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  • La lettera dei genitori di Riccardo e Chiara, “la sofferenza di Pellicanò si unisce alla nostra”

    “Vogliamo portare la nostra testimonianza provando a tenere a distanza la rabbia, che pure è compagna inseparabile della nostra vita ferita a morte e, ancor più, ogni voglia torbida di vendetta, alla quale cerchiamo di resistere con tutte le nostre forze, convinti come siamo che la sofferenza del colpevole si aggiunge a quella delle vittime e non può minimamente alleviarla e restituirci i nostri ragazzi”. La lettera viene letta dall’avvocato di parte civile Valeria Attili ma la voce che tutti sentono nell’aula è quella dei genitori di Chiara e Riccardo, morti a 27 anni nell’assurda esplosione provocata da Roberto Pellicanò, il pubblicitario che il 22 luglio 2016 svitò il tubo del gas nella palazzina di via Brioschi a Milano.

    Quella voce suona anche nel cuore di Roberto Pellicanò che, seduto tra i suoi avvocati, piange.

    Chiara Magnamassa e Riccardo Maglianesi erano la coppia di vicini di casa arrivati dalle Marche. “Quella mattina – scrivono i genitori – non è stato spezzato un sogno o un vago desiderio: sono state spezzate delle vite umane, ormai incamminate in un concreto e preciso percorso di realizzazione personale, professionale e quindi anche sociale”.

    Nei mesi scorsi, Pellicanò, a cui è stato riconosciuto il vizio parziale di mente per una forma di depressione, aveva chiesto perdono in una lettera ai familiari dei ragazzi. “Non vogliamo forzare con le nostre parole – prosegue la missiva – quella ricerca doverosa e delicata di un concreto bilanciamento di offesa e riparazione che appartiene alla logica alta della giustizia, cui  ogni iter processuale deve sempre ispirarsi. Desideriamo però condividere chiunque abbia a cuore questa logica alta della giustizia le domande che continuano ad accompagnarci da quella mattina: Perché? Perché i nostri figli hanno dovuto pagare un pezzo così alto atroce e irreparabile per una storia che non è mai stata, nemmeno per un istante, la loro storia? Perché una fine così orrenda, così assurda, che racchiude in sé i caratteri dell’ingiustizia assoluta?”.  Secondo le indagini, Pellicanò avrebbe agito “spinto dalla rabbia per la separazione” da Micaela Masella, la donna con la quale, nonostante la fine della relazione, continuava a vivere assieme alle figlie di 7 e 11 anni. Anche Micaela perse la vita, mentre le bimbe riportarono gravi ustioni sul corpo. Il pm ha chiesto la condanna all’ergastolo per Pellicanò.

  • Fondi Expo, lo stop all’inchiesta sulle triangolazioni giudici – camera di commercio – imprese

    Una prova che indagare i colleghi per i magistrati sia come per il cappone festeggiare il Natale arriva da un’inchiesta potenzialmente esplosiva in cui si  ipotizzano, scrive il pm nella richiesta di archiviazione letta da Giustiziami, “intese triangolari” coinvolgenti esponenti del Tribunale, della Camera di Commercio e di un’impresa appaltatrice” che, di fatto, ha da tempo il monopolio della pubblicità delle aste immobiliari milanesi.

    Parliamo di una gara indetta dalla Camera di Commercio avviata nel 2012 con una parte dei fondi Expo, quelli il cui utilizzo sta seminando imbarazzo e paura nei corridoi del Palazzo di Giustizia. Una gara che ha sullo sfondo gli intimi rapporti tra il Tribunale retto da Livia Pomodoro e la Camera di Commercio al centro anche del rapporto dell’Anac sul tesoro Expo distribuito con affidamenti diretti e convenzioni sospette.  A vincerla in scioltezza è la società Edicom Finace con un ribasso da brivido (72,5%).

    Quando nel gennaio 2016 il pm Paolo Filippini si rende conto che “lo sviluppo dell’indagine deve passare necessariamente dalle condotte dei magistrati dell’ufficio giudiziario milanesi fruitori dei servizi resi dalle imprese del gruppo Edicom” manda le carte a Brescia competente sui presunti reati commessi dalle toghe milanesi. La risposta arriva 8 mesi dopo con la restituzione degli atti al mittente, “senza procedere a ulteriori indagini”. I bresciani spiegano ai colleghi che “il mero sospetto” non basta per determinare la loro competenza che scatterebbe solo se si iscrivesse un magistrato nel registro degli indagati.

    Di questo ‘no’ resta traccia nella richiesta di archiviazione datata 28 aprile aprile  quando il pm sottolinea  che le indagini effettuate non consentono di sostenere l’accusa in giudizio “nell’ambito delle competenze di questo ufficio”, lasciando intravvedere il rammarico per la mancata collaborazione dei bresciani. 

    Ora, una delle società estromesse, Astalegale.net, si oppone davanti a un gip a quella che definisce una “sconfortante” richiesta di archiviazione perché la Procura “sembra arrendersi nonostante le complesse indagini svolte abbiano confermato in toto le anomalie”.

    E in effetti le anomalie paiono lampanti e sembrano andare ben oltre il ruolo dei due indagati per i quali si richiede l’archiviazione, un funzionario che ha redatto il bando e una sua parente collaboratrice di Edicom, accusati di turbativa d’asta.

    Da questa indagine veniamo a sapere che per la pubblicità accessoria dei procedimenti esecutivi o fallimentari i giudici della secona e terza sezione civile del Tribunale di Milano impongono nei loro provvedimenti ai professionisti delegati di rivolgersi a Ediservice srl, società del gruppo Edicom. Al punto che nel giro di due anni, dal 2012, questa società incrementa il suo fatturato da 440mila euro all’anno fino a 1.400.000.

    Tutti tranne il giudice Marcello Piscopo che mette a verbale di essere l’unico a non farlo perché “questi servizi sono dispendiosi e superflui”.

    L’ipotesi della Procura emersa dall’ascolto di vari testimoni è che questi servizi vengano assegnati dai magistrati a Ediservice “come forma di compensazione del gruppo Edicom” perché fornisce personale alle cancelleria e per farle recuperare “remuneratività” visto il maxi ribasso del 72% sul prezzo d’asta.  Per il pm però “non ci sono prove per ritenere che la fornitura di servizi” da parte di Edicom “sia stata preceduta da una intesa illecita tra le parti coinvolte” anche perché “non è stato possibile risalire alla reale proprietà del gruppo Edicom” che ha sede nel paradiso fiscale del Delaware. Ora Astelegale.net domanda al gip Marco Del Vecchio, che si pronuncerà il 9 novembre, di respingere la richiesta di archivizione sostenendo che devono essere sentiti tra gli altri, giudici, dirigenti della Camera di Commercio e amministratori del gruppo Edicom per capire se davvero c’è stata una triangolazione illecita. In tutto ciò, interpellata dal pm, Pomodoro ha trasmesso agli inquirenti i documenti relativi al rapporto Tribunale – Camera di Commercio e una nota in cui due giudici evidenziano che non esiste nessuna convenzione tra il Tribunale ed Ediservice che riconosca in esclusiva alla società l’erogazione dei servizi pubblicitari accessori.  (manuela d’alessandro)

  • Fondi Expo, il Tribunale scarica sul Comune, “eravate voi la stazione appaltante”

     

    “Non risulta che il Tribunale abbia mai assunto il ruolo di stazione appaltante”. Roberto Bichi consegna a una nota la sintesi della riunione coi presidenti di sezione (tutti presenti) del Tribunale di Milano per discutere sugli appalti Expo alla giustizia dopo l’esposto – denuncia di Anac.  E siccome la stazione appaltante dei 16 milioni piovuti sul Palazzo di Giustizia in modo poco trasparente e senza gare era il Comune di Milano (sindaco prima Moratti, poi Pisapia), viene facile pensare a chi venga attribuita l’eventuale responsabilità di illeciti.  E’ un presidente che appare a chi c’era “molto teso” quello che si presenta al cospetto dei suoi magistrati ai quali chiede un parere sul comunicato stampa preparato per onorare “il ruolo del Tribunale di Milano, impegnato nel garantire il massimo di legalità”.

    Bichi, che gode di solida stima tra i colleghi, difende l’istituzione da lui guidata su tutta la linea, senza voler marcare un distinguo tra la sua era e quella di Livia Pomodoro, di cui è stato prima vicario e poi successore. Fuori ci sono le telecamere e qualche giudice, prima di entrare, si copre il volto per non essere ripreso in quello che appare all’esterno come un robusto ‘serrate i ranghi’ di fronte all’attacco sferrato da Raffaele Cantone il quale, nella relazione, adombra responsabilità di toghe milanesi.

    Dopo avere ricordato che le carte degli appalti erano visibili da tempo su giustiziami.prlb.eu, il Presidente da’ conto di un dossier inviato dal Comune ai capi degli uffici giudiziari a marzo scorso (tempistica sospetta, dopo il primo blitz di Anac)  in cui si riepiloga l’utilizzo dei 16 milioni di euro per informatizzare la giustizia. “Emerge che tali impegni sono stati effettuati tramite gare d’appalto o con affidamento complementare o con adesione a convenzioni Consip”. Per quel che ne so io, assicura, era tutto a posto, i conti tornavano, e se ci sono singole responsabilità, aggiunge, “auspico che emergano al più presto per dirimere dubbi, evitare illazioni e non ledere l’immagine e il ruolo del Tribunale”. Al tavolo dei fondi Expo sedeva, tra gli altri, anche l’ex presidente dell’ufficio gip e attuale numero uno della Corte d’Appello di Brescia, Claudio Castelli.

    Il nome di Roberto Bichi compare nel verbale della riunione della svolta del 15 ottobre 2014. Dopo i primi articoli di stampa, i vertici dell’amministrazione giudiziaria e i rappresentanti del Comune e del Ministero decidono che, per quel che resta da spartirsi dei 16 milioni di euro, non si faranno più affidamenti diretti ma solo gare. In quel momento, tutti i presenti sono quindi consapevoli che il ‘tesoro’ di Expo stanziato dal Governo è stato distribuito con affidamenti diretti quantomeno discutibili.

    “Bichi – si legge nella sintesi di quell’incontro assai teso – si dichiara d’accordo col Presidente Canzio che la consolle d’appello (uno dei progetti da finanziare, ndr) è indispensabile perché c’è un vincolo temporale e deve essere data una priorità pe via della scadenza. Ma si domanda che fine fa il giudizio d’appello, a livello nazionale se la Consolle non viene finanziata coi fondi di Expo”. Poi puntualizza che è scorretto “parlare di fondi Expo per il Tribunale di Milano, nel senso che sono fondi per la giustizia italiana e per tutti i Tribunali italiani”.

    Dalla mailing list delle toghe, arriva intanto la reazione stizzita di Enrico Consolandi, magistrato civile tra i più atttivi nella gestione dei fondi. “Oggi qualcuno dice che il problema è la scelta del contraente – scrive –  distogliendo così le forze da quelli che sono i veri obbiettivi che sono quelli di potere ottenere risorse per lavorare”. Ma come vengono scelti i contraenti? Che rapporto c’era tra la Camera di Commercio, beneficiaria di strane convenzioni, e il Tribunale? E quali sono gli esiti di questa selezione? Questa è la vera domanda che si pone chi col naso all’insù vede tutti i giorni i monitor spenti che dovevano servire a orientare il cittadino e oggi lo lasciano ancor più smarrito.

    (manuela d’alessandro)

    Il sito del Tribunale coi soldi di Expo che si spegne nel week end

    Il Garante toglie il monopolio del Pct alla società che se l’è preso coi soldi di Expo

    I monitor di Expo al passo carraio

    Il Pct? Più lento di quello cartaceo

     

  • Giudici convocati “con urgenza” dal presidente Bichi per discutere sugli appalti Expo

    Domani dalle 13 i processi del Tribunale di Milano rischiano di fermarsi perché i giudici si riuniranno   “con urgenza” per discutere della scioccante relazione Anac sugli appalti Expo per la giustizia milanese di cui questo sito aveva dato conto per primo due anni e mezzo fa.

    A convocare la riunione con una lettera dai toni drammatici inviata a tutti i giudici è il presidente del Tribunale Roberto Bichi.

    “Considerato il grave negativo riflesso derivante sull’immagine e sull’attività stessa del Tribunale – scrive Bichi – ritengo necessario convocare con urgenza una riunione dei presidenti di sezione, in primo luogo per informarvi delle circostanze a mia conoscenza e, inoltre, al fine di valutare eventuali iniziative”.

    “I magistrati sono convocati nell’aula della presidenza della prima sezione civile e – questo è il passaggio della missiva di Bichi che colpisce di più – in considerazione dell’importanza dell’argomento sottolineo la necessità della presenza di tutti, eventualmente anche con sospensione dell’udienza“.

    Stando a quanto emerge dalle carte in nostro possesso, Bichi non ha avuto nessun ruolo nella sciagurata assegnazione dei 16 milioni di fondi Expo destinati alla giustizia milanese. All’epoca era però il vicario del presidente Livia Pomodoro, di cui ha preso il posto quando è andata in pensione, e forse con questa iniziativa vuole prendere le distanze da chi l’ha preceduto.

    La lettera esprime con palpitazione il momento delicatissimo della giustizia milanese dopo l’esposto dell’Anac di Raffaele Cantone su presunte irregolarità in almeno 18 delle 72 procedure d’appalti del Tribunale milanese per un valore di 8 milioni di euro (su 16) di fondi governativi stanziati per l’Expo e distribuiti dal Comune di Milano per l’informatizzazione della giustizia. Nel dossier dell’Anac  vengono espresse perplessità sull’operato di diversi magistrati, tra cui Pomdoro e l’ex presidente dei gip Claudio Castelli, ora presidente della Corte d’Appello di Brescia.

    Ieri, la Procura ha avviato un’indagine ‘a modello 44’ a carico di ignoti sulla base dell’esposto dell’Anac con l’ipotesi di turbativa d’asta. Inchiesta che ben difficilmente resterebbe a Milano visto il presunto coinvolgimento di toghe meneghine.   I fatti risalgono a un periodo compreso tra il 2010 e il 2015. Giustiziami, ‘Il Giornale’ e il ‘Fatto’ ne avevano dato abbondantemente conto due anni e mezzo fa. Perché l’Anac arriva solo ora? E i magistrati avranno il coraggio di indagare su loro stessi?

    (manuela d’alessandro)

  • Corona assolto, “non è reato far custodire i soldi a un amico”

     

    Dov’è il reato di chi si fa custodire i suoi denari nel soggiorno di un  amico? Se l’erano chiesto in tanti, chi sfogliava le riviste di gossip ma anche chi bazzica il Palazzo, durante i mesi agitati del processo Corona, accusato di intestazione fittizia dei beni per quei 2,6 milioni di euro trovati nel controsoffitto della sua storica collaboratrice Francesca Persi e nelle cassette di sicurezza in Austria.

    Oggi arriva la risposta dei giudici (presidente Guido Salvini, al suo fianco Andrea Ghinetti e Chiara Nobili). Il reato di intestazione fittizia in contanti non esisteva come precedente in giurisprudenza e non esiste ora, nemmeno per l’imputato puù assiduo delle cronache giudiziarie degli ultimi dieci anni (se la gioca con Berlusconi). Il reato vero da contestare sarebbe stato quello più modesto e più comune  di dichiarazione fiscale infedele, per il quale vengono ritrasmessi gli atti alla Procura.

    Corona, condannato a un anno, esulta come se fosse stato assolto e ha tutte la ragioni, anche nel buttare fuori la rabbia per un arresto e una carcerazione (da ottobre 2016) sbagliati.  La tesi dei pm della Dda Ilda Boccassini, Alessandra Dolci, Paolo Storari viene annichilita dal Tribunale. Regge solo l’accusa di sottrazione fraudolenta dei beni, cadono l’intestazione fittizia e un altro reato pure semisconosciuto alla giurisprudenza, l’omissione della segnalazione alla Guardia di Finanza di variazione patrimoniali a cui è obbligato chi è soggetto a una misura di prevenzione. Stando a una prima lettura del dispositivo, si può dedurre che i giudici abbiano considerato Persi una semplice custode di quell’1,8 milioni di euro che teneva nel suo controsoffitto, senza però averne una formale titolarità giuridica. Revocate le custodie cautelari sia per Corona che resta dentro per i 5 anni ancora da scontare anche se si aprono spiragli per un nuovo affidamento in prova sia per Persi, condannata a sei mesi anche lei per sottrazione fraudolenta.  In sostanza, secondo i giudici, un processo che sarebbe dovuto durare poche udienze per soli illeciti tributari si è ingigantito per l’intervento della Dda che ha ipotizzato reati inesistenti.

    (manuela d’alessandro)

  • Proroga indagini scaduta per Sala, si avvicina l’ora della verità

    Ci siamo. Domani scade la proroga di sei mesi delle indagini sulla Piastra di Expo che riguarda anche Beppe Sala e, tra un paio di settimane o poco più, dovrebbe essere notificata al sindaco la chiusura dell’inchiesta, l’atto che precede di solito la richiesta del processo.

    In teoria il pg Felice Isnardi, che aveva sfilato le cartealla Procura per svolgere “ulteriori approfondimenti investigativi”, potrebbe anche chiedere l’archiviazione della posizione dell’esponente del Pd, eventualità che appare del tutto remota. In questi mesi il pg ha lavorato sottotraccia ed è emerso poco delle sue attività. Tra le altre cose, ha interrogato, su richiesta dei suoi legali, l’imprenditore Paolo Pizzarotti, l’altro nome ‘nuovo’ assieme a quello di Sala inserito dalla Procura Generale nel registro degli indagati. Il sindaco, assistito dall’avvocato Salvatore Scuto, ha scelto invece una strategia diversa, preferendo non raccontare al magistrato la sua versione sui due presunti verbali falsificati. Secondo l’accusa, Sala in qualità di ad e commissario unico per l’Esposizione Universale avrebbe retrodatato nel maggio 2012 due verbali di nomina della ‘Commissione aggiudicatrice’ per la Piastra dei Servizi perché non voleva annullare la procedura fin lì svolta nel timore che ‘saltasse’ Expo.

    Nel fascicolo sono finite anche le dichiarazioni rese ai media dal primo cittadino: “Quanto è successo in quelle giornate convulse onestamente non lo ricordo – aveva detto  – L’indagine ha comunque appurato che ciò che sarebbe accaduto è stato irrilevante per la gara”. L’inchiesta era stata al centro dello scontro furibondo tra l’allora procuratore capo Bruti Liberati e l’aggiunto Robledo che rinfacciava al ‘rivale’ di non fargli svolgerele indagini su Expo.

    Come si comporterà ora Sala dopo lo psicodramma dell”autosospensione’?

    Di fatto, la chiusura delle indagini segna un altro atto dell’accusa, come lo era l’iscrizione tra gli indagati,  e sarebbe logico che andasse avanti a governare la città almeno fino a quando un giudice non deciderà di processarlo.E’ certo che a rappresentare l’accusa in un eventuale processo non ci sarà Felice Isnardi che in autunno andrà in pensione.

    (manuela d’alessandro)

  • Per il pm “morta perché denutrita” ma la perizia dice che era malata

     

    Morta perché denutrita. Questo il mostruoso sospetto della Procura di Novara  che aveva indagato con l’accusa di omicidio colposo i genitori marocchini di una bimba di 5 anni deceduta all’ospedale Maggiore della città piemontese nel gennaio scorso.

    Ora, gli esiti della consulenza medico legale disposta dal pm Ciro Vittorio Caramore raccontano tutta un’altra verità. La piccola, arrivata il 4 gennaio al pronto soccorso in coma, si è spenta  a causa della malattia di Leigh, una grave e incurabile sindrome neuro – metabolica da cui era affetta dalla nascita.

    All’epoca grandi titoli di giornali sui genitori sciagurati e clandestini basati su una relazione della Questura che parlava di “apparente stato di denutrizione” e su quanto trapelato da fonti sanitarie e giudiziarie.

    “Nei prossimi giorni – annuncia  l’avvocato Debora Piazza che assiste i genitori – chiederò alla Procura di archiviare la posizione dei miei assistiti”. “Dal punto di vista strettamente medico – legale – scrive la dottoressa Chen Yao nella sua relazione – l’accertata presenza della sindrome di Leigh, patologia di per sé a prognosi infausta, non consente di stabilire, con certezza o elevata probabilità logica, un nesso di causa tra la condotta inadeguata dei genitori e il decesso della bimba”. Tuttavia, la consulente si sforza di individuare delle responsabilità dei genitori, forse, ipotizza Piazza, “per salvare la faccia a chi l’ha avuta in cura”. “Indipendentemente dall’identificazione dell’agente eziologico che portò al decesso – si legge nel suo studio –  è emerso, sulla base delle testimonianze fornite dai medici che ebbero in cura la paziente, un inspiegabile, ingiustificato ritardo di richiesta di assistenza medica da parte dei genitori. Il ritardo non ha consentito un’idonea somministrazione dei presidi farmacologici necessari alla correzione dello stato di disidratazione e delle conseguente gravissima ipopotassiemia (carenza di potassio, ndr), privando così la bambina delle già poche chanche di sopravvivenza”.

    “Nessuna responsabilità da parte dei genitori – ribatte l’avvocato Piazza – anzi potrebbero esserci negligenze  della struttura sanitaria dove era stata ricoverata nel settembre del 2016 e dei medici che l’hanno visitata in questi anni, non riscontrando la sidrome”.

    In ogni caso, anche se fosse arrivata prima la diagnosi, questa è una malattia che non lascia scampo perché, spiega il medico legale, “nella maggior parte dei casi l’aspettativa di vita è ridotta a pochi anni”. Le uniche cure possono consistere nella somministrazione di vitamine e in una dieta adeguata. Si manifesta “in genere tra i 3 mesi e i 2 anni e i bambini colpiti presentano un progressivo ritardo dello sviluppo psico – motorio, perdita di appetito, vomito ricorrente” e altri sintomi invalidanti.

    Tante scuse ai genitori di questa bambina fragile che, sottolinea il legale, “era stata fortemente voluta dalla mamma in tarda età, quando era già ‘vecchia’ per i dettami della religione musulmana”.

    (manuela d’alessandro)

  • “Qui per sentire il mio Perry Mason”, la mamma dell’avvocato di Corona conquista tutti

    “Quando aveva 10 anni voleva diventare Perry Mason e io gli dicevo: ‘Vedrai, sarai il Perry Mason italiano’”. Se  una mamma ti da’ fiducia, tutto è possibile.

    Questa splendida signora sugli 80 anni di eleganza elisabettiana è venuta ad assistere all’appassionata arringa del suo Perry, l’avvocato Ivano Chiesa, che oggi ha cercato di convincere i giudici ad assolvere Fabrizio Corona dall’accusa di avere nascosto al Fisco 2,6 milioni di euro.

    Capita talvolta di vedere le mamme degli imputati nelle aule dei processi, e qui spesso abbiamo visto la madre di Corona accompagnare con sguardo amorevole l’ennesima traversata giudiziaria del figliolo.

    Non capita mai invece di scorgere la mamma di un avvocato tra i banchi. La simpatica signora Luigia ha ascoltato con grande attenzione le acrobazie verbali del brillante Ivano e, alla fine, si è mangiata con gli occhi lucidi il suo Perry. (manuela d’alessandro)

    Ringraziamo per la foto gentilmente concessa Maurizio Maule

     

  • La sentenza Riina parla di tutti noi anche se ci fa ribrezzo

    La sentenza della Cassazione su Totò Riina non parla di pietas, di perdono, di  pentimento. E’ bene leggerla prima di esprimersi.

    Parla invece dei diritti fondamentali dell’uomo e lo fa scegliendo parole importanti che vanno ben al di là del ‘capo dei capi’ e ci riguardano tutti, anche se oggi ci ripugna ammetterlo.  E’ una sentenza che parla anche di chi va a morire all’estero  per avere una fine dignitosa perché, come scritto dai pm milanesi del caso Cappato – Dj Fabo, esiste un “diritto alla dignità garantito sia dalla Costituzione che dalla Convenzione europea”. Parla anche dei nostri vecchi genitori quando  negli ospedali o negli ospizi vengono brutalizzati perché non possono difendere la loro estrema dignità di esseri viventi. E ne parla con in mano la nostra costituzione e la legge, quindi se si vuole criticare questa sentenza bisogna farlo usando il suo stesso linguaggio.

    Bisogna allora spiegare con le categorie del diritto perché per Riina non valga la “giurisprudenza costante di questa Corte affinché la pena non si risolva in un trattamento inumano e degradante, nel rispetto degli articoli 27 della Costituzione (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”) e 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (“Nessuno può essere sottoposto a totura né a pene né a trattamenti inumani o degradanti”)”. “Lo stato di salute incompatibile con il regime carcerario – scrivono i magistrati citando diverse pronunce –   idoneo a giustificare il differimento dell’esecuzione della pena per infermità fisica o l’applicazione della detenzione domiciliare della persona non deve limitarsi alla patologia implicante un pericolo di vita per la persona, dovendosi piuttosto avere riguardo a ogni stato morboso o scadimento fisico capace di determinare un’esistenza al di sotto della soglia di dignità che deve essere rispettata pure nella condizione di restrizione carceraria”.     

    Bisogna allora avere davanti le cartelle cliniche di Riina, che sappiamo avere 87 anni, essere immobile dalla vita in giù, col respiratore, due tumori, il Parkinson, un filo di voce, e dimostrare che le sue attuali condizioni non siano al di sotto di quella soglia di dignità.

    Bisogna anche spiegare se la sua “pericolosità possa considerarsi attuale in considerazione della sopravvenuta precarietà delle condizioni di salute”. Ma chiarirlo bene, con cura. Perché non basta dire che nel 2013 nel cortile di Opera minacciava di uccidere nell’ora d’aria, peraltro durante quel regime di 41 bis che dovrebbe garantire l’assoluto isolamento oggi  invocato da chi non vuole scarcerarlo. Sono passati 4 anni: il magistrato Felicia Marinelli, che ha in carico la questione, è in grado di dimostrare che in questo momento Totò Riina è ancora un uomo pericoloso? A questo domande per fortuna risponderà, in diritto, un Tribunale.

    (manuela d’alessandro)

    Testo sentenza Cassazione – Riina

  • Ferrara in aula scatenato contro Di Matteo: “La sua inchiesta ha deformato il cammino della giustizia”

    E’ un Giuliano Ferrara “sulfureo” (definizione sua), vecchio animale da talk show liberato in un’aula di Tribunale, quello che si difende dall’accusa di diffamazione  per avere definito, tra le altre cose, una “spaventosa messa in scena predisposta e avviata per perseguire finalità politiche” l’indagine Stato – Mafia condotta dal pm di Palermo Antonino Di Matteo.

    “I processi contro i giornalisti si fanno nella Turchia di Erdogan, non in Italia dove si risponde solo per l’ articolo contestato “. Col tocco duro da padrone del salotto, zittisce così il legale di Di Matteo,  l’avvocato Roberta Pezzano, mentre prova a mettere in fila tutti i corsivi malvagi scritti in passato dal fondatore del ‘Foglio’ contro il suo assistito.  Ma la sensazione è che qui davvero si celebri un processo all’inchiesta palermitana con Ferara che divide le squadre in campo: “Da una parte ci sono gli italiani che dicono che un potere segreto dello Stato ha alimentato il rapporto con la mafia, dall’altra chi pensa, come me, che fosse in atto una campagna politica  e civile attraverso Ingroia e Di Matteo e delle piattaforme di ridondanza che deformava il cammino della giustizia”. Ce l’ha in particolare con le intercettazioni carpite nel carcere di Opera tra Totò Riina e Alberto Lo Russo, presunto affiliato alla Sacra Corona a un certo punto affiancato al boss in regime di 41 bis e sospettato da Ferarra di appartenere ai servizi: “Alcune dichiarazioni erano sicuramente reali quando Riina dice di voler uccidere un magistrato, altre erano una messa in scena, come quelle che riguardano Napolitano , prive di qualunque elemento probatorio, ma entravano nella campagna alimentata non tanto da Di Matteo, quanto da alcuni ambienti politici”.  E ancora: “Quando si mettono in mezzo Napolitano, il generale Mori e De Gennaro, il braccio armato di Falcone, c’è qualcosa che non va nell’amministrazione della giustizia. Se per assatanati in toga si intendono i magistrati che fiancheggiano partito o movimenti politici allora sì, Di Matteo lo è “. Ma, per l”elefantino’ (firma della casa sul ‘Foglio’), “non c’è ombra di diffamazione. Penso che a Di Matteo abbia dato fastidio il linguaggio incontinente che ho usato e l’interpretazione che ho dato, che ci fosse  un pregiudizio sfavorevole del suo lavoro di magistrato e del suo prolungamento politico, la sua vocazione civile, per non dire etica, a fare di questo processo il processo della sua vita e della sua carriera di magistrato”.

    (manuela d’alessandro)

  • 35 anni dopo, fu vera gloria la legge sui pentiti?

    Il 29 maggio 1982, durante quella che venne definita “emergenza terrorismo” veniva approvata in Italia la Legge n. 304 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 149 del 2 giugno) dal titolo “Misure a difesa dell’ordine costituzionale”. La cosiddetta “legge sui pentiti” introduce all’art. 3 notevoli sconti di pena per chi “rende piena confessione di tutti i reati commessi e aiuta l’ autorità di polizia o giudiziaria nella raccolta di prove decisive per la individuazione o la cattura di uno o più autori di reati commessi ovvero fornisce comunque elementi di prova rilevanti per la esatta ricostruzione del fatto e la scoperta degli autori di esso.”

    In tal caso” si legge “la pena dell’ergastolo è sostituita da quella della reclusione da dieci a dodici anni e le altre pene sono diminuite della metà, ma non possono superare, in ogni caso, i dieci anni”. Al secondo comma del medesimo art. 3 si legge che quelle pene già ridotte sono ulteriormente diminuite fino ad un terzo “quando i comportamenti previsti dal comma precedente sono di eccezionale rilevanza” e in tal caso è prevista, si legge al successivo art. 6, “la libertà provvisoria con la sentenza di primo grado o anche successivamente quando, tenuto conto della personalità, anche desunta dalle modalità della condotta, nonché dal comportamento processuale, il giudice possa fondatamente ritenere che l’imputato si asterrà dal commettere reati che pongano in pericolo le esigenze di tutela della collettività.”.

    All’inizio la Legge verrà aspramente criticata da molti cultori del diritto e alcuni giudici milanesi scriveranno, in una Sentenza del 1983, che “spoglia il magistrato della sua dote più sacra, l’imparzialità assoluta nei confronti di chiunque e comunque delinqua» (cfr. Sentenza 20/83, pag. 99).

    Tra i casi che destano più “scalpore” nell’opinione pubblica quello dell’ex BR Patrizio Peci, che a fronte di 7 omicidi confessati (più numerosi ferimenti) uscirà dal carcere dopo soli 3 anni e mezzo in regime di protezione, quello del milanese Marco Barbone, scarcerato dopo poco più di 2 anni dal suo arresto al termine del processo di primo grado per l’ omicidio di Walter Tobagi, e quello dell’ex piellino Michele Viscardi, tra i responsabili dell’omicidio del giudice Guido Galli, che sconterà una pena inferiore a quella del settantenne ex partigiano bolognese Torquato Bignami denunciato dal Viscardi per avere prestato al figlio Maurice (anch’egli di Prima Linea) un appartamento a Sorrento, dove fu ricoverato il Viscardi stesso perché ferito in un conflitto a fuoco dopo una rapina a Ponte di Cetti (Viterbo), in cui erano rimasti uccisi i carabinieri Pietro Cuzzoli e Ippolito Cortellessa. (altro…)

  • Elogio a Fabio, da 18 anni custode gentile dei segreti della Procura

    Un po’ come Lucy, l’amichetta di Charlie Brown pronta ad accogliere tutti al suo banchetto ‘Psychiatric help’ per la spropositata parcella di 5 cents. Ma con due differenze: lui ti ascolta davvero e lo fa gratis, con un sorriso aggiunto.

    Magistrati, giornalisti, umanità del Palazzo, personaggi strampalati, uno per tutti il mitico professor ‘Mezzacapa’ che una volta alla settimana per anni si presentava nel suo ufficio per fare il punto col procuratore Corrado Carnevali sull’amore non corrisposto per una nota cantante.

    Oggi tutti festeggiano il custode dell’anticamera del potere, l’appuntato dei carabinieri Fabio Vicari, mentre riceve a furor di popolo “per il suo lodevole e costante impegno” un elogio speciale dal suo Comandante Giuseppe La Gala.

    “Ogni giorno sono motivato a ricevere qualcuno per qualche problema e ricevo anche chi non ce li ha”,  scherza (come sempre) Fabio, da 18 anni alla segreteria dei capi della Procura, da Borrelli a D’Ambrosio, da Minale a Bruti Liberati, fino a Greco.

    “Nonostante non abbia svolto la sua attività in strada  ha mostrato quella voglia di essere utile nei confronti dei cittadini, aiutando i magistrati a risolvere i problemi della gente”, è l’omaggio di La Gala il quale però, non vivendo qua dentro, lo conosce solo un po’. Perché Fabio aiuta tutti, chiunque abbia bisogno di un’informazione, un consiglio su come riparare il pc (è un portento dell’informatica e ha un drone, oltre che una bellissima moglie, collega di Tribunale) o di una carezza in una giornata nera. E nonostante il potere lo annusi tutti i giorni nella solenne anticamera del capo di turno, il miracolo è che Fabio non se n’è mai lasciato sedurre, conservando lo sguardo dei puri sul mondo.  (manuela d’alessandro)

  • Perché la separazione delle carriere non è il rimedio al male

     

    E’ di questi giorni la raccolta firme a sostegno dell’iniziativa popolare per la separazione delle carriere della magistratura promossa da UCPI (Unione Camere Penali Italiane) e annunciata nella Gazzetta Ufficiale, serie generale n. 93 del 21 aprile 2017.

    Il nucleo centrale risiede nella sostituzione dell’attuale primo comma dell’art. 106 della Costituzione che dovrebbe, nell’intenzione dei proponenti, diventare il seguente: “le nomine dei magistrati giudicanti e requirenti hanno luogo per concorsi separati”.

    Le ragioni a sostegno dell’iniziativa (che potremmo dire quasi “rivoluzionaria” nel nostro paese) sono plurime, e per la gran parte già note, posto che trattasi di problematica di cui si discute ampiamente da anni e da più parti, ma sostanzialmente si condensano nella volontà di meglio garantire la necessaria “terzietà” del giudicante rispetto ad una delle due parti in contesa, in coerenza con quel “modello accusatorio” che fu il principio ispiratore del codice di rito del 1989.

    “Giocheresti una partita arbitrata dal fratello del tuo avversario?” si legge sul sito web del comitato promotore (separazionecarriere.it.) per evidenziare, con efficace slogan, quello che viene ritenuto essere il vizio capitale dell’attuale ordinamento giudiziario: il comune concorso di provenienza.

    Da un lato perché chi proviene da una stessa selezione non potrebbe in futuro conservare giusta equidistanza da chi verrebbe comunque visto come un ex “compagno di scuola” e dall’altro perché quella comune legittimazione concorsuale consente successivi passaggi di funzione ulteriormente rafforzanti lo spirito di “colleganza” tra giudicanti e requirenti.

    Ne deriva che eliminando quel vizio originario il giudizio penale riacquisterebbe, secondo i promotori, la sua giusta natura di leale confronto tra due parti in perfetta par condicio di fronte al Giudice.

    Le motivazioni sono certamente più che lodevoli, ma personalmente non ritengo efficace il rimedio proposto, e non tanto per ragioni “culturali” o “politiche”, ma per un motivo ben più pratico, che cercherò di spiegare.

    Se il punto dolens, e su questo siamo ovviamente tutti d’accordo che lo sia, è che a noi difensori capiti talvolta di incappare in giudici palesemente sbilanciati verso la pubblica accusa, la ragione dipende esclusivamente dalla persona di quel giudice che ha evidentemente sbagliato mestiere.

    Chi sceglie di esercitare una funzione così delicata, che incide direttamente sulla vita delle persone, deve infatti avere molto chiaro che il suo lavoro consisterà unicamente nel valutare in assoluta oggettività lo spessore delle prove raccolte dalle parti in contesa, e senza il benché minimo condizionamento aliunde, qualunque esso sia.

    Un giudice che invece pronuncia una sentenza “in nome del popolo italiano” (evidentemente formato anche da soggetti diversi dai suoi “compagnucci di concorso”) tenendo anche conto della diversità d’ufficio di una delle due parti, è un pessimo magistrato per tara genetica e resterà un pessimo giudice vita natural durante.

    Chi nasce pessimo giudice non migliora in forza di legge, né l’imparzialità di giudizio può essere garantita a colpi di commi.

    Nella mia professione ho incontrato, come tutti, pessimi giudici e ottimi PM, e come non ho mai pensato che un pessimo PM potesse trasformarsi in futuro in ottimo giudice, altrettanto vale per quei pessimi giudici che non sarà certo un diverso concorso a trasformarl in bravi magistrati.

    So bene che mi si obietterà che la riforma di un sistema prescinde dalle singole individualità, e che in ogni caso “il meglio è nemico del bene”, ma proprio perché il tema della terzietà del giudice è fondamentale, temo le soluzioni foglia di fico un po’ ipocrita.

    “Avete voluto la separazione delle carriere ? Allora non lamentatevi più” e i pessimi giudici e le pessime sentenze avranno pure l’avallo di una imparzialità per…legge.

    avvocato Davide Steccanella

  • Per la prima volta un detenuto Isis reclama i suoi diritti a un processo

     

    “Non mi hanno nemmeno avvisato della videoconferenza. Giudice, secondo lei è possibile che ci tolgano anche il diritto di prepararci?“.  Non è una novità che i detenuti reclamino (giustamente) i propri diritti in aula. Ma è la prima volta che a farlo di fronte a una corte italiana è un presunto appartenente all’Isis, oggi condannato in appello a 6 anni perché avrebbe avuto in animo, tra le altre cose, di far saltare la base militare di Ghedi, nel bresciano.

    Muhammad Waqas, pakistano di 28 anni, è uno preparato.  Come ha ricordato il suo avvocato, “ha vissuto sin dalla sua fanciullezza a Brescia, si è diplomato in ragioneria con ottimi voti e poi si è dedicato a un lavoro onesto come contabile in una ditta di trasporti”. Uno che nelle dichiarazioni spontanee ha sfoggiato  un ottimo italiano con riferimenti precisi agli articoli del codice e consapevolezza dei suoi diritti.  “Avevo chiesto anche le motivazioni della sentenza di primo grado, ma non mi sono arrivate. Non so nemmeno perché mi hanno condannato.  Estradatemi in Pakistan – ha poi concluso il suo intervento in cui si è dichiarato estraneo all’Isis – e quando la sentenza diventera’ definitiva semmai chiedete l’estradizione al mio Paese”. Più volte Waqas e il suo legale, Luca Crotti, si sono sentiti al telefono per concordare la strategia difensiva. Tra i punti più contestati dagli avvocati della riforma Orlando, c’è quello che prevede l’ampliamento della discrezionalità dei giudici nel disporre la videoconferenza. Che anche in casi come quelli di presunti terroristi appare una severa violazione dei diritti della difesa.

    (manuela d’alessandro)

  • Falcone e Borsellino accendono i monitor di Expo per un giorno

    Finalmente è successo! I monitor pagati coi soldi di Expo, non funzionanti da 3 anni, hanno un sussulto di vita. Sui quasi 200 schermi sparpagliati per tutto il Tribunale e comprati nell’ambito di un appalto complessivo da circa 2 milioni di euro si alternano le immagini  di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e altri caduti per mano di Cosa Nostra, accompagnate da loro frasi celebri.

    Iniziativa lodevole promossa dal procuratore Francesco Greco  perché ricorda gli eroici magistrati nel giorno del 25esimo anniversario delle stragi di via Capaci e via D’Amelio anche se si poteva fare uno sforzo di creatività in più.

    Immagini e frasi sono firmate da Fanpage, seguitissima testata giornalistica online che fa dei social network la sua forza proponendo spesso gallery come quella che ora è visibile sugli schermi.

    I monitor, al centro da febbraio anche degli accertamenti dell’Anac, si erano animati solo nel gennaio 2015 per la propaganda di Anm contro la possibilità che il Governo introducesse per i magistrati la responsabilità civile. Per il resto diiffondono in modo ossessivo e beffardo la scritta ‘udienza facile’ dal momento che dovrebbero servire a orientare i cittadini nel dedalo giudiziario fornendo indicazioni utili su data, luogo e giudici delle udienze. E spenti da domani torneranno. Ma onore a Falcone, che dai suoi colleghi prese solo schiaffi, e a Borsellino, riusciti nella straordinaria impresa di restiturgli un senso.  (manuela d’alessandro)

     

     

     

     

     

     

  • Quei crediti formativi agli avvocati romani per la manifestazione di piazza

    Tutto o quasi pare essere lecito al gran mercato dei crediti formativi, anche  sontuose dormite cullate da relatori che parlano a loro stessi. Ma qui si è andati un poco oltre. Gli avvocati romani che hanno partecipato al corteo di sabato scorso da piazza della repubblica a piazza San Giovanni per invocare l’equo compenso sono stati premiati con 3 crediti formativi deontologici. Una decisione sconcertante  per alcune toghe capitoline che hanno espresso vivo disappunto anche sui social.

    A deliberare il valore formativo dell’evento è stato il consiglio dell’Ordine romano motivandolo così in una lettera ai propri iscritti: “Dal palco si susseguiranno le relazioni di autorevoli esponenti del mondo delle professioni e dell’avvocatura, ben potendosi inquadrare in quest’ottica la partecipazione  e l’ascolto delle relazioni quale attività di aggiornamento professionale in materia di deontologia e di ordinamento forense rispetto ai temi che saranno trattati su compenso professionali, dignità e decoro dlela professione”. Ora, proprio il “decoro” della professione avrebbe forse dovuto suggerire agli elargitori di crediti che una manifestazione con un taglio così spiccatamente politico non dovrebbe essere inquadrata in un ambito formativo. Un orientamento seguito per esempio dalla Camera Penale di Milano che per domani ha organizzato un incontro coi parlamentari sulle ragioni dell’astensione contro il Ddl Orlando seza concedere crediti formativi per scelta. (manuela d’alessandro)

  • Chi spia sul tavolo di Ilda Boccassini?

     

    Qualcuno che, per il momento, non ha ancora un volto, spia sul tavolo di Ilda Boccassini e riferisce agli indagati. Qualcuno che parrebbe essere in confidenza col magistrato per avere avuto accesso alla sua stanza e al fascicolo. E’ quanto emerge dagli atti dell’inchiesta che ha portato al commissariamento di 4 direzioni generali della Lidl Italia e all’amministrazione giudiziaria della società che gestisce la sicurezza del Tribunale di Milano per infiltrazioni mafiose.

    L’indagine, spiega il gip Giulio Fanales, è stata caratterizzata da una sequela di fughe di notizie perché i componenti della presunta associazione a delinquere legata al clan dei Laudani “vantano un rilevante ‘capitale’ di relazioni personali, idonee a procurare informazioni sensibili circa le indagini penali pendenti. Si tratta di una rete di rapporti, intrattenuti dagli associati, con soggetti esterni all’ organizzazione e vicini agli organi di polizia, in grado di rivelare notizie coperte dal segreto d’ufficio, in merito alle indagini in corso”. 

    E tra gli episodi citati spunta quello che vede protagonista una persona”che ha modo di rivelare, ad uno degli indagati, quanto appreso visionando direttamente il fascicolo dell’ indagine sul tavolo di lavoro del Procuratore Aggiunto della Repubblica, responsabile della Direzione Distrettuale Antimafia di Milano, llda Boccassini”. Tra i “non identificati” oltre all’ignoto voyeur nell’ufficio di Ilda, figurano anche “il capitano della Guardia di Finanza precedentemente impegnato nel compimento di atti relativi alla verifica fiscale nei confronti del Ferraro (uno degli indagati, ndr)  e il maresciallo della Guardia di Finanza di Lissone, confidente della moglie del Ferraro”. E’ stato invece dato un nome a un altro ‘informatore’, un tenente colonnello in servizio presso il Nucleo di Polizia Tributaria di Como della Guardia di Finanza”. Proprio le Fiamme Gialle di Varese hanno condotte le indagini assieme alla Squadra Mobile della Questura di Milano. (manuela d’alessandro)

  • Strage in Tribunale, assolto il vigilante accusato di aver fatto entrare l’arma

     

    Roberto Piazza, il vigilante che stava davanti al monitor all’ingresso del Tribunale di Milano quando Claudio Giardiello entrò per compiere la strage, è stato assolto dai giudici di Brescia. Cadono le accuse di omicidio e lesioni colpose in un processo che il suo avvocato, Giacomo Modesti, definisce “basato solo sulle dichiarazioni inattendibili di Giardiello mentre non c’era nessun indizio che l’arma fosse stata visibile dal macchinario a cui era addetto Piazza”.

    Un’assoluzione che viene salutata con gioia non solo da tutti gli ex colleghi della guardia giurata (che ora si è trasferito in Veneto) di cui è stata sempre sottolineata la precisione e l’abnegazione  sul lavoro, ma anche da Alberta Brambilla Pisoni, la mamma del giovane avvocato Lorenzo Claris Appiani, freddato mentre leggeva il giuramento del testimone.

    Spiega il legale della famiglia, l’avvocato Vinicio Nardo: “La Procura ha deciso di procedere solo con l’ultima ruota del carro. La mamma di Lorenzo è contenta per la sentenza di oggi”.  Altre due guardie erano state archiviate dalla Procura bresciana al termine delle indagini preliminari.

    Fin qui, tutto bene. Ma allora cosa successe quel giorno?

    Giardiello entrò poco prima delle 9 del 9 aprile 2015 dall’ingresso posteriore di via San Barnaba, uno dei quattro accessi. Passò attraverso il metal detector e mise  la borsa sul nastro dei controlli. Due ore dopo sotto i colpi della pistola  caddero assieme a Claris Appiani anche il coimputato di Giardiello nel processo per bancarotta, l’imprenditore Giorgio Erba, e il giudice Fernado Ciampi, ucciso nel suo ufficio mentre si confrontava con la sua cancelliera sul perché non funzionasse la stampante.

    In un interrogatorio Giardiello, contraddicendo quanto da lui dichiarato in precedenti occasioni, rivelò di avere introdotto l’arma tre mesi prima dell’eccidio ma non è stata  trovata nessuna prova, né il killer ha fornito altre dettagli.

    L’avvocato Modesti critica l’inchiesta bresciana: “Toccava a uno dei colleghi di Piazza, la cui posizione è stata poi archiviata, svolgere ulteriori accertamenti su Giardiello perché, quando la borsa passò sul nastro, si accesero le luci che indicavano la presenza di un oggetto con grandi quantità di metallo”.

    In realtà, più che cercare altre responsabilità degli esecutori di un sistema di sicurezza che la stessa magistrarura bresciana ha definito “sottovalutato e definito solo per approsimazione”, sarebbe stato utile, come sottolinea Nardo, appurare eventuali “responsabilità apicali”.

    L’avvocato Giampiero Biancolella, per conto della famiglia Ciampi, aveva presentato un esposto assieme all’opposizione all’archiviazione delle 2 guardie giurate, in cui chiedeva di accertare le responsabilità della Commmisione Manutenzione del Palazzo, nella quale siedeva, tra gli altri, l’attuale Presidente della Cassazione Giovanni Canzio. Il giudice di Brescia chiamato a esprimersi si limitò a rigettare l’opposizione all’archiviazione senza entrare nel merito delle valutazioni su eventuali lacune dei vertici nella gestione del sistema sicurezza. E oggi più che mai ci chiediamo perché siano mancati la forza e il coraggio alla magistratura di provare a indagare anche sulle sue (eventuali) fragilità.

    (manuela d’alessandro)

  • Dj Fabo: per i pm esiste il “diritto al suicidio” per chi soffre come lui

     

    Per chi è nelle condizioni di Fabiano Antoniani, il giovane dj rimasto cieco e tetraplegico in seguito a un incidente stradale, esiste il“diritto al suicidio”. Dalle motivazioni integrali della richiesta di archiviazione per Marco Cappato, accusato di ‘aiuto’ al suicidio’ per averlo portato nella clinica svizzera ‘Dignitas’, emerge un principio che, se accolto, potrebbe incidere un punto di svolta nei ‘pellegrinaggi’ in Svizzera degli italiani che cercano una fine alle loro sofferenze.  Anche se i magistrati, ai quali è toccato in questo caso supplire alla mancanza di una legge, invocano “un urgente intervento del legislatore per disciplinare rigorosamente tale diritto in modo da prevenire il rischio di abuso, ad esempio sotto forma di pratiche di eutanasia, nei confronti di persone il cui consenso non sia sufficientemente certo”.

    “Nelle condizioni in cui si trovava – argomentano Tiziana Siciliano e Sara Arduini – e con l’esito che gli era stato prospettato in caso di rinuncia alle cure, bisogna riconoscere che il principio del rispetto della dignità umana impone l’attribuzione a Fabiano Antoniani, e in conseguenza a tutti gli individui che si trovano nelle medesime condizioni, di un vero e proprio ‘diritto al suicidio’ attuato in via indiretta mediante la ‘rinunzia alla terapia’, ma anche in via diretta, mediante l’assunzione di una terapia finalizzata allo scopo suicidario”. Nel provvedimento, i magistrati ricordano come Antoniani avesse ricevuto una “prognosi irreversibile” e sottolineano le “condizioni drammatiche” in cui versava. “Quasi per un assurdo scherzo del destino – scrivono – la patologia che l’aveva privato della vista e del movimento non l’aveva reso insensibile al dolore” e “il corpo, inerte, era era percorso da insostenibili spasmi di sofferenza più volte al giorno”.

    Il riconoscimento del “diritto al suicidio” per chi si trova nelle condizioni del dj rappresenta un ‘passo oltre’, spiegano i pm, rispetto a quello a “lasciarsi morire”, già sancito in altre vicende giudiziarie, come quella di Eluana Englaro. “In questo caso – scrivono i magistrati –  il riconoscimento di tale diritto a “lasciarsi morire” non soddisfa allo scopo: per Fabiano Antoniani, rinunciare alle cure avrebbe significato andare incontro a un percorso certamente destinato a concludersi con la morte, ma solo a seguito di un periodo di degradazione a una condizione ancora peggiore a quella in cui si trovava nel momento in cui ha preso la sua decisione. L’ordinamento italiano, che ha come fine ultimo proprio il perseguimento del ‘pieno sviluppo della persona umana’, non può consentire una così grave lesione della dignità di un individuo”. “Qualora si dovesse rigettare l’interpretazione proposta della norma – concludono i pm Siciliano e Arduini – riteniamo che dovrebbe essere necessariamente sollevata questione di legittimità costituzionale della stessa, al fine di verificarne la compatibilità con i principi fondamentali di dignità della persona umana e di libertà dell’individuo, garantiti tanto dalla Costituzione italiana quanto dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”. Nei prossimi giorni toccherà al gip Luigi Gargiulo decidere se accogliere o meno la richiesta dei pm.

    (Manuela D’Alessandro)

    testo integrale richiesta archiviazione pm su Cappato

  • I revisori del Sole 24 Ore: troppi dubbi, non possiamo giudicare il bilancio 2016

     

    A causa degli “elevati profili di incertezza che fanno sorgere dubbi significativi sulla capacità del Gruppo di continuare a operare sulla base del presupposto della continuità aziendale”, i revisori dei conti di Ernst & Young dichiarano di non essere “in grado di esprimere un giudizio sul bilancio consolidato del Gruppo Sole 24 Ore al 31 dicembre 2016″.

    E’ un non giudizio che ferisce come una sentenza di condanna e strozza le speranze del ‘Sole Nuovo’ quello espresso pochi giorni fa dai revisori nella Relazione Finanziaria annuale al 31 dicembre 2016 che Giustiziami ha potuto consultare.  Sono troppi i ‘se’ messi in fila dalla nuova gestione guidata dal presidente Giorgio Fossa per consentire ai professionisti chiamati a valutare il bilancio di spargere ottimismo: “l’ottenimento dalla banche finanziatrici di adeguate linee di credito in sostituzione delle linee in scadenza; la realizzazione dell’aumento di capitale che sarà sottoposto all’approvazione dell’assemblea degli azionisti; l’esecuzione delle azioni previste nel nuovo piano approvato il 20 febbraio 2017; la finalizzazione del processo dell’area di valorizzazione dell’area ‘Formazione ed Eventi’, tramite la cessione a un partner strategico di una interessenza di minoranza”.

    Tutte variabili che non rendono affatto certa la prognosi per un malato allo stremo e lasciano l’incertezza sulla capacità del Gruppo “di realizzare le attività  e onorare le passività nel normale corso della gestione”. Alla voce dubbi  figurano anche i “rischi connessi alle indagini in corso” che hanno portato all’uscita di scena del direttore del quotidiano Roberto Napoletano, indagato per false comunicazioni al mercato assieme all’ex presidente Benito Benedini e all’ex ad Donatella Treu per gli oltre 109mila presunti abbonamenti digitali ‘fantasma’ sottoscritti tramite la società anonima inglese Di Source Limited. Sempre dalla relazione di EY emerge che Confindustria è disponibile a investire sino a 30 milioni di euro massimi nell’aumento di capitale e che il Sole ha rivisto il piano presentato alle banche il 10 marzo per inserire i ricavi della cessione della quota di minoranza della divisione ‘Formazione ed Eventi’.

    Intanto, cda, revisori e collegio sindacale hanno ricevuto nuovi esposti dal consigliere Tommaso Marino che chiede di indagare sui compensi e i bonus tra cui “la casa a New York” di Napoletano, dopo gli articoli di Antonello Caporale su Tiscali, e sul suo contratto segreto di   buonuscita extra di 2,25 milioni, in seguito alle rivelazioni di Giuseppe Oddo sul sito Business Insider. Tutto ciò mentre si viene a sapere che il 13 aprile la società di revisione Kpmg  ha deliberato “per garantire una tempestiva informazione al mercato di aggiornare i dati 2015  della testata 24 Ore”. E questo racconta la cruda, definitiva verità: le copie totali diffuse in media al giorno due anni fa sono state 231mila, di cui 17mila quelle multiple digitali. Siamo ben lontani dai dati del bilancio 2015, peraltro certificato dalla stessa Kpmg (!), che parlava di “375mila copie complessive” di cui 109mila digitali.

    (manuela d’alessandro)

    Riceviamo e pubblichiamo questa nota dal ‘Sole 24 Ore’, dopo la pubblicazione dell’articolo: “Con riferimento ai contenuti riportati dal sito Giustiziami.it  ‘I revisori del Sole 24 Ore: troppi dubbi, non possiamo giudicare il bilancio 2016′, Il Sole 24 Ore S.p.A. rende noto che il rilascio di una dichiarazione di impossibilità di esprimere un giudizio da parte dei revisori sul bilancio consolidato e sul progetto di bilancio separato al 31 dicembre 2016 non è equiparabile al rilascio di un giudizio negativo, bensì rappresenta una sospensione del giudizio in attesa della finalizzazione del processo di ricapitalizzazione. Non si tratta quindi di ‘un non giudizio che ferisce come una sentenza di condanna’ ma di una soluzione prevista dalla normativa applicabile”.

  • Pm , archiviare Cappato. “Aiutò Dj Fabo a esercizio diritto alla dignità”

     

    Per i pm milanesi che hanno chiesto l’archiviazione di Marco Cappato in relazione alla morte di Dj Fabo nella clinica svizzera ‘Dignitas’ il diritto – dovere alla vita non è un monolite inscalfibile ma va bilanciato con altri diritti fondamentali, come quello alla dignità. In questa prospettiva, un atto in teoria antigiuridico, come aiutare una persona a suicidarsi , perde il suo carattere di anti giuridicità a determinate condizioni, se viene effettuato per agevolare l’esercizio del diritto alla dignità e quello di non subire trattamenti sanitari obbligatori (articolo 32 della Costituzione). Condizioni che sono costituite, nel ragionamento dei pm, dall’esistenza di una documentata malattia con una prognosi infausta e da gravi sofferenze che non si possono alleviare.

    Spiegano i pm: Fabiano Antoniani non poteva suicidarsi perché era cieco e paralizzato e se avesse deciso di togliere i supporti respiratori che lo mantenavano in vita sarebbe morto dopo giorni di agonia e sofferenza contrari all’umana dignità.

    “Pratiche di suicidio assistito – scrivono i pm Tiziana Siciliano e Sara Arduini –  non costituiscono una violazione del diritto alla vita quando siano connesse a situazioni oggettivamente valutabili di malattia terminale o gravida di sofferenze  o ritenuta intollerabile e/o indegna dal malato stesso. Non pare peregrino affermare che la giurisprudenza anche di rango costituzionale e sovranazionale ha inteso affiancare al principio del diritto alla vita tout court il diritto alla dignità della vita  inteso come sinonimo dell’umana dignità”.

    Nella richiesta di archiviazione, che verrà valutata da un gip nei prossimi giorni, si fa osservare che Cappato ha svolto ‘solo’ una “condotta di trasporto” aiutando Dj Fabo a raggiungere la Svizzera. Una condotta che comunque potrebbe rientrare nell’ampia formulazione dell’agevolazione al suicidio richiesta dall’articolo 580 del codice penale, ma per i pm non c’è reato perché il tesoriere dell’associazione ‘Coscioni’ ha agito per aiutare Dj Fabo nell’esercizio di un suo diritto.
    Nel complesso ragionamento lungo una quindicina di pagine, i magistrati evidenziano che il “diritto alla vita va esteso al diritto alla dignità della vita”. E per dare forza alle loro tesi ricostruiscono l’iter delle sentenze che, a loro dire, ha aperto dei ‘margini’ sulle pratiche del fine – vita. In particolare, viene dato spazio al caso di Eluana Englaro, la giovane a cui venne ‘staccata la spina’ dopo 17 anni di agonia, nell’ambito del quale è stato sancita dal Tribunale di Milano la possibilità di non accettare le cure anche se ti portano alla morte, qualora siano contrarie alla dignità. Centrale nella tesi dei pm è il concetto che dignità significa anche autodeterminarsi nelle scelte sulla propria salute. I magistrati citano poi una setenza del gup di Roma sulla vicenda di Piergiorgio Welby che definì un diritto soggettivo quello di rifiutare le terapie anche se questo può portare allla propria morte. Ampio risalto viene dato anche ad alcune pronunce  della Corte Costituzionale che pongono un limite alle cure nel rispetto “dell’insieme dei valori che si compendiano nel concetto di dignità umana”. Valorizzate  anche alcune sentenze della CEDU (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo) dalle quali emerge che il suicidio assistito non costituisce una violazione del diritto alla vita quando ci siano situazioni oggettive di malattia incurabile e di gravi sofferenze del malato. Dunque, per i pm, sempre con riferimento a questa giurisprudenza,  non esisterebbe un diritto al suicidio assistito che si declina una volta per tutte ma che va valutato solo in presenza di determinate condizioni che, suggeriscono i magistrati, il legislatore potrebbe indentificare. (manuela d’alessandro)

  • Ivrea, “il telefono come l’amianto: cancerogeno ma non si sa perché”

    Ancora non si sa perché ma l’amianto e il telefonino, se utilizzato in modo assiduo, possono provocare tumori. Questa analogia emerge dalla consulenza tecnica d’ufficio alla base della sentenza con cui il Tribunale di Ivrea ha condannato l’Inail  a versare una rendita vitalizia all’ex dipendente di Telecom Roberto Romeo, riconoscendogli un danno biologico del 23 per cento causato da un neurinoma. Nello studio disposto dal giudice del lavoro si sottolinea “la mancanza al momento attuale di conoscenze su meccanismi d’azione plausibili per un effetto cancerogeno delle radiofrequenze. D’altra parte anche per l’amianto ci troviamo nella stessa situazione: nessun meccanismo d’azione è stato stabilito con certezza per questa sostanza (...). Questo non deve ovviamente impedire che si consideri l’amianto come un cancerogeno per la specie umana”.

    Nella sua consulenza di parte, l’Inail evidenziava  invece che “nonostante le numerose ricerche compiute negli anni, non si è ancora stabilito nessun meccanismo di azione in base al quale l’esposizione alle radiofrequenze di basso livello prodotte dai cellulari possa contribuire all’insorgenza dei tumori”. Il consulente Paolo Crosignani conclude che “la causa della malattia” contratta da Romeo, che ha tenuto il telefonino appiccicato all’orecchio destro, ora sordo, per 15 anni 3 ore al giorno, “sia in misura ‘più probabile che non’ da attribuire alle esposizioni derivanti dal lavoro svolto”. E lo fa, in sostanza, solo sulla base dei convincimenti raggiunti dall’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro dell’Organizzazione mondiale della sanità (IARC) che nel 2011 “ha reso nota una valutazione dell’esposizione ai campi elettromagnetici ad altra frequenza come ‘cancerogeni possibili per l’uomo’”. “E’ su questa monografia di 480 pagine – precisa Crosignani – che si baseranno le mie valutazioni. Non sono stati reperiti lavori scientifici dirimenti per la valutazione delle radiofrequenze come cancerogeni per la specie umana comparsi in epoca successiva”.

    Il dispostivo della sentenza

    Consulenza tecnica disposta dal giudice su telefonini

    La risposta dell’INAIL

    le motivazioni della sentenza

  • Il ‘busto’ per il mal di schiena dell’avvocato blocca il processo a Maroni

     

    Al processo a Roberto Maroni hanno tutti mal di schiena. A cominciare dal suo avvocato, Domenico Aiello, che ha chiesto e ottenuto il rinvio dell’udienza di oggi per un dolore così tremendo da costringerlo a indossare un busto.

    Legittimo impedimento, nessuno ha fiatato sul punto: né i giudici i quali hanno preso atto del certificato del medico chirurgo “che attesta l’impossibilità assoluta” del legale a essere in aula, né il pm Eugenio Fusco, noto per il suo fair play. Eppure una lieve insofferenza sia da parte del  Tribunale che del pubblico ministero non è sfuggita visto che questo è l’ennesimo intoppo a un processo partito il primo dicembre 2015 il cui esito potrebbe essere fatale a Maroni. Se il Tribunale dovesse condannarlo per le presunte pressioni illecite per far ottenere un lavoro e un contratto a Tokyo a due sue ex collaboratrici, il Governatore verrebbe sospeso per effetto della legge Severino.

    Ma torniamo ai ‘coming out’ delle parti sul male che affligge chi sta chino sui codici.

    Ecco il pm Fusco: “Io di mal di schiena me ne intendo. Vado spesso in udienza col bustino e anche a questo processo ci sono sono venuto due volte”. E il presidente del collegio Maria Teresa Guadagnino: “Al di là della schiena, che abbiamo tutti mal di schiena, è un peccato annullare  l’udienza. Sono malattie che non si curano come l’influenza, quindi forse, dal punto di vista deontologico, bisognerebbe attrezzarsi per mandare un sostituto processuale”.

    Questo di oggi è il secondo impedimento chiesto e ottenuto da Aiello per malattia dopo quello della scorsa udienza del 16 marzo. La sensazione è che il Governatore non abbia nessuna fretta di arrivare al traguardo prima della fine naturale della legislatura nel 2018.  La condanna nel frattempo  inflitta in primo grado all’allora dg di Expo Christian Malangone nel processo col rito abbreviato per la stessa vicenda ha preoccupato Maroni, forse pentito di avere chiesto in precedenza il giudizio immediato. Anche perché nelle motivazioni si parlava di viaggio a Tokyo “per il piacere del Presidente” con riferimento alla sua presunta “relazione affettiva” con Maria Grazia Paturzo (non indagata).

    Dopo di allora sono arrivati rinvii per la partecipazione del Governatore a un convegno sulla ludopatia e alle elezioni  a Varese e per l’adesione all’astensione degli avvocati di Aiello. In mezzo, alte dosi di nervosismo ogni volta che in aula si è discusso sul calendario. (manuela d’alessandro)

  • Perché la riforma Orlando è “inaccettabile” per gli avvocati

    Circa 200 avvocati in toga stanno dando vita al flash mob per protestare contro il Ddl Orlando che prevede incisive modifiche al codice penale e a quello di procedura.

    L’iniziativa, organizzata dalla Camera Penale, è cominciata col concentramento dei partecipanti al primo piano del Palazzo e prosegue sugli scaloni dell’edificio che affacciano su corso di Porta Vittoria, l’ingresso principale alla ‘casa’ della giustizia milanese. Tra i cartelli esposti: “Processo senza fine? No!” e “Difesa telefonica? No grazie”. Chiaro il riferimento a quelli che i legali definiscono gli aspetti “inaccettabili” della riforma.

    PRESCRIZIONE LUNGA E PROCESSI ETERNI

    Si dice spesso che col loro cavillare gli avvocati allunghino i processi. “Ma non è così – spiega il presidente della Camera Penale, Monica Gambirasio – tant’è vero che  protestiamo contro l’allungamento della sospensione dei termini della prescrizione”. Il codice riscritto prevede processi più lunghi per 3 anni. “Il decorso del tempo si verifica oggi, nella maggior parte dei casi, per l’inerzia dei pm nelle indagini preliminari. L’esito di un giudizio dilatato accrescerà la sfiducia dei cittadini nel funzionamento della giustizia per cercare di andare incontro all’esigenza della certezza della pena. Noi chiediamo che il processo venga celebrato in tempi ragionevoli ma nel rispetto delle garanzie per gli imputati”.

    NO AI PROCESSI IN VIDEOCONFERENZA

    Ora i detenuti vengono trasportati dalle carceri nelle aule dei processi per assistere ai procedimenti che li riguardano, salvo casi estremi previsti dalla legge di terrorismo o criminalità organizzata in cui è prevista la video – conferenza. “Con la riforma invece – puntualizza Gambirasio – si lascerebbe ai giudici ampia discrezionalità sulla partecipazione a distanza dei detenuti, anche per reati meno gravi. Il tutto peraltro a ‘costo zero’ nel senso che la riforma non prevede una copertura finanziaria per installare gli apparati”. Ma perché allontanare i detenuti dalle aule è pericoloso? “Siamo di fronte a una mortificazione del diritto delle difesa:  un contro è avere il proprio assistito in aula, con la possibilità di parlare con lui e concordare stategie, un altro è difenderlo in video – collegamento”.

    UNA RIFORMA A COLPI DI FIDUCIA

    Per la Camera Penale è “criticabile” anche la scelta di proporre il voto di fiducia per l’approvazione del disegno di legge” perché la delicata riscrittura di pezzi del codice penale e di procedura penale non può avvenire attraverso “la soppressione del dibattito parlamentare”. “In ogni caso – conclude Gambirasio – questa non è una riforma organica, con un’idea complessiva della giustizia. Salvo poche eccezioni, il Ddl Orlando appare difficile da condividere”.

    (manuela d’alessandro)

    Il flash mob della Camera Penale

  • Per i giudici non è ‘colpevole’ la moglie che se ne va in preda a ossessioni spirituali

     

    Il Diavolo entra in una sentenza di separazione tra coniugi (potete leggerla qui) anche se i giudici, tra molti imbarazzi, non gli credono. Ha suscitato un certo turbamento la vicenda raccontata oggi dal Corriere della Sera col titolo: ‘La moglie è posseduta: per i giudici la colpa del divorzio è del Demonio’. In una causa di separazione, un marito chiede di addebitare la colpa della separazione alla moglie che ha lasciato il tetto coniugale perché, a suo dire, è posseduta dal Maligno.  Ai magistrati dice che la “signora avrebbe inscenato devastanti comportamenti compulsivi, frutto di ossessione religiosa caratterizzati da violenta convulsione motoria, ore e ore di preghiera, frequentazione sistematica di un frate cappuccino, uso di un saio per le occupazioni domestiche” e “avrebbe preso il triplice voto di castità, povertà e obbedienza”.

    Per diversi anni la donna viene seguita, senza grandi miglioramenti, da sacerdoti investiti della funzione di esorcista. Tutti i testimoni chiamati dal Tribunale confermano “i comportamenti parossistici da parte della signora che l’hanno indotta a orientare la propria vita quotidiana quasi esclusivamente attorno all’elemento catalizzatore della religione”. Il parroco riferisce addirittura di averla vista in preda a “fenomeni di irrigidimento e scuotimenti” tali da richiedere l’intervento di terze persone per placarla. Tutti comportamenti che, ammette il Tribunale, “hanno compromesso indubbiamente l’armonia spirituale” dell’unione.

    Eppure, la separazione non le può essere addebitata perché difetta il requisito chiesto dalla Cassazione dell’imputabilità del coniuge, cioé di un comportamento volontariamente e consapevolmente contrario ai doveri del matrimonio. Qui invece la donna “è agita, non agisce consapevolmente”. Il che non significa che sia il Demonio a guidarla, a questo i giudici non arrivano.  Perché allora non è in sé? I magistrati non sono in grado di spiegarlo. Si limitano a scrivere che “da una valutazione psichiatrica accurata non risulta affetta da alcuna conclamata patologia tale da poter spiegare i fenomeni da lei riferiti” e a condividere  la versione del marito secondo il quale “il malessere spirituale ha sicuramente provocato atroci sofferenze alla signora, tormenti da lei non direttamente voluti come conseguenza diretta delle proprie scelta di vita”.  (manuela d’alessandro)

    sentenza separazione coniugi

  • Cosa hanno fatto per un anno e mezzo in Comune i 2 funzionari indagati?

    Cosa facevano da un anno e mezzo Armando Lotumulo e Stanislao Innocenti, i due dirigenti del Comune di Milano, arrestati per corruzione negli appalti sulla sicurezza delle scuole? Per il sindaco Beppe Sala giacevano in una stanzetta isolati dal mondo, per i magistrati continuavano a ricoprire “importanti” incarichi “apicali” per la comunità.

    Il 29 settembre 2015 diverse testate giornalistiche riportano che i “funzionari del 13esimo e del 19esimo piano”, così vengono indicati nelle intercettazioni, sono indagati perché avrebbero preso dei tablet in cambio di favori ad amici imprenditori. Poco dopo, stando a quanto dichiarato oggi da Sala che ne ha annunciato la sospensione, vengono spostati in uffici “in cui non avevano più nessun contatto con l’esterno e non si occupavano di gare”.

    Le carte dell’inchiesta, che avrebbe poi appurato altri gravi casi di corruzione a carico dei due,  raccontano una storia diversa.  Dal sito del Comune il gip apprende di quelle che definisce “importanti competenze connesse al nuovo incarico” assegnato a Innocenti, piazzato alla “Direzione centrale Sviluppo del Terriorio – settore Sportello Unico per l’Edilizia” dove ci si occupa, tra le altre cose, di procedimenti di condono e controllo e vigilanza sull’attività edilizia, gestione delle procedure sanzionatorie e demolizioni di ufficio”. Altrettanto di rilievo, considera il magistrato, l’incarico attribuito a Lotumulo alla Direzione Centrale Mobilità, Trasporti, Ambiente ed Energia.  Tanto da poter parlare di due persone la cui “sfera di potere è molto ampia e solida sia per i ruoli apicali che per la stratificazione nel tempo del loro potere”.

    Lo stesso pm Luca Poniz, nel chiedere l’arresto, evidenziava il pericolo di “reiterazione di reati della stessa specie” dal momento che i due “continuano a ricoprire ruoli di vertice all’interno dell’amministrazione comunale in settori pertinenti ai lavori pubblici“.  (manuela d’alessandro)

     

  • L’ex consigliere del Sole ai pm: Abete, il principale difensore di Napoletano

     

    “Per quanto attiene alla figura del consigliere Luigi Abete, è stato lui, secondo quanto da me accertato, a sostenere sotto ogni punto di vista il direttore Napoletano (…) Lui è stato il principale difensore di Napoletano”.  Nicolò Dubini, consigliere indipendente del gruppo editoriale Sole 24 Ore dal luglio 2015 al novembre 2016, è una delle principali ‘bocche di fuoco’ della Procura di Milano nell’indagine che vede indagate 10 persone, tra cui l’ex direttore del quotidiano Roberto Napoletano, accusato di false comunicazioni sociali per le copie digitali ‘gonfiate’.

    E Dubini, sentito come teste il 27 febbraio, nelle dieci pagine messe a verbale  che Giustiziami ha potuto leggere ne ha per tutti, a cominciare dal presidente di Bnl cui attribuisce anche la sua uscita dal gruppo. “La mia mancata conferma come amministratore, di pari passo con la conferma del consigliere Abete, è profondamente significativa per tutta una serie di aspetti, in primis per la richiesta di revoca da me portata davanti al consiglio nei confronti del direttore Napoletano, sempre appoggiato in ogni occasione proprio dal consigliere di lunga data, nonché ex vice presidente pro tempore, Abete. Nel caso fossi stato confermato, infatti uno dei primi argomenti che avrei portato a l’attenzione del nuovo cda sarebbe stata la sua revoca”. Secondo Dubini, Abete sarebbe anche “protagonista di un conflitto di interesse in quanto, oltre a far parte del cda del Sole 24 Ore spa, siede anche in quello dell’agenzia di stampa Askanews, da lui posseduta. Detta agenzia è infatti in concorrenza con la ‘business unit’ del Gruppo denominata Radiocor”.

    LE CLAUSOLE CAPESTRO E I CATALOGHI PER IL MUDEC

    Nella sua testimonianza, Dubini spiega le ragioni del dissesto causato soprattutto dalla “gestione del quotidiano, aggravatasi nel tempo per tutta una serie di motivi e che non escludo potrebbe ancora aggravarsi dal punto di vista della pubblicità legata al tema delle copie digitali”. Ma non solo. “Un’altra causa alla base delle ingenti perdite è da ricercare – aggiunge – nella gestione di gran parte delle società del gruppo e, in particolare, ora mi sovviene la società Cultura 24”. “Innanzitutto – specifica – si tratta di una società che ha avuto l’appalto dal Comune di Milano per la gestione del Mudec (Museo delle Cultura) secondo vere e proprie clausole contrattuali capestro e ne è riprova il fatto, se non ricordo male, che Cultura 24 è stata l’unica a partecipare a tale appalto”.

    Sempre sul nuovo polo museale, Dubini svela un retroscena: “”La società era talmente gestita male che non riusciva nemmeno a contingentare la produzione dei cataloghi per il Mudec, dei quali erano pieni i magazzini”.

    La società che si occupa degli investimenti culturali del gruppo “ha sicuramente portato perdite profonde ed è stata mal gestita anche dal punto di vista delle competenze dalla responsabile Natalina Costa, poi esautorata da Del Torchio. Su questa società non si è mai potuta attuare una gestione corretta e anche di controllo. Peraltro, è sempre stata finanziata attraverso il cash pooling (la gestione accentrata delle risorse finanziarie di un gruppo) della capogruppo senza che venisse mai discusso e approvato un piano di finanziamento dove figurassero le modalità di rientro del prestito. In sostanza, il finanziamento si è convertito in capitale per riparare le continue perdite (…). Il cda si è trovato spesso a ratificare finanziamenti verso una controllata; denaro che usciva dalle casse della società capogruppo che non sarebbero più tornati indietro. Il cash pooling veniva usato come una sorta di rubinetto aperto, senza possibilità di controllo”. E ancora: “La società Cultura per quanto ricordo ha di fatto aumentato la propria esposizione verso la capogruppo fino a 15 milioni, partendo dai 5 iniziali. Non è mai stato fatto vedere un business per comprendere se tale denaro fosse capitale ovvero un finanziamento concesso senza le dovute garanzie”.

    LA SOCIETA’ CHE MANGIAVA LA CASSA

    “Quando sono entrato nel cda ho preso atto della situazione generalmente negativa del Gruppo e la mia prima riflessione riguardò subito lo squilibrio tra costi e ricavi; in particolare, mi accorsi immediatamente che la società non produceva la cassa bensì la mangiava”. Ma oltre ai numeri nefasti c’era qualcos’altro che balzò subito agli occhi di Dubini. “La seconda riflessione che feci concerneva il tema della governante all’interno del Gruppo. Proprio l’organizzazione di quest’ultima, a mio avviso, ha causati problemi che stanno attanagliando il Sole 24 Ore (…) Un problema riguardava la figura del direttore Roberto Napoletano”.

    UNA PERSONA ENERGICA

    Dubini racconta quello che hanno detto altri testi, che Napoletano “ha sempre partecipato ai vari cda e la sua presenza, richiesta sistematicamente dal Presidente e dall’ad, è stata, di fatto, solamente ratificata dal consiglio”. E si spinge a un ritratto più profondo dell’uomo: “E’ una persona energica nel porsi nella dialettica con gli altri e, di fatto, ha travalicato il perimetro delle proprie competenze in quanto nei consigli interveniva non solo sulle questioni strettamente editoriali, ma anche su quelle più propriamente gestionali e non veniva mai contenuto da Benedini e Treu. (…) Soffrivano quasi di una sudditanza nei confronti di Napoletano, causando seri problemi di governance.

    (manuela d’alessandro)