Autore:

  • Vola la pagina Facebook dove sfilano gli orrori della moda nei Tribunali

     

    Quasi diecimila fan su Facebook, tantissimi avvocati e magistrati, gente che va e viene dal variegato modo della giustizia. “Avvochic & choc, ovvero la moda nei tribunali” è il rifugio goliardico preferito da chi bazzica i Tribunali, una strepitosa vetrina  dei costumi della giustizia, lo specchio bizzarro di chi siamo.  Dietro c’è un gruppo di avvocati napoletani che ama ridere. “Il 18 giugno compiamo un anno – racconta al telefono il penalista Claudio Di Meglio – l’idea della pagina è stata del collega Agostino La Rana, appassionato osservatore di abbigliamenti.  Accettiamo le iscrizioni solo di chi in qualche modo è legato al mondo della giustizia. Tutti gli iscritti possono mandare le foto che immortalano le mise più curiose”. Bisogna solo rispettare le regole tassative di non mostrare il volto o altri dettagli che possano rendere riconoscibile il modello/a e indicare l’ufficio giudiziario in cui ha sfilato il fotografato.

    Chiediamo a Claudio una hit delle immagini più spassose. “L’anno scorso a Napoli venne imposto il divieto per gli avvocati di entrare in bermuda. E allora tanti miei colleghi prima di entrare in Tribunale andavano a comprarsi dei leggins da mettere sotto il calzoni corti, con effetti esilaranti. Ma arriva di tutto, da tutta Italia: avvocati con le croques, donne ottantenni in carne che fanno intravvedere la lingerie, testimoni con gli zoccoli, gente in abiti tigrati. Ogni settimana, sulla base dei ‘mi piace’, eleggiamo la più bella della settimana”.

    C’è qualcuno degli iscritti che ama guardare senza partecipare: “Sono i magistrati che non scattano foto ma ci dimostrano grande autoironia e spirito critico verso la loro categoria. Qualcuno dei fotografati invece non gradisce e si lamenta per essere finito nell’obbiettivo. Ma noi siamo qui per divertirci, senza voler criticare nessuno e neppure abbiamo intenzione di guadagnare sulla popolarità della pagina. Però un sogno ce l’abbiamo: organizzare un corso di formazione sul dress code per chi entra in un Palazzo di Giustizia”. (manuela d’alessandro)

  • In 2 anni quadruplicate le domande degli aspiranti rifugiati, Tribunale in crisi

    Ci sono cifre che erompono dal Bilancio di Responsabilità Sociale del Tribunale di Milano presentato oggi nell’aula magna del Palazzo di Giustizia.  Riguardano il numero di stranieri che chiedono la qualifica di rifugiato. Un pezzetto del loro percorso di dolore e speranza passa dai giudici civili, competenti a valutare i ricorsi contro il diniego di concedere lo status da parte della comissione territoriale della Prefettura. Il lavoro di quest’ultima, si legge nel documento, “è aumentato in maniera esponenziale negli ultimi anni con conseguente immediato riflesso sul numero dei ricorsi proposti a seguito dei provvedimenti di diniego: 636 i ricorsi iscritti nel 2014, 1679 nel 2015 (fino a  tutto settembre 2015 sono stati 715, nei mesi di ottobre e dicembre i ricorsi sono aumentati a 964), con ulteriore tendenza all’aumento nel 2016 (in gennaio e febbraio il numero dei ricorsi è stato di 807, con una proiezione per il 2016 di oltre 4000 ricorsi)”. Nel giro di 2 anni, si sono più che quadruplicati. La spiegazione sembra facile: le istanze si impennano in concomitanza con la crisi siriana  e la chiusura delle frontiere da parte dei paesi del’Est Europa.

    Una situazione definita “critica” a livello giurisizionale nel Bilancio anche se sono arrivati dei rinforzi per far fronte all’emergenza e “dare una risposta alla domanda di protezione in tempi ragionevoli”: l’applicazione alla sezione prima civile, competente per tale materia, di ulteriori 9 giudici ordinari e 6 onorari e l’applicazione di un giudice extragiudiziale, a fronte dei 3 richiesti dalla Presidenza del Tribunale, per i prossimi 18 mesi”. Basterà?

    (manuela d’alessandro)

  • Il pm Gobbis stravince la gara dei voti per il consiglio giudiziario, voglia di nuovo in Procura?

    Alessandro Gobbis di Magistratura Indipendente, unico a sfondare il muro dei cento voti, stravince a sorpresa la gara delle preferenze nelle elezioni al consiglio giudiziario del distretto milanese. Assieme a lui, scelto da 136 votanti, entrano nel ‘piccolo Csm’ locale, i pm Donata Costa di Area (96), Alessandra Cerreti di Unicost (95) ed Eugenio Fusco, sempre di Area (86). A sopresa perché era il pm con meno anzianità di servizio in gara, per questo anche candidato al ruolo clou di segretario destinato di solito al più giovane eletto, e si è dedicato all’avventura politica solo negli ultimi mesi. Voglia di novità in una Procura monopolizzata per tradizione da Md cui apparteneva il procuratore uscente, Edmondo Bruti Libeati, e che vorrebbe piazzare anche il nuovo, Francesco Greco? Tra i grandi sconfitti, il pm del pool reati economici Adriano Scudieri, figura molto attiva in Md.

    Certo, a dar conto dei commenti nei corridoi della Procura, nessuno accreditava un simile exploit di preferenze al magistrato 48enne di origini venete, ex carabiniere dal carattere esuberante, titolare anche dell’indagine sull’attacco informatico ad Hacking Team. Magistratura Indipendente, considerata corrente di destra, si aggiudica anche la gara delle preferenze tra i giudici, conquistando le prime tre posizioni col pavese Andrea Balba, Anna Introini (presidente del Tribunale di Como) e Nicola Di Leo (giudice del lavoro a Milano).

    Tra le liste, resta il predominio di Area, in lieve flessione Unicost, mentre lievita  Magistatura indipendente nonostante la scissione della deludente, con solo un centianio di voti, Autonomia e Indipendenza,  creata dall’ex Mani Pulite Piercamillo Davigo. Martedì dovrebbe insediarsi il nuovo consiglio giudiziario che raccoglie l’eredità di quello diventato protagonista a Milano negli ultimi anni con interventi decisivi nella ‘guerra’ in Procura tra Bruti Liberati e Alfredo Robledo. (manuela d’alessandro)

  • Detenuto si ferisce con una lametta in aula, tre domande

     

    I fatti. Il ragazzo, cinese, classe 1989, ascolta la sentenza di condanna in appello a 6 anni nella gabbia riservata ai detenuti, ha una crisi di nervi, si taglia con una lametta da barba collo e polsi. Esce un po’ di sangue. Intervengono gli agenti della polizia penitenziaria per calmarlo e chiamano un’ambulanza. Viene portato in codice giallo all’ospedale Fatebenefratelli dove lo ricoverano. Nulla di grave, ma neanche proprio un graffietto.

    E le domande.

    1) Come ha fatto l’imputato a uscire dal carcere e portare con sé una lametta da barba in Tribunale? “E’ un ragazzo che ha dei problemi – spiega il suo avvocato Mauro Straini – ha solo 25 anni e 5 li ha trascorsi in carcere  per reati di droga. E’ un piccolo spacciatore, il suo ruolo nelle indagini è stato sovradimensionato. L’idea di farsi altri anni in prigione lo ha fatto crollare”.

    2) Perché non si è atteso l’arrivo dei soccorsi nell’aula della quinta sezione d’appello e si è trasportato subito il detenuto nelle camere di sicurezza del Palazzo di Giustizia, rischiando di aggravare (in teoria) le sue condizioni?

    3) Dal momento in cui l’ambulanza è arrivata, poco prima delle 12, a quando il giovane cinese è stato messo sulla lettiga sono trascorsi più di dieci minuti perché i soccoritori non riuscivano a trovare le camere di sicurezza, infilate in un cunicolo del cortile dopo un percorso da giramento di testa. “Dove sono le camere si sicurezza?”, hanno chiesto a chiunque incontravano gli uomini e donne in tuta arancione, smarriti.  Nessuno degli addetti ai lavori  è stato in grado o ha avuto la pazienza di indicarglielo. Lo hanno fatto dei giornalisti, che erano lì perché incuriositi dalla loro presenza.  Si ripropone il problema di come orientarsi in Tribunale. In teoria, i famosi fondi Expo per la giustizia, quelli impiegati per esempio nei monitor spenti da due anni che adornano tutto il Tribunale, sarebbero dovuti servire anche per la segnaletica. (manuela d’alessandro)

  • Le Olgettine convocate dalla Gdf
    Nel mirino lo ‘stipendio di Papi Silvio’

     

    Chi ha dato ha dato, ma chi ha avuto viene multato. E lo ‘stipendio di Papi’ rischia di finire nelle mani dello Stato.

    Mancano pochi giorni all’udienza preliminare che vedrà Silvio Berlusconi di nuovo imputato (questa volta per corruzione in atti giudiziari) accanto a una ventina delle sue ospiti del bunga bunga arcorino. Proprio in questi giorni, con un tempismo stupefacente, la Guardia di Finanza ha convocato in caserma le ragazze, per la resa dei conti. Quelli veri, da misurare in euro. Nulla di penalmente rilevante, in questo caso, il problema è la legge che disciplina l’utilizzo di contanti. Ricordate la famosa soglia dei mille euro di Mario Monti, poi innalzata a 3mila euro con il discusso provvedimento del governo Renzi? Le ragazze, stando all’indagine Ruby ter di cui la Gdf ha acquisito gli atti, lo avrebbero ampiamente superato, innumerevoli volte. Con buste zeppe di contanti. Per esempio con quella sorta di stipendio da 2mila o 2500 euro al mese ‘confessato’ dalle stesse ragazze in Tribunale e persino dallo stesso Berlusconi, il quale sostenne “la Procura le ha rovinate, io le aiuto“.

    Evidentemente la Gdf, che nega le convocazioni (confermate invece a Giustiziami da almeno quattro fonti indipendenti) deve aver portato a termine i suoi calcoli. E non devono essere stati semplici: nel corso degli anni le normative sono cambiate. Tra le convocate (ma nessuna di loro si sarebbe presentata) c’è una giovane che avrebbe ricevuto almeno 147mila euro. Un’altra che ne ha avuti quasi 190mila. Una terza che in contanti, stando alle indagini della Procura, avrebbe ricevuto ‘solo’ 25 mila euro. Sulle restanti frequentatrici di Arcore, non abbiamo conferme. Tutte comunque rischiano di dover sganciare, sotto forma di multa, fino al 40 per cento di quanto ricevuto dall’ex Cavaliere. Cosa che forse Berlusconi non immaginava, ai tempi in cui manteneva le sue predilette, e che forse forse un pochino lo farà arrabbiare…i suoi soldi per le ragazze, girati all’Erario. Che disdetta.

    Ah, ci sono due protagonisti della vicenda che per ora non stati ancora convocati: Berlusconi e Ruby.

  • In esclusiva l’audio della telefonata Berlusconi – Mantovani: lavoro – sesso – segretarie

    Raccomandazioni, posti di lavoro da trovare a fratelli, compagni, ex mogli. E poi nomine per i vertici Aler da spartire in quote prestabilite tra Forza Italia, Lega, Ncd, Lista Maroni. Tra i criteri per sostenere un candidato “l’essere un bell’uomo”. E poi un’inedita battuta (sesso-lavoro-segretarie) in tipico stile di Arcore. “Non mettete quella famosa clausola che dice che la segretaria deve fare l’amore ameno una volta alla settimana”.

    Berlusconi Mantovani (file .wav)

    C’è tutto questo nella breve telefonata del 22 dicembre 2013 – pubblicata in esclusiva da Giustiziami – tra Silvio Berlusconi e Mario Mantovani. La conversazione è intercettata dalla Guardia di Finanza di Milano nel corso delle indagini che hanno portato l’ex senatore ed ex assessore regionale prima in carcere e poi ai domiciliari con accuse di corruzione, turbativa d’asta e altro. Nell’inchiesta condotta dal pm Giovanni Polizzi è indagato anche l’ex assessore regionale leghista Massimo Garavaglia, con l’accusa di aver dato il suo contributo a quella che gli inquirenti ritengono una turbativa d’asta: una gara per il servizio trasporto dializzati i cui effetti vengono vanificati, stando alle accuse, grazie all’intervento della catena Garavaglia-Di Capua-Scivoletto, ovvero l’assessore all’economia, il suo braccio destro e il direttore della Asl1 di Milano. Viene così favorita una onlus, la Croce Azzurra Ticino, facendo arrabbiare chi quella gara se la era regolarmente aggiudicata. Garavaglia, indagato per questo unico episodio, ha presentato una memoria difensiva. L’8 marzo, davanti al gup Gennaro Mastrangelo, inizierà l’udienza preliminare per 15 imputati, tra cui i due politici Mantovani e Garavaglia.

    Berlusconi, intercettato indirettamente mentre parla con il fedelissimo Mantovani, non è indagato. Tra gli episodi citati nella conversazione che pubblichiamo, uno merita una spiegazione. E’ quello che riguarda Alan Rizzi, capogruppo di Forza Italia in consiglio comunale a Milano. Il quale, a dicembre 2013, decide di passare a Ncd, ‘tradendo’ l’ex Cavaliere. Pochi giorni dopo, però, fa marcia indietro. Con una mossa imprevista e apparentemente inspiegabile. Che cosa ci sia dietro, lo chiariscono le parole di Silvio Berlusconi.

  • Il bimbo di 10 anni e la ‘ndrangheta: “Sono un Muscatello, voglio far paura come te”

    A 10 anni si dovrebbe avere paura di tirare un calcio di rigore. Dall’ordinanza a carico di 28 presunti affiliati alla ‘locale’ di Mariano Comense sbuca con passo militare un ragazzino che di coraggio ne ha da farsi scoppiare le vene e ha già deciso quale sarà la squadra della vita.

    “Voglio venire a lavorare con te perché sei una persona temuta, sei un Muscatello”.  Il suo papà, uno del clan che da decenni si mangia un pezzo di libertà di questo paese tra Como e Milano, è fiero come lo sarebbe quello del piccolo calciatore vedendolo guardare il portiere negli occhi.  “Veniva registrato – si legge nel provvedimento firmata dal gip Andrea Ghinetti su richiesta della Dda – un colloquio nel corso del quale D. Muscatello raccontava che il figlio cercava di seguire le orme del cugino L. in quanto a dire del bambino era una persona temuta anche per la sua appartenenza alla famiglia Muscatello”. “Nel corso della discussione – prosegue il gip – D. si compiaceva del fatto che il figlio di appena dieci anni facesse gia’ determinati ragionamenti ‘voglio venire a lavorare con te (inteso L. Muscatello)…lo temevano a L….si divertono perche’ e’ un Muscatello’”. Papà e cugino del bimbo sono tra gli arrestati accusati di associazione mafiosa finalizzata a traffico di droga, estorsioni, rapine. Cosa sarà di questo soldatino della ‘ndrangheta? A Reggio Calabria il Tribunale per i Minori da qualche anno ha adottato il protocollo ‘Liberi di scegliere’ che prevede, in casi molto gravi come la condanna definitiva dei genitori, la sottrazione dei minori alle famiglie. (manuela d’alessandro)

  • Il giudice legge la sentenza con un lumicino

    Giustizia al lumicino per Diamante e Matteo Marzotto, eredi del noto marchio della moda, condannati a dieci mesi di carcere dal Tribunale di Milano per evasione fiscale. La luce se ne va, ma basta un lumino per consentire al giudice della seconda sezione penale di legggere la sentenza. (m.d’a.)

  • L’ordinanza sulla sanità lombarda, solo per chi non soffre di mal di denti

    Leggete questa ordinanza solo se non soffrite di mal di denti. In caso contrario, dopo avere scoperto con quali criteri e con quali materiali il vostro sorriso viene curato in tantissimi ospedali lombardi, splancherete le vostre bocche tremando di paura. tra gli arrestati, il consigliere regionale della Lega Fabio Rizzi.

    ordinanza Rizzi – sanità

  • Morire di amianto in metro, chiesto il processo per ex dirigenti di Atm

    Sono morti in sei in sei anni, tra il 2009 e il 2015, tutti coi polmoni triturati dal mesotelioma o dal cancro, tutti dipendenti dell’Azienda Trasporti Milanesi (Atm). Un autista di bus, due elettricisti, un meccanico, un addetto alla manutenzione delle macchine, un operaio. Altri due sono vivi col respiro mozzato dalle placche pleuriche.

    Per il pm Maurizio Ascione, i responsabili di questo strazio sono due ex direttori generali della società: Elio Gambini, 84 anni, e Roberto Massetti, 76. Tra il 1998 e il 2001, quando la presenza di amianto in metropolitana e in altre strutture aziendali  era “massiccia”, non avrebbero applicato la legge in tema di prevenzione e nemmeno informato i lavoratori dei rischi che correvano. Le polveri galleggiavano ovunque: nei depositi degli autobus e nei tunnel della metropolitana, nei tetti in eternit degli hangar dove la notte riposano i mezzi. Toccava ai manager, sostiene Ascione che da anni si occupa delle vittime da esposizione di amianto, proteggere i dipendenti facendo applicare le regole di sicurezza: maschere sul viso; tute da lavare periodicamente; viste mediche; manutenzione dei luoghi a rischio. Gli indagati, convocati a ottobre per un interrogatorio, si sono avvalsi della facoltà di non rispondere di fronte alle accuse di omicidio colposo e lesioni gravi.

    Nel luglio scorso, il pm Ascione aveva ottenuto la sua prima vittoria: la condanna fino a 7 anni per 11 ex manager di Pirelli per la morte di 24 operai.  In precedenza, i processi per l’amianto alla Franco Tosi e all’Enel di Turbigo si erano conclusi con l’assoluzione di tutti gli imputati. (manuela d’alessandro)

    415 bis amianto atm (1)

    415 bis amianto atm (2)

    415 bis amianto atm (3)

     

     

     

     

  • Lap dance per carabinieri sotto copertura
    Nel privé vicino al Tribunale

     

    A due passi dal Tribunale, lo scrupoloso militare sotto copertura verifica se davvero nello strip club si commettano reati di pubblica decenza. E’ uno sporco lavoro, e qualcuno lo deve pur fare.

    Siamo all’Extasìa, un club nella  zona di largo Augusto, a duecento metri in linea d’aria dal dal Palazzo di Giustizia. I carabinieri hanno avuto una soffiata: nel privé succede di tutto, non si fanno solo spettacoli erotici, le ragazze danno vita a vere e proprie orge con i clienti. Ecco che ben quattro militari vanno a verificare di persona, su mandato della Procura. Un luogotenente, un appuntato, un tenente e un maresciallo si introducono nel privé, pagando qualche decina di euro.

    Ed ecco le loro testimonianze. Una ragazza che si presenta come Alessia “spontaneamente si poneva a cavalcioni del militare strusciando il seno contro il viso e il torace del militare…Rimasta nuda,mimava movenze sessuali, strofinando il seno sul viso del militare. Si specifica che il militare aveva più volte l’opportunità di toccare i fianchi, le cosce e poi di accarezzare tutto il corpo, cosa che la ragazza gradiva“.

    Rebecca invece “si era avvinghiata al militare, abbassandogli la cerniera dei pantaloni e inserendovi una mano sino a toccargli ripetutamente il pene…poi cercava ripetutamente di farsi toccare più volte l’organo genitale”.

    Nel contempo Giulia se la prende con un altro carabiniere, “appoggiandogli il seno sull’avambraccio”. E ancora, “Valentina in arte Lulù” strusciava il proprio bacino sul pube del militare, toccandolo tra le gambe e in particolare massaggiandogli il pube, il torace e i capezzoli”, ma ancora con i vestiti addosso.

    Intanto in un altro locale, il Lap Zeppelin, continua l’accurata indagine. In quel luogo di perdizione, Maria “lecca il lobo dell’orecchio sinistro e invita (il militare, ndr) a toccarla ovunque…Denudatasi completamente inizia a simulare un rapporto sessuale sedendosi sulle gambe di questi (…) e strusciandosi sui jeans del militare”.

    Grazie a queste relazioni di servizio, i carabinieri dimostrano, supportati dal pm Ester Nocera, che all’Extasìa si favoriva e sfruttava la prostituzione. Una vera associazione per delinquere di cui faceva parte, stando alle accuse, anche un collega di chi aveva condotto l’inchiesta: un altro carabiniere. In primo grado, il Tribunale di Milano assolve tutti con la formula “il fatto non sussiste”. Ieri, invece, la terza sezione della Corte d’Appello, presieduta dal giudice Piero Gamacchio, ribalta il verdetto. Tutti condannati. Il barista se la cava meglio di tutti: due anni. Va peggio al carabiniere, il quale, stando al capo di imputazione, si occupava di “controllare le quote dei privé e garantiva la sicurezza all’interno dei locali, provvedeva ad accompagnare le ragazze nei luoghi di dimora a fine turno”: tre anni di reclusione. Cinque anni e quattro mesi, invece, per il capo dell’associazione.

    Tutti assolti in primo grado, dicevamo. Il collegio presieduto dal giudice Aurelio Barazzetta, aveva argomentato su un presunto “mutamento dei costumi occorso negli ultimi decenni, concretizzantosi in particolare nell’affievolimento del senso del pudore” che porta a qualificare la lap dance come una “rappresentenzione artistica”. Tesi efficacemente contestata dalla Procura, nel suo ricorso, e poi in aula dal sostituto pg Nunzia Ciaravolo. Ora parola alla Cassazione.

  • Due processi, tre versioni sulle spese della Lega: a casa Bossi non si parla

     

    A casa Bossi si parla poco. Non si spiegherebbe altrimenti come sia possibile che in due processi distinti, ma con lo stesso tema, le versioni di papà Umberto e dei figli risultino così diverse. Il punto è quello delle spese personali per false lauree in Albania, multe e altro che sarebbero state sostenute coi soldi del partito. Accusa per la quale Riccardo Bossi, il figlio maggiore di Umberto, ha scelto di essere processato col rito abbreviato, mentre il senatur e Renzo ‘Trota’ Bossi sono a giudizio con rito ordinario.

    Oggi il pm Paolo Filippini ha chiesto la condanna a un anno di carcere per Riccardo, che avrebbe dilapidato  per scopi privati 160mila euro del Carroccio. “Ma lui non sapeva di prendere denaro del movimento politico – ha affermato nell’arringa l’avvocato Agostino Maiello –  Li chiedeva al segretario Francesco Belsito (ndr il tesoriere, anch’egli a processo) e alle segretarie perché non riusciva a parlare  col senatore. Un po’ perché Umberto era sempre impegnato, un po’ perché con lui aveva rapporti complicati. Come tutti i primogeniti, dopo la separazione ha preso le parti della mamma  e col papà parlava solo di fatti di natura economica. E comunque le spese che lo riguardano erano autorizzate dal padre. Riccardo non è complice di quanto emerso in questa indagine. Ha solo chiesto aiuto in un momento di difficoltà economica, ma non sapeva che il padre quei soldi li prendeva dal partito”. Per il primogenito pilota di rally, quindi, papà sapeva di foraggiarlo tramite i segretari del partito. Ma è lo stesso padre, tramite l’avvocato Matteo Brigandì che lo difende dall’accusa di truffa, a smentirlo: “Bossi non si è mai occupato di soldi ma solo di politica. Non sa neppure quanto costa un chilo di pane”. A confermarlo, sempre in questo processo, è stata anche l’ex contabile della Lega, Nadia Dagrada: “Bossi doveve essere messo al corrente delle spese di famiglia perché ne era all’oscuro e dissi a Belsito che dovevamo parlargliene”. Poi, c’è la terza versione, quella del giovane Renzo, che invece nega di avere mai prelevato euro dalle casse di via Bellerio e precisa di essersi pagato di tasca propria multe e cartelle esattoriali. E la laurea a Tirana? “Di quella non sapevo proprio nulla”.  (manuela d’alessandro)

     

     

     

     

  • Archiviazione anche per l’indagine sulla piastra di Expo che a un certo punto si fermò

     

    Un’archiviazione tira l’altra. Dopo Eataly sta per crollare il sipario  anche sull’indagine per i lavori della cosiddetta ‘Piastra’, la piattaforma destinata a ospitare lo ‘scheletro’ del sito. L’inchiesta era nata nel 2014 da un’intercettazione nella quale un imprenditore rivelava all’allora numero uno di Infrastrutture Lombarde, Antonio Rognoni, l’esistenza di un bigliettino che avrebbe dimostrato le irregolarità nella gara per ottenere i lavori.

    Il procuratore aggiunto Alfredo Robledo aveva iniziato a indagare con una certa foga, mettendo sotto intercettazione alcuni dei protagonisti e spingendosi fino a Gibilterra per cercare le prove della sua ipotesi accusatoria (corruzione e turbativa d’asta), ma nell’autunno 2014 l’indagine gli era stata tolta dal suo capo Edmondo Bruti Liberati e, di fatto,  lì è spenta negli abissi della guerra in Procura. Con l’incredibile scena di 5 pm a interrogare non un capo dello stato ma un testimone e la successiva emarginazione dagli interrogatori denunciata da Robledo al Csm Ora i pm Filippini, Pellicano e Polizzi, che non hanno mai nascosto la loro vicinanza a Robledo, sembrano costretti a chiedere a malincuore l’archiviazione di un’inchiesta che, prima della nascita dell’ Area Omogenea Expo voluta da Bruti, prometteva sviluppi succosi. L’appalto non sembrava proprio lineare fin dalle premesse: 255, 9 milioni di base d’asta, aggiudicato a 148, 9 da un raggruppamento di imprese guidato dalla Mantovani con uno sconto da urlo. E la stessa società Expo aveva messo a disposizione della magistratura un audit in cui venivano evidenziate diverse criticità. Il candidato sindaco ed ex presidente della società Giuseppe Sala non è mai stato indagato ma il suo nome compare nelle carte dell’inchiesta. (manuela d’alessandro)

     

     

  • La sentenza sull’abuso sessuale con lei in pantaloni bocciata al seminario degli avvocati

    Lei non è “credibile” perché ha denunciato solo 5 mesi dopo i fatti, racconta di avere subito un abuso sessuale con indosso i pantaloni, avrebbe finto di dormire quando si è accorta che lui la toccava nelle parti intime. Lui, un conoscente che l’aveva accompagnata a casa perché non si reggeva in piedi per l’alcol e poi si era infilato nel suo lettone matrimoniale “crollato per la stanchezza”, viene assolto dai giudici della nona sezione penale del Tribunale di Milano dall’accusa di violenza sessuale. Il pubblico ministero aveva chiesto una condanna a un anno e dieci mesi di carcere. La sentenza (giudici Luerti – Gasparini – Introini) è stata oggetto di accese critiche da parte degli avvocati che hanno partecipato nei giorni scorsi a un seminario organizzato dall’ordine e dalla regione Lombardia per formare legali specializzati nella tutela delle vittime di violenza sessuale. Per il difensore di parte civile, che ha affiancato la donna nel processo e tiene l’anonimato per proteggere la cliente, “è un verdetto strano e incomprensibile. Avrei potuto capire un’assoluzione perché lui poteva avere frainteso le intenzioni di lei, disponibile a uscire e ubriacarsi con lui. Invece, i giudici puntano sulla non credibilità di lei con argomenti non logici”. La donna spiega ai giudici di essersi addormentata vestita ed essersi svegliata qualche ora dopo sentendo che lui “aveva un braccio sotto il mio collo e con quella mano mi toccava il seno e con l’altra dentro le mutande”. “Per quanto concerne l’abbigliamento – scrivono i giudici nelle motivazioni – non è stato spiegato come la mano dell’imputato possa essersi infilata sotto le mutande di una donna sdraiata a letto e vestita con abiti invernali, per di più pantaloni”.  “Coi pantaloni – insistono – la dinamica appare ancora meno verosimile: se il braccio dell’aggressore avvolge da sotto il collo della donan fino a toccare con la mano il seno, l’altro braccio non può che raggiungere la zona genitale che da sotto, salvo ipotizzare una difficile contorsione. La mano potrebbe così infilarsi sotto le mutande, se la donna non indossasse nulla oppure solo una gonna (…)”. Non è credibile nemmeno che abbia mantenuto un “comportamento glaciale e inspiegabilmente razionale” decidendo di non muoversi e “fingere un lento risveglio” mentre lui la palpeggiava.

    Nella sentenza viene poi valorizzato il fatto che la donna abbia confessato a un’amica e taciuto invece ai giudici di non avere denunciato due abusi in passato. “Ma dal percorso psicologico seguito per un anno dalla mia cliente – contesta la parte civile – non è emerso alcun suo desiderio di rivalsa né la tendenza a confondere piani di realtà e fantasia, come confermato dalla terapeuta sentita in aula”. La donna, spiega il legale, ha deciso di non presentare appello “perché troppo traumatizzata dalla vicenda”. (manuela d’alessandro)

  • Nel totoprocuratore spunta il nome dell’outsider Jimmy Amato

    E adesso, nel totonomina che impazza, salta fuori anche l’idea di nominare un outsider: Giuseppe Amato detto Jimmy, oggi procuratore della Repubblica a Trento. Molto giovane, e sicuramente meno esperto degli altri contendenti, ma proprio per questo idoneo a portare la cosa fuori dall’impasse in cui rischia di finire.

    La sostanza è che mai, nella storia recente della Procura di Milano, la nomina di un capo era stata così incerta. La scelta del successore di Edmondo Bruti Liberati, che ormai da oltre un mese se n’è andato in pensione lasciando la guida provvisoria dell’ufficio al più anziano dei suoi vice, Piero Forno, si sta rivelando un rompicapo in cui si accavallano manovre di corrente, equilibri politici, e anche ragionamenti più sensati sul rapporto tra le diverse esigenze in campo: deve prevalere l’esigenza di continuità, o è venuto il momento di segnare una rottura con un passato fatto di momenti luminosi ma anche di ombre e veleni?

    Francesco Saverio Borrelli, Gerardo D’Ambrosio e Manlio Minale approdarono alla guida della Procura in modo quasi scontato: erano, ognuno a suo tempo, il più esperto e autorevole degli aggiunti, e si trovarono sostanzialmente senza rivali per la carica di procuratore. Anche Bruti era procuratore aggiunto, e l’investitura bipartisan che andava da Magistratura democratica a Forza Italia gli consentì di battere in scioltezza l’unico concorrente, Ferdinando Pomarici, che pure era assai più esperto di lui. Ma ora? Due degli aspiranti, Francesco Greco e Ilda Boccassini, sono attualmente procuratori aggiunti. Ma stavolta questa carica più che un vantaggio può rivelarsi un handicap, se prevalesse la linea del rinnovamento. D’altronde entrambi sono stati assai vicini a Bruti nei mesi cupi dello scontro con Alfredo Robledo, e se il Csm decidesse di girare pagina non sarebbero i candidati ideali.

    Già, ma cosa deciderà il Csm? Gli equilibri romani sono mutevoli per definizione, e in questo caso mutano ancora più rapidamente. Il fatto stesso che nelle ultime ore sia saltato fuori il nome di Amato (figlio di Nicolò, magistrato, già capo del dipartimento carceri, poi avvocato difensore di Bettino Craxi) che finora era stato considerato un candidato senza chance, testimonia la confusione che regna. Lo stato dell’arte può essere riassunto così: all’interno del comitato di presidenza del Csm, il vicepresidente Giovanni Legnini spinge per Francesco Greco; il neopresidente della Cassazione, Giovanni Canzio, vorrebbe una nomina da fuori, possibilmente Giovanni Melillo, oggi capo di gabinetto del ministro Orlando; il procuratore generale Pasquale Ciccolo per ora non si esprime. Ma quando la pratica approderà alla commissione incarichi direttivi e poi al plenum, i giochi si faranno ancora più complessi. Magistratura democratica e buona parte dei consiglieri ‘laici’ sia di centrosinistra che di centrodestra sono intenzionati a votare Greco, mentre i moderati di Unicost e alcuni laici voterebbero (per ora) Alberto Nobili, fino a pochi mesi fa anche lui procuratore aggiunto. A fare pendere la bilancia sarebbe a quel punto la linea che prenderanno i giudici conservatori di Magistratura Indipendente, il cui leader Claudio Galoppi è stato in questi mesi una delle voci più influenti del Csm. Magistratura Indipendente non ha un suo candidato, quindi ha le mani libere nel puntare su altri nomi.

    Una soluzione di compromesso poteva essere il procuratore di Novara, Francesco Saluzzo, che pure aveva fatto domanda: ma è stato appena nominato alla guida della procura di Torino. Senza appoggi, allo stato, le autocandidature di Ilda Boccassini e di Nicola Gratteri, oggi procuratore aggiunto a Reggio Calabria. Insomma, un caos dagli esiti imprevedibili, in cui di una sola cosa non si parla: quale debba essere il ruolo della Procura in una città complessa come Milano, dove si parla molto di sicurezza, e assai poco di poteri forti. (orsola golgi)

  • Maroni vuole illuminare la regione per il family day, ha invitato anche la Paturzo?

     

    Leggiamo su repubblica.it che “su idea del governatore Roberto Maroni la Regione pensa di inviare il gonfalone con la rosa camuna al Family Day organizzato sabato 30 a Roma e di illuminare lo stesso giorno il Pirellone con la scritta Family Day”.

    Il Pirellone quel giorno arrossirà imbarazzato fino alla cima dei suoi 127 metri se il concetto di famiglia ‘tradizionale’ caro al leghista è quello che emerge dalla lettura delle carte del processo in cui è imputato per turbata libertà del contraente e induzione indebita.  Sposato con Emilia Macchi che l’ha accompagnato all’ultima apertura della stagione scaligera, Maroni avrebbe fatto pressioni sui vertici di Expo per far ottenere un soggiorno di lusso in Giappone alla collaboratrice Maria Grazia Paturzo alla quale “era legato da una relazione affettiva”. A confermare la liason, secondo il pm Eugenio Fusco, intercettazioni e sms dai quali si evincerebbe anche la gelosia della portavoce Isabella Votino indignata con Maroni per averle messo tra i piedi Paturzo: “Farmela trovare a lavorare qui non mi sembra corretto, potevi trovarle un’altra sistemazione”.  Nelle motivazioni alla sentenza di condanna a 4 mesi per il direttore generale di Expo Christian Malangone, sempre  nell’ambito della stessa indagine, il giudice scrive che Maroni avrebbe “strumentalizzato la sua qualità di presidente della regione Lombardia per ottenere uno scopo del tutto personale” quale “la compagnia della Paturzo nel viaggio all’estero a spese del privato”, una “partecipazione legata esclusivamente al piacere personale del presidente”. Questo concetto di famiglia ‘tradizionale’ sembra avvicinarsi molto a quello sbandierato da alcuni partecipanti al Family Day del 2007, come Silvio Berlusconi e Pierferdinando Casini, di cui sono noti divorzi e irrequietudini.   (Manuela D’Alessandro)

     

  • I giudici milanesi che hanno firmato l’appello per la stepchild adoption

    Tra i ‘milanesi’ ci sono il presidente di sezione Elena Riva Crugnola, i giudici Olindo Canali, Maria Luisa Padova, Caterina Interlandi, Francesca Fiecconi  e Alessandra Dal Moro, la preside della facoltà di Giurisprudenza della Statale, Nerina Boschiero, l’ex procuratore Edmondo Bruti Liberati, il giudice in pensione Nicoletta Gandus, diversi professori universitari e avvocati. Assieme ad altri trecento giuristi hanno firmato un appello per includere la stepchild adoption nella legge sulle unioni civili che verrà dicussa a fine mese in Senato, uno dei temi più dibattuti anche nella maggioranza tra chi è favorevole o contrario all’adozione del figlio, naturale o adottivo, del partner. (altro…)

  • Contabile dei Mangano a giudice: “Fammi vedere il mio cammello’”, ma lui dice no

    “Signor giudice, mi faccia uscire all’alba per vedere il mio cammello. Senza di me, non mangia”. Se c’è una classifica delle istanze buffe a un magistrato, questa merita un posto d’onore. Rocco Cristodaro, ritenuto dalla Procura di Milano il contabile di Cinzia Mangano, figlia dell’ex stalliere di Arcore Vittorio, lo ha chiesto al giudice Fabio Roia che ne ha disposto la sorveglianza speciale con obbligo di dimora a Palazzo Pignano, un piccolo comune del cremasco. Tra le imposizioni, anche quella di non uscire di casa prima delle 7 e dopo le 21, un diktat apparso insostenibile a Cristodaro il quale, attraverso il suo legale, ha fatto pervenire un’accorata istanza a Roia, pregandolo di farlo uscire di casa alle 5 e mezza per andare a sfamare l’adorato amico con la gobba. Il cammello vive a pochi metri da casa Cristodaro, nella ‘fazenda’ di famiglia che ospita varie bestie e anche matrimoni. Secco il no del giudice: il cammello può mangiare benissimo più tardi o comunque a quell’ora non c’è bisogno che lo imbocchi il suo padrone. A Rocco Cristodano e a suo fratello Domenico sono stati confiscati dalla sezione prevenzione del Tribunale beni per più di sei milioni di euro, tra cui  gli immobili dell’attività agricola, per un’intensa attività criminale portata avanti dagli anni ’90, compresa la creazione di un sistema di cooperative per sfuggire agli obblighi fiscali. (manuela d’alessandro)

  • Le centinaia di fascicoli abbandonati al settimo piano del Tribunale

    I colori della legge: rosa, verde, azzurro, giallo. Non si può dire che questa fotografia scattata al settimo piano del Tribunale di Milano rimandi l’immagine di una giustizia grigia.  E neppure di una giustizia chiusa in se stessa; chiunque può passare, sfogliare, portare via. Pezzi di antiquariato giudiziario o fascicoli freschi. Se avete la passione degli archivi passate di qua, nel fine settimana, a  farvi un bagno di colore. (manuela d’alessandro)

  • Cassazione, censura al giudice milanese che ha irriso l’avvocato

     

    Avviso ai giudici: prendere in giro un avvocato non si può, anche se ha torto. A fare sfoggio di eccessiva ironia era stato il magistrato milanese Benedetto Simi De Burgis incappato qualche tempo fa in una sanzione disciplinare del Csm per avere tenuto un “tono irridente e allusivo” nei confronti di una curatrice nell’ambito di una procedura di sostegno. La suprema corte ha depositato ora una sentenza con la quale conferma la censura inflitta dal Csm, che è una “dichiarazione formale di biasimo” a carico di Simi De Burgis per avere violato il “i doveri di correttezza, imparzialità ed equilibrio, ponendo in essere abitualmente provvedimenti lesivi della sua immagine, gravemente scorretti nei confronti di parti, difensori, personale amministrativo, colleghi e ausiliari” (legge 109 del 2006 sugli illeciti disciplinari dei magistrati).

    Il magistrato si era preso gioco per iscritto di una curatrice ironizzando sulla sua esosa richiesta di liquidazione rispetto all’entità del patrimonio da lei amministrato e su altre strategie procedurali del legale.  Con la sentenza, gli ermellini smontano le tesi difensive del magistrato anche in relazione ad altre incolpazioni, tra cui cui avere fornito a una delle parti di un procedimento di interdizione suggerimenti in virtù di “un rapporto di conoscenza personale” e avere revocato a una professionista la nomina di curatrice di un minore a seguito dell’accusa, poi rivelatasi “infondata, di avere trattenuto illecitamente somme di proprietà dell’assistito”.  De Burgis nel ricorso ha scritto  che l’avvocatessa redarguita “aveva specifici motivi di astio nei suoi confronti” ma per le sezioni unite i sei capi di incolpazione costituiscono nell’insieme”comportamenti abitualmente e gravemente scorretti”. E, in ogni caso, anche se il legale aveva torto, come rivendicato da De Burgis, per la suprema corte poco conta: non doveva permettersi di sbeffeggiarla.  (manuela d’alessandro)

    Sentenza Cassazione su Simi De Burgis

  • Virus negli smartphone e lettere dalla Questura, lo strano arresto del killer del magistrato

     

    Trent’anni fa i servizi segreti consegnarono a un pentito un registratore per raccogliere la confessione di Domenico Belfiore sull’omicidio del magistrato torinese Bruno Caccia. Finì che anni dopo Belfiore venne condannato in Cassazione come mandante del delitto ma quelle registrazioni furono considerate inutilizzabili dalla Cassazione.

    Ora, la Procura di Milano prova a stanare dalle polveri della storia uno dei presunti killer  del procuratore torinese con altri strumenti d’indagine non convenzionali: lettera anonime inviate dalla Questura e virus inoculati nei telefonini. 

    Prima, dalla Questura di Torino sono partite delle missive destinate a una ristretta ‘rosa’ di 3 prescelti che riproducevano un articolo della ‘Stampa’ del giorno dell’agguato e con la scritta sul retro: ‘Omicidio Caccia: se parlo andate tutti alle Vallette. Esecutori: Domenico Belfiore – Rocco Barca Schirippa. Mandanti Placido Barresi, Giuseppe Belfiore, Sasà Belfiore”. L’obbiettivo era innescare, come poi in effetti è avvenuto, una discussione tra le persone citate nella lettera, tutte vicine al sospettato numero uno, Rocco Schirripa, arrestato oggi perché ritenuto l’uomo che freddò il magistrato torinese nel 1983 su mandato di Domenico Belfiore. “E’ stata la prima volta che ho usato questo stratagemma”, ha ammesso Ilda Boccassini in conferenza stampa.

    Poi, per ascoltare quello che si dicevano, gli hanno inoculato negli smartphone dei virus informatici in grado di attivare il microfono e la videocamera dei telefonini. Una tecnica d’indagine molto invasiva, marchio di fabbrica di Hacking Team, che la Corte di Cassazione (sentenza 27100/2015) ha giudicato utilizzabilie solo se “l’intercettazione avviene in luoghi ben circoscritti e e individuati ab origine e non in qualunque luogo si trovi il soggetto“. Gli intercettati parlavano di quelle che definivano “cose delicatissime” solo sul balcone di casa Belfiore, pensando così di evitare le intercettazioni ambientali tradizionali atrraverso microspie negli ambienti domestici. Invece, ogni loro sospiro veniva carpito dai teleonini, tranne quando li spegnevano. “Solo in casa di Domenico Belfiore – evidenzia il gip nell’ordinanza – è stato attivato dalla polizia giudiziaria il microfono degli smartphone intercettati”. (manuela d’alessandro)

  • Il giudice fa una lezione di storia a De Benedetti per spiegare l’assoluzione di Tronchetti

    Sì, potevano essere “potenzialmente” delle gravi offese da ‘lavare’ in un’aula di Tribunale. Ma per il giudice Monica Amicone le frasi ‘esplose’ da Marco Tronchetti Provera contro Carlo De Benedetti erano solo critiche legittime espresse nell’ambito di una “polemica aspra” tra due veterani del capitalismo.

    Nelle 32 pagine di motivazione alla sentenza di assoluzione pronunciata nei confronti del presidente d Pirelli, il giudice sostiene che “per ciascuna dichiarazione sussiste l’interesse sociale”, cioé quella che definisce  “l’attitudine della notizia a contribuire alla formazione alla formazione della pubblica opinione”.

    Le motivazioni, con l’analisi delle dichiarazioni (in neretto) rese all’Ansa da Tronchetti nel 2013, offrono al magistrato l’imperdibile possibilità di farsi un viaggio nella storia economico – finanziaria dell’ultimo mezzo secolo.

    “L’ingegner De Benedetti fu coinvolto nella bancarotta del Banco Ambrosiano”

    Coinvolto e condannato, spiega il giudice, non sono la stessa cosa. “Il fatto che De Benedetti sia stato coinvolto nel crack risulta dall’avere egli rivestito la qualità di imputato nel procedimento di bancarotta derivato dalla dichiarazione di fallimento del Banco Ambrosiano, indipendentemente dal ruolo, maggiore o minore, che ha avuto nell’ambito del crack finanziario al quale l’espressione usata dall’imputato, di per sè neutra, non si riferisce affatto”.  L’imprenditore aveva invece definito “subdola” questa frase perché per il dissesto del Banco Ambrosiano era stato assolto in Cassazione.

    “L’ingegner De Benedetti è stato molto discusso per certi bilanci di Olivetti” 

    Qui il giudice ci va pesante. “Ce n’è abbastanza per definire ‘discussi’ i bilanci di Olivetti senza incorrere in una falsa affermazione”. De Benedetti aveva definito invece la frase “senza senso e ingiuriosa perché tutti i bilanci erano stati approvati dalle relative assemblee”. Amicone sottolinea però che le “discussioni” di cui parla Tronchetti riguardano “l’esterno della società, l’opinione pubblica e il mercato” e, in particolare, i “diversi procedimenti penali” su quei bilanci, uno dei quali concluso con la condanna di De Benedetti”, che in aula smarrì la memoria su questa sentenza.

    “De Benedetti fu allontanato dalla Fiat”

    Il fondatore del gruppo ‘L’Espresso’ non se la deve prendere perché “allontanato non significa cacciato ed è un termine neutro”.  L’”istruttoria dibattimentale ha comunque dimostrato che De Benedetti “si allontanò per decisione unilaterale” in seguito a diverse vedute sulla gestione della società con l’avvocato Gianni Agnelli.

    “Io e De Benedetti non parliamo la stessa lingua, come è normale possa succedere tra un cittadino italiano e uno svizzero”

    Per il giudice siamo di fronte a “una canzonatura priva  di reale efficacia lesiva della reputazione del querelante che ne ha enfatizzato la portata aggressiva collegandosi all’allusione di un regime fiscale più favorevole”. (manuela d’alessandro)

    Il testo completo delle motivazioni De Benedetti – Tronchetti

     

     

     

     

  • Google batte indagato nella prima sentenza italiana sull’oblio dopo la Corte europea

    Google batte indagato nel primo verdetto sul diritto all’oblio dopo la sentenza con cui nel maggio 2014 la corte di giustizia europea ne aveva ampliato i confini stabilendo che i cittadini possono pretendere la cancellazione delle informazioni “che offrono una rappresentazione non più attuale della propria persona con pregiudizio della reputazione e riservatezza”.

    Un avvocato svizzero chiede al Tribunale civile di Roma che il motore di ricerca ‘deindicizzi‘ 14 link nei quali si parla del suo coinvolgimento in un’indagine su ex della banda della Magliana e su alcuni religiosi.

    Nel ricorso, il legale sottolinea che in questa vicenda giudiziaria non è mai stata pronunciata una condanna a suo carico e chiede, oltre alla rimozione dei link, la condanna di Google a una somma non inferiore ai 1000 euro. Il diritto alla privacy, avevano sancito i giudici europei, va comunque bilanciato caso per caso col diritto di cronaca e l’interesse pubblico a conoscere i fatti.

    Il giudice romano Damiana Colla respinge la richiesta di cancellazione perché l’indagine è ancora in corso, mancando la produzione di documenti che ne attestino la chiusura, come sentenze o archiviazioni (“il trascorrere del tempo ai fini della configurazione del diritto all’oblio si configura quale elemento costitutivo”) e presenta “un sicuro interesse pubblico”; inoltre, il ricorrente “è avvocato in Svizzera, libero professionista, circostanza che consente di ritenere che questi eserciti un ‘ruolo pubblico’ proprio per effetto della professione svolta e dell’albo professionale cui è iscritto, laddove tale ruolo pubblico non è attribuibile solo al politico ma anche agli alti funzionari pubblici e agli uomini d’affari, oltre che agli iscritti agli albi”.

    Ma c’è di più. Il ricorrente non può neppure lamentarsi della falsità delle notizie riportate cercando il suo nome nel motore di ricerca “non essendo configurabile alcuna responsabilità da parte di Google, il quale opera unicamente come ‘caching provider’ (…) avrebbe dovuto agire a tutela della propria reputazione e riservatezza direttamente nei confronti dei gestori di siti terzi sui quali è avvenuta la pubblicazione del singolo articolo di cronaca, qualora la notizia non sia stata riportata fedelmente, ovvero non sia stata rettificata, integrata o aggiornata coi successivi risvolti dell’indagine, magari favorevoli all’odierno istante (il quale peraltro deduce di non aver riportato condanne e produce certificato negativo del casellario giudiziale”).

    (manuela d’alessandro)

  • L’Inpgi non si costituisce parte civile contro il suo presidente Camporese

    E l’Inpgi continua a restare a guardare. Oggi si è aperta l’udienza preliminare a carico del suo presidente, Andrea Camporese, accusato di appropriazione indebita e corruzione nell’ambito del crac della holding Sopaf, e l’ente ‘custode’ della pensione dei giornalisti è stata l’unica parte offesa a non chiedere di costituirsi parte civile. Hanno invece fatto istanza per entrare nel procedimento, in vista di eventuali risarcimenti, gli istituti previdenziali dei medici (Enpam) e dei ragionieri. L’Inpgi aveva già deciso di non costituirsi nel filone principale del procedimento, quello a carico di Giorgio Magnoni e del figlio Luca, ex amministratori di Sopaf. Ora ribadisce questa linea che mortifica i suoi iscritti togliendogli, in caso di condanna, la possibilità di far tornare nelle casse dell’ente denaro sottratto in modo illecito.

    Secondo la Procura di Milano, Camporese sarebbe stato corrotto con 200mila euro per favorire la società Adenium, società di risparmio controllata da Sopaf, danneggiando per sette milioni di euro l’ente da lui presieduto attraverso l’acquisto di azioni a un prezzo superiore a quello di mercato.

    Il presidente si è sempre proclamato innocente definendosi “sgomento di fronte ad accuse ingiuste” ma, in attesa che un Tribunale valuti la fondatezza dei reati, Andrea Camporese non può restare alla guida dell’Inpgi per due ragioni. La prima è che chi ha affidato il suo futuro a un ente previdenziale deve avere la certezza, e non solo la presunzione, di un amministratore onesto; la seconda è perché ha ricevuto 25mila euro all’anno per due anni per aver fatto parte del comitato consultivo di Adenium, un incarico di solito non retribuito. Per elementari ragioni di opportunità, chi ricopre una posizione di garanzia non dovrebbe mettersi in situazioni di conflitto d’interesse. (manuela d’alessandro)

  • Stasi condannato, la giustizia non ha ammesso di poter fallire

     

    Due ore. Solo centoventi minuti sono serviti ai giudici della Cassazione per affrontare un dubbio enorme che ieri aveva fatto tremare le gambe persino a un anziano procuratore generale, Oscar Cedrangolo, costretto  ad ammettere: “Io non sono in grado di dirvi se Alberto Stasi è colpevole o no”.

    Ha vinto la paura dei magistrati assieme alla fretta di sbarazzarsi subito di quel dubbio che li avrebbe potuti paralizzare fino ad ammettere l’ impotenza di un sistema quando le indagini, come in questo caso, sono state fatte male e decine di perizie con esiti contraddittori non hanno poi saputo rimediare.  Stasi viene condannato a 16 anni di carcere e non a 30, come sarebbe avvenuto riconoscendo l’aggravante della crudeltà, perché il dubbio ha comunque lasciato il suo seme nella sentenza.

    E’ vero, due dei giudici facevano parte del collegio che ha assolto Amanda Knox e Raffaele Sollecito per l’omicidio di Meredith Kercher, ma lì c’era un colpevole, Rudy Guede, già assicurato alle carceri. Qui si doveva dire: “Ci dispiace, ma otto anni non sono bastati per trovare l’autore del massacro di Chiara Poggi”. Ci si doveva tappare le orecchie di fronte a quello che ieri il pg ha definito “il grido di dolore dei genitori della vittima”, e invece quell’urlo disperato ha fatto irruzione in una sentenza mandando in galera un non colpevole “al di là di ogni ragionevole dubbio”. (manuela d’alessandro)

    L’incredibile requisitoria del pg di Garlasco, “non sono in grado di dirvi se Stasi è colpevole”

    Il ricorso della difesa Stasi in Cassazione

    memoria parti civili

    STASI-memoria parti civili(2)

    La strana Cassazione su Alberto Stasi che per 3 volte diventa Mario

    Le motivazioni della condanna a 16 anni

  • L’incredibile requisitoria del pg di Garlasco: “Non sono in grado di dire se Stasi è colpevole o no”

     

    “Io non sono in grado di decidere e nemmeno voi”. Premio onestà 2015 a Oscar Cedrangolo, il sostituto procuratore generale della Cassazione che, rivolgendosi ai giudici, ha ammesso di non essere in grado di chiedere né l’assoluzione né la condanna per Alberto Stasi. Nella sua requistoria ha scavato negli anfratti di un’indagine  lunga 8 anni, da quando Chiara Poggi venne assassinata a Garlasco. Dopo due assoluzioni, decine di perizie, una condanna arrivata dopo un annullamento da parte della Cassazione, Cedrangolo alza le braccia.  “In questa sede non si giudicano gli imputati ma le sentenze. Io non sono in grado di stabilire se Alberto Stasi è colpevole o innocente. E nemmeno voi, ma insieme possiamo stabilire se la sentenza sia da annullare”. Così, dopo aver comunque evidenziato la “debolezza dell’impianto accusatorio”, il magistrato ha concluso chiedendo di accogliere entrambi i ricorsi: quello dell’accusa che chiede di alzare la pena sancita dall’appello bis a 16 anni di carcere, riconoscendo l’aggravante della crudeltà, e quello della difesa che voleva l’annullamento della condanna.  Il pg ha affermato che a suo avviso “potrebbero esserci i presupposti di un annullamento senza rinvio, che faccia rivivere la sentenza di primo grado” e quindi l’assoluzione di Alberto.
    E poi ha aggiunto che la prima sentenza della Cassazione dell’aprile 2013 volle  “ascoltare il  grido di dolore” dei genitori di Chiara Poggi nel chiedere di
    trovare l’assassino della figlia: “Ho apprezzato lo scrupolo della Cassazione, quando dopo le due assoluzioni ha chiesto un  nuovo giudizio. E vi chiedo di concedergli lo stesso scrupolo”.
    Così ha suggerito che si dispongano “nuove acquisizioni o differenti apprezzamenti”. Insomma, il pg ci ha capito poco di questo enorme pasticcio giudiziario, originato da indagini maldestre, e nel suo incredibile esercizio di onestà ha perfino ammesso che “forse non ci pensate, ma i giudici possono essere condizionati dai media che spettacolarizzano i processi“. E adesso: potrà mai la Cassazione condannare Alberto Stasi beffandosi del basilare principio di civiltà giuridica ‘in dubio pro reo’?  (manuela d’alessandro)

  • Mai più infermi in Tribunale, Milano lancia la ‘tutela via pc’

    Milano lancia, prima in Italia, la ‘tutela’ via pc. Con una piccola telecamera applicata al computer, i magistrati potranno decidere nel loro ufficio se a una persona debba essere affiancato o meno un amministratore di sostegno, senza aver bisogno di convocarla in aula.  Sono più di un centinaio all’anno a Milano le udienze in cui a chiedere la tutela sono i familiari di anziani, disabili fisici e psichici, malati terminali, non più in grado di badare a se stessi e ai loro interessi. La legge prevede che un giudice controlli la fondatezza della richiesta ponendo in aula alcune semplici domande al beneficiario per valutare le sue reali condizioni. “Questo significa portare in Tribunale con un’ambulanza un malato, in sedia a rotelle o su una lettiga, provocando gravi disagi fisici e psicologici  a lui e ai suoi familiari”, spiega Ilaria Mazzei, giudice del settore ‘Tutele’ e tra gli ideatori del nuovo sistema che partirà con l’anno nuovo. “Per evitare queste situazioni disagevoli e accellerare i tempi, abbiamo pensato di collegarci attraverso una telecamera installata sui nostri pc con gli istituti in cui si trova la persona che deve essere sentita. Al suo fianco ci sarà il direttore del centro che lo ospita o un suo delegato in grado di confermare che chi è in collegamento sia il richiedente tutela”. A quel punto, il giudice potrà rendersi conto se si trova di fronte a un soggetto che necessita della presenza di un amministratore di sotegno, quasi sempre un familiare oppure un avvocato. Solo ormai in casi rarissmi  i giudici dichiarano interdetta una persona bisognosa di un ‘angelo custode’ , cercando di evitare una ‘sentenza’ che sbriciola, almeno a livello formale, la dignità di una persona. (manuela d’alessandro)

  • Lo sciopero degli avvocati per un processo meno mediatico e più giusto

     

    La prossima settimana si può scommettere che il Palazzo di giustizia si presenterà ancora più deserto: è ben vero che la neve si ostina a non cadere sulle piste da sci, ma l’accoppiata Sant’Ambrogio-Immacolata a inizio settimana è troppo ghiotta per non allungare in surplace il ponte fino al weekend successivo. Ma già lin questi giorni i corridoi del primo e del terzo  piano, dove si affacciano le aule dei dibattimenti penali, apparivano vuoti come una piazza di De Chirico: merito (o colpa) dell’astensione delle udienze proclamata dall’Unione delle camere penali per una lunga serie di doglianze. L’annuncio dello ‘sciopero’ (tecnicamente espressione inesatta, ma che rende bene l’idea) è stato accolto dalla categoria dei giudici con approcci assai diversi: qualcuno (pochi) ha capito le ragioni degli avvocati, molti se ne sono disinteressati, un giudice per le indagini preliminari ha usato toni caustici (“gli avvocati fanno la settimana bianca“) sollevando legittime proteste della categoria.

    Così, visto lo scarso appoggio degli altri protagonisti della scena giudiziaria, gli avvocati si sono industriati a cercare l’appoggio degli utilizzatori finali del sistema, ovvero i cittadini: gazebo piazzato davanti al tribunale, in corso di Porta Vittoria, e volantinaggio per riassumere i motivi dell’agitazione.“Nel processo penale è in gioco la libertà di ogni cittadino”, diceva il volantino, tornando a lanciare la proposta della separazione delle carriere tra giudici e pm come unico rimedio alla disparità plateale tra accusa e difesa nelle fasi dei processi, dimostrata anche dall’avvio di dibattimenti importanti (come Aemilia a Bologna e Mafia Capitale a Roma) in un clima di restrizioni che per i penalisti rendono inevitabile parlare di “difesa menomata”.

    Da segnalare anche il dibattito che la Camera Penale martedì sera ha organizzato al Cam di corso Garibaldi sul tema del ‘processo mediatico’, analizzando le modalità con cui lo strapotere dell’accusa si traduce nel trattamento che i media riservano alle indagini e ai processi. Sul palco, il presidente della camera penale Monica Gambirasio, Vinicio Nardo (l’ex presidente) e i giornalisti Frank Cimini e Luca Fazzo. A qualche pm forse saranno suonate le orecchie. (orsola golgi)

    qui tutte le ragioni dell’astensione

     

     

     

  • Visioni e sogni dei detenuti in mostra nel Palazzo di Giustizia

    Salvatore (commosso sul finale). “Io non sapevo dipingere, poi me l’hanno insegnato. Ora è l’unico passatempo che ho. Di più non sono capace di dirvi”. Nella sua cella Salvatore ha raccolto sei rose gialle e rosse e le ha piantate tra spicchi di blu. Ora profumano di gioia nell’atrio del terzo piano del palazzo di giustizia che ospita la mostra ‘Sogni di segni, segni di sogni’, dove prendono forma incanti e visioni dei detenuti del carcere di San Vittore e delle mamme dell’Icam. Per tre ore alla settimana hanno frequentato laboratori di pittura promossi dall’Anm milanese in collaborazione con la direttrice del penitenziario, Gloria Manzelli, e col centro provinciale istruzione adulti (C.P.I.A.). “In queste opere non vengono raffigurati momenti di detenzione”, spiega il magistrato della sorveglianza Gaetano Brusa, “ma c’è il frutto della libertà e della fantasia degli autori”. Ci sono spose con abiti lunghissimi e stellati, feste, squali, ritratti, santi, e tante eruzioni astratte di colore da interpretare, o anche no. A noi è piaciuto molto il labirinto fantastico in bianco e nero immaginato da Lbida Abdelhadi nel dipinto ‘Sii presente in ogni momento della vita’. (manuela d’alessandro)

    ‘Sogni di segni, segni di sogni’ , dal 3 dicembre al 31 gennaio nel Palazzo di Giustizia di Milano. Ingresso libero.  Le opere esposte possono essere acquistate inviando una mail all’indirizzo anm.milano@outlook.it