Autore:

  • “Gli ideali della Costituzione traditi dalla realtà, ma sono vivi”

    Marta Cartabia è una giudice costituzionale con lo sguardo dolce. Non si vede subito perché quando entra nella Rotonda del carcere di San Vittore, una specie di piazza che segna un confine tra il fuori e il dentro, ha l’espressione ‘istituzionale’ di chi viene accolta con tutta la solennità del caso. Tutti in piedi e inno nazionale cantato dal coro multietnico dei detenuti per salutare la vicepresidente della Corte Costituzionale nella seconda tappa, dopo quella di Rebibbia, del viaggio intrapreso dai giudici custodi dei nostri valori all’interno degli istituti di pena. “Sono molto emozionata”, confessa, e poi via con la lezione di diritto incentrata sul ‘pieno sviluppo della persona umana’ in questo “che non è un carcere qualunque, mi ha sempre colpito la sua presenza nel cuore della città, da quanto portavo i miei figli a scuola, ci passavo davanti e pensavo a come si viveva qua dentro”. Nell’antichità, “la pena più grave, più della pena di morte, era essere esiliati dalla città, ma voi non lo siete, la Costituzione è scritta anche per voi perché è nata dalla sofferenza dei padri costituenti che sono stati in carcere e hanno voluto con chiarezza indicare nell’articolo 27 la finalità di rieducazione della pena”.

    Gli uomini e le donne seduti qui, un centinaio,  l’aspettavano da mesi dopo avere studiato come matti guidati dal professore della Cattolica Michele Massa e dal direttore Giacinto Siciliano. Sono preparatissimi, ma non tocca a loro essere interrogati. La studentessa è Marta: a volte, con quello sguardo dolce, dice cose dirompenti. “Perché la saggezza della Costituzione fa così fatica ad essere attuata nella vita quotidiana?”, domanda un detenuto straniero. “Il fatto che voi percepiate una distanza tra le parole della Costituzione e la realtà non significa che quelle parole non siano vere. Sono gli ideali a cui continuamente aspiriamo anche se la realtà li contraddice, a volte duramente. Come tutte le cose della vita, hanno un’attuazione inesauribile. Uno per esempio non può dire cos’è l’amore per la sua donna, lo impara continuamente. L’ideale è lì per richiamare la possibilità del cambiamento. Nelle questioni legate agli alti valori morali, nulla può mai essere dato per scontato, si fa un passo avanti e uno indietro, non è come nella scienza”. “E’ costituzionale – punge Loris – la potenza che hanno gli inquirenti di distruggerti la vita con la carcerazione preventiva e poi magari si scopre che sei innocente?”. “Molti di voi sono qui non per scontare la pena, ma in custodia cautelare – empatizza lei – immagino che essere strappati da una vita normale e trovarsi improvvisamente in una dimensione così diversa possa essere uno choc che richiede un suo tempo di interiorizzazione. La legge prevede delle garanzie per attuare il principio di non colpevolezza, come il fatto che l’autorità giudiziaria debba autorizzare la carcerazione preventiva. Ogni decisione ha la sua possibilità di appello”. Antonio chiede: “E’ costituzionale la recidiva che ti condanna non per il reato ma per quello che sei?”. “La recidiva tiene una specie di traccia del tuo percorso di vita, ma non riguarda le caratteristiche della persona – ribatte la giudice – la Consulta per esempio ha giudicato incostituzionale l’aggravante della clandestinità perché riguardava la persona. In ogni caso, si possono contemperare le aggravanti con le attenuanti, non bisogna guardare solo alla recidiva ma anche al resto per non trasformare la pena in un tratto identitario”. Marco provoca “Come si è evoluto il concetto di umanità della pena negli ultimi 70 anni se nel 2018 mi trovo un parassita nel letto durante la detenzione?”. La vicepresidente tentenna: “Spesso chi gestisce questi luoghi  deve fare i conti con la ristrettezza di mezzi e personale”.  “Perché i giudici prendono decisioni diverse su casi simili?”, è l’affondo di Davide. “Capisco possa sembrare ingiusto, ma in realtà ogni decisione tiene conto della specificità del caso, ma con dei limiti in modo che la discrezionalità non diventi disparità. La Costituzione guarda con sospetto agli automatismi”. L’idea di giustizia spunta da tutte le domande, l’idea che la promessa della Costituzione nei fatti venga tradita e Cartabia fa capire che sì, a volte è proprio così, ma si può cambiare approfittando della vitalità di quella vecchia carta. Massimo: “Non sono ingiuste le pene pecuniarie nei confronti di chi non è in grado di pagarle?”. “Si possono creare, come in altri ordinamenti, meccanismi in modo che la pena possa adeguarsi sia al reati che alle condizioni economiche della persona. Quella che qualcuno è una pena enorme, per altri è la mancia a una cameriera”.   “Nel centro clinico – racconta un detenuto – vedo ultra – ottantenni con malattie incurabili. Come si concilia con la Costituzione?”. “Nessuno deve morire in carcere, le condizioni dei detenuti non devono mai diventare tali da toccare la soglia del trattamento disumano, bisogna sempre vigilare con attenzione che ciò non accada. Spesso si sente dire che il tasso di civiltà di un Paese si misura su come vengono trattate le persone più vulnerabili e quando si è privati della libertà personale si è in una condizione di fragilità. Su come trattiamo i detenuti si misura il tasso di civiltà della nostra Repubblica”. Applausi, abbracci coi detenuti che le regalano una felpa del reparto ‘La Nave’, simbolo del loro viaggio,  e ovazione riservata alle rock star per Marta Cartabia, che è venuta qui ad ammettere con dolcezza quanto la Costituzione sia ancora una bellissima incompiuta. “I vostri problemi mi faranno compagnia nel lavoro e nella vita personale – promette – mi auguro che gli ideali della Costituzione possano farvi compagnia in questo vostro viaggio”.

    (manuela d’alessandro)

  • Niente diritto di sciopero se l’avvocato lo comunica via mail

    Cosa c’è di più autentico, di una Pec, ovvero un messaggio certificato di posta elettronica, di cui le moderne tecnologie garantiscono “al di là di ogni ragionevole dubbio” l’identità del mittente e del destinatario, nonché l’avvenuta consegna?

    Nulla, si direbbe: tant’è vero che una cospicua serie di atti giudiziari vengono notificati ai difensori con questo strumento. Bene, è il progresso! Peccato che lo stesso non valga nella direzione opposta. E che si sia recentemente arrivati al paradosso di un cinquantenne milanese, imputato di truffa, che si è visto rifilare una condanna definitiva perché il suo avvocato il giorno dell’udienza d’appello era sceso in sciopero aderendo all’astensione decida dall’Unione delle camere penali, dandone la comunicazione alla cancelleria della Corte: ma lo aveva fatto in ritardo e soprattutto utilizzando la Pec. Per la Cassazione, quella mail è carta straccia, perché “nel processo penale alle parti private non è consentito effettuare comunicazioni, notificazioni ed istanze mediante l’utilizzo della posta elettronica certificata”. E’ un orientamento già espresso dalla Cassazione in altre sentenze, ma che in questo caso viene portato alle estreme conseguenze, perché di fatto – rifiutando la mail inviata dall’avvocato – l’apparato giudiziario da un lato non riconosce il diritto di sciopero del difensore, e dall’altro rende definitiva la condanna di un cittadino che ha avuto modo di difendersi solo in primo grado. 

    Il pronunciamento della Cassazione è espresso nella sentenza 44236 di quest’anno, depositata dalla Seconda sezione penale il 4 ottobre scorso. L’imputato, M.F., era accusato di avere “bidonato” un concessionario di motociclette, facendosi consegnare una due-ruote e sparendo poi nel nulla senza pagare. Per questo nel luglio 2015 era stato condannato con rito abbreviato per truffa, ma contro questa sentenza aveva fatto ricorso in appello. L’udienza in camera di consiglio viene fissata per il 22 marzo 2017. Ma all’inizio di marzo l’Unione delle camere penali indice cinque giorni di sciopero per contrastare il decreto legge del ministro Andrea Orlando, in particolare contro la modifica dei termini di prescrizione e l’ampliamento degli interrogatori per videoconferenza: astensione da tutte le udienze (tranne quelle con imputati detenuti) dal 20 al 24 marzo. Il 21, alla vigila dell’udienza, l’avvocato di M.F. comunica alla cancelleria della Corte d’appello che intende aderire all’iniziativa dell’Ucpi.

    La mattina successiva, il presidente della sezione davanti alla quale è chiamato il processo decide: adesione irrituale, il processo si fa lo stesso. E la condanna inflitta in primo grado viene confermata integralmente. L’imputato non ci sta, e ricorre in Cassazione spiegando di non avere avuto modo di difendersi. Niente da fare: per la Cassazione “la comunicazione del difensore di fiducia di voler partecipare all’astensione era avvenuta tramite Pec, circostanza che legittimava la Corte a non tener conto della richiesta di rinvio”. La condanna diventa definitiva, e per soprammercato oltre alle spese processuali M.F. viene condannato anche a pagare “la somma di duemila euro alla cassa delle ammende, commisurata all’effettivo grado di colpa dello stesso ricorrente nella determinazione della causa di inammissibilità”.  (Orsola Golgi)

  • Il post numero 1000 di Giustiziami

    Giustiziami compie 1000 articoli. Guadagni, zero, anzi siamo in perdita perché ogni anno paghiamo ad Aruba la tassa di registrazione. Tempo ed energie, spesso ‘serali’, che si aggiungono a quelli dedicati alla ricerca delle notizie che già occupa le nostre vite professionali. Rischi di querela senza nessun editore che ce le paghi anche se finora gli unici a farci causa sono stati quelli del nostro ente pensionistico Inpgi (a proposito, per i tanti che ci chiedono: la prima udienza sarà il 4  febbraio a Roma).

    E allora: chi ce lo fa fare? Noi ci divertiamo tantissimo, e la verità è che continuiamo a scrivere per questo. Cerchiamo di farlo con professionalità. Ce lo possiamo permettere perché un lavoro già ce l’abbiamo e ci togliamo lo sfizio di ospitare anche colleghi che ci propongono pezzi ‘sgraditi’ alle loro testate per varie ragioni. Qui c’è posto per tutti, purché le storie siano ben documentate e i colleghi conoscitori delle ‘regole’ della giudiziaria. Una delle cose che ci rende più orgogliosi è essere riconosciuti da quella comunità che di giustizia ci vive: magistrati, avvocati, investigatori, consulenti, cancellieri. A voi che ci avete letto e continuate a leggerci e commentarci, amici, curiosi o anche ‘odiatori’, il nostro grazie infinito.

    Manuela D’Alessandro e Frank Cimini

    ps. un ringraziamento speciale ad alcune persone che ci hanno sostenuto sin qui in modo particolare o hanno contribuito, nelle fasi iniziali, alla creazione del blog: Jari Pilati, Igor Greganti, Cristina Manara, Luca Fazzo, gli amici de ‘Gli Stati Generali’, Jacopo Barigazzi,  Gianni Barbacetto, i ‘nostri’ avvocati Davide Steccanella, Eugenio Losco, Mauro Straini, Mirko Mazzali (con loro al nostro fianco non temiamo nessuno!) e a tutti gli altri che ogni giorno ci danno spunti per il nostro lavoro.

  • Una denuncia al giorno contro i medici, quasi tutte archiviate

    Se lo dice quella che, con ironia, si definisce “il maggior persecutore di medici degli ultimi anni”, c’è da riflettere. Le Procure, e in particolare quella di Milano, città che ha fama di ospitare poli sanitari di alto livello, sono assediate da denunce pretestuose contro i medici. Una “patologia” arriva a definirla Tiziana Siciliano che, tra le ragioni, ci mette anche il ‘divieto di morire’, categoria culturale che appartiene alla nostra epoca. “Ogni giorno che Dio manda in terra c’è una denuncia contro un medico –  rivela il procuratore aggiunto milanese dal palco di un convegno in materia di responsabilità nelle professioni sanitarie in corso a Palazzo di Giustizia – nel 2017 abbiamo iscritto a Milano circa 300 fascicoli su presunte colpe mediche. Buona parte di queste denunce ha carattere strumentale per fare pressioni sui medici in vista di richieste di risarcimento in sede civile”. Ma c’è anche altro a spingere i cittadini a rivoltarsi contro chi li ha curati o dovrebbe averlo fatto. “Altre denunce vengono sporte sull’onda dell’emotività del dolore, tenendo presente che siamo nell’epoca del ‘divieto di morire’. Parlo di cose che mi sono successe, è arrivata una denuncia per la morte di un paziente di 97 anni dai suoi familiari”. Poi c’è Internet, ricorda Siciliano, con Wikipedia che da’ a tutti la patente di medici e li spinge a credersi vittime di errori.  “Non ci possiamo permettere questo carico insensato – sostiene il magistrato che ha rappresentato l’accusa anche nel caso della clinica Santa Rita – la massima parte di queste denunce finisce con un’archiviazione che da scrivere può essere anche più complicata di un capo d’imputazione. Per arrivarci bisogna comunque fare costose consulenze che ti fanno entrare in un terreno scivolosissimo, con termini che si fa fatica a capire. Spesso poi arriva l’opposizione all’archiviazione e qui forse qualche  responsabilità ce l’ha anche la classe forense. Fascicoli di questo tipo sono per noi delle rogne pazzesche”. Al momento, inoltre, “non sono state ancora fissate le linee guide sulla responsabilità dei medici che dovrebbero essere emanate in base alla legge Gelli del 2017. Sarebbe cosa buona farlo per eliminare le incertezze”. (manuela d’alessandro)

  • Perché il sindaco di Riace non andava arrestato

    Dico subito che desta parecchie perplessità la lettura dell’ordinanza (132 pagine) con la quale il gip presso il Tribunale di Locri ha disposto l’arresto (domiciliare) del sindaco di Riace Domenico Lucano, noto alle cronache per il costante impegno nell’accoglienza di cittadini extracomunitari.

    La richiesta di misura cautelare del pm risultava datata 6 luglio e configurava a carico del sindaco (e di altre 30 persone) una moltitudine di reati rubricati dalla lettera A alla lettera Y, e che andavano dalla associazione a delinquere al peculato, dalla truffa ai danni dello Stato per svariati milioni al falso e dall’abuso d’ufficio alla concussione.

    Delitti per i quali, oltre alla misura cautelare, il medesimo pm richiedeva altresì il “sequestro preventivo per equivalente delle somme presenti sui conti degli indagati.”.

    Il primo dato che balza all’occhio dalla lettura dell’ordinanza  è la sonora “bocciatura” della lunga indagine (18 mesi) della Guardia di Finanza e avente ad oggetto, si legge: “l’iter di ottenimento e i meccanismi di gestione di rilevanti somme di denaro pubblico ottenute per organizzare la permanenza sul territorio comunale di migranti”.

    Questo perché al termine dell’esame degli atti, il gip ha ritenuto del tutto insussistenti gli indizi a sostegno di tutte le imputazioni, eccezion fatta che per le ultime due, invero minimali, e di cui si dirà.

    Si legge infatti nel provvedimento di “vaghezza e genericità al capo di imputazione” e “riferimenti a collusioni e mezzi fraudolenti che si risolvono in formule vuote prive di tipicità” (pag. 37), di “impossibilità per il gip di sostituirsi al pm per individuare collusioni trattandosi di operazione impedita dai più elementari principi processual-penalistici” (pag. 38), di “considerazioni addotte a sostegno della fondatezza quantomeno laconiche” (pag. 41), di “inattendibilità del denunciante Ruga” (pag. 46), di “alcun ingiusto vantaggio arrecato dal Lucano agli enti attuatori dei servizi” (pag. 123), fino a leggersi espressamente (pag. 123), e con riferimento alla più grave accusa di associazione a delinquere, che “i programmi perseguiti dagli indagati non possono definirsi illeciti, né si sono tradotti in condotte penalmente rilevanti”, e che, per quanto riguarda le specifiche condotte attribuite al sindaco (pag. 125) le stesse “erano dal suo punto di vista finalizzate a garantire a soggetti svantaggiati la possibilità di permanere in Italia o di raggiungere il Paese per qui godere di un migliore regime di vita”.

    Ciò nonostante il gip ha ugualmente applicato la medesima misura coercitiva richiesta dal pm per ben 9 reati (pag. 22), per le sole due ipotesi finali rubricate alle lettere T e Y.

    La prima (T) è l’accusa (riqualificata dal GIP come art. 353 bis Cp rispetto al reato di turbativa d’asta indicato dal PM) di avere affidato il servizio di pulizia della spiaggia a due cooperative sociali prive del requisito dell’iscrizione all’albo regionale, e la seconda (Y) è quella di avere concorso nel 2017 con una cittadina etiope in un falso matrimonio con il fratello per consentire a quest’ultimo l’ingresso nel nostro paese per coniugio, fatto peraltro non verificatosi per il di lui intervenuto arresto nel paese di origine.

    Sul punto si legge da pagina 69 in avanti un lungo resoconto di svariate intercettazioni che attestano il coinvolgimento del sindaco anche in altri due “matrimoni di comodo”, il primo dei quali tra tali Giosi (cittadino italiano) e Sara, e sempre per le medesime finalità.

    A sostegno dell’arresto, motivato, si legge, dal concreto pericolo che il sindaco, se libero, possa reiterare analoghe condotte di reato, scrive il gip (pag. 121) di “naturalezza a trasgredire norme civili” e di “disarmante spigliatezza con la quale il Lucano, nonostante il ruolo istituzionale rivestito, ammetteva pacificamente e più volte ad un nutrito gruppo di interlocutori di essersi adoperato in prima persona per consentire alla complice il matrimonio con il fratello”, stigmatizzandone (pag. 125), il “ricorso a condotte non solo penalmente, ma anche moralmente riprovevoli (per quanto dal suo punto di vista finalizzate a garantire a soggetti svantaggiati la possibilità di permanere in Italia o di raggiungere il Paese per qui godere di un migliore regime di vita)”, per concludere (pag. 126) che “l’indagato vive oltre le regole che ritiene d’altronde di poter impunemente violare nell’ottica del fine giustifica i mezzi, dimentico però che quando i mezzi sono persone il fine raggiunto tradisce tanto paradossalmente quanto inevitabilmente quegli stessi scopi umanitari che hanno sorretto le proprie azioni”.

    A corollario di ciò il gip esclude (pag. 126) “tranquillamente che in sede di prevedibile condanna possa essergli concesso il beneficio della sospensione condizionale”.

    Ora, non si discute sulla ritenuta sussistenza indiziaria di quegli unici addebiti usciti “superstiti” dalla falcidia del gip, ma è proprio questo dato che avrebbe dovuto indurre detto gip a considerare che una misura cautelare richiesta per chi si sarebbe, in ipotesi, reso responsabile di tutti (o quasi) i reati ricompresi nell’intero codice penale, non dovrebbe trovare uguale attuazione anche per chi invece può avere al massimo violato alcune regole per finalità umanitarie.

    Ovviamente sarà il processo di merito a stabilire da quale parte stanno i torti e le ragioni e se il predetto sindaco in caso di condanna dovrà o meno finire in carcere, né questa è la sede per disquisire su ipotesi di disobbedienza civile o per difendere scelte politiche e sociali di un sindaco impegnato in prima linea in un territorio a dir poco “difficile” (scelte che peraltro, io condivido in pieno), ma la lettura di quella ordinanza e di alcune considerazioni soggettive che non dovrebbero competere a un giudice penale, quali “moralmente riprovevoli” o “tradimento di scopi umanitari”, non può non destare allo stato, e lo si ripete, parecchie perplessità negli addetti ai lavori.

    avvocato Davide Steccanella

  • Quattro anni e mezzo per la sentenza su un furto di carpe

    Perfino il giudice chiamato a decidere sulla sorte dei 5 ladri di pesce (e un’anatra) ha riso di gusto leggendo il capo d’imputazione. Sentite: ”Perché in concorso tra loro e al fine di trarne profitto si impossessavano di 25 carpe e un’anatra sottraendole dal laghetto di Molinello di proprietà dell’associazione sportiva dilettantistica ‘Lo Storione’’. Pensandoci bene, c’è poco da ridere: da 4 anni e mezzo questa microscopica storia abita il Palazzo di Giustizia di Milano tra decreti, udienze,  analisi della Asl sulle carpe  e rimpalli tra i giudici. “Un tempo assurdo”, commenta l’avvocato dei 5, Giusi Bartolotta, che ricorda anche a un certo punto il decreto di restituzione delle carpe (ovviamente morte) ai ‘proprietari’ e le analisi  disposte dalla magistratura sui pesci che amano le acque dolci.

    Era d’estate, il 27 luglio 2014, quando cinque uomini di origine romena  acciuffarono e portarono via il malloppo dal piccolo specchio d’acqua a Rho. Su denuncia di un socio dello ‘Storione’ è scattata l’inchiesta della Procura di Milano che non ha avuto difficoltà a individuare i componenti della banda essendo stati colti in flagranza. Il 13 settembre del 2017 vengono chiuse le indagini per furto aggravato dal fatto che l’avessero commesso in 5, aggravante che ha portato gli imputati davanti a un giudice ordinario. Oggi il giudice ha condannato gli imputati a due mesi e dieci giorni, pena sospesa e non menzione. (manuela d’alessandro)

  • La storia d’amore del chirurgo carcerato Brega Massone

    Si incrociano anche delle storie d’amore nei Tribunali, potenti come possono essere quelle che attraversano le gabbie dei carcerati. Lui è Pier Paolo Brega Massone, 54 anni, da dieci in gabbia (un solo permesso di 3 ore per i funerali della madre morta) con l’accusa di avere ucciso i suoi pazienti per fare soldi nella clinica Santa Rita, una smania irresistibile di affondare il bisturi senza necessità terapeutiche, per carriera e per denaro. Lei si chiama Barbara, è bionda ed elegante, gli occhi straziati di chi da un decennio segue il marito a ogni udienza. C’era anche il 21 dicembre 2015 quando, a sera inoltrata, lo arrestarono in aula per pericolo di fuga, una scena inedita tanto che alcuni avvocati avvezzi a tutto ammisero di avere sentito i brividi. Accadde dopo la sentenza d’appello che lo condannò all’ergastolo per 4 omicidi volontari, poi annullata dalla Cassazione che ha chiesto ai giudici di secondo grado di spiegare se Brega entrava in sala operatoria accettando l’idea di uccidere  oppure ammazzò senza volontà (omicidio preterintenzionale). Nel nuovo processo, di questa storia ha parlato uno dei difensori di Brega, l’avvocato Nicola Madia. “Questa donna – ha detto indicandola – si è sentita dire tante volte dal marito ‘lasciami, divorzia, vivi la tua vita’ ma lei ha sempre detto di no. Non l’ha mai abbandonato, l’ha sempre amato. Due volte alla settimana va in carcere con la figlia, una ragazza cresciuta bene, bravissima a scuola, diventata grande imparando a vedere il padre in galera”. Per la prima volta in tanti processi, uno chiuso con sentenza definitiva di condanna a 15 anni per truffa e lesioni, oggi Brega Massone, che aveva sempre solo rivendicato di avere agito correttamente, ha chiesto scusa. “Dieci anni in carcere sono lunghi – ha spiegato alla Corte d’Assise d’Appello – c’è voluto del tempo, ho dovuto essere seguito e valutato. Mi dispiace moltissimo per tutte le persone coinvolte perché questa non era assolutamente la mia volontà. Mi dispiace per le tante persone che hanno sofferto”. Il pensiero finale per la moglie: “Vi chiedo di poter vedere la luce, almeno di potere stare con la mia famiglia”. Strategie processuali di avvocato e imputato per addolcire i giudici popolari? Forse. Ma resta quella storia capace di attraversare una gabbia e quella è innocente di sicuro. (manuela d’alessandro)

  • Perché la ‘fedelissima’ di Berlusconi risarcisce le “vittime” del bunga bunga

    “Ma dietro il risarcimento della senatrice Rossi c’è Berlusconi?”. Alla domanda l’avvocato Salvatore Pino, legale di talento e spirito, ribatte con una battuta e una risata: “Siete proprio dei cornuti voi giornalisti”. Eppure ci vuole poca fantasia a immaginare che dietro la mossa della parlamentare di Forza Italia Mariarosaria Rossi di risarcire le presunte vittime del bung bunga (Imane Fadil, Chiara Danese e Ambra Battilana) si potrebbe stagliare l’ex Cavaliere. La notizia è stata annunciata in aula proprio dall’avvocato Pino, difensore della ‘fedelissima’ di Silvio, e ha determinato  l’ennesimo rinvio del processo ‘Ruby ter’ iniziato nel gennaio 2017  strozzato sul nascere da una serie di lungaggini da far impallidire le infinite epopee giudiziarie già affrontate da Berlusconi. Tutto aggiornato al 14 novembre anche per consentire alle trattative di fare il loro corso.

    Ma perché la senatrice Rossi vuole risarcire le tre ragazze ospiti alle serate di Arcore? Sembra che gli avvocati dell’entourage del fondatore di Forza Italia siano seccati dalle continue esternazioni alla stampa delle parti civili, in particolare da quelle della modella di origini marocchine Imane Fadil. “Pensi a fare il nonno invece di candidarsi alle europee”, ha proferito la ragazza dopo l’udienza di oggi. Di certo, se l’accordo si farà, la Rossi, accusata di falsa testimonianza, godrà dello sconto di un terzo della pena previsto in casi di risarcimenti prima che il processo entri nel vivo. L’altra ipotesi è che si vogliano ‘togliere di torno’ le uniche che hanno interesse a celebrare in fretta questo processo, nella speranza di portare a casa un risarcimento, accontentandole subito.  Battilana, Danese e Fadil poi, anche se dovessero revocare la costituzione di parte civile in seguito a un risarcimento, verranno di nuovo richiamate in aula come testimoni, con l’obbligo di dire tutta la verità. Quanto sarebbero condizionate dal denaro ricevuto le ragazze che hanno puntato il dito contro il ‘bunga – bunga’? (manuela d’alessandro)

  • Condannato il prete che imbarazza l’arcivescovo di Milano Delpini

    Sei anni e quattro mesi, una delle condanne più severe registrate in Italia per casi di questo genere, a don Mauro Galli, l’ex parroco di Rozzano accusato di avere abusato di un ragazzino all’epoca 15enne nel dicembre del 2011. Una storia che ha imbarazzato (con toni molto sommessi) fin dal suo insediamento il capo della Chiesa ambrosiana, l’Arcivescovo di Milano Mario Delpini, sentito come testimone nel corso delle indagini. E che ora assume dimensioni eclatanti alla luce di questa condanna e delle dichiarazioni dopo la sentenza della mamma della presunta vittima. “Don Carlo Mantegazza (un altro prete in servizio a Rozzano, ndr) – aveva messo Delpini a verbale il 24 ottobre 2014 – mi aveva riferito di un ragazzo di nome *** che aveva trascorso una notte a casa di don Mauro Galli. Mi disse che il ragazzo aveva poi segnalato presunti abusi sessuali  compiuti da don Mauro durante la notte (…). Ho convocato don Mauro che mi disse che aveva solamente voluto ospitare un ragazzo con difficoltà di apprendimento scolastico. Ha ammesso di avere dormito con lui quella notte ma di non avere compiuto alcun atto di tipo sessuale. Ho deciso quindi di trasferire don Mauro ad altro incarico, disponendo il suo trasferimento nella parrocchia di Legnano”. Don Galli venne destinato alla pastorale giovanile, nonostante la grave accusa.  Delpini, all’epoca vicario episcopale, non è mai stato indagato. Ma la mamma del ragazzo, subito dopo il verdetto, ha deciso di esporsi con forza e, alla nostra domanda sul’atteggiamento del capo della Chiesa milanese, ha risposto: “Abbiamo avuto con lui un unico incontro nel 2012 che non ci ha per niente soddisfatti. Il suo comportamento è stato maldestro perché dopo avere saputo dell’abuso lo ha messo di nuovo a contatto coi giovani”. Perplessità che sono state espresse in aula anche da don Mantegazza e da un altro prete di Rozzano: “Noi pensavamo – hanno detto ai giudici – che andasse spostato a livello prudenziale non in un contesto di pastorale giovanile”. Don Galli ai giudici della quinta sezione penale (presidente Ambrogio Moccia) ha ammesso di avere dormito col ragazzo a casa sua col consenso dei genitori, negando ogni abuso: “C’erano altri tre letti a disposizione, dormimmo nel mio (…) Notai che era in bilico sul letto con la testa vicino allo spigolo del comodino. D’istinto lo presi per una gamba e lo trascinai sul letto per evitare che sbattesse la testa”. Questo l’unico contatto tra i due, secondo la sua versione, ben diversa da quella del ragazzo che al pm Lucia Minutella ha raccontato degli abusi e di ricordare come un’ossessione “il ghigno” del sacerdote quando lo accompagnò il giorno dopo in auto a una gita con la parrocchia. L’imputato ha risarcito con 100mila euro il giovane e la famiglia che hanno revocato la costituzione di parte civile. “Non abbiamo mai più sentito Delpini da quell’incontro – ricorda la mamma – anche il Papa è a conoscenza dei fatti ma lo ha nominato come membro del Sinodo dei giovani”. (manuela d’alessandro)

  • Perché la magistratuta sbaglia sul sequestro dei 49 mln alla Lega

    Visto che tutti ne parlano, e molto spesso a sproposito, vediamo di chiarire meglio quali sono i due fatti che hanno condotto all’attuale “scontro” istituzionale tra il Ministro Salvini e l’Associazione Nazionale Magistrati, cui è stato dato ampio risalto mediatico.

    Il primo fatto è quello che ha determinato l’attuale sequestro per equivalente di 49 milioni che non essendo stati trovati nelle attuali casse della Lega oggi consente al PM genovese di sottrarre a detto partito qualsiasi somma futura dovesse ivi transitare, fino a tale concorrenza.

    Si tratta dell’esito di un’indagine (iniziata dalla Procura di Milano e in parte trasferita a quella di Genova) sull’utilizzo dei rimborsi elettorali ottenuti dalla Lega negli anni 2008/2010.

    I processi si sono conclusi con le condanne di Bossi Jr e dell’ex tesoriere Belsito per appropriazione indebita (Milano) e di Bossi Sr. per truffa ai danni dello Stato (Genova).

    Detta indagine ha fatto emergere a carico dell’allora segretario l’utilizzo a fini personali di 10mila euro per operazione e multe del figlio e per la ristrutturazione della casa di Gemonio, nonché di ulteriori 77mila euro per il diploma, sempre del figlio, a Tirana.

    In sintesi, è stato dimostrato che ai tempi in cui era segretario, Bossi Sr. avesse illecitamente sottratto al proprio partito un totale di 87 mila euro.

    Volendo accedere alla tesi accusatoria, secondo la quale quanto viene usato per fini personali non può essere addebitato allo Stato a titolo di rimborso elettorale, quella somma di 87mila euro, dovrebbe essere restituita dall’attuale dirigenza.

    Sfugge a chi scrive però, in base a quale diverso criterio, si chieda invece la restituzione dell’intero importo a suo tempo ottenuto in assenza di ulteriori elementi dai quali dedurre, in termini di certezza, che altre somme siano state distratte dal partito, non bastando certamente il mero dato che oggi, a distanza di 8 anni, non si trovano più in cassa. L’effetto finale è che oggi viene consigliato dalla stessa Procura ad un partito che ha legittimamente conquistato il 17 % dei voti all’ultimo suffragio (e che gli attuali sondaggi danno in forte crescita) di cambiare il proprio nome (SIC !) per sopravvivere, mentre l’opposizione non perde occasione per contestare all’attuale segretario di non voler restituire allo Stato 49 milioni rubati.

    Non bastasse questo, successivamente è intervenuta altra Procura, questa di Agrigento, adiuvata da quella del capoluogo, inviando all’attuale segretario un formale avviso di garanzia per un reato gravissimo, sequestro di persona, che prevede una pena detentiva molto elevata, per essersi adoperato, quale Ministro, per impedire lo sbarco dei naufraghi di una nave di clandestini che aveva attraccato in un porto italiano.

    Questa seconda accusa, a differenza della prima, appare ancor più “delicata”, perché viene criminalizzata non già, come nel primo caso, una condotta individuale per tornaconto personale (come era stato in precedenza anche nei vari processi intentati all’ex Presidente Berlusconi), bensì un’azione governativa fatta alla luce del sole da un Ministro che ha ritenuto di agire in preciso ossequio ad uno specifico programma politico di restrizione dell’immigrazione presentato dal suo Partito al momento delle elezioni, e che proprio per questo motivo (anche se non solo) era stato votato da quel citato 17 % di cittadini.

    Inoltre, e a prescindere dal non semplice problema del “dolo” di sequestro per chi assume un’iniziativa pubblica del proprio Ufficio, appare sulla carta non semplice configurare un sequestro di persona a carico di chi non consente ad altri di entrare in un determinato luogo, visto che tale inibizione consente al soggetto passivo, a differenza di quella di non consentirne l’uscita, la facoltà di sbarcare altrove, ovvero di ritornare presso il luogo da dove era partito.

    Questa ipotesi di reato per di più non ha ancora ricevuto, a differenza della prima (che ha interessato un procedimento di riesame), il vaglio di un giudice, neppure a livello meramente indiziario.

    Singolarmente infatti il pm, che pure contesta al Ministro un reato gravissimo, non ha infatti ritenuto di chiedere alcuna misura cautelare al competente GIP, nonostante fosse evidente quel pericolo di reiterazione del medesimo reato indicato alla lettera C) dell’art. 274 Cpp (e cui molto spesso la nostra Procura è sovente ricorrere), avendo il Ministro pubblicamente dichiarato di essere intenzionato a ripetere tale condotta ed essendo, gli sbarchi di navi, pratica quasi corrente sulle rive del nostro paese.

    A fronte di siffatte iniziative giudiziarie, che comportano da un lato la possibile bancarotta economica e dall’altra l’incriminazione del segretario per un reato gravissimo, nei confronti di un partito che, piaccia o meno (a chi scrive sia ben chiaro, non piace), al momento governa in forza di un legittimo suffragio, ritenere le dichiarazioni rese nell’immediatezza da Salvini un vulnus eversivo all’indipendenza della Magistratura quando non una rivendicazione nazista di impunità, paiono risposte frettolose e inadatte al problema oggettivo che si è creato e che non vorrei influenzate da eccessivo corporativismo da parte di ANM e da strumentalizzazione politica da parte del principale partito di opposizione.

    Mi rattristerebbe, da cittadino e non solo da giurista, constatare che il nostro paese ha ormai fatto il callo ai governi che cadono sotto la mannaia della giustizia, visto che sarebbe bene ricordare, a chi mostra di averlo dimenticato, due casi tra i più recenti.

    Il Prodi bis cadde per un’iniziativa improvvida di un PM di santa Maria Capua Vetere che mise sotto accusa l’allora Ministro Mastella che poi fu assolto e l’ultimo governo Berlusconi in gran parte per le note imputazioni di private alcove che la Corte di appello di Milano prima e la Suprema Corte di Cassazione poi, dichiararono totalmente infondate.

    Nessuno ovviamente si augura una magistratura “dipendente” dal potere politico, ci mancherebbe altro, e ancor meno che vengano preservate zone di impunità per chicchessia, ma anche assistere in silenzio e da anni a iniziative eclatanti di alcuni PM nei confronti di chi volta a volta governa e che poi non approdano a nulla, non dovrebbe essere ritenuta, al di là di come la si pensi, cosa buona e giusta, soprattutto da chi non perde occasione per dichiararsi fiero difensore della nostra Costituzione.

    avvocato Davide Steccanella

  • “Fai parte di una cupola”, Salvini verso la pace con il 5 stelle

    “Tutto mi si può dire ma non che sono un mafioso”. Matteo Salvini il 22 gennaio scorso al terzo piano del Palazzo di Giustizia di Milano, davanti all’aula del processo nato da una sua querela per diffamazione contro l’allora consigliere regionale dei 5 Stelle Stefano Buffagni. “La Lombardia – aveva  scritto il grillino in un post di Facebook datato 20 giugno 2016 – è una fitta rete di contatti e di uomini di fiducia agli ordini di Salvini e di Maroni. Una sorta di cupola che ricorda quella del Pd romano che usa risorse pubbliche per finanziare il proprio sistema di potere”. Quella “cupola”, riferita in particolare alle nomine nelle aziende sanitarie, aveva fatto ribollire  Matteo tanto da venire in Tribunale a raccontare quanto fosse scocciato. “Quelle frasi mi hanno provocato un danno ingente in termini di immagine ed elettorali”. Buffagni aveva spiegato al giudice nelle sue dichiarazioni spontanee: “A quell’epoca risaliva anche l’arresto del leghista Fabio Rizzi, che ha scritto la riforma della sanità lombarda. Abbiamo messo insieme una serie di fatti e presentato una denuncia di tipo politico”.

    Salvini è diventato nel frattempo vicepremier, Buffagni sottosegretario agli Affari Regionali del Governo e le loro formazioni politiche si sono allacciate alla guida del Paese. Difficile rimettersi a fare la guerra. E così oggi, con un po’ di ironia ci è parso, il giudice Stefania Donadeo nei pochi minuti dedicati all’udienza, ha domandato agli avvocati sostituti dei titolari, rimasti a casa: “Cosa è successo in questi mesi?”. E’ successo che a luglio Caterina Malavenda, l’avvocato numero uno sulle diffamazioni a cui si era affidata Buffagni, ha fatto arrivare al magistrato una nota in cui parla di “trattative in corso per perfezionare un accordo”. Insomma si cerca di fare la pace anche se, a quanto ci risulta, con qualche difficoltà. La volontà di Salvini pare essere quella di ritirare la querela ma a determinate condizioni. Buffagni aveva chiesto anche l’insindacabilità delle sue opinioni nelle vesti di consigliere regionale all’epoca, ricevendo la risposta sferzante di Salvini: “I 5 Stelle anti – casta si difendono chiedendo l’immunità”.  Ora, forse, sarà lui a evitargli il processo.  (manuela d’alessandro)

  • Il detenuto che spiega ai giovani reclusi come non fare la sua fine

    C’è un detenuto da quasi 30 anni nel carcere di Opera che ogni venerdì mattina, da otto venerdì, entra in quello di San Vittore per spiegare ai giovani reclusi come non fare la sua stessa fine. La prima volta, dice, è stata “un’emozione strepitosa”. Adriano Sannino, un’era fa killer della camorra,  ha 46 anni ed è tra gli ‘storici’ componenti del ‘Gruppo della Trasgressione’ animato dallo psicologo Juri Aparo. Uno che gira da 40 anni nelle prigioni e a un certo punto si è messo in testa , tra le altre mille cose, di portare nelle scuole chi viene percepito come reietto per evitare ai ragazzi scelte sbagliate. “La prima volta, ho pensato a quando sono entrato in carcere, buttato lì, con la mia busta, senza che nessuno mi spiegasse nulla. Ora entro dal portone principale, da cittadino. Gli agenti della polizia penitenziaria mi chiedono increduli: ‘Ma tu sei detenuto a Opera?’ e io mi sento uno di loro, un uomo delle istituzioni”. I ‘suoi’ ragazzi Aparo li porta dappertutto, spesso a confrontarsi coi familiari delle vittime, e adesso prova a farli uscire dal carcere ‘di campagna’ di Opera, destinato a chi deve scontare fardelli molto pesanti, per entrare nella galera di Milano centro a seminare libertà.

    Sannino può farlo, come presto sarà possibile anche per altri due ergastolani a Opera coinvolti nel progetto, perché è stato ammesso al lavoro esterno. Attraverso la cooperativa fondata da Aparo, scarica frutta e verdura, svegliandosi all’alba e fatica con leggerezza (“Non c’è un giorno che mi pesi”) fino al pomeriggio.  Al venerdì, dalle 12 e 30 e per tre ore, diventa lui stesso un ‘educatore’ nel reparto giovani adulti dove lo attendono una ventina di ragazzi, età media sui 20 anni. ” All’inizio mi guardano un po’ così. Ma poi quando vedono che parlo col cuore, quando gli spiego che sono stato uno stronzo e come sono cambiato, mi ascoltano e fanno un sacco di domande. Sulla mia storia, sul punto in cui è cambiata. Non ho verità in tasca, ma con loro mi metto un gioco, cerco di essere all’altezza di una grande responsabilità. Ad agosto per due venerdì, il ‘prof.’ (Aparo, ndr) era in vacanza e ha lasciato da soli me e una studentessa che fa parte del Gruppo, è stato molto emozionante”. Non è sempre facile fare breccia in chi lo ascolta. “Un ragazzo albanese, in particolare, provava a contraddire tutto quello che dicevo, sostenendo di dovere spacciare per aiutare la famiglia e che chi compra la droga è consenziente. Gli ho risposto che chi la compra è malato, non consenziente, che lui alimenta un sistema malavitoso che genera anche morte. Allora lui mi ha chiesto: ‘Preferisci essere tu quella con la pistola o avercela puntata contro?’. Gli ho detto che mi farei ammazzare per la vita e i valori in cui credo. Alla fine mi ha abbracciato e mi ha chiesto quando sarei tornato”.

    “Questo è un progetto rivoluzionario – spiega Aparo – nato in collaborazione con l’ex direttore di Opera e ora di San Vittore Giacinto Siciliano che ha l’obbiettivo di far provare ai giovani detenuti un viaggio nel futuro. Attraverso Sannino e gli altri entrano in contatto frontale con quello che potranno diventare se non cambieranno rotta, persone che a 50 anni ne hanno passati 30 in carcere. Tante volte, quando porto i detenuti fuori dal carcere, chi li sente parlare si emoziona e pensa che siano dei santi, che non debbano stare dentro. Ma io dico: se sono in carcere è perché sono stati dei coglioni. Le persone però cambiano e io sono convinto che non basti reinserire i detenuti nel lavoro e fargli guadagnare 1200 euro al mese. Bisogna metterli al centro di una progettualità, attraverso le relazioni umane e la maturazione di un senso di responsabilità”. Da ‘grande’ Sannino, a cui manca ancora qualche anno da scontare, ha un sogno per quando sarà libero: “Creare all’interno della cooperativa una piccola comunità per ragazzi disagiati e trasmettere a loro la mia esperienza”.

    (manuela d’alessandro)

    *Nella foto tratta dal sito ‘Amici della Mente Onlus’ Juri Aparo in camicia rossa col Gruppo della Trasgressione nel carcere di Bollate

     

  • Scarcerato l'(ex)ergastolano ostativo Musumeci, voce degli ‘uomini ombra’

    Per la prima volta in Italia un ergastolano ostativo ottiene la liberazione condizionale. Ed è Carmelo Musumeci, un uomo speciale che ha reso pubblici dolore e speranza attraverso il suo blog dal carcere a nome degli ‘uomini ombra’, cioé dei reclusi la cui pena detentiva coincide con la durata della vita e una data immaginifica: 31/12/99999.   Col costituzionalista Andrea Pugiotto, ha pubblicato il libro ‘Gli ergastolani senza scampo’, diventato una sorta di manifesto giuridico e umano contro la gabbia intangibile.  Un testo in cui Musumeci ha riportato i ‘dialoghi’ crudi e poetici con la sua ombra. “Il mio corpo è chiuso in questa tomba, ma il mio cuore sciocco ha sempre sperato nella libertà”.  Oggi, dopo che già da quasi due anni godeva di un regime di semilibertà, condivide dal suo profilo Facebook il giorno più luminoso: “L’altro ieri ho ricevuto una di quelle telefonate che ti cambiano la vita. Il numero era quello del carcere di Perugia. Mi avvisano di rientrare in carcere perché devo essere scarcerato”.

    Il Tribunale della Sorveglianza umbro gli ha concesso la liberazione condizionale. “Quando esco dal carcere mi gira la testa. Il mio cuore batte forte. In pochi istanti mi ritornano in mente tutti e 27 gli anni di carcere, coi periodi di isolamento, gli scioperi della fame, le celle di punizione senza libri, né carta né penna per scrivere. Passavo le giornate solo guardando il muro”. L’ex ‘boss della Versilia’  era entrato in cella il 25 ottobre del 1991 e una serie di condanne lo aveva inserito nel ristretto club di chi ha come unica prospettiva il carcere. Ma è riuscito ribaltare il suo destino, distogliendo quello sguardo dal muro con la forza e la fantasia. Grazie anche al coraggio di alcuni giudici adesso Musumeci, che ha 63 anni e tree lauree conquistate in cella, è arrivato alla soglia dell’inimmaginabile per gli ‘uomini ombra’. Come è potuto accadere ce lo spiega l’avvocato ed esponente radicale Maria Brucale, dell’associazione ‘Nessuno tocchi Caino’: “Musumeci, come altri pochi detenuti ostativi, aveva ottenuto la semilibertà dopo che era stata accolta la sua richiesta di inesigibilità della collaborazione . Ma adesso i giudici si sono spinti oltre riconoscendo la liberazione condizionale dopo un percorso lungo e faticoso. E’ una notizia meravigliosa, un grido di speranza nel buio”.

    Nella loro ordinanza, i giudici scrivono di “un grande percorso di crescita personale che ha portato Musumeci a leggere e studiare in carcere con granitica volontà” e del suo impegno come “scrittore e conferenziere”, oltre che “del suo essere un uomo nuovo che si riscatta dal passato impegnandosi quotidianamente nell’assistere la disabilita”.  L’ergastolano ostativo, a differenza di quello comune, non ha diritto ai benefici penitenziari in assenza di una “condotta collaborante” con la giustizia. A meno che, come nel caso di Musumeci, non venga riconosciuta “l’inesigibilità della collaborazione” grazie alla quale aveva ottenuto la semilibertà, goduta lavorando di giorno nella casa Famiglia di don Oreste Benzi, ma sempre con l’obbligo di rientro in carcere. Adesso  Carmelo ha tra le mani una libertà quasi intera e notti per guardare le stelle.

    “Poi scrollo la testa. Smetto di pensare al passato. Mi accendo una sigaretta e, dopo la prima tirata, smetto di fumare, medito che adesso dovrei smettere, perché ora la mia unica via di fuga per essere libero non è solo la morte.  Alzo lo sguardo al cielo. Per un quarto di secolo ho sempre creduto che sarei morto in carcere. Non è ancora la libertà piena ma ci sono vicino e sono tanto, ma tanto felice. Da solo non ce l’avrei mai fatta. Più che credere in me stesso, penso di avere scelto di credere negli altri”.  

    (manuela d’alessandro)

     

  • Caporalato, l’umiliazione nel racconto degli operai di Pavia

    Diecimila libri da spostare in un turno di lavoro, contratti ‘settimanali’ rinnovati per anni, 200 ore di straordinari mensili, violazioni sistematiche di ogni diritto. Queste erano, stando ai racconti di 300 di loro, le condizioni degli operai emerse dagli atti di un’indagine sul caporalato in uno dei più grandi poli logistici dedicati all’editoria in Europa, vicino a Pavia, una struttura al servizio delle principali case editrici italiane.

    “Dovevo spostare 10mila libri per turno, era un lavoro insostenibile.  Di notte, il mio compagno mi vedeva piangere sempre perché avevo dolori ovunque, in particolare forti dolori alle braccia e alle gambe. Successivamente sono stata in cura al San Matteo per varie patologie”. E’ la testimonianza di una lavoratrice resa alla Procura e a Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Pavia nelle carte dell’inchiesta che ha portato il 27 luglio scorso all’arresto di 12 persone accusate di sfruttamento della manodopera, oltre che di frode all’erario. Le indagini, incentrate sull’ascolto di lavoratori italiani e non, all’inizio molto reticenti a parlare per timore di ritorsioni, hanno riguardato le 40 cooperative presenti nell’area logistica della Ceva Logistics di Stradella (estranea all’indagine) ribattezzata ‘Città del Libro’ proprio perché è un centro di stoccaggio di libri e giornali delle più importanti case editrici. Cooperative che in realtà sarebbero state riconducibili, attraverso una serie di schermi societari, a un unico gruppo di persone.

    “I ritmi di lavoro sono insostenibili – è il racconto di un’altra operaia – devo correre sempre, ho perso tutti miei chili. Corro talmente tanto che scendono giù i pantaloni, ma devo accettare le condizioni perché ho due figlie da mantenere. Ora voglio collaborare, dico tutto, ma ho paura di essere lasciata a casa, come è già successo a un collega. In Ceva si applica una forma di ricatto non detta. Formalmente nessuno ti impone di fare lo straordinario, ma se non lo fai c’è un’elevata possibilità di essere lasciati a casa. Ogni turno dura in media 12 ore”. Nello stabilimento, spiegano i lavoratori, la produttività veniva valutata in base alle “righe” eseguite al giorno, dove per “righe” si intende “il prelievo di due libri al minuto”. “Dovevo eseguire almeno 130 ‘righe’ al giorno – dice un’altra lavoratrice – chi ne fa meno viene lasciato a casa. Ciascun turno prevedeva regolarmente 12 ore di lavoro e quando non sono stata più in grado di sostenere questi turni così pesanti, dovendo accudire mia madre disabile, sono stata lasciata a casa”.  “Per sette anni ho lavorato con contratti a termine della durata sempre di di 3 mesi”, svela una donna rumena, mentre altri parlano addirittura di “rinnovi settimanali” presso il cosiddetto ‘reparto picking’ (gestione e logistica del magazzino). Le ore notturne e quelle di straordinario, stando agli operai, venivano pagate sempre la stessa somma, da alcuni indicata in 7 euro all’ora. Gli straordinari, prima del 2016, quando sono ‘entrati’ i sindacati nello stabilimento e la situazione “è un po’ migliorata”, consistevano in “più 200 ore al mese”, spesso non calcolati in busta paga. “Certi giorni – afferma un lavoratore ucraino – veniva appeso un cartello con la scritta ‘Tassativamente obbligatorio sabato e domenica lavorativi’. Nella bacheca dove venivano appesi i turni veniva indicato solo l’inizio del turno mentre sulla sull’orario di fine servizio veniva indicata la dicitura F.S. (fine servizio)”. Sintetizza il gip che ha disposto le misure cautelari: “Sono emersi chiari, precisi e concordanti elementi relativi all’intermediazione illecita e allo sfruttamento dei lavoratori, al reclutamento di manodopera destinata al lavoro presso la Ceva in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori e la corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali; violando reiteramente la normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, alle ferie, in totale dispregio delle norme di igiene e del lavoro”.

    (manuela d’alessandro)

     

     

     

     

     

     

     

     

  • “Verrà la morte”, la poesia di Pavese che (anche) ha risolto’ il delitto Macchi

    Non c’è nulla di poetico in un omicidio, ma in questo omicidio c’è molta poesia.

    Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, uno degli incipit più abbaglianti della poesia italiana, viene eletto a pieno titolo tra gli indizi che hanno portato alla condanna all’ergastolo di Stefano Binda per avere ucciso con 29 coltellate Lidia Macchi il 5 gennaio del 1987 nei boschi intorno a Varese. Perché Lidia, scrivono i giudici nelle motivazioni al verdetto dell’aprile scorso, quei versi li “conservava in borsetta trascritti su un foglio” e Stefano ne era così ossessionato da parlarne in continuazione nei corridoi del liceo, come ricorda la super testimone dell’accusa Patrizia Bianchi.

    “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi /questa morte che ci accompagna dal mattino alla sera, insonne, sorda, come un vecchio rimorso o un vizio assurdo/”.

    Stefano, poi studente di Filosofia cui slanci giovanili verranno schiacciati dall’eroina, sviscerava tutti le opere del suo autore preferito, specchiandosi nelle sue inquietudini, ma quella poesia lo tormentava più di tutto. “Con corrispondenza impressionante – scrivono i giudici – ‘Verrà la morte e avrà i tuoi occhi’ è stata  trovata da lui trascritta, nella sua abitazione, durante una recente perquisizione “. E per la Corte d’Assise sempre questa lirica firmata dallo scrittore morto suicida, “è un elemento che individua Stefano Binda come l’amore segreto” di Lidia. Voleva condividere un pezzetto delle ossessioni di Stefano e per questo la custodiva in borsetta.  Lei ragazza discreta e brillante,  a sua volta amante della poesia tanto che è uscita una raccolta postuma, si era invaghita di quel giovane “molto intelligente e carismatico, famoso per la sua capacità di risolvere enigmi” prima a scuola e poi nell’ambiente di Comunione e Liberazione che entrambi frequentavano. “Un amore impossibile”, come lei stesso lo definì in una lettera senza fare il nome di Stefano ma per i suoi amici dell’epoca non c’è dubbio che si riferisse proprio a lui.  Binda è stato arrestato  il 15 gennaio del 2016, al termine di una sorprendente indagine dell’allora pg di Milano Carmen Manfredda che aveva riaperto il fascicolo dopo 27 anni di inerzia. La prova principale contro di lui  è una lettera intitolata ‘In morte di un’amica’ recapitata anonima il giorno delle esequie alla famiglia Macchi. Per i giudici l’autore sarebbe stato Stefano Binda come dimostrerebbero i “molti riferimenti ala scena del crimine oggettivamente riscontrabili alla prima lettura” di quella che definiscono “una poesia”. Ancora una poesia,  questa volta tutta sua.  (manuela d’alessandro)

     

     

     

  • La battuta choc di Berlusconi su Balotelli che non avete mai ascoltato

    Ecco la frase choc di Silvio Berlusconi che finora nessuno vi ha fatto ascoltare con le vostre orecchie. Quella battuta razzista e francamente inattesa, riferita a Mario Balotelli, di cui vi abbiamo parlato quasi due anni fa, quando il video che troverete qui sotto fu depositato agli atti dell’inchiesta Ruby ter. Da allora il catenaccio anti-giornalista messo in atto dalle parti che avevano accesso a questo documento è stato micidiale. Ora qualcosa si è spezzato.

    Riteniamo sia doveroso darne conto, considerato il ruolo pubblico che Berlusconi ancora ha, in un momento in cui il tema del razzismo è di lampante attualità. A Mario Balotelli la massima solidarietà per quello che forse non avrebbe voluto sentire e che invece fa ancora tristemente parte dell’armamentario para-umoristico italiano. La scenetta si conclude con Berlusconi che dice a Marysthelle Polanco “tu sei abbronzata, lui invece è proprio negro negro”. Parole che ci fa un certo effetto anche solo trascrivere. Il video lo trovate qui sotto.

    Eccolo: berlusconi-balotelli-giustiziami

  • Detenuti di Opera contro i topi, morso un recluso malato di cancro

    Topi nelle docce, topi che mordono detenuti e medici, che mettono in pericolo la salute di chi, già malato, sta dietro le sbarre. Cosa succede a Opera? A raccontarlo sono gli stessi reclusi che, in una lettera alla direzione della casa circondariale, protestano per la massiccia presenza di ratti, evidenziando il caso di uno di loro, malato di tumore, morso da un roditore e sottoposto per questo a profilassi.

    Una trentina di carcerati lamenta che gli episodi relativi alla presenza dei roditori, “anche di dimensioni notevoli nella doccia del reparto infermeria”, “si stanno ripetendo da mesi ma, nonostante le numerose segnalazioni, non si è giunti a nessuna soluzione da parte della direzione”. “Crediamo che la situazione sia diventata davvero intollerabile – si legge nella missiva scritta a mano che abbiamo potuto leggere – considerando il luogo in cui siamo e soprattutto l’alto numero di detenuti ristretti  con gravi patologie”. I firmatari fanno riferimento perfino a “un medico morso alla gamba come da certificazione infettivologica”.

    Il caso portato a emblema è quello di Cosimo Loiero, malato di cancro e azzannato da un topo, che ha chiesto di essere  scarcerato e messo ai domiciliari nei mesi scorsi per “l’incompatibilità del regime carcerario con le sue condizioni di salute”, ma prima la Corte d’Appello e poi il Tribunale del Riesame di Milano gli hanno detto di no. Loiero,  44 anni, condannato in primo grado a 18 anni  col rito abbreviato per associazione a delinquere finalizzata al narcotraffico, si è ammalato di un linfoma di non – Hodgkin poco dopo essere stato arrestato nel  2016. Per i giudici del Riesame, “pur dovendosi dare atto della assoluta serietà e complessità delle patologie dalle quali risulta affetto Loiero, la detenzione in sé considerata, ovviamente effettuata come nel caso in un centro clinico (ma dalle carte si evince che non ci va mai, ndr)  non palesa insuperabili problematiche connesse alla patologia”.

    La consulenza della difesa e la perizia del Tribunale concordano nel dire che  i cicli di chemioterapia a cui si sta sottoponendo determinano “un elevato rischio di complicanze infettive a breve e a lungo termine” perché il paziente è immunodepresso. Ma le conclusioni divergono. Per il medicio incaricato dalla difesa,  questo quadro clinico rende molto pericolosa la permanenza dietro le sbarre dal momento che “in ragione della terapia in corso Loiero presenta un rischio aumentato di eventi infettivi”.  Il perito del Tribunale invece si limita a indicare le precauzioni a cui dovrebbe attenersi il detenuto (”le norme igieniche devono essere garantite e verificate, evitando bagni a uso promiscuo o la scarsa pulizia degli ambienti”) ma sostiene “di non essere in grado di verificare quale sia la concreta situazione della casa circondariale, ad esempio “quante volte lavano i pavimenti o quante persone sono contemporaneamente presenti nel medesmo luogo”. La valutazione alla fine è stata fatta dal Tribunale del Riesame che ha affrontato anche l’episodio del morso del topo, esposto dallo stesso Loiero prima in udienza, dove ha mostrato i segni lasciati sul braccio dal ratto, sia  in una lettera ai suoi avvocati, firmata anche da due detenuti – testimoni.  “Il 29 aprile del 2018 alle 4 del mattino, un topo sbucato dai cestini portacibo  mi ha morso sul braccio destro ed è poi scappato. Lo ha ucciso il mio compagno di cella con una scopa e io ho deciso di conservarlo in un contenitore per alimenti per farlo vedere al medico perito che mi ha visitato il giorno dopo”. Loiero, che aveva appena terminato un ciclo di chemio, è stato visitato dal medico infettivologo del carcere che gli ha fatto una puntura antitetanica  prescrivendogli una cura di antibiotici per alcuni giorni. Sul punto, il Riesame “in assenza di elementi obbiettivi di riscontro, prende atto delle dichiarazioni del detenuto” e “nell’incertezza dell’effettività di quanto rappresentato da Loiero, segnala che sono state adottate le cautele del caso attivando un’adeguata profilassi attraverso la somministrazione di vaccino e antibiotici a riprova dell’adeguatezza della reazione sanitaria”. Non è chiaro da dove derivi l’incertezza dei giudici sul fatto dal momento che, come spiega uno dei legali di Loiero, l’avvocato Giuseppe Gervasi, “l’animale è stato conservato e consegnato al medico, il mio assistito è stato sottoposto alla profilassi del caso in carcere e in udienza ha mostrato i segni del morso”. Per il difensore “è grave che il Tribunale si limiti a ‘prenderne atto’ e a dire che il problema è stato superato dall’antitetanica senza preoccuparsi di svolgere accertamenti sull’episodio e sulla presenza di topi a Opera. Ed è assurdo  il passaggio del provvedimento in cui i giudici sottolineano che il perito ha fatto presente a Loiero  la pericolosità  della conservazione e del contatto con la carcassa, possibile causa di infezione. Come se fosse responsabilità sua essersi messo a rischio, quando invece è stato morso in carcere”. I difensori di Loiero hanno presentato ricorso alla Cassazione contro la decisione del Riesame.

    (manuela d’alessandro)

  • Il concetto di dignità quando si parla di sesso

    Esiste un concetto oggettivo di dignità quando si parla sesso? Per i giudici della Corte d’Appello di Milano sì e nelle motivazioni alla sentenza del processo Ruby bis lo applicano al mestiere delle prostitute di lusso. “L’attività delle escort, ancorché scelta deliberatamente e liberamente – scrivono – risulta porsi in contrasto con la tutela della dignità della persona umana che è il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice che punisce la condotta di agevolazione della prostituzione”.

    Molti dubbi in più li aveva manifestati tempo fa la Corte d’Appello di Bari impegnata nel processo a Silvio Berlusconi e al suo presunto ‘cacciatore’ di escort, Giampaolo Tarantini, decidendo di mandare alla Consulta gli atti per valutare la legittimità del reato di favoreggiamento della prostituzione. L’ipotesi dei magistrati pugliesi era che la legge Merlin potesse essere “lesiva del diritto alla libera sessualità autodeterminata” e contraria al “principio di laicità dello Stato, di tassatività e determinatezza e con il principio della tutela della libera iniziativa economica privata”. Su questa scia, le difese di Nicole Minetti ed Emilio Fede hanno provato a spendere la carta dell’illegittmità costituzionale trovando però il ‘muro’ dei giudici milanesi, secondo i quali la questione è ‘manifestamente infondata’ e non vale la pena di far scomodare i giudici della Consulta. Il legale dell’ex igienista dentale, Pasquale Pantano, aveva azzardato nel suo intervento in aula un accostamento tra Marco Cappato e Nicole Minetti che aveva suscitato un certo scandalo: come il leader radicale ha aiutato Dj Fabo all’esercizio di un proprio diritto, cioé la libertà di scegliere come morire, così l’ex igienista dentale ha dato un aiuto alle ospiti ad Arcore nell’esercizio della prostituzione, che rientra nella libertà di autodeterminazione. Ora, dopo le condanne ribadite in appello seppur con lievi riduzioni (Fede a 4 anni e sette mesi e Minetti a 2 anni e dieci mesi), le difese rinnoveranno alla Cassazione il tema del diritto o meno a prostituirsi. Prima potrebbe arrivare la decisione della Consulta sul processo di Bari.

    (manuela d’alessandro)

    Il testo delle motivazioni al processo Ruby bis

     

     

     

  • La mappa delle 500 telecamere nel Palazzo e i dubbi dei lavoratori

    Quella che vi mostriamo in esclusiva è la mappa del centinaio di telecamere che verranno installate entro la fine dell’anno al terzo piano del Palazzo di Giustizia di Milano. Proprio dove l’imprenditore Claudio Giardiello circa tre anni fa compì il suo eccidio con una pistola introdotta eludendo i controlli ai varchi.   In tutto gli ‘occhi elettronici’ saranno 500, sparsi in ogni angolo dell’immensa costruzione di età fascista e anche nella nuova palazzina di via San Barnaba, aule comprese se i giudici daranno l’autorizzazione.

    E’ la prima iniziativa del procuratore capo Roberto Alfonso sul tema della sicurezza sollevato dalla strage. Lo stanziamento che ha reso possibile il piano telecamere è di circa un milione e verrà seguito, entro il 2020, dall’installazione dei tornelli agli ingressi e dei videocitofoni davanti alle stanze di ogni magistrato. Si riuscirà a eliminare del tutto il rischio che scorra di nuovo del sangue nella casa milanese della giustizia?

    C’è poi il tema della privacy. Camminare nel Palazzo di Giustizia significherà essere ‘pedinati’ passo passo da uno sguardo invisibile.  In un riunione che si è tenuta nei giorni scorsi coi rappresentanti dei sindacati, Alfonso ha sostenuto che “l’unico scopo delle telecamere è aumentare gli standard della sicurezza, senza alcuna limitazione o ripercussione nei confronti dei lavoratori” e che una copia del progetto è stata mandata all’Ispettorato del Lavoro e all’Autorità garante dei dati personali. Una sindacalista ha chiesto e ottenuto dal procuratore garanzie sul fatto che le telecamere non vengano utilizzate per controllare l’attività lavorativa e, in particolare,  le timbrature. (manuela d’alessandro)

  • Per i Ligresti lo stesso fatto ‘non sussiste’ a Milano, ma a Torino sì

    Capi d’imputazione ‘fotocopia’ che a Torino hanno portato ad arresti e condanne e a Milano a un’assoluzione ‘perché il fatto non sussiste’, ribadita oggi in appello nei confronti di Paolo Ligresti. Un caso incredibile di contraddizione tra magistrati  di fronte agli stessi fatti, quelli relativi alla gestione delle società di famiglia, che il 17 luglio del 2013 portarono all’emissione di un’ordinanza cautelare per falso in bilancio e aggiotaggio firmata dal gip torinese, su richiesta della Procura sabauda, nei confronti di Salvatore Ligresti (scomparso di recente) e dei figli Jonella, Giulia e Paolo Ligresti. La ‘fortuna’ di quest’ultimo è stata quella di trovarsi, al momento del blitz, in Svizzera da cittadino elvetico. In queste vesti non ha potuto chiedere il rito immediato scelto invece dalle sorelle e dal padre, poi condannati a Torino nell’ottobre del 2016, e ha affrontato da solo un’udienza preliminare trovando un gip che ha dichiarato la propria incompetenza territoriale e ha trasmesso gli atti a Milano. Qui, nel dicembre del 2015, su richiesta dello stesso pm Luigi Orsi il l gup Andrea Ghinetti lo ha assolto col rito abbreviato. Una decisione non condivisa dal procuratore generale Carmen Manfredda che ha impugnato la sentenza ma poi, essendo andata in pensione, ha lasciato il caso alla collega Celestina Gravina che ha invece chiesto e ottenuto l’assoluzione per Paolo, difeso dall’avvocato Davide Sangiorgio, e per l’ex attuario Fulvio Gismondi e l’ex dirigente Pier Giorgio Bedogni. Le motivazioni al verdetto saranno depositate tra 90 giorni e forse a Torino si avrà la saggezza di aspettarle prima di celebrare l’appello di Giulia e Jonella, assistite dai legali Gian Luigi Tizzoni, Lucio Lucia e Salvatore Scuto. Non si può nemmeno dire che siano state date interpretazioni diversi alle stesse vicende perché a Milano ‘il fatto non sussiste’ proprio. Com’è stato possibile? Le interpretazioni sono varie, certo è che all’epoca l’impostazione dell’inchiesta del pm Orsi era meno ‘garibaldina’ di quella della Procura di Torino che intervenne con gli arresti ‘scippando’ di fatto l’indagine poi in effetti risultata di competenza milanese.  (manuela d’alessandro)

  • “Distrutto dall’inchiesta su Hacking Team, 3 anni dopo torno a vivere”

    “Ero finito nel mirino per avere lasciato la società perché non condividevo le loro scelte etiche e di business, ma ora finalmente un giudice ha messo la parola fine a questa storia”.  Alberto Pelliccione, 35 anni, sta comprando bottiglie di vino buono da offrire ai familiari a Singapore, dove si trova per lavoro. Era stato accusato di aver orchestrato, assieme ad altri ex dipendenti, il più clamoroso attacco informatico della storia italiana, quello ai danni di Hacking Team, società che vende software – spia a polizie e governi. Oltre 400 gigabyte di documenti interni alla società, tra cui email e password dei dipendenti, e il codice sorgente di Rcs, vennero squadernati sul web tra maggio e luglio 2015, e fecero il giro del mondo.

    Di pochi giorni fa la notizia, passata quasi inosservata sui media rispetto alla grande eco che ebbe l’indagine, dell’archiviazione da parte del gip di Milano Alessandra Del Corvo nei confronti di Pelliccione e degli altri indagati. A puntare il dito contro di loro era stato David Vincenzetti, l’ex ad e fondatore della società con sede a Milano. “Era il 2015, un anno e mezzo prima avevo dato le dimissioni da Hacking Team – ricorda  Pelliccione, precoce cyber talento tra i più brillanti nel settore della sicurezza –  poi sul mio esempio se ne andarono altri. Non volevamo più stare in quell’ambiente, soprattutto per ragioni etiche. Furono segnalati abusi dell’utilizzo del software in Marocco, dove venne usato contro gli attivisti per i diritti umani, a Dubai dove un professore venne imprigionato, sempre tramite il software di HT, per le sue idee, in Etiopia, dove il governo lo usò per rintracciare e punire giornalisti che erano contro il regime. E ancora, in Messico dove alcuni politici utilizzavano gli strumenti forniti dalla società per spiare i cronisti anche nell’intimità, e in Sudan”. Tutto grazie a un software che, come un cavallo di Troia, si infilava nei computer e negli smartphone consentendone la totale sorveglianza all’insaputa del ‘bersaglio’. Dopo avere lasciato Hacking Team, Pelliccione fonda la società ReaQta con sede a Malta finalizzata – secondo la denuncia di Vincenzetti rivelatasi infondata – a neutralizzare il codice Rcs. “Quando si è saputo dell’inchiesta sono rimasto sconvolto. Ho pensato subito a uno sgarbo che mi era stato fatto da dentro. All’improvviso ho cominciato a essere trattato come un criminale, sapevo di non avere fatto nulla ma ero nella mani e nei tempi della magistratura. Nessun cliente si fidava più di noi, per un anno il nostro business è rimasto congelato. La notizia era arrivata ovunque, negli angoli più remoti del mondo”. Nell’agosto del 2015, Pelliccione viene convocato dal pm Alessandro Gobbis: “Gli spiegai che secondo me si era trattato di un attacco politico, come poi venne confermato dalla rivendicazione di ‘Phineas fisher‘ (mai individuato, ndr). Credo che lui capì che non c’entravo niente ma mi fece intendere che il caso era delicato e non si sarebbe chiuso velocemente”. Dai dati resi pubblici in seguito all’attacco, era emerso che un colonnello e un generale dei servizi segreti italiani erano legati ad HT. Nel frattempo, il pm che, secondo Pelliccione “ha svolto un lavoro eccellente”, inizia a seguire la pista americana recuperando le orme di un cittadino statunitense di origini iraniane, Fariborz Davachi, titolare di una rivendita di auto nel Tennesee. Per la Procura e per il giudice che ha archiviato avrebbe avuto un ruolo nella preparazione materiale dell’attacco ma potrebbe essere stato solo l’esecutore di una trama di cui era all’oscuro. “Chi vende una pistola illegale non è tenuto a sapere delle intenzioni omicide di chi la compra”, ragiona Pelliccione secondo cui invece, a differenza di quanto sostenuto da pm e gip, gli Usa hanno collaborato come dovevano per individuare gli autori del blitz. “L’Fbi ha fatto le perquisizioni e trasmesso gli atti all’ambasciata romana, poi a un certo punto, usciti dal mondo ‘terreno’ dove si è incontrato Davachi, è diventato impossibile seguire le tracce nel mondo digitale”. Quelle che invece è certo, secondo il gip, è che l’incursione informatica non ha servito nessuna buona causa ‘umanitaria’, come sostenuto da ‘phineas fisher’, rovinando invece “indagini in corso per la scoperta di gravi reati, come il terrorismo internazionale”. Questo romanzo digitale potrebbe avere un’appendice. Pelliccione, assistito dagli avvocati Marco Tullio Giordano e Giuseppe Vaciago, sta pensando ad azioni legali contro Vincenzetti anche sulla base di un passaggio del provvedimento del gip che rimarca un possibile tentativo di intrusione proveniente dall’interno di HT ai danni di un indirizzo di Malta.

    (manuela d’alessandro)

     

  • Fondi Expo giustizia, il gip di Trento archivia tutto

    Ha attraversato città, lagune e monti il fascicolo sui fondi Expo assegnati alla giustizia milanese. Senza un’iscrizione nel registro degli indagati, senza un’attività investigativa visibile all’esterno. Alla fine, nella pace delle montagne trentine, a pochi passi dal confine italiano, ha trovato requie dopo un solo anno di vita. Il gip di Trento ha archiviato il fascicolo dell’inchiesta sulle presunte irregolarità nella gestione da parte del Comune di Milano e dei magistrati di una decina di milioni di euro destinati per lo più al processo informatico. Non è colpa di nessuno se da anni i monitor comprati coi soldi pubblici (appalto da quasi due milioni) rimandano solo buio e silenzio e non le indicazioni al cittadino su come orientarsi nel Palazzo, com’era stato promesso. E se la maggior parte del tesoro è  stato distribuito con affidamenti diretti e non con gare pubbliche può forse destare stupore ma non suggerisce, nemmeno a titolo di ipotesi, un reato. Nella primavera di un anno fa, l’Anac, ‘bastonata’ ieri dal procuratore Francesco Greco per i ritardi nella trasmissione delle segnalazioni, aveva presentato un esposto a Milano. Molto tempo prima, notizie di stampa nel 2014 avevano avanzato dubbi sull’utilizzo di questi soldi, ma a nessuno è venuto in mente di fare approfondimenti.  Fatto sta che i pm si sono accorti dopo un po’ di mesi che non potevano tenere le carte a Milano perché potenzialmente erano coinvolti dei loro colleghi seduti al tavolo attorno al quale si decideva la spartizione dei fondi. Atti a Brescia, allora, dove però il presidente delle Corte d’Appello è Claudio Castelli che a Milano da gip di era occupato del processo digitale. Tutto a Venezia ma anche qui si è scoperto che c’era un magistrato forse coinvolto nella vicenda. Infine, l’approdo a Trento, procura guidata dall’ex milanese Sandro Raimondi. Titoli di coda. Resta da attendere la Corte dei Conti che sta compiendo gli accertamenti di sua competenza prima di tirare una linea definitiva dal punto di vista giudiziario su una storia che dietro di sé lascia comunque molte perplessità.

    (manuela d’alessandro)

    fondi-expo-il-comune-accusa-i-magistrati-e-fa-i-loro-nomi-ad-anac

    quel-monitor-di-expo-al-passo-carraio-dove-non-serve-a-nessuno