiziario al cancelliere al funzionario giudiziario”.

    La rabbia è tale da addebitare futuri smacchi all’inserimento dei poveri crocerossini. “Oltre alla frustrazione per la negazione delle prospettive di carriera evidenziamo che l’intero servizio giustizia, lungi dal beneficiare di questi fallimentari innesti, subirà, a seguito dell’inserimento di personale non competente, ulteriori rallentamenti e disfunzioni dei quali, stando così le cose, non vogliamo essere ritenuti responsabili“.  (manuela d’alessandro)

  • Il pediatra suicida processato dopo la morte dalla Procura di Busto Arsizio

     

    Alberto Flores d’Arcais si era appena buttato dal sesto piano della sua abitazione milanese dov’era ai domiciliari quando procura di Busto Arsizio e carabinieri hanno pensato di convocare i giornalisti per una requisitoria non richiesta.

    All’imputato ‘contumace’ gli investigatori hanno presentato davanti ai cronisti una ‘contestazione suppletiva’ post mortem. Oltre all’accusa, già nota, di atti sessuali sulle sue piccole pazienti, il procuratore di Busto Gianluigi Fontana ha voluto far sapere che “il consulente aveva appena terminato le perizie su due computer in uso al medico dai quali è emerso copioso materiale, circa 3000 file, tutte immagini pedopornografiche”. File scovati nonostante, hanno precisato gli inquirenti, d’Arcais avesse tentato di nasconderli nel cestino del pc.

    “Non sapevamo nulla di questo materiale, non avevamo ancora visto la consulenza del pm”, ha provato una tardiva difesa l’avvocato Massimo Borghi nel surreale processo al suo assistito defunto.

    Il noto professore, già docente di allergologia al San Raffaele e protagonista di missioni umanitarie all’estero, era innocente o colpevole? Doveva essere rimesso in libertà perché a rischio suicidio, come affermavano tre psichiatri di parte?

    Non lo sappiamo e forse non lo sapremo mai.  Certo non è giustizia, anche quando è rappresentata da un bravo magistrato come Fontana, processare un uomo in conferenza stampa a poche ore dalla scelta di farla finita.  (manuela d’alessandro)

  • Il gip lo lascia solo fuori dal carcere, il picchiatore seriale non va in comunità

    Nicolas è sparito da ieri pomeriggio dopo che il giudice gli ha concesso i domiciliari da trascorrere in una comunità psichiatrica vicina al mare di Varazze. Il ragazzo spagnolo arrestato ad agosto perché prendeva a pugni a caso i passanti a Milano ora è smarrito chissà dove perché, denunciano i suoi legali, il gip Livio Antonello Cristofano non ha disposto nessun servizio di scorta dal carcere alla sua destinazione.

    Non è stata una svista. Per il giudice, si legge nell’ordinanza di concessione dei domiciliari, Nicolas Orlando Lecumberri, 23 anni, non ne aveva bisogno. Anzi, sarebbe stato lui a dover avvertire i carabinieri del suo arrivo in comunità. “Non sussistendo specifiche esigenze processuali o di dicurezza – scrive il gip  – l’indagato raggiungerà senza accompagnamento – immediatamente e senza soste intermediae – il luogo di esecuzione della misura, dando tempestivo avviso alla stazione dei carabinieri”.

    “L’assurdità del comportamento del giudice e della polizia – protestano gli avvocati Francesco Brignola e Alessia Generoso – crea un rischio per il ragazzo e per gli altri. Trovatosi solo e senza riferimenti fuori dal carcere, se ne sono perse le tracce con gli immaginabili gravi rischi per lui e per la comunità. Se qualcuno ci avesse avvertiti, saremmo andati noi a prenderlo”. Nicolas, che prima di prendere a pugni le sue vittime casuali dopo avergli chiesto informazioni stradali faveca il dj, è sempre stato in terapia psichiatrica durante la detenzione e in cella di osservazione. (manuela d’alessandro)

     

     

     

     

  • I verbali del comandante dell’Isis, 20 anni di storia di noi e dell’islam radicale

     

    Tutta la storia, narrata in prima persona, di Abou Nassim, il comandante dell’Isis catturato oggi in Libia e considerato dai servizi il referente del terrore per l’Italia oltre che uno degli autori della strage del Bardo secondo le autorità tunisine.  Un concentrato diluito di due decenni nella viva voce del tunisino registrata dai verbali degli interrogatori di tutto quello che sta attorno al tema ‘terrorismo islamico’. Arrivato in Italia con un barcone, da spacciatore di droga a “uomo pio” e vicino agli ambienti estremisti attraverso la frequentazione delle moschee milanesi, detenuto e torturato in una base americana in Pakistan dopo l’11 settembre, combattente in Bosnia, arrestato per terrorismo ed espulso dall’Italia dopo un’assoluzione in primo grado (poi in appello ha preso 6 anni), vicino prima ad Al Qaeda e poi ‘colonnello’ dell’Isis. Ha solo 46 anni, Abou Nassim, ma nella sua vicenda personale raccontata al gip Guido Salvini ritroviamo tutta la storia dei rapporti tra il nostro Paese e l’ Islam radicale negli ultimi 20 anni. (manuela d’alessandro)

    primo interrogatorio Nassim

    secondo interrogatorio Nassim

    terzo interrogatorio Nassim

  • Errore dei giudici d’appello, ‘scontati’ 20mila euro a Stasi per le perizie nella villetta

     

    Il conto servito dalla corte d’assise d’appello di Milano ad Alberto Stasi era alto, troppo alto, per un errore della calcolatrice dei giudici. Ai periti che col loro studio sulla camminata nella villetta di Garlasco hanno contribuito alla sua condanna per l’omicidio di Chiara Poggi l’imputato, ora rinchiuso nel carcere di Bollate, doveva circa 13mila euro euro e non gli oltre 33mila euro indicati dal collegio presieduto da Barbara Bellerio. Lo ha stabilito nei giorni scorsi il magistrato civile Domenico Piombo al quale Stasi si era rivolto sostenendo che i giudici dell’appello bis avessero calcolato male nel 2014 quanto da lui dovuto.

    La corte che l’ha condannato a 16 anni di carcere, poi confermati in via definitiva, aveva sancito che Alberto doveva  5581 euro ciascuno a Roberto Testi, responsabile dell’unità di medicina legale dell’Asl 2 di Torino e a  Gabriele Bitelli e Luca Vittuari, entrambi docenti del dipartimento di Ingegneria dell’università di Bologna  oltre a più di 16800 euro al solo Vittuari per ‘costi di laboratorio’. Col loro studio avevano affermato che non c’erano probabilità per il ragazzo di non sporcarsi le scarpe di sangue quando calpestò il pavimento della villetta.

    Tutto sbagliato.  Intanto, perché, come chiarito dallo stesso professore nella causa civile, su Vittuari non sono mai gravate le spese di laboratorio che avrebbero invece “dovuto essere fatturate dall’università di Bologna direttamente alla corte d’appello”. Invece i giudici nel loro decreto hanno addebitato le spese a Stasi senza fattura.

    Ma c’è di più. I magistrati dell’appello bis hanno sbagliato anche a non considerare la perizia come collegiale (vista anche l’”eccezionale complessità degli accertamenti da compiere”) che prevedeva una liquidazione inferiore, come poi stabilito in sede civile. Insomma, il giovane commercialista deve pagare ‘solo’ 10585 euro ai tre professionisti, da ripartirsi in parti uguali, più un rimborso spese. Sollievo da poco per Stasi che continua a scontare la pena arrivata al termine di un cammino giudiziario zeppo di dubbi spazzati via dalla cassazione con la condanna definitiva nonostante le perplessità anche del pg Oscar Cedrangolo. Ora gli avvocati Angelo e Fabio Giarda stanno pensando al ricorso alla corte europea di giustizia. (manuela d’alessandro)

     

     

     

     

     

     

     

     

  • Tenta di impiccarsi in Tribunale, salvato da un agente

     

    C’è uno stanzone con le sbarre nel cortile del tribunale. Per chi conosce il palazzo, ci si arriva entrando dalla carraia di via Freguglia e seguendo il pavé in leggera discesa, poi infilandosi nel tunnel che porta al cortile della fontana. Sulla destra, c’è quella stanza in cui i detenuti in attesa del processo per direttissima vengono sistemati. Aspettano li, finché arriva il loro turno.

    Ieri un detenuto di origine araba, in quella cella, è riuscito a fare un cappio con una fascia, a fissarlo in alto, a infilare il collo nel nodo scorsoio e a stringere. Era in attesa della propria udienza di convalida dell’arresto, per un furto. Si è salvato perché un agente della polizia di Stato è intervenuto in tempo, tagliando quella fascia con cui il detenuto si era impiccato. Il suo processo è stato rinviato, lui è stato portato di corsa in pronto soccorso, in ambulanza. L’udienza di convalida dovrebbe tenersi questa mattina.

  • Avvocati arrestati in Turchia, quando succedeva anche in Italia e perché

    La vibrata e giusta protesta delle toghe nostrane a Milano contro l’arresto di  alcuni legali in Turchia non deve farci dimenticare che negli anni della cosiddetta “emergenza terroristica” anche in Italia furono incarcerati parecchi avvocati.

    Il primo fu il “caso Senese”, quando il 2 maggio 1977 venne arrestato a Napoli l’avvocato Saverio Senese difensore di alcuni militanti dei Nuclei Armati Proletari, con l’accusa di “partecipazione a banda armata”. Passano pochi giorni e il 12 maggio sempre del 1977 l’autorità giudiziaria di Milano arresta Sergio Spazzali e Giovanni Cappelli, legali di “Soccorso rosso”, l’organizzazione fondata alcuni anni prima tra gli altri da Dario Fo e Franca Rame per la difesa dei tanti militanti di sinistra, e che verranno scarcerati il 28 agosto 1977. Sergio Spazzali era già stato arrestato due anni prima, il 21 novembre del 1975, per una esportazione di armi con alcuni anarchici svizzeri e in carcere a San Vittore aveva subito, unitamente ad altri tre detenuti “politici”, una violenta aggressione, prima di essere scarcerato il 15 aprile 1976. Sempre Sergio Spazzali il 19 aprile 1980 verrà arrestato per la terza volta sulla base delle dichiarazioni del pentito Patrizio Peci e trascorrerà altri 14 mesi di prigione prima di essere assolto in primo grado il 17 giugno del 1981, assoluzione riformata dalla Corte d’Appello che in accoglimento dell’impugnazione della Procura, il 20 marzo 1982 lo condanna a 4 anni. Sergio Spazzali a quel punto ripara all’estero e morirà a Miramas il 22 gennaio 1994, mentre “Nanni” Cappelli smetterà per sempre di fare l’avvocato e dopo avere vissuto con la comunità Saman di Osho aprirà un ristorante alle Hawai con un diverso nome.

    Ma quel 19 aprile del 1980, e sempre a seguito delle dichiarazioni di Peci, i carabinieri di Genova si recano a casa dell’Avvocato Edoardo Arnaldi per arrestarlo e Arnaldi, che ha 55 anni e soffre di gravi problemi di salute, si toglie la vita sparandosi un colpo di rivoltella nel bagno mentre nella stanza a fianco si trovava sua moglie. Meno di un mese dopo, il 2 maggio 1980, viene arrestato l’avvocato milanese Gabriele Fuga che il pentito Enrico Paghera indica come appartenente all’Organizzazione anarchica Azione Rivoluzionaria e che sconterà 15 mesi di prigione preventiva prima di essere assolto al processo di Livorno. A difendere Fuga c’è l’avvocato Luigi Zezza che a sua volta il 16 gennaio 1981 viene colpito da mandato di cattura con l’accusa di partecipazione a banda armata ma riesce a riparare all’estero e il 22 ottobre del 1984 verrà assolto. L’Avvocato Fuga verrà nuovamente arrestato il 13 luglio del 1982 con l’accusa di partecipazione a Prima Linea e ancora una volta, dopo una condanna in primo grado, verrà assolto in appello.

    Le manette contro gli avvocati dei militanti di sinistra non si fermano e dopo che il 20 maggio del 1980 era stato arrestato l’Avvocato Rocco Ventre, il 13 febbraio del 1981 a Roma il Sostituto Luciano Infelisi arresta in un colpo suolo ben due legali di “Soccorso Rosso”: Eduardo Di Giovanni e Giovanna Lombardi. L’accusa è quella di “apologia di reato” e di “istigazione a violare le leggi dello Stato” per aver concorso nella pubblicazione sulla rivista “Corrispondenza Internazionale” diretta da Carmine Fiorillo del documento brigatista “L’ape e il comunista”, curato dal Collettivo dei prigionieri politici. Il 5 marzo saranno tutti assolti e scarcerati. Infine nel 1983, quando scoppia il “caso Pittella”, il giudice romano Rosario Priore emette un mandato di cattura contro l’avvocato calabrese di “Soccorso Rosso” Tommaso Sorrentino che si rifugia all’estero e si costituirà il 20 luglio del 1987 dopo 4 anni di latitanza.

    avvocato Davide Steccanella

  • No dal Tribunale per i 100mila euro in 6 mesi al nuovo direttore scelto da Fiera Milano

    Non piace al Tribunale il candidato scelto da Fiera Milano spa per la successione di Enrico Mantica alla guida di Nolostand, la  società commissariata nell’ambito dell’inchiesta su presunte infiltrazioni mafiose anche negli appalti legati a Expo.  A quanto apprende Giustiziami, il nome designato per la carica di direttore tecnico sarebbe quello di Bruno Boffo, già vicedirettore generale dell’ente tra il 1998 e il 2009.  Un manager di assodata esperienza e conoscenza degli ingranaggi del gigante fieristico che tuttavia presenterebbe due pecche agli occhi dell’amministratore giudiziario Piero Capitani. Anzitutto non rappresenterebbe una sufficiente “discontinuità” rispetto al passato,  in quanto ex  figura preminente di Fiera Milano. Una cesura ritenuta necessaria dal Tribunale che già aveva ottenuto  le dimissioni dell’intero cda di Nolostand. Mantica non era indagato ma è stato rimosso per contatti con imprenditori ritenuti vicini a Cosa Nostra.E poi, fatto non secondario, avrebbe suscitato perplessità la decisione presa dal Comitato per la Remunerazione di Fiera Milano, di cui fa parte anche l’esponente del Pdl Licia Ronzulli (oltre ad Attilio Fontana e Romeo Robiglio) di determinare un compenso di 100mila euro lordi per sei mesi da versare a Boffo. Una somma ritenuta spropositata che in Fiera forse ritengono necessaria per indurre il manager a dedicarsi anima e cuore a un’impresa difficile: rimettere in pista una società squassata dall’indagine milanese in vista di appuntamenti decisivi  in programma già a settembre. (manuela d’alessandro)

    le-gravi-dimenticanze-di-fiera-ed-expo-sui-controlli-per-mafia

     

     

  • “Dimagrisce perché non vuole la dentiera”, detenuto in coma dopo no a scarcerazione

    E’ una storia delicata che si presta perlomeno a una riflessione quella di G.C., detenuto nel carcere di Vigevano, ora in coma farmacologico per le conseguenze di un cancro al polmone dopo che un anno fa i giudici gli avevano negato la scarcerazione o  un approfondimento del suo stato di salute.

    Nell’ordinanza con cui respingevano una richiesta di perizia presentata dal suo legale, Andrea Dondé, anche sulla base di un dimagrimento di 40 kg, i magistrati scrivevano che “nessuna delle pluralità di patologie era in sè ostativa alla permanenza in carcere” di G.C. il quale si sottraeva in parte alla “concreta attuazione delle terapie ospedaliere per sua scelta, come nel caso dell’astensione al fumo e dell’applicazione di una protesi dentaria, quest’ultima risolutiva dei problemi di alimentazione, cui è legata la perdita di peso riscontrata dal difensore”.

    Tra le patologie indicate dai giudici anche una “broncopneumopatia cronica con inziali segni di insufficienza respiratoria”. Un mese fa, G.C. che stava scontando la pena dell‘ergastolo per un omicidio, si è sentito peggio del solito ed è stato portato nell’ospedale di Vigevano dove i medici hanno constatato che le sue condizioni erano “gravemente compromesse” tanto da doverlo operare immeditamente ai polmoni e a indurre il coma farmacologico. “Si potrà dire che fumava e che quindi si è ammalato per quello di cancro – spiega Dondé –  ma quando i sanitari parlano di un paziente arrivato in condizioni gravemente compromesse mi viene da pensare che forse si poteva fare di più, almeno quella perizia che avevo chiesto”. Per i magistrati che negarono l’incompatibilità di G.C. col carcere la documentazione medica acquisita un anno fa, si legge nell’ordinanza, era invece “tale da non richiedere ulteriori approfondimenti”. (manuela d’alessandro)

    Aggiornamento del 02 agosto 2016. Il protagonista di questa storia è morto nella notte tra lunedì e martedì. Dopo aver parlato di questa vicenda, nei giorni scorsi, il figlio Andrea Francesco ci aveva scritto, commentando con rabbia amara l’evoluzione della salute del padre. Le sue parole le trovate nei commenti a questo articolo.

  • “No alla vendetta”, la lezione della mamma di Lorenzo nel giorno dell’ergastolo a Giardiello

    Ecco le parole dell’avvocato Alberta Brambilla Pisoni, la mamma  di Lorenzo Claris Appiani,  il giovane legale freddato mentre leggeva la formula del giuramento del testimone, dopo la condanna all’ergastolo di Claudio Giardiello.

    Se memoria deve restare di quella gelida mattina di sole in cui caddero oltre a Lorenzo, l’imprenditore Giorgio Erba e il giudice Fernando Ciampi,  vorremmo che fosse di questa luminosa lezione di umanità e diritto, e non si sa dove cominci una e finisca l’altro.

    “La sentenza rispetta il diritto, la giustizia sarebbe evitare che succedano queste cose. Il processo è stato fatto bene, sono state concesse delle perizie che sono state esaurienti e Giardiello ha avuto tutte le garanzie, com’è giusto che dovesse essere.  Mi è dispiaciuto essere qui presente: lo sono sempre stata quando si parla di Lorenzo e lo sarò sempre, perché quando si parla di Lorenzo io ci sarò sempre, ma non è bello asssitere alla condanna all’ergastolo di una persona. Anche se voi mi avete vista sempre sciolta e battagliera, questa è comunque un’esperienza che ti lascia un sacco di emotività perché comunque un essere della tua specie viene  condannato a una pena a fine vita. La vendetta la lascio a Giardiello, io cerco di lavorare su di me. Per me la vendetta è già un principio di delitto, non viene mai punito il pensiero vendicativo ma già da lì parte qualcosa contro il vivere civile, contro un percorso di miglioramento. La vendetta esiste ma penso che dovremmo fare di tutto per comabatterla”. (manuela d’alessandro)

     

     

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  • Il finanziere che tutte la mattine fa un pazzo giro di Milano per ritirare i giornali

     

    Che fa la Guardia di Finanza? Scopre le mazzette. Lo abbiamo visto in questi giorni, lo fa anche bene. Ci sta pure simpatica quando toglie il velo al malaffare. Tutte le mattine una mazzetta si alza e deve correre più veloce del finanziere. Non solo la mazzetta di denaro però, anche quella dei giornali omaggio.
    Tutte le mattine, infatti, a Milano un finanziere si alza e prende servizio nel “turno giornali”, il turno mazzetta insomma. Prende l’auto civetta (non confondetevi: non la ‘civetta’ con i frontespizi dei giornali davanti alle edicole, ma l’auto undercover, quella senza i colori gialli e grigi del Corpo), e inizia il suo giro nelle redazioni. Dal lunedì al sabato, verso le 7 del mattino si reca in zona corso Lodi, dove i giornalisti di Repubblica non sono ancora arrivati perché stanno leggendo la concorrenza con il loro abbonamento digital sul tablet, mentre bevono il caffè. Ritira otto copie del quotidiano. Poi vola in auto in via Solferino, dove i giornalisti del Corriere e della Gazzetta non sono ancora arrivati perché stanno leggendo Repubblica sul tablet mentre bevono il caffè a casa. E ritira Corsera e la Rosa.
    Poi vola in via Negri, a raccogliere le copie del Giornale, quattro. Poi va a recuperare gli altri: la Stampa in via Paleocapa, il Giorno, il Messaggero, eccetera. Pare che invece Italia Oggi e IlSole24Ore arrivino per posta. La routine del turnista dei giornali si spezza il mercoledì, quando si spinge fino alla provincia milanese per recuperare il settimanale Panorama, a Melzo.
    Poi iniziano le consegne. Le copie in via Filzi (Nucleo di polizia Tributaria), in via Melchiorre Gioia (comando regionale), in via Valtellina (provinciale) e in corso Sempione (interregionale).
    L’auto di servizio ha un costo di carburante, il finanziere potrebbe cercare altro genere di mazzette. Ci chiediamo con stima: ma perché i comandanti non si fanno regalare un abbonamento digital e non leggono i quotidiani sul computer, mentre bevono il caffè? O forse sbagliamo: per fortuna qualcuno legge ancora i giornali cartacei.

  • Le gravi ‘dimenticanze’ di Fiera ed Expo sui controlli per mafia

    C’è una crepa nel muro di controlli che avrebbe dovuto proteggere Expo  dalla mafia. Eppure ieri Roberto Maroni aveva rassicurato tutti (si fa per dire, visti gli esiti dell’inchiesta): “Dalla Direzione investigativa antimafia arrivò il via libera per Dominus”.

    Invece ora si viene a sapere che Expo e Fiera ebbero un’amnesia fatale sulla società al centro dell’inchiesta che ha portato a 11 arresti a cui Nolostand spa, la controllata da Fiera spa ora commissariata, subappaltò i lavori per alcuni padiglioni.

    Da fonti giudiziarie apprendiamo che  il nulla osta non poteva essere dato per una ‘dimenticanza’ alla base dei controlli: Expo e Fiera non inserirono Dominus, amministrata di fatto da 2 degli arrestati sospettati di contiguità con la mafia, in Si.Prex, la piattaforma informatica delle imprese operanti in Expo 2015. Dominus sarebbe stata indicata solo in un generico elenco cartaceo inviato da Fiera spa alla Prefettura e, per conoscenza, alla Dia e all’Autorità Nazionale Anticorruzione, il 16 maggio 2014. La lista comprendeva 216 fornitori abituali della Fiera che potenzialmente avrebbero potuto essere utilizzati per i lavori in Expo e quindi da sottoporre alle verifiche dellla Dia ma anche della Prefettura e delle altre forze dell’ordine.

    Verifiche che però sarebbero scattate solo dopo l’inserimento di Dominus nella piattaforma Si. Prex. Un passaggio ‘saltato’ nonostante Dominus fosse diventata da ‘potenziale’ a concreta fornitrice di lavori per Expo, tanto da vedersi affidata la costruzione ddei padiglioni della Francia, della Guinea Equatoriale, del Qatar e persino la passerella calcata dai milioni di visitatori per accedere all’Esposizione Universale. (manuela d’alessandro)

    La lettera anonima sull’amministratore mafioso cestinata da Fiera Milano

     

  • La lettera anonima sull’”amministratore mafioso” cestinata in Fiera Milano

    Com’è possibile che una società leader mondiale negli allestimenti fieristici non si accorga di fare affari con due tizi sedicenti amministratori di un consorzio che  sono in realtà poco più di Totò e Nino Taranto alla prese con la vendita della fontana di Trevi? Per la Procura di Milano è potuto accadere per sciatteria, ma non ci sono reati (almeno per il momento).

    “Ora state facendo politica”, ha ammonito il fresco procuratore capo Francesco Greco i cronisti che insistevano durante la conferenza stampa sulle presunte responsabilità penali di Fiera Milano nel non accorgersi che la sua controllata Nolostand spa aveva affidato in violazione dei codici etici la costruzione dei padiglioni di Expo a Giuseppe Nastasi e Liborio Pace, arrestati  per associazione a delinquere finalizzata a reati fiscali aggravata dalla finalità mafiosa. I due si presentavano come amministratori del consorzio Dominus ma sarebbe bastata una visura camerale per constatare che maneggiavano milioni di euro senza alcun titolo. I codici etici della Fiera prevedono che i contatti coi collaboratori esterni avvengano ” con la persona fisica o giuridica che rappresenta la parte”.

    Di Liborio Pace si poteva sapere che era stato imputato in un procedimento per mafia, concluso con la sua assoluzione. Ma ancor di più sconcerta quello che si sarebbe potuto sapere su Giuseppe Nastasi. Il 16 marzo  arriva in Fiera una lettera che viene cestinata in cui viene definito un “mafioso”. Ebbene: se vi arrivasse la soffiata che una persona a cui state affidando dei lavori per voi molto preziosi è un “mafioso” cosa fareste? Enrico Mantica, il direttore tecnico di Nolostand (non indagato), telefona a Nastasi e  lo informa che qualcuno va  raccontando che lui è un mafioso. Scrivono i giudici della sezione misure di prevenzione che hanno commissariato Nolostand:  “Nastasi e Mantica discutono della lettera anonima ricevuta dal dirigente di Fiera Milano (“è arrivata una lettera che poi quando passa gliela faccio vedere…”). Mantica appare a quel punto restio nel proseguire telefonicamente l’argomento (“No, eh, ci sono altre  cose che poi meglio che ne parliamo di…Quando può…meglio evitare di parlarne al telefono dai!’)”. I due poi effettivamente si incontrano e, stando a quanto racconta Nastasi a un’amica, Mantica non è apparso turbato dal contenuto della letttera anonima: “‘Mi ha detto stia sereno…e mi è apparso serenissimo, tranquillo’”.

    E così, chiosano i giudici, “per nulla scalfiti dal contenuto della lettera i rapporti tra Giuseppe Nastasi e i vertici operativi di Fiera Milano – Nolostand spa divengono sempre più fitti con il passare dei giorni, al fine di ottenere la proroga del contratto di servizi con Nolsotand spa per il triennio 2016 – 2018 (…)”. Nolostand è stata commissariata: la legge prevede che per questa misura non è necessario che l’azienda abbia commesso reati, basta solo che il libero esercizio di un’attività economica, a causa di una condotta dei sui dirigenti censurabile sul piano colposo, abbia l’effetto di agevolare persone indagate per gravi reati”.  (manuela d’alessandro)

    Il decreto che commissaria Nolostand

     

  • Procura bocciata su Antinori: la rapina di ovuli non esiste, non sono “cose”

     

    La rapina di ovuli, reato contestato per la prima volta dalla Procura di Milano a Severino Antinori, non esiste perché gli ovuli non sono “cose” ma parti del corpo umano.

    Il Tribunale del Riesame mette un punto fermo nel caos etico – giuridico sollevato dall’ indagine che ha portato il 13 maggio all’arresto del ginecologo e derubrica da rapina a violenza privata il presunto prelievo con la forza di 8 ovuli a una giovane infermiera spagnola.

    Chiariscono i giudici: “Finché in vita, il corpo umano non è una cosa e si differenzia dalle cose mobili e immobili. Così gli organi e le parti del corpo vivente (tra cui gli ovociti) non possono essere considerati cose mobili riconducibili alla normativa dei reati contro il patrimonio (…). Le parti del corpo diventano mobili solo una volta separate ma non fanno parte del corpo vivente”. Se non si puà parlare di “detenzione del fegato”, si può invece farlo con le parti che per vari motivi vengono separate.  Come i capelli o i denti. “Non si tratta di esempi macabri ma di scuola: la madre che conserva i denti da latte del bambino, la donna che cede i propri capelli per il confezionamento delle parrucche”.

    Nuovi problemi, vecchi principi. “La legge sulla procreazione assistita – conclude il presidente del collegio Cesare Tacconi – non sposta la questione in quanto riguarda sul versante penale la commercializzazione degli ovuli ma non consente di ritenerli cose mobili allorquando fanno parte del corpo”.  (manuela d’alessandro)