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  • La protesta dei lavoratori della giustizia: lo Stato ci ‘deve’ 40 milioni

    I lavoratori della giustizia chiedono alla Corte dei Conti di accertare che fine abbiano fatto i 64 milioni di euro risparmiati attraverso l’introduzione del processo civile telematico (PCT). Circa 40 di questi milioni, sostengono nell’esposto presentato nei giorni scorsi all’organo contabile del Lazio, dovrebbero essere redistribuiti a chi è impiegato nei tribunali, come prevede la legge.

    “Abbiamo chiesto alla Dgisia (Direzione centrale degli appalti informatici del Ministero della Giustizia) come sia stata impiegata questa somma – spiegano i rappresentanti della FLP, il sindacato che ha firmato l’esposto – ma né il suo direttore Pasquale Liccardo, né il Ministro della Giustizia Andrea Orlando hanno risposto”. Secondo i calcoli di chi protesta, spetterebbero circa 1000 euro annui a ciascun lavoratore. E, visto che nessuno ha mosso ciglio di fronte alla rimostranze, il sindacato ha deciso di rivolgersi alla Procura Generale della Corte dei Conti chiedendole di “accertare i fatti esposti; l’avvenuta violazione delle disposizioni normative e le ragioni del loro mancato rispetto; le ragioni della mancata destinazione delle somme dovute al personale dipendente; la destinazione che hanno avuto le somme risparmiate: la sussistenza di illeciti contabili”.

    La legge invocata da chi ha promosso il ricorso alla Corte dei Conti prevede che “una quota fino al 30% dei risparmi sui costi di funzionamento derivanti da processi di ristrutturazione, riorganizzazione e innovazione all’interno delle pubbliche amministrazioni è destinata, in misura fino ai due terzi, a premiare il personale coinvolto”. Una norma che appare molto chiara ma molto di quello che accade attorno al PCT diventa oscuro, a cominciare dall’utilizzo dei milioni di fondi Expo destinati a digitalizzare la giustizia milanese sui quali dovrebbe indagare, oltre alle Procure di 3 città, anche la Corte dei Conti lombarda.  (manuela d’alessandro)

  • Cappato ai giudici: assolvetemi come dico io, se no condannatemi

     

    La sfida di Marco Cappato per il diritto alla dignità della vita e della morte di Fabiano Antoniani e dei tanti senza nome che accompagna in Svizzera arriva fino a rifiutare un’assoluzione. “Se dovete assolvermi perché considerate le  mie condotte irrilevanti –  implora la Corte d’Assise, chiamata a giudicarlo per il reato di ‘aiuto al suicidio’ – preferisco che mi condanniate“.  Nelle dichiarazioni spontanee prima del verdetto,  Cappato spiega di non volere un’assoluzione ‘solo’ perché non ha avuto un ruolo nei brevi istanti dell’esecuzione del suicidio, come ipotizzato anche dalla Procura. No, lui desidera con tutte le sue forze una sentenza che lo dichiari innocente perché ha aiutato Dj Fabo a esercitare il suo diritto alla vita  e alla morte dignitosa.

    La dignità è anche la parola ricorsa più spesso nella requisitoria del procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e del pm Sara Arduini chiusa con le richieste di assolvere ‘perché il fatto non sussiste’ o, in subordine, di mandare gli atti alla Consulta per valutare la costituzionalità dell’articolo 580 del codice penale. Anche i pubblici ministeri avanzano una richiesta paradossale alla Corte: “Se non lo assolvete, allora dovete mandare alla Procura gli atti perché indaghi la mamma, la fidanzata e perfino il portinaio che quando Fabiano andò in Svizzera gli aprì il portone”.

    “Vi invito a pensare che questa norma è nata nel 1930 col Codice Rocco – argomenta Siciliano nel suo intervento ricco di riferimenti alla Costituzione e alla legislazione e giurisprudenza europee –  poco dopo la fine della prima guerra mondiale e l’influenza spagnola che aveva ucciso 700mila persone. Non c’erano gli antibiotici, non c’era il cortisone, l’età media era 46 anni. Si suppone che quella norma fosse rivolta solo ai sani che volevano suicidarsi.  Fabiano non sarebbe sopravvissuto nemmeno un’ora all’incidente, sarebbe morto per un’infezione (…). Cerco di contenermi, ma la mia mente spazia domandandosi quante siano ora le vite artificiali che siamo chiamati a difendere. Ho visto polmoni irrorarsi da soli sui tavoli, vite solo per la capacità delle cellule di moltiplicarsi. La vita è solo questo? Mi viene da dire pensando a Fabiano, che chiamo così perché ci è entrato nel cuore, con una citazione letteraria: ‘Se questo è un uomo’ e quando dico uomo intendo quello che la Costituzione ci ha insegnato a credere che sia, un uomo che ha il diritto al suo pieno sviluppo e alla dignità. E come fa a esserci una dignità senza la libertà di esercitarla? Possiamo pensare che la condizione di dolore e di negazione della dignità in cui viveva Fabiano potesse essere vita? Noi non possiamo permetterci di stabilire cos’è degno per una persona. Nella Carte Europea dei diritti fondamentali,  il diritto alla dignità viene messo per primo, quello alla vita è in ‘seconda posizione’. Nella nostra Costituzione di diritto alla vita non si parla, di questo diritto si parla solo nel codice civile e in questa norma di cui è accusato Cappato. Se Fabiano avesse avuto solo 30 secondi per muoversi liberamente,  avrebbe messo fine alla sua sofferenza da solo”.

    E c’è un altro libro che Siciliano ‘sfoglia’ nel suo intervento.  “Anche nell”Utopia’ di Tommaso Moro nel 1516 si diceva che nel paese ideale c’è nella sofferenza umana un diritto a scegliere la fine, un diritto che viene riconosciuto sotto il prudente controllo del sacerdote e del magistrato.   Per le sue idee, Moro è stato giustiziato e poi anni dopo fatto santo. Non dobbiamo arrivare a ‘santificare’ Cappato , dobbiamo imparare dalla storia. Certo, sarebbe meglio se un intervento legislativo desse una certezza su per fissare i limiti al ‘suicidio assistito”. Il 14 febbraio la sentenza o l’ordinanza di trasmissione degli atti alla Corte. Oggi abbiamo visto lo sguardo sgomento di una giudice a latere seguire la mamma di Fabiano, la signora Carmen, che a un certo punto ha lasciato l’aula per alcuni minuti squassata dal pianto. Non sarà facile giudicare a cuore freddo. (manuela d’alessandro)

    memoria pubblici ministeri caso Dj Fabo

  • Lettera di Greco per salutare Ilda, ma è amaro l’addio alla Dda

    “Cari colleghi, Ilda deve lasciare l’incarico da Lei ricoperto negli ultimi 8 anni alla direzione della Dda. Il livello raggiunto dalla Dda di Milano è altissimo, sia per organizzazione di lavoro sia per innovazione giuridica e rappresenta un irrinunciabile patrimonio investigativo e culturale. Il rigore professionale, la riservatezza, la velocità nell’assumere decisioni e la conoscenza del fenomeno mafioso sono la cifra dell’impegno di Ilda che continuerà a garantire con la sua presenza attiva in Ufficio”.

    Il procuratore di Milano Francesco Greco prova ad addolcire l’ultimo giorno alla guida della Direzione Distrettuale Antimafia di Ilda Boccassini, elogiandola pubblicamente in una lettera inviata a tutti i pubblici ministeri.

    “Stiamo parlando del patrimonio che forma il dna della Procura  – prosegue  nella missiva – unitamente a tutti gli altri settori che rendono l’Ufficio un”eccellenza’. Ilda, con la sua straordinaria competenza, passione e dedizione al lavoro contribuisce a far maturare l’orgoglio dell’appartenenza a una storia esemplare nell’affermazione della legalità e della tutela  dei diritti: quella che caratterizza appunto la Procura di Milano”.

    Ma il magistrato grintoso protagonista di tante inchieste che in questa giornata di sole lascia la Procura è una donna amareggiata e arrabbiata il cui futuro appare molto incerto.

    Una frustrazione emersa in modo evidente nelle settimane scorse col suo rifiuto all’offerta di Greco di restare nella Dda per occuparsi delle Misure di Prevenzione, i sequestri dei beni per colpire i patrimoni dei presunti mafiosi.  Un incarico che sembrava la ‘buonuscita’ ideale ma Boccassini avrebbe preferito conservare la gestione del pool antimafia, anche senza esserne più formalmente la leader perché le norme che regolano la magistratura impongono la sua decadenza. Invece è stata scelta Alessandra Dolci come nuovo procuratore aggiunto della Dda che perderà anche Paolo Storari, il ‘pupillo’ di Ilda, magistrato giovane e autore di alcune delle più importanti indagini negli ultimi  anni sul fronte della criminalità organizzata, pronto a cambiare dipartimento.

    Cosa farà Boccassini nei due anni che la separano alla pensione? Greco auspica una sua “presenza attiva nell’Ufficio” ma non si capisce come si declinerà. Né se lei vorrà declinarla in qualche modo.  “La responsabilità di noi colleghi anziani (Ilda, Alberto, il sottoscritto, nonché il rinnovato consiglio degli aggiunti) – continua il capo nella missiva – sarà quella di guidare questo processo con l’esperienza e la necessaria condivisione delle scelte”. Ilda ne avrà voglia? Di fatto il ritorno alla veste di semplice pm è un po’ come la retrocessione di un generale a soldato. Il “sarà un’ottima annata!” con cui Greco conclude la lettera per incitare i colleghi a impegnarsi nella “ristrutturazione” dell’Ufficio sarà suonato quasi beffardo alle sue orecchie.  Vedere Ilda marciare confusa nella truppa ora come ora è difficilmente immaginabile. Tanto che non è assurdo immaginare anche un gesto clamoroso come potrebbero essere le dimissioni. (manuela d’alessandro)

  • Le ragioni giudiziarie di Maroni per puntare a Palazzo Chigi

     

    E se Roberto Maroni avesse rinunciato alla Lombardia pensando a Palazzo Chigi proprio a causa del suo processo (le famose “ragioni personali”)?.

    Alcuni indizi cominciano a mettersi in fila. Nell”intervista di oggi  al ‘Foglio’ il Governatore spende  parole accorate per Giuseppe Orsi e Mattia Palazzi, l’ex ad di Finmeccanica e il sindaco di Mantova usciti indenni con tante scuse dalle rispettive  vicende giudiziarie  dopo “avere subito un’inacccettabile aggressione mediatica”. Il tarlo giudiziario sembra avere lavorato dentro di lui in questi ultimi anni, considerando anche che l’inchiesta ha svelato aspetti molto privati della sua vita, come la relazione con una delle collaboratrici che avrebbe favorito.  Non a caso ha citato Palazzi, pure lui al centro di un presunto ‘sex gate’.  

    Sempre oggi, il Tribunale ha cancellato due udienze previste a febbraio (uffcialmente per l’incombere di altri processi con detenuti, ma non si esclude una pax elettorale tra magistrati e difesa) fissando la requisitoria al  22 marzo e le discussioni delle difese al 12 e al 19 aprile, tutto dopo il voto. Questo significa che la sentenza del processo iniziato – tenetevi forte –  il primo dicembre 2015 e proseguito con una lentezza sfinente arriverà a nomina del premier abbondantemente avvenuta. A quel punto, dando retta agli scenari mediatici non confermati dai protagonisti, il leghista potrebbe essere il nuovo capo del Governo.

    Maroni avrebbe accettato il rischio di rinunciare alla certezza di un secondo mandato lombardo ponderando proprio le conseguenze di un eventuale epilogo a lui sfavorevole del processo, peraltro improbabile data l’assoluzione per gli stessi fatti dell’ex dg di Expo Malangone in appello, ma la paura può tutto. L’accusa per lui è di avere esecitato pressioni illecite  finalizzate a  far ottenere un lavoro e un viaggio a Tokyo a due sue ex collaboratrici, una delle quali presunta amante.

    E qui entra in gioco la legge Severino che prevede la decadenza di un amministratore pubblico condannato anche solo in primo grado, in questo caso per il reato di induzione indebita. Se fosse stato rieletto Governatore avrebbe dovuto alzarsi subito dalla poltrona. La decadenza riguarda però solo gli amministratori locali, non i parlamentari e il premier che sono costretti a lasciare le cariche solo al termine dei tre gradi di giudizio. Un Maroni a Palazzo Chigi rimanderebbe di un paio d’anni il suo eventuale problema con la giustizia. (manuela d’alessandro)

  • La replica del ‘Corriere’: nessuna bufala, raccontata una storia vera

    Riceviamo e pubblichiamo la replica dei colleghi del Corriere Gianni Santucci e Andrea Galli al post firmato da Frank Cimini ‘Bufale, giornali e apparati bisognosi di gloria e di soldi’.

    “Per le opinioni del signor Cimini non abbiamo alcun interesse. Il post sul nostro articolo pubblicato sul Corriere della Sera contiene però affermazioni scorrette e diffamatorie, alle quali siamo obbligati a rispondere.

    Primo. La bufala è una notizia falsa. Nulla di quanto affermato nell’articolo è falso. Dunque il signor Cimini, che di professione ha fatto il giornalista, non dovrebbe usare le parole a sproposito. Bufala, in questo caso, è un termine utilizzato a sproposito (e in modo offensivo).

    Secondo. Il signor Cimini parla di “molto presunto attentato”. La storia è diversa: abbiamo raccontato che quella sera, in poche ore, si è verificata una serie di fatti che ha determinato uno scenario di alto rischio, come mai era avvenuto in Italia nel recente passato. Dato che facciamo i giornalisti, questa è una notizia.

    Terzo. Il signor Cimini afferma che “uno dei tre “forse” in passato avrebbe avuto un contatto con un sospetto fondamentalista”. Nell’articolo non usiamo il dubitativo “forse”, perché quel contatto è esistito ed è documentato (è stato l’elemento chiave che ha fatto scattare l’allerta). Il “fondamentalista” non è “sospetto”, perché è stato arrestato in Francia ed è tutt’ora detenuto, dopo oltre un anno. Forse una più attenta lettura dell’articolo sarebbe stata opportuna, ma non ci permettiamo di dare consigli al professor Cimini.

    Quarto. Il signor Cimini afferma: “Oggi giorno successivo allo scoop il quotidiano di via Solferino non ha scritto una riga. In pratica c’è la conferma della bufala”. Perdono, forse non conosciamo importanti regole del giornalismo di cui il professor Cimini è invece depositario. Domanda: bisogna scrivere un secondo pezzo, il giorno dopo l’uscita di un articolo, per certificare che quel primo articolo non sia una bufala? Se è così, grazie dell’insegnamento, professor Cimini. Poveri ingenui, pensavamo che fare verifiche puntuali e accertare la veridicità di tutte le informazioni contenute in un articolo fosse sufficiente.

    Quinto. Bisogna soffermarsi sull’affermazione: “nel nostro paese ci sono in materia di terrorismo e affini apparati investigativi enormi, spropositati rispetto alle necessità”. Ripetiamo: non ci interessano e non entriamo nel merito delle opinioni del signor Cimini, ma non accettiamo che su quell’affermazione si costruisca un ragionamento nel quale veniamo inseriti come “complici” al servizio di apparati dello Stato. Purtroppo svolgiamo il nostro lavoro a un livello molto più basso: abbiamo saputo una notizia, l’abbiamo verificata cercando informazioni e conferme da più e diverse fonti nell’arco di quattro giorni, infine l’abbiamo pubblicata. Dunque, professor Cimini, per cortesia ci tenga fuori dalle sue raffinate e approfondite analisi”.

     

    Andrea Galli e Gianni Santucci, cronisti del Corriere della Sera

  • Spese pazze, la sentenza per i consiglieri lombardi arriva dopo il voto

    Col rinvio dell’udienza di oggi al 28 febbraio, viene meno la possibilità che si arrivi alla sentenza di primo grado del processo a carico di 56 consiglieri ed ex regionali lombardi accusati di avere sperperato oltre 3 milioni di euro con i fondi messi a disposizione dallo Stato per l’attività politica e istituzionale.

    Non possiamo dire se sia una buona o cattiva notizia per per Luca Gaffuri, ex capogruppo e attuale consigliere del Pd, Elisabetta Fatuzzo (Pensionati), i leghisti Angelo Ciocca e Massimiliano Romeo (quest’ultimo capogruppo), e Alessandro Colucci di Nuovo centrodestra, i 5 imputati ancora in carica che potrebbero ripresentarsi alle urne il 4 marzo. E nemmeno per altri che, saltato un giro, potrebbero candidarsi di nuovo. Forse alcuni, certi di un riconoscimento della loro innocenza,  avrebbero voluto essere giudicati prima di riproporsi al di sopra di ogni sospetto, altri invece temevano l’eventuale condanna da parte dei giudici.

    Il processo è di quelli sul crinale, dove tutto potrebbe accadere, anche, nelle migliori delle ipotesi per le difese, un’assoluzione di massa oppure una sentenza di condanna ma con riqualificazione del reato da ‘peculato’ a ‘indebita percezione di erogazioni’ pubbliche che aprirebbe le porte della prescrizione, come accaduto  di recente  a 3 ex consiglieri condannati col rito abbreviato in primo grado. In questo caso, i giudici d’appello sembrerebbero avere accolto la tesi che i soldi non erano direttamente a disposizione dei consiglieri ma venivano erogati dai capigruppo.

    Certo è che il processo era iniziato un’era fa, il primo luglio del 2015 e non ha avuto certo ritmi serrati, con udienze spesso a distanza di un mese dall’altra. Le richieste di condanna fino a sei anni di carcere del pm Paolo Filippin risalgono all’8 marzo scorso, sono ancora in corso le arringhe delle difese.

    E anche i fatti contestati dalla Procura appartengono al Neolitico della politica lombarda: soldi pubblici usati tra usati tra il 2008 e il 2012 per necessità personali come regali di Natale, corone di fiori e necrologi sui quotidiani, rami di orchidee, un banchetto di nozze per la figlia, vacanze sulle neve. E ancora, pranzi e cene, anche in ristoranti a cinque stelle talvolta a base di aragosta o sushi, caricabatterie e custodie protettive per telefoni touch, I-Phone, computer, fino alle cartucce da caccia, ai gratta e vinci ai feltrini antiscivolo per le seggiole e ai wafer. (manuela d’alessandro)

     

     

  • La corte europea ammette il ricorso di Robledo contro il Csm

    Alfredo Robledo contro Italia. Si chiama così la causa che pende davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo a cui l’ex procuratore aggiunto di Milano si è rivolto lamentando l’”iniquità” del procedimento disciplinare con cui il Csm lo trasferì a Torino nel pieno della battaglia con l’allora suo capo Edmondo Bruti Liberati.

    “Il ricorso è stato dichiarato ammissibile dalla Corte, evento non molto frequente perché succede solo nel quattro per cento delle istanze presentate”, spiega il legale di Robledo, l’avvocato Federico Cerqua, figlio dello scomparso giudice Luigi per tanti anni presidente della Corte d’Assise milanese. Ora la Corte Europea dovrà pronunciarsi nel giro di sei mesi – un anno nel merito del ricorso che ipotizza la violazione dell’articolo 6 della Convenzione dei Diritti dell’Uomo sul diritto a essere giudicati da un tribunale “soggettivamente e oggettivamente imparziale”. 

    La decisione di cacciare Robledo da Milano maturò in due momenti diversi. Prima, il 5 febbraio 2015,  con l’accoglimento da parte della Sezione Disciplinare del Csm in funzione cautelare della richiesta di trasferirlo in modo provvisorio a Torino firmata dal Procuratore Generale della Cassazione. Poi, il 21 aprile 2016 quando ancora la Sezione Disciplinare del Csm con l’identica composizione (relatore Luca Palamara)  dichiarò Robledo colpevole di due illeciti disciplinari per le vicende Aiello e Albertini e lo trasferì nel capoluogo piemontese.

    Nel dicembre 2016 l’ex capo del pool anti- corruzione milanese si vide respingere dalla Cassazione il ricorso in cui faceva presente che il giudice cautelare non poteva essere anche quello di merito. Per gli ‘ermellini’ non c’erano dubbi invece sull’imparzialità del collegio che troncò l’avventura milanese di Robledo. Secondo l’avvocato Cerqua, la dimostrazione che i giudici non erano arbitri neutrali starebbe nel fatto che ampi stralci del provvedimento cautelare sono stati poi ripresi in modo letterale nella sentenza di condanna. Tra le altre cose si leggeva che Robledo avrebbe fornito informazioni “privilegiate” all’avvocato Domenico Aiello nell’ambito dell’inchiesta sui consiglieri regionali. (manuela d’alessandro)

  • La grade pace (vera?) tra le due Procure alla cerimonia per i nuovi capi

    In tanti, compresa la difesa di Beppe Sala, hanno evocato una sfida in corso tra Procura e Procura Generale di Milano che giustificherebbe anche la riapertura delle indagini sul sindaco per la ‘Piastra’ di Expo. Sarà stata l’atmosfera festosa per l’insediamento dei nuovi aggiunti oppure l’ipocrisia istituzionale, fatto è che alla cerimonia abbiamo assistito allo scambio di parole al miele e strette di mano tra i due presunti contendenti. Per il procuratore generale Roberto Alfonso quella a disposizione del capo dei pm Francesco Greco è una “squadra di eccellenza che finalmente gli consente di dare un assetto definitivo  alla Procura e cominciare a giocare”. Auguri di rito e sorriso smagliante di Greco che porge la mano e viene ricambiato da una calda stretta del capo al piano di sotto. Assente Ilda Boccassini, forse ancora nera per l’offerta, da lei respinta, di andare a comandare la Sezione Misure di Prevenzione, quella che incide sui patrimoni dei mafiosi. Ma Greco è di umore allegro e la inserisce nel pantheon degli aggiunti a cui vorrrebbe si ispirassero i nuovi assieme, tra gli altri, a Francesco Saverio Borrelli ed Edmondo Bruti Liberati, che è nel pubblico. Tra gli ‘dei’ in toga non cita Alfredo Robledo nel cui nome questa Procura si era spaccata. Per scacciare gli spettri di quell’età greve Greco sottolinea che tutti i nuovi capi dei dipartimenti “vengono dalla Procura ed è importante perché conoscono l’ufficio e sono cresciuti assieme” e, rivolto a loro, li esorta a “continuare la tradizione e l’orgoglio di appartenere a questo ufficio, a fare squadra, a vedersi a pranzo”. 

    Eccola allora la nuova squadra: Fabio De Pasquale agli ‘affari internazionali e reati economici transnazionali’; Eugenio Fusco al dipartimento ‘frodi e tutela del consumatore’; Tiziana Siciliano alla ‘tutela della salute dell’ambiente e del lavoro’; Laura Pedio alla ‘criminalita’ organizzata comune”; Letizia Mannella alla ‘tutela minori, famiglia e vittime vulnerabili’ e Alessandra Dolci che dirigera’ la Dda. Gli aggiunti già in carica Riccardo Targetti e Giulia Perrotti saranno a capo rispettivamente dei dipartimenti sul lavoro e dei ‘delitti contro la pubblica amministrazione e diritto penare dell’economia’ (uniti per la prima volta), mentre Alberto Nobili rimane il responsabile dell’antiterrorismo milanese. (manuela d’alessandro)

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  • Il no della ‘decaduta’ Boccassini all’incarico proposto da Greco

    Gestire Ilda Boccassini non più procuratore aggiunto, diciamo a fine carriera, deve essere difficile, per il carisma del personaggio, quanto lo fu avere a che fare con Francesco Totti per l’allora mister romanista Luciano Spalletti. Da ottobre Ilda non è più procuratore aggiunto della Dda ma semplice sostituto per motivi di età. Non può essere messa a capo di un altro pool e nemmeno stare ancora all’antimafia, di cui si può far parte per un massimo di dieci anni.

    Che fare? Il procuratore Francesco Greco – i rapporti tra i due sono sempre stati alterni ma al momento paiono burrascosi – aveva pensato di metterla a capo della Sezione Distrettuale Misure di Prevenzione, uno dei 4 ‘quasi dipartimenti’ da lui creati (gli altri sono Antiterrorismo, Esecuzione Penale e Portale). Ma alla magistrata, protagonista di tante inchieste antimafia e nemico pubblico numero 1 di Silvio Berlusconi, l’offerta non ha garbato per nulla come si evince anche da uno scambio epistolare tra i due che Giustiziami ha potuto leggere.

    Nel primo documento, datato 30 novembre, Greco scrive che “l’incarico di coordinatore della Sezione Misure di Prevenzione risulta assegnato dall’11 gennaio 2010 alla dottoressa Ilda Boccassini e dunque non è vacante” e non va messo a bando come gli altri tre di nuova creazione.

    A stretto giro, Boccassini risponde che a suo avviso va invece fatto un bando “in modo che tutti i sostituti abbiano la possibilità di concorrere manifestando, comunque, la mia volontà di non parteciparvi” e sostiene che la responsabile attuale delle Misure di Prevenzione sia Alessandra Dolci (futura aggiunta della Dda) e non lei.  L’ultima parola al capo: “Si rileva che l’incarico, avendo durata decennale, scade in data 10 gennaio 2020. Pertanto solo in tale data sarà vacante. Allo stato non esistono i presupposti per l’interpello”.

    Al di là di questo scambio formale, vengono segnalati più episodi indicativi di una forte tensione tra i due magistrati. Uno, in particolare, con urla della pm all’indirizzo di Greco.  Cosa farà ora l”ingombrante’ Boccassini nei due anni prima della pensione? Secondo alcuni suoi colleghi, avrebbe voluto che Greco assumesse l’interim alla Dda lasciando lei a fare il capo ‘di fatto’ e posticipando l’incoronazione di Alessandra Dolci a capo dell’Antimafia.

    (manuela d’alessandro)

  • Crisi senza fine della Sorveglianza, la rabbia degli avvocati milanesi

     

    C’è Como, dove i detenuti che ne avrebbero il diritto non vengono scarcerati perché a stendere le relazioni sui loro progressi da allegare alle istanze di misure di prevenzione o liberazione anticipata è rimasto un solo educatore su quattro che erano. Spiega l’avvocato Paolo Camporini della Camera Penale lariana che “le istanze vengono così rigettate per mancanza della documentazione di sintesi”.

    C’é Milano, dove chi potrebbe lasciare il carcere non lo può fare perché, mancando 3 magistrati su 12 alla Sorveglianza e 10 persone su 43 nel personale amministrativo, i tempi di attesa per decidere sulle richieste sono biblici (“ritardi anche di 2 anni nella fissazione delle udienze e c’è un arretrato che continua a crescere, al momento di 26mila fascicoli”, da’ i numeri l’avvocato Eugenio Losco, consigliere con la delega al carcere della Camera Penale).

    C’è mezza Lombardia (anche Lecco, Monza, Pavia, Busto Arsizio, Sondrio e Varese) dove per il presidente della  Camera Penale milanese Monica Gambirasio “la popolazione carceraria non vede risposta alle proprie legittime istanze e, al contempo, assiste a un drammatico peggioramento delle  proprie condizioni di vita”. A San Vittore, per dire, ci sono 6863 persone a fronte di una capienza regolamentare di 5167.

    Oggi gli avvocati si mobilitano – termine tecnico, sarebbe meglio dire si arrabbiano –  per denunciare la “grave crisi” dei Tribunali di Sorveglianza e delle carceri in quello che viene spesso indicato come un distretto giudiziario se non modello, comunque meglio della media in un Paese fustigato più volte dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per come umilia i detenuti. E si appellano per l’ennesima volta negli ultimi mesi  al Ministro Andrea Orlando e al Csm per rimediare. Il presidente dell’Ordine degli Avvocati Remo Danovi annuncia di avere istituito dieci borse di studio per altrettanti praticanti che avranno il compito  di “prestare aiuto alla Sorveglianza per sei mesi mi auguro prorogabili a un anno anche se resta il grave problema del sovraffollamento e di una disumanità dello Stato che non ha paragoni”.

    A ottobre, il Presidente della Sorveglianza Giovanna Di Rosa era arrivata a chiedere ai legali milanesi di occuparsi delle spese di assicurazione e viaggio per i ‘volontari’ della giustizia che nel Tribunali suppliscono al deficit di personale nelle cancellerie. Una giustizia che per salvarsi deve affidarsi al volontariato o alle borse di studio fa paura. (manuela d’alessandro)

     

     

  • ‘Vai Fabiano, la mamma vuole che tu vada’

     

    Non si è mai vista piangere tanta gente in un’aula, compreso un giudice popolare che si copriva gli occhi per pudore. Non si è mai visto un pubblico ministero (Tiziana Siciliano) porgere dei fazzoletti a un testimone dicendole che era stata fino a quel momento “sin troppo forte”. Non c’è nessun commento alle parole della fidanzata e della sorella di Dj Fabo, morto in Svizzera col suicidio assistito, che qui riportiamo come le abbiamo ascoltate nel processo a Marco Cappato, imputato per ‘aiuto al suicidio’.

    VALERIA, LA FIDANZATA DI FABIANO

    Fabo

    “Ci conoscevamo da 25 anni, prima da amici, poi da una decina di anni da fidanzati. Con lui non non ci si poteva annoiare mai, c’era sempre qualcosa che proponeva, era vivo, era l’essenza della vita. Aveva voglia di vivere ogni secondo al massimo. Non stava mai un attimo fermo, a volte litigavamo per questo, per lui le giornate dovevano durare 48 ore. L’incidente è ‘ arrivato nel momento migliore della nostra storia. Avevamo deciso di trasferirci a Goa. Eravamo felici. Lui avrebbe fatto il dj, io la psicologa e l’insegnante di pugilato per i bambini indiani. Eravamo tornati in Italia per salutare gli amici e la famiglia.

    L’incidente

    Quella sera, il 12 giugno 2014, lui doveva suonare al compleanno di un amico in un locale a Milano. La festa andò bene, c’era un sacco di gente, era contento di suonare in un posto prestigioso. Dopo la serata, Fabiano decise di tornare nella casa di famiglia sul lago, a Ispra, dove voleva terminare dei lavori, nonostante io gli avessi detto ‘Fermati, sei stanco’. Quando  sua madre mi comunicò dell’incidente, saltavo per la casa per il nervoso  perché glielo avevo detto di non mettersi in auto, ma se lui decideva una cosa neanche il Papa gli faceva cambiare idea.

    Lo specchio

    In ospedale gli ho portato uno specchio, volevo che vedesse che la faccia era come prima. Lui non poteva parlare, era tracheotomizzato. Gli dicevo: ‘Ti vedi?’, ma lui guardava verso l’alto. ‘Guarda che bello questo bracciale che ti hanno regalato’, ma lui alzava gli occhi al cielo. Ho capito che era la fine. Fabiano forse poteva vivere da tetraplegico ma non da cieco. Amava gli amici forse più della fidanzata, essere circondato dalla gente, vedere le reazioni di gioia o anche di odio che sucitava, perché  o l’amavi o lo odiavi. Non avrebbe potuto vivere senza vedere la gente che ballava quando suonava.

     Le staminali e le ombre

    Andiamo in India a tentare il trapianto delle staminali, anche se i medici italiani ci dicono che è inutile. Lui non mollava, sognava di tornare a Goa a suonare sul mare. La mia speranza era che gli restituissero almeno delle ombre. Sembrò succedere qualcosa, riusciva a stringermi la mano, me la strinse un sacco di volte e mi diceva che non vedeva più tutto nero, ma un po’ più chiaro. Era contento. Ma l’effetto svanì presto e quando tornammo in Italia vedeva tutto nero di nuovo.

    L’amore

    Dopo l’India era cambiato. Non voleva più fare la fisioterapia. Un giorno mi ha detto: ‘Valeria, che vita è questa, per me non ha più senso’ e mi ha chiesto di aiutarlo a morire in Svizzera. Era la primavera del 2016. Non sono rimasta stupita, dissi a sua madre, che persa la speranza delle staminali non ne aveva altre, e senza speranza non poteva vivere. Questa scelta di morire faceva parte di Fabiano, lui che era vita all’ennesima potenza. A questo punto io che ero diventata la sua protesi decisi di aiutarlo. Se non l’avessi fatto avrebbe significato che non lo amavo.

    L’ultimo giorno

    Il giorno prima abbiamo fatto una prova per posizionare il pulsante nel modo migliore possibile. Fabiano era agitato, non capiva gli infermieri che parlavano in italo – tedesco. Ci siamo innervositi tutti, poi si è calmato e abbiamo scherzato e parlato di tutto per tutto il giorno. La mattina del 27 febbraio 2017 mi sono infilata con lui nel suo letto, mi sono appoggiata vicino al suo orecchio per fargli sentire che c’ero. Si sveglia e mi dice ‘Ci siamo’ , io rispondo che può ripensarci. Mi chiede uno yogurt. Poi lo mettono un po’ seduto sul letto per fargli schiacciare il pulsante. Io e sua mamma usciamo, dopo 5 minuti arrivano gli infermieri e annunciano che è morto.

    Sarò energia nell’universo   

    Credeva in qualcosa sopra di lui, prima di morire mi assicurò che ci saremmo reincontrati, che lui si sarebbe trasformato in energia nell’universo. Dopo la scelta di pubblicizzare la sua scelta di andare in Svizzera alle ‘Iene’, era sollevato. Si sentiva di nuovo utile e vivo. Gli dissi che, da pugile, sentivo di essere stata sconfitta dalla Signora Morte perché lui voleva morire ma lui mi rispose che non dovevo sentirmi sconfitta perché  quella per lui era una vittoria.

    CARMEN, LA MAMMA DI FABIANO

    Lui e Cappato

    I colloqui tra mio figlio e Marco Cappato erano meravigliosi. Parlavano di molte cose, lui gli raccontava dell’India, della sua musica, era diventato un suo amico. E poi erano uomini, lui interagiva solo con donne, con me e Valeria. Cappato lo informò che avrebbe potuto morire a casa sospendendo le cure. Ma lui non voleva, aveva più  paura della sofferenza che della morte, aveva paura di morire soffocato forse o di un’agonia che spiegarono poteva durare anche dieci giorni. Ma di morire no, mi ha sconvolto questo coraggio che non credevo potesse avere”.

    Anche solo la tua testa

    Un giorno in ospedale  mi hanno informato che voleva parlarmi. Sono entrata nella stanza e mi ha detto ‘Mamma, voglio che tu accetti la mia decisione di andare in Svizzera’. Tutte le infermiere che erano li’ hanno sentito queste parole. Io l’ho ascoltato emozionata e lui mi ha detto’ Vuoi che continui a vivere  cosi’?’, e io gli ho risposto: ‘”Ti vorrei anche solo con la testa’. I suoi dolori erano terribili. Mi diceva che si sentiva ‘un diavolo in corpo’, urlava, aveva contrazioni continue. Un medico mi spiegò che, per paradosso, piu’ faceva fisioterapia più diventava sensibile al dolore. Ha lavorato tantissimo con la fisioterapia, ha lottato ma dopo il ritorno dall’India, quando ci siamo accorti che il trapianto delle staminali non ha dato benefici, non faceva che parlare della Svizzera. Era diventato un incubo. Aveva paura che rallentassimo le procedure, minacciava di non mangiare. Quando io e Valeria parlavamo a bassa voce, si arrabbiava perche’ voleva sapere tutto. Era lucido, forse sarebbe stato meglio lo fosse stato meno.

    Via Fabiano, la mamma vuole che tu vada

    Fabiano ha fatto tutto da solo, è stato  bravissimo. Per fare capire com’era mio figlio, lui aveva capito che non avevo accettato  interiormente la sua scelta e allora per farlo andare via  sereno gli ho detto ‘Vai Fabiano, la mamma puo’ continuare, voglio che tu vada’. E lui ha schiacciato il bottone.

    (manuela d’alessandro)

  • Omicidio dell’aperitivo, il pm cambia idea sulla pena al fotofinish

     

    Succede molto di rado e, quando succede, per gli avvocati ha i crismi dell’evento miracoloso. Nel corso delle repliche, quindi all’ultimo ‘giro’ prima della sentenza, il pubblico ministero Piero Basilone chiede di ridurre la pena per omicidio da 30 a 17 anni e quattro mesi  perché l’imputato e la difesa gli hanno fatto cambiare idea.

    Il processo è quello a carico di  Jeison Elias  Moni Ozuna, il dominicano che il 12 novembre 2016 fece fuoco all’ora dell’aperitivo a piazzale Loreto assassinando il 37enne connazionale Rafael Antonio Ramirez.  L’aggressione aveva scatenato polemiche sulla sicurezza tanto da indurre il sindaco Beppe Sala a pretendere dal Governo più militari in città.

    Il 14 novembre scorso il pubblico ministero ci era andato pesante: 30 anni col rito abbreviato e l’aggravante della premeditazione e senza generiche.

    Nel 99 per cento dei casi, a difesa e imputato non resta che rivolgersi al giudice per convincerlo all’ultimo secondo che la pena è troppo alta. Invece questa volta è il pm a vacillare dopo avere ascoltato gli avvocati Francesca Salvatici e Rocco Romellano e le dichiarazioni spontanee dell’imputato che forniscono elementi di prova alla ricostruzione dei fatti.

    Tanto che il gip Stefania Donadeo sposa la nuova linea dell’accusa e lo condanna ‘solo’ a 18 anni riconoscendogli  le attenuanti generiche equivalenti all’aggravante della premeditazione. Fuori dall’aula, prima del verdetto, il pm, noto per la sua severità ma anche per la sua gentilezza nei modi, riconosci ai difensori di averlo convinto al ricalcolo della pena.

    Nell’ambito delle indagini, condotte dalla Squadra mobile, anche grazie alle telecamere era stato possibile ricostruire il ruolo avuto dal dominicano e da un suo complice ancora latitante nell’uccisione di Ramirez per un debito di droga di 10mila euro. L’uomo ancora ricercato avrebbe sferrato le prime coltellate alla vittima, mentre Moni, arrestato nella notte tra il 5 e il 6 dicembre dell’anno scorso, l’avrebbe poi uccisa sparando due colpi di Beretta calibro 7.65.  Con le sue spontanee dichiarazioni il dominicano ha messo a verbale che quel pomeriggio verso le 17, un paio d’ore prima dell’omicidio, il suo complice gli telefonò e gli disse, riferendosi a Ramirez: “Dobbiamo ammazzarlo o mandarlo in ospedale”. All’appuntamento, poi, ha raccontato ancora Moni Ozuna, il complice si sarebbe presentato con pistola e coltello, consegnando la prima a lui. (manuela d’alessandro)

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  • In palla la consolle del magistrato, la crisi del Pct creato con Expo

     

    Ancora guai –  e grossi, a sentire i magistrati – per il Processo Civile Telematico, creato coi fondi Expo per la giustizia milanese distribuiti in modo così sospetto che si sono mosse 3 procure e l’Anac di Raffaele Cantone.

    E’ in tilt la consolle del magistrato, il programma che dovrebbe consentire ai giudici e ai loro assistenti di gestire il processo senza carta.

    Ci viene mostrato quello che accade ormai da settimane, dall’ultimo aggiornamento del sistema che per ammissione dello stesso Presidente del Tribunale Roberto Bichi aveva generato “gravi malfunzionamenti”, poi smentiti dal Ministro Andrea Orlando.

    Quando il giudice apre word per scrivere un provvedimento la consolle si impalla. “Ho perso un’ordinanza e ho dovuto riavviare 3 volte durante l’udienza”, ci spiega uno dei magistrati, uno di quelli che ancora prova a usare la consolle, lo strumento principe del processo digitale, vanto della giustizia milanese per avere fatto da apripista nella giustizia 2.0. Altri hanno abbandonato le speranze rinunciando da tempo ad attivare la consolle che in teoria – leggiamo sul sito del Csm – doveva dare al giudice “la possibilità di redigere tramite word provvedimenti, di firmarli digitalmente e di trasmetterli al cancelliere per la loro pubblicazione all’interno del fascicolo informatico”. Il processo digitale, che ha preso forma con affidamenti diretti milionari e senza alcuna gara a partire da una decina di anni fa, è al centro delle inchieste in cui Comune di Milano e magistrati si rimbalzano le responsabilità in attesa che, si auspica, un’autorità giudiziaria riesca a mettere ordine nella vicenda. (manuela d’alessandro)

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  • Quando sono i magistrati a non capire le violenze sulle donne

     

    A volte sono proprio i magistrati o chi li affianca nelle loro inchieste  a non ascoltare le donne, a non aiutarle a ottenere giustizia quando raccontano di avere subito delle violenze. A spiegarlo è il giudice milanese Fabio Roia nel libro ‘appena uscito Crimini contro le donne’ in cui, oltre a presentare il panorama legislativo in materia, attinge alla sua esperienza di ogni giorno nelle aule di giustizia da quando, all’inizio degli anni Novanta, assieme a tre colleghe diede vita al primo e storico pool ‘famiglia’ specializzato in abusi tra le mura domestiche. “La trama diventa drammatica – scrive Roia, ora a capo della sezione misure di prevenzione del Tribunale – quando il pregiudizio invade il mondo dell’intervento giudiziario dove si registrano ancora, fortunatamente a intermittenza ma con una tendenza al consolidamento, atteggiamenti culturali di fastidio, di resistenza, di negazionismo del problema che rivelano certamente dei pregiudizi”. Ecco allora che “operatori di polizia giudiziaria non formati sul piano culturale accolgono le donne che vogliono denunciare la violenza del compagno con indicazioni incoraggianti tipo signora, ci pensi bene, è il padre dei suoi figli, poi le portano via i bambini, lei non ha prove”. Il pregiudizio, spiega Roia, “si trasforma poi in errore tecnico nel processo”. “Così nelle aule di giustizia si sostiene che se ci sono periodi di tranquillità nella vita familiare il maltrattamento, neanche fosse una riduzione in schiavitù, non può sussistere; che se la donna testimone non ripete esattamente più volte sempre le stesse cose non può essere considerata attendibile; che la denuncia, soprattutto quando c’è una separazione in corso, può essere strumentale; che non è possibile che una parte lesa abbia sopportato anni di violenza senza parlarne con qualcuno o andare al pronto soccorso dicendo ai medici la vera genesi delle lesioni accertate”. E ancora, ci sono magistrati che nelle sentenze “scrivono frasi devastanti per la vittima che aspetta dalla decisione giudiziaria un riconoscimento istituzionale della sua violenza, che interpretano atteggiamenti e tratteggiano valutazioni di moralità, come scrivere che la ragazza ha una vita ‘non lineare’”. Roia striglia anche alcuni avvocati, come il difensore di un uomo che abusò di una donna “incosciente a causa di un’assunzione smodata di alcol”. Il legale chiese un’attenuazione della pena perché la vittima “essendo incosciente non aveva percepito l’invalidità del gesto”. Accadeva a Milano, nel 2014.

    “Crimini contro le donne” di Fabio Roia, Franco Angeli Editore, pagg. 183, euro 24.

  • Guerra col Comune, la difesa del ‘papà’ del processo digitale sui fondi Expo

    “Il Comune dice che è colpa nostra? Succede, la vita è bella perché è varia”. Pasquale Liccardo, magistrato e capo della Dgisia, la direzione per i sistemi informativi del Ministero della Giustizia, non ha molta voglia di parlare degli appalti milionari senza gara assegnati col tesoro di Expo.

    Eppure l’occasione è ghiotta. I protagonisti del processo civile telematico sono tutti qui nell’aula magna del Palazzo di Giustizia a discutere delle prospettive di una giustizia senza carta. Liccardo, considerato il papà del Pct, è un uomo ottimista tanto da promettere a un giovane avvocato seduto in platea che “tra 4-5 anni” potrà depositare la richiesta di rito abbreviato al giudice di Gela via computer senza sobbarcarsi il viaggio infinito che domani dovrà intraprendere per portare il pezzo di carta sull’isola. Prima di lui sia il procuratore Francesco Greco che il Presidente del Tribunale Roberto Bichi  avevano ammesso con candore che non tutto sta filando giusto col processo digitale.

    Su quegli appalti senza gara indagano le Procura di Venezia, Brescia e Milano. Hanno acquisito oltre alla relazione dell’Anac che segnala irregolarità in almeno dei 10 milioni su 15 stanziati in nome di Expo anche il report del Ministero della Giustizia, a firma dello stesso Liccardo. Pochi giorni fa, il Comune di Milano ha presentato un ricorso al Tar in cui chiede di annullare la delibera dell’Autorità anticorruzione scaricando ogni responsabilità su magistrati e Ministero della Giustizia.

    Torniamo a Liccardo, che avviciniamo alla fine del convegno. “Dottore, che ne pensa di questa mossa del Comune?”. “Noi abbiamo fatto le nostre valutazioni, ora vediamo cosa decide il Tar. La nostra esperienza è stata molto positiva, abbiamo portato il Pct a Milano. Su questa vicenda siamo molto tranquilli”.  Poi, la risposta a dire il vero un po’ seccata sulla varietà degli scenari nella vita a proposito dello scaricabarile del Comune.

    Liccardo all’epoca dei fatti al centro delle inchieste non era il capo del Dgsia, posizione occupata da Daniela Intravaia, e ora sta per lasciare anche lui proprio mentre è stato pubblicato il bando per assegnare una marea di milioni per lo sviluppo del Pct (entità dell’appalto una trentina di milioni). Dopo 12 anni e un durissimo intervento del Garante della Concorrenza sul monopolio della corazzata bolognese Net Service, si fa per la prima volta una gara europea. C’è agitazione tra le altre imprese che operano nel settore e che avevano segnalato le anomalie degli affidamenti diretti. A chi toccherà scrivere il futuro della giustizia? (manuela d’alessandro)

     

  • Ritratto di famiglia in sentenza: crociere, domestici e lussi di Veronica Lario

    “Lunghe crociere ai Caraibi per almeno 4/5 settimane all’anno”, “estetiste, parrucchieri e personal trainer a domicilio”, la “frequentazione, per almeno 5 settimane all’anno, di Villa Certosa a Porto Rotondo”. Il provvedimento con cui i giudici della Corte d’appello di Milano Maria Cristina  Canziani (presidente), Pietro Caccialanza e Maria Grazia Domanico(consiglieri) tolgono l’assegno mensile di 1,4 mln a Veronica Lario restituisce anche un brillante ‘ritratto di famiglia’ e degli agi in cui ha vissuto l’allora first Lady. Sono gli stessi legali della signora Lario a rivelare in un lungo elenco i lussi di cui godeva la Lario quando spiegano  il tenore di vita che desidererebbe mantenere. Durante il matrimonio, “hanno sempre prestato servizio domestico presso Villa Belvedere di Macherio almeno una dozzina di persone”, “i costi relativi alla gestione, al personale, alla vigilanza e alla sicurezza sono sempre stati sostenuti in parte dal dott. Berlusconi personalmente e in parte attraverso societa’ a lui riconducibili”; “è  stata svolta attivita’ di manutenzione e conservazione della Villa Belvedere, del parco, compreso  impianto irriguo, statue, vasche, fontane, della piscina coperta, della palestra e dei macchinari in essa contenuti, degli automezzi, anche di quelli elettrici usati per lo spostamento nella proprietà”; Veronica “ha sempre praticato attivita’ sportiva anche nella palestra pertinenziale a Villa Belvedere, attivita’ sportiva seguita da personal trainer e istruttori”. E ancora si legge nel provvedimento che “durante il matrimonio gli addetti alla sicurezza di Villa Belvedere di Macherio e della signora erano circa 25, operanti su turni che comportavano la presenza fissa 365 giorni all’anno, sia diurna che notturna” e che “anche più volte alla settimana e ogni volta che ne aveva necessità, in prossimità dei viaggi la signora riceveva attraverso la propria segretaria, che a sua volta ne aveva fatto richiesta al marito a mezzo del suo contabile, somme di denaro contanti per le spese minute”. Veronica “era solita utilizzare aerei ed elicotteri della società del marito per i propri spostamenti internazionali, oltre a voli di linea nella classi massime” e “più volte all’anno ha svolto viaggi, anche intercontinentali” e negli ultimi 4 anni, si è recata alle Galapagos, in Polinesia, nelle Fiji, in Nuova Zelanda, in Cambogia, Laos e Thailandia, in Brasile, Siria, a Parigi, a Praga e a New York, a Londra, in montagna, a Venezia e a Roma”. Gli “oneri relativi a tutti i viaggi”, viene precisato, “erano sostenuti direttamente dal marito o attraverso veicoli societari a lui riconducibili”. I suoi legali danno conto pure che la loro assistita “”ha sempre acquistato abiti realizzati da noti stilisti e si è dedicata alla cura del proprio corpo, sia dal punto di vista estetico che sportivo”.   (manuela d’alessandro)

  • A Milano nessuno viene più assolto in udienza preliminare

    La sensazione era ormai netta, di fronte ai comportamenti pressoché costanti ed uniformi dei giudici preliminari: a Milano le sentenze di ‘non luogo a procedere’ non esistono più, come se la norma che assegna al giudice preliminare la facoltà di non rinviare a giudizio gli imputati fosse stata tacitamente cancellata dal codice di procedura penale.

    Invece la norma è ancora lì, al suo solito posto, all’articolo 425 del codice di procedura penale. Fa finta di essere viva, ma è morta. E a confermarlo agli avvocati milanesi ha provveduto, con encomiabile franchezza, proprio un giudice preliminare: Sofia Fioretta, invitata a parlare ad un evento formativo della Camera penale.

    E la Fioretta ha spiegato, dati alla mano: davanti alle richieste di rinvio a giudizio presentate dalla Procura, i casi in cui il giudice dice ‘no’ sono praticamente inesistenti. Un centinaio in un anno quelli in base al primo comma, cioè i proscioglimenti inevitabili per motivi formali: come quando la querela della vittima era indispensabile ma non è mai stata presentata o è stata ritirata. Zero quelli a norma del terzo comma, la norma che dava al giudice il potere di sindacare se gli elementi addotti dalla pubblica accusa erano ‘insufficienti, contraddittori o comunque inidonei a sostenere l’accusa in giudizio’. In un anno, non è mai accaduto una sola volta che le tesi del pm venissero bocciate in udienza preliminare.

    Come è possibile che si sia arrivati ad abdicare in questo modo a una funzione prevista dal codice, svuotando di fatto di significato l’udienza preliminare che del codice è un asse portante? I gip danno in qualche modo la colpa alla Cassazione, che negli ultimi anni annullerebbe regolarmente le loro sentenze di non luogo a procedere, accogliendo i ricorsi presentati dalla Procura. Si narra di annullamenti quasi surreali, come quello che riguardò il proscioglimento di un medico di cui sia la perizia della Procura che quella del gip avevano sancito la regolarità del comportamento: la Cassazione ordinò che venisse comunque mandato a processo, perché magari una nuova perizia avrebbe potuto ‘incastrarlo’. Sta di fatto che lo stesso presidente dell’ufficio dei giudici preliminari, Aurelio Barazzetta, ha fatto presente recentemente ai suoi colleghi che – se così stanno le cose – tanto vale rinviare tutti a giudizio, lasciando poi che la rogna venga sbrigata dai giudici del dibattimento. E amen se l’imputato deve affrontare costi e patemi di un processo che magari non meritava.

    Per attutire l’asprezza del ‘new deal’, i giudici si appellano a qualche altro dato: secondo cui, almeno a Milano, è la stessa Procura della Repubblica a fare da filtro, scremando le inchieste in cui l’innocenza dell’imputato è evidente, con oltre diecimila richieste di archiviazione all’anno. Ma resta il fatto che per tutti gli altri arriva la richiesta di rinvio a giudizio accolta a occhi chiusi dal gip, destinata a costare anni di processi che in percentuale non esigua approderanno alla assoluzione: la stessa assoluzione che lo stesso gip avrebbe potuto disporre a suo tempo. Intanto: vite e carriere rovinate, soldi spesi.

    Che fare? Nel suo intervento al seminario dei penalisti, il giudice Fioretta ha suggerito il rimedio: se proprio siete convinti della innocenza del vostro assistito, chiedete il giudizio abbreviato. Ma, come la stessa gip sa bene, in questo modo l’imputato si ‘brucia’ un grado di giudizio, e in caso di condanna si ritrova con l’appello come unico spiraglio di merito per vedere riconosciute le proprie ragioni. Insomma, in un modo o nell’altro a venire sacrificate sono quelle tutele che il codice di procedura penale aveva introdotto come vera svolta rispetto al vecchio processo inquisitorio ereditato dal fascismo. (orsola golgi)

  • La donna ecuadoriana vittima della ‘ndrangheta a cui Milano volta la faccia

    “A Pioltello la vita è diventata per me invivibile. Quando ieri sono tornata a casa a prendere le mie cose la gente del condominio voleva picchiarmi perché diceva che era colpa mia quello che era successo”.

    C’è una famiglia ecuadoriana vicino a  Milano che deve scappare perché è perseguitata dalla ‘ndrangheta che, secondo la Procura,  è arrivata a far esplodere una palazzina per intimidirla a causa di un debito non onorato.

    Chi mette a verbale il suo terrore è la mamma del ragazzo beneficiario di un prestito usurario incassato da Alessandro Manno, 25enne appartenente alla famiglia mafiosa della ‘locale’ di Pioltello oggi arrestato dai carabinieri per avere provocato lo scoppio del 10 ottobre scorso.

    E mezza famiglia in effetti se n’è andata: prima il figlio, ad agosto, e poi il padre, subito dopo l’attentato a lui preannunciato il giorno prima da Manno (“Se non paga il figlio paga il genitore e vedrai quello che ti succederà lunedì”). Il ragazzo aveva chiesto dei soldi per fronteggiare i debiti contratti durante la sua attività di impresario di cantanti sudamericani.

    Restano a Pioltello la mamma e l’altro figlio più piccolo, forse ancora per poco. E, a quanto racconta la donna, con scarsa solidarietà attorno. “Mi accorgo che mia cognata non ha piacere che io rimanga a casa sua. Si sente osservata dalle persone che incontra e tutti noi viviamo in un clima di terrore. A Pioltello tutti sanno che i Manno sono gente pericolosa. Mia cognata ieri è andata al parco col bambino e mi hanno detto che le persone la additavano dicendo che il padre di Manno era in carcere e tra un anno sarebbe uscito, sottolineando che quando ai Manno toccano i loro figli non si fermano davanti a niente. Io e mio marito volevamo stare in Italia. Lui aveva un  buon lavoro, non eravamo ricchi ma volevamo continuare a stare in Italia, ma questo non è possibile”. E lo stesso giudice Paolo Guidi, che firma l’ordinanza di custodia cautelare, riconosce : “E’ del tutto verosimile che il clima di intimidazione realizzato dai Manno nel territorio di Pioltello possa incidere su coloro che hanno reso dichiarazioni in questo procedimento”. Tutta questa paura a 13 chilometri da Milano. (manuela d’alessandro)

  • Il pg Isnardi va in pensione e lascia l’inchiesta su Sala aperta a tutto

    Felice Isnardi allo scoccare dei 70 anni ripone la toga, offre spumante al bar del Palazzo e lascia nel mezzo del cammino l’inchiesta sulla Piastra di Expo che coinvolge il sindaco Beppe Sala. Non sarà lui, ma chi erediterà gli atti – i colleghi Massimo Gaballo e Vincenzo Calia – a decidere se chiedere l’archiviazione oppure il processo per l’accusa di turbativa d’asta relativa alla fornitura di 6mila alberi per l’Esposizione Universale.

    Il 20 settembre scorso Isnardi, dopo avere strappato l’inchiesta alla Procura ritenuta inerte che mai aveva indagato Sala, si era limitato a chiedere il rinvio a giudizio del sindaco per il reato di falso (udienza preliminare il 14 dicembre) nella sostituzione di 2 commissari di gara, lasciando immaginare di avere stralciato l’ipotesi della turbativa in vista di un’archiviazione.

    Invece rumors degli ultimi giorni davano molto probabile una richiesta di processo anche per la turbativa che sembrava potesse arrivare oggi come ultimo atto del magistrato. Non è accaduto e le interpretazioni possono essere varie. Si è preferito lasciare ai due pg che potrebbero sostenere l’accusa nel processo la parola finale. Ci sono state pressioni del procuratore capo Roberto Alfonso su Isnardi che potrebbe avere preferito non mettere la faccia su un epilogo non condiviso.

    Il magistrato che iniziò la carriera con l’inchiesta cinematografica ‘Pizza connection’ è apparso comunque sereno al brindisi d’addio. Scherzando coi giornalisti ha detto: “Verrò a trovarvi in sala stampa per avere da voi informazioni o magari farò una ‘Procura ombra‘”. In fondo proprio questo è quello che ha fatto negli ultimi anni riaprendo casi come quelli dell’operaio Giuseppe Uva morto dopo un arresto, di Mps e della ‘Piastra’. Inchieste che per la Procura Generale erano state archiviate con troppo fretta e senza i dovuti approfondimenti, quella su Expo in nome della ‘moratoria’ terreno di scontro feroce tra gli ex numeri uno e due Edmondo Bruti Liberati e Alfredo Robledo. (manuela d’alessandro)

  • Reati ‘domestici’ contro le donne, a Milano il 40% viene assolto

    Italiano, 42 anni, disoccupato e alcolista. E’ questo il profilo dell’imputato per reati di violenza di genere (maltrattamenti contro familiari o conviventi, stalking, violenza sessuale) nei Tribunali di Milano (sezioni nona e quinta), Como e Pavia. Ma nel 40% dei procedimenti viene  assolto/prosciolto. “Una percentuale molto elevata”, commenta il giudice Fabio Roia tra gli autori dello studio, assieme all’avvocato Silvia Belloni, promosso dalla Regione Lombardia, dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati e dal Tribunale meneghino che ha preso in considerazione 120 procedimenti tra l’1 gennaio e il 31 luglio 2017. La relazione tra imputati e parti offese è di conviventi (61%), separati/divorziati (27%) e partner (12%).

    Netto il ‘primato’ degli italiani con il 59%. Dall’Europa orientale proviene il 12% degli imputati, il 10% dal Nord Africa, l’8% dall’Asia e dall’America Latina. Il dato sulla condizione lavorativa vede la prevalenza di disoccupati (31%) e operai (25%). Seguono impiegati (11%), artigiani/commercianti (5%), dirigenti/professionisti (3%). Tra le caratteristiche dell’imputato tracciate da questa indagine figura quella della dipendenza da alcol e droghe (40%).
    La maggior parte dei presunti autori dei reati ha precedenti penali, il 14% sulla stessa vittima (nel 61% è la convivente), il 28% per reati contro la persona. Altissima la soglia di ‘sopportazione’ della donna: i maltrattamenti durano più di 5 anni nel 31% dei casi.  Basso il ricorso ai centri anti – violenza, solo nel 25% dei casi. Le parti offese preferiscono rivolgersi alle forze dell’ordine (60%) e agli ospedali (58%) e poi in maggioranza non si costituiscono parti civili (solo il 42% lo fa).

    Sorprende il dato dei proscioglimenti e delle assoluzioni che sfiora il 40%. Colpevole è il 63% degli imputati per violenza sessuale, il 61,5% per stalking e il 62% per maltrattamenti. Per i maltrattamenti le assoluzioni sono motivate da mancanza del dolo (14%) mancanza di abitualità (22%), mancanza di riscontri esterni (11%), assenza di credibilità della parte offesa (10%), ritrattazione (7%). La media delle pene è di 1 anno e tre mesi per lo stalking, 6 anni e otto mesi per la violenza sessuale, 2 anni e sei mesi per i maltrattamenti. (manuela d’alessandro)

     

     

  • Il direttore rivoluzionario Siciliano via da Opera per “scelta politica”

    Giacinto Siciliano lascia il carcere di Opera, quello più grande d’Italia, col numero più elevato di ’41 bis’, tanti ‘cattivissimi’ che prima di lui stavano solo nelle grotte più oscure della fantasia di chi è fuori. Lui li ha esposti dandogli luce e dignità, li ha messi davanti a un leggio a scandire i nomi delle vittime di mafia e a una telecamera a raccontare cos’erano e cosa volevano diventare. Nessun direttore è stato più amato da chi ha compiuto i crimini peggiori e a quella figura istituzionale si è sempre rivolto con freddezza.

    Se ne va dopo 10 anni, anzi lo mandano a San Vittore –  dicono avvocati e magistrati che ne hanno apprezzato il lavoro in questi anni –  non per un normale avvicendamento ma per una scelta ‘politica’ mascherata da una scadenza di fine mandato. Per lo slancio, la fantasia, la spregiudicatezza con cui ha cercato di sovvertire un luogo comune,  quello del carcere duro e senza speranza. Nell’estate del 2015, con l’aiuto anche della Camera Penale e del Garante Alessandra Naldi, ha messo i detenuti attorno ai tavoli di quelli che sono stati chiamati ‘Gli Stati Generali’. Per mesi hanno discusso e riflettuto di carcere, fragilità, affetti, bambini, migranti, libri, suicidio. Ha contribuito a far nascere uno sportello per il lavoro, primo in Italia, dentro le mura.  Ha usato come terapia la parola, la musica, il teatro.

    Ha portato per la prima volta gli  ergastolani ostativi, quelli che davvero hanno una pena senza fine, a incontrare gli studenti della Bicocca.

    E gli ha regalato l’opportunitàdi brillare di una luce diversa nel docu – film di di Ambrogio Crespi ‘Spes contra Spem’ girato a Opera, volato al Festival del cinema di Venezia e in mezza Italia, tra chi per la prima volta ha potuto vedere cosa c’è nella grotta oscura di chi sta in un carcere di massima sicurezza. Qualcosa che fa meno paura sotto la luce. (manuela d’alessandro)

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  • Il mistero dell’appello scomparso del processo Ruby – bis

     

    Che fine ha fatto l’appello del processo Ruby bis?

    Il 22 settembre 2015 la Corte di Cassazione, accogliendo i ricorsi delle difese, aveva annullato con rinvio le condanne di Emilio Fede (4 anni e 10 mesi) e Nicole Minetti (3 anni).  Gli ‘ermellini’ spiegavano che sarebbe stato necessario rifare a Milano un nuovo processo di secondo grado alla luce del “grave vuoto motivazionale” della sentenza impugnata. In particolare, ai giudici della Corte d’Appello veniva rimproverato di non aveva accertato a carico dei due imputati fatti concreti relativi alle singole ragazze che avrebbero indotto a prostituirsi nonostante “la meticolosità con la quale si soffermavano sui concetti generali in tema di prostituzione, induzione  e favoreggiamento”.

    E d’accordo che la prescrizione è di là da venire, ma più di due anni per fissare una data appaiono davvero tanti e fanno pensare che non ci sia nessuna voglia di celebrare un processo forse ritenuto non così indispensabile. Nel frattempo, Fede ha compiuto 86 anni e l’ex igienista dentale si è trasferita a Ibiza da dove  pochi giorni fa ha messo in mostra  il suo ‘lato b’ riflesso in uno specchio per le migliaia di  follower su Instagram. Del resto, c’è poca fretta anche per altre indagini e processi nell’ambito della saga giudiziaria nata dalle rivelazioni della ragazza marocchina. L’impressione è che questo sia un capitolo ormai archeologico che si abbia voglia di chiudere. In fondo, ora Berlusconi è diventato anche una vittima  per questa  Procura che ha aperto un’inchiesta sulla base di un suo esposto nella vicenda di Vivendi per l’affare (saltato) Mediaset Premium.   (manuela d’alessandro)

     

  • Lui condannato gli altri assolti, revisione del processo per Daccò

    Pierangelo Daccò l’abbiamo visto molte volte in questi anni nelle aule milanesi. Sempre più sottile e sofferente. Ha trascorso 4 anni di carcerazione preventiva, davvero un eccesso, al di là della sua colpevolezza o innocenza, per uno strumento che non dovrebbe costituire una condanna anticipata.

    Quando il 3 ottobre del 2012 il gup Maria Cristina Mannocci gli inflisse per il crac del San Raffaele 10 anni col rito abbreviato (sarebbero stati 15 in ordinario) era incredulo non solo il suo avvocato ma anche il pm che aveva chiesto 5 anni e mezzo, in pratica la metà.  In appello gli venne tolto un anno e si arrivò alla sentenza definitiva a 9 anni di carcere.

    Nel frattempo, è successo che alcuni imprenditori coimputati di Daccò che avevano scelto il rito ordinario siano stati assolti per dei reati che, secondo l’accusa, avevano commesso in concorso con l’uomo d’affari amico di Roberto Formigoni e suo compagno delle gite in barca (per la vicenda Maugeri è stato condannato in primo grado a 9 anni e due mesi).

    Ora la Cassazione accoglie l’istanza di revisione  presentata dai legali Gabriele Vitiello e Massimo Krogh e già respinta nel settembre del 2016 dalla Corte d’Appello di Brescia. “E’ apodittica e alquanto priva di significato –  ragionano gli ‘ermellini’ –  l’affermazione dei giudici bresciani per i quali la vera ragione della diversità dell’esito dei due processi stava nella diversità del rito col quale erano stati detenuti”. Insomma, qualcosa non torna e la condanna a Daccò è stata quantomeno esagerata, se tanto o poco lo stabiliranno i giudici della Corte d’Appello di Venezia ai quali spetta il nuovo giudizio.

    Secondo la Procura di Milano, a partire dal 2005, dalle casse del San Raffaele, fondato da don Luigi Verze’, sarebbero stati distratti circa 47 milioni, cinque dei quali arrivati direttamente a  Daccò, accusato, oltre che di concorso in bancarotta, anche di associazione per  delinquere finalizzata alla distrazione di fondi, all’appropriazione indebita e alla frode fiscale. Col rito  ordinario erano stati  assolti Giovanni Luca Zammarchi, Fernando Lora e Carlo Freschi in relazione a presunte sovrafatturazioni a un paio di  società.

    “Siamo fiduciosi che venga scritta una pagina positiva per la giustizia italiana in una vicenda che ha tante ombre – commenta l’avvocato Vitiello – Daccò ora è domiciliari dal gennaio del 2017 dopo essere entrato in carcere, da incensurato, il 14 febbraio del 2011”. (manuela d’alessandro)

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