Categoria: Pubblica Amministrazione

  • Sette udienze e 5 giudici cambiati, l’odissea di un operaio paralizzato

    Sette udienze,  cinque giudici cambiati, un solo testimone sentito. Quello in corso davanti al Tribunale di Lodi dall’aprile del 2016 per un grave infortunio sul lavoro è un processo che racconta molto della lentezza della giustizia italiana.

    I fatti risalgono al 5 maggio del 2014 quando A.C, all’epoca 41enne, titolare di una società che aveva ricevuto in subappalto i lavori per la ristrutturazione di un’abitazione a Melzo (vicino a Milano), scivola da un parapetto e si procura una lesione vertebrale che lo fa finire su una sedia a rotelle, senza possibilità di recupero.
    La Procura di Lodi apre e chiude in soli sei mesi l’indagine a carico del rappresentante legale della ditta che ha dato i lavori in subappalto ad A.C., accusandolo di lesioni aggravate. E’ con l’inizio del processo che l’iter giudiziario si arena. Il pm emette una citazione diretta a giudizio (si salta, quindi, l’udienza preliminare) nel maggio del 2015, fissando la data d’inizio del processo nell’aprile del 2016, quasi un anno dopo.

    La prima udienza viene subito rinviata al novembre del 2016 per un errore di notifica commesso dagli uffici giudiziari. Si riparte nel febbraio del 2017 con  fulmineo aggiornamento  a maggio per il cambio del giudice, nel frattempo trasferito ad altra sede. Finalmente, nel dicembre del 2017 si arriva alla costituzione delle parti, atto che certifica di fatto l’inizio del processo, ma nulla più. Tutto rimandato quindi all‘ottobre del 2018 per l’esame dei testimoni che però non si riesce a svolgere perché muta ancora il giudice. Di nuovo in aula l‘8 marzo del 2019 quando dovrebbero essere sentiti tre testimoni, ma, dopo avere ascoltato uno di loro, i buoni propositi del giudice svaniscono perché incombono, stipati  in fondo all’aula, una trentina di testimoni che attendono di essere sentiti nel procedimento fissato subito dopo. Si decide di dare a loro  la priorità e tutti convocati di nuovo, compresi i due testi non sentiti, al 27 novembre del 2019.  A.C., il lavoratore di origine albanese, aveva scelto, stando a quanto riferito dal suo legale, di provare a farsi risarcire nell’ambito di un giudizio penale e non civile pensando  che fosse la maniera più  veloce per ottenere il denaro. Quasi tutti i rinvii sono stati determinati dal cambio di giudice. Nei tribunali ‘piccoli’ accade spesso che i magistrati siano di passaggio, circostanza che non aiuta alla “ragionevole durata” del processo, diritto sancito dalla costituzione. (manuela d’alessandro)

  • La crisi dell’avvocato gratis, sempre di più i ‘no’ dei giudici

    Se non muori di fame, pur dichiarando di essere nullatenente, non hai diritto all’avvocato gratis.  E’ questa la tendenza che si sta affermando in tribunale a Milano come ha denunciato per primo l’avvocato Corrado Limentani in un post su Facebook che ha raccolto tantissime adesioni da parte di altri rappresentanti del foro meneghino. Un tempo, racconta il legale, tra i massimi esperti sul tema a cui ha dedicato anche dei corsi di formazione, “il giudice chiedeva all’imputato che si dichiarava povero di portargli vicini di casa e amici che testimoniassero la sua effettiva indigenza per valutare se avesse diritto all’avvocato gratis”.

    Verrebbe da sorridere pensando all’apparente criterio granitico previsto dalla legge attuale in base alla quale può approfittare di questo istituto di grande civiltà, nato per garantire a tutti la possibilità di difendersi, chi dichiari un reddito inferiore a 11mila euro.  Invece le cose sono molto più complicate nella realtà. 

    Si moltiplicano le decisioni dei giudici che negano il beneficio anche per chi ha un reddito zero o inferiore alla soglia prevista dalla legge   con la motivazione che, vista l’oggettiva impossibilità di sopravvivenza da parte del richiedente e del proprio nucleo familiare alla luce di un reddito così esiguo come quello dichiarato, si presume che percepisca denaro non dichiarato a fini fiscali  in quanto provento di attività lavorativa in nero, o benefici di regalie o elargizioni di congiunti il cui ammontare consente il sostentamento. La dichiarazione  di nullatenenza, quindi, finisce con l’essere carta straccia e non consente di effettuare alcuna concreta valutazione sulla presenza dei requisiti per essere ammessi al gratuito patrocinio. Spesso, segnalano diversi avvocati, i giudici presuppongono, senza fare verifiche,  che gli imputati nascondano il loro reddito in quanto provento di reato prima ancora che ci sia una sentenza che li dichiari responsabili.

    La tendenza, stando a quanto riferito da diversi legali, è cambiata da un anno mezzo a questa parte quando i giudici hanno cominciato a concedere meno il patrocinio a spese dello Stato. E’ chiaro che dietro ad alcune dichiarazioni di indigenza possono esserci degli abusi ma il punto, chiarisce Limentani, “è che i giudici non dispongono accertamenti per verificarlo, come sarebbe in loro potere”. Decidono ‘a prescindere‘ che, se una persona non muore di fame, non può essere così povera. Il che contrasta con una sentenza con cui la Cassazione, nel 2017, stabiliva che “la semplice affermazione dell’assenza totale di reddito non è affatto di per sé un potenziale inganno (com’era stato ritenuto nel caso della donna che poi ha vinto il ricorso alla Suprema Corte, ndr)” e il giudice deve attivare i suoi “poteri di accertamento”, come per esempio sollecitare l’intervento della Guardia di Finanza, per valutare se l’imputato stia mentendo sulle sue condizioni economiche solo per non pagare la parcella.

    In un caso denunciato dall’avvocato Francesca Beretta, “a una donna imputata per maltrattamenti che non riceve nessun aiuto economico dai familiari è stato chiesto di dimostrare di non avere redditi da attività illecita. Nel caso li avessi – si chiede la legale – mi devo autodenunciare?”. “Siamo stanchi – afferma Beretta – viene negato un diritto a chi lo avrebbe e noi dobbiamo scegliere tra un processo gratis e rinunciare al cliente per non lavorare gratis”. Inoltre, “quando gli imputati sono irreperibili, i giudici ti costringono a produrre la dichiarazione consolare relativa ai redditi prodotti all’estero ma i consolati non rispondono mai. Sto attendendo una risposta dal 18 settembre del 2018 dal consolato del Marocco. C’è di più: molti giudici vogliono che contattiamo l’Ufficio immigrazione della Questura che, come il consolato, non risponde mai, nemmeno su sollecito”.

    Interessante anche l’analisi statistica dei dati raccolti dall’Ordine degli Avvocati. In ambito civile, nel 2018 sono state 4618 le istanze di patrocinio dello Stato valutate in via preliminare dal consiglio dell’organo di rappresentanza dei legali presentate da persone richiedenti la protezione internazionale, sulla cui ammissione poi il giudice ha la parola definitiva. Circa il 50% delle richieste totali nel civile con una liquidazione media per ciascun legale  di 800 – 900 euro a procedimento (il dato non è ufficiale ma riferito da fonti qualificate). Un numero che cresce sempre di più. Ogni anno, lo Stato mette a disposizione un budget per ciascun Tribunale (a Milano 15 milioni di euro) per varie spese di giustizia, tra cui anche una somma da destinare all’istituto dell ‘avvocato gratis’. Quando il capitolato di spesa si esaurisce, le note vengono comunque liquidate dai giudici agli avvocati che però non vengono pagati perché mancano le risorse. “Come Ordine – spiega l’avvocato e consigliere Andrea Del Corno – il problema è quello delle disponibilità finanziarie per liquidare le note”. Appare evidente che le somme stanziate dallo Stato non sono sufficienti, anche alla luce dell’incremento delle domande dei migranti, il cui diritto all’avvocato è indiscutibile quanto quello per gli indigenti italiani. (manuela d’alessandro)

  • Giambellino, la fretta dell’immediato tradisce il pm che chiede tempo

    E’ stata la fretta di celebrare il processo con rito immediato a tradire la procura nella vicenda del processo a 9 militanti del ‘comitato per la casa del Giambellino’ accusati di associazione per delinquere finalizzata alle occupazioni abusive, resistenza a pubblico ufficiale durante gli sgomberi e danneggiamenti. Dopo aver ascoltato le eccezioni delle difese che chiedevano la nullità del rinvio a giudizio immediato e quella del decreto autorizzativo delle intercettazioni il pm Piero Basilone ha chiesto tempo per replicare e i giudici della quarta sezione penale del Tribunale hanno rinviato tutto al 7 maggio.

    Il rischio forte è che gli atti tornino in procura per la chiusura delle indagini la richiesta di rinvio a giudizio con rito ordinario e l’approdo all’udienza preliminare. Per non perdere un mese di tempo la procura, al cui interno qualcuno aveva espresso perplessità sulla scelta del rito immediato, ora rischia di perdere un anno.

    Il giudizio immediato era stato disposto anche per le accuse non contestate a livello di misura cautelare (arresti domiciliari poi revocati) come l’occupazione abusiva di immobili e a questo punto, secondo la difesa, o si separano i procedimenti a seconda delle imputazioni oppure al fine di tenere tutto insieme “come sarebbe molto più giustificato” si ritorna indietro.

    Gli avvocati, a proposito del decreto autorizzativo delle intercettazioni,  inoltre chiedono che gli atti vengano mandati alla corte europea per stabilire se un’associazione per delinquere del tipo di quella ipotizzata possa essere equiparata alla criminalità organizzata. I legali hanno ricordato come la stessa procura abbia ammesso che gli imputati non agirono per ragioni di speculazione economica ma solo al fine di avere consenso nel quartiere. L’avvocato Giuseppe Pelazza ha parlato di “un’associazione per delinquere finalizzata a occupare case che l’Aler non assegna e lascia decadere”. In una metropoli si può ricordare dove ci sono migliaia di appartamenti privati sfitti e dove cresce la fame di abitazioni. Con la magistratura che ritiene di intervenire su chi cerca di risolvere un grave problema sociale aiutando chi la casa non ce l’ha. La magistratura il giorno degli arresti si era presa gli applausi di quasi tutta la politica. Una politica che sulla mancanza di case fa nulla. A cominciare dal Comune che però ha avuto il buon gusto di non chiedere di costituirsi parte civile contro i 9 imputati. Si è costituita invece l’Aler che la faccia tosta ce l’ha. (frank cimini)

  • Il legittimo Far West

    Evidentemente per il nostro legislatore non solo il vituperato regime fascista, che ai tempi fece scrivere al giurista Alfredo Rocco gli articoli 52 e 55 del Codice penale, ma anche il successivo governo Berlusconi, che già intervenne nel 2005, sono stati troppo ‘tolleranti’ con i malviventi che attentano alla proprietà privata.

    E’ in corso di approvazione infatti un aggiornamento delle legge sulla legittima difesa che presenta alcune innovazioni che lasciano a dir poco perplessi. L’articolo 1 della nuova legge prevede che la proporzionalità tra offesa e difesa, richiesta dall’articolo 52 del codice penale, debba essere ritenuta sempre sussistente nel caso di uso di arma legittimamente detenuta per difendere i beni propri o altrui dal, si legge, ‘pericolo di un’aggressione’, il che significa che per proteggere una ‘cosa’ si potrà legittimamente uccidere anche in assenza di aggressione alcuna. Non bastasse, il successivo articolo 2 stabilisce che anche qualora difettasse detta proporzione, chi eccede colposamente non verrà comunque più punito secondo quanto oggi previsto dall’articolo 55 del codice penale se ha agito, si legge, in un momento di ‘particolare turbamento’. Infine, dopo avere ulteriormente inasprito le pene per i delitti di violazione di domicilio, furto, rapina, la riforma si spinge anche a stabilire che in caso di assoluzione in sede penale, sarà inibito alla vittima della eccessiva reazione, anche qualsivoglia risarcimento in sede civile.

    Come sempre toccherà alla sensibilità dei singoli magistrati interpretare in modo corretto concetti di rara evanescenza giuridica quali ‘pericolo’ e ‘turbamento’ per evitare che il diritto di proprietà, certamente tutelato dalla nostra Costituzione, possa prevalere su quello della vita e all’incolumità delle persone, tra le quali, con buona pace di quanto oggi pare vada di moda affermare, rientrano pur sempre anche i ‘delinquenti’, pena altrimenti la sostituzione della legge degli uomini moderni con quella della giungla o del taglione che dir si voglia.

    Non troppi anni fa, qualcuno forse lo ricorderà, un gioielliere romano, tale Bruno Tabocchini, uccise il centrocampista della Lazio Luciano Re Cecconi appena costui aveva messo piede nel suo negozio fingendosi un rapinatore. Una volta appurato che il morto era disarmato, il gioielliere fu arrestato e rapidamente portato a processo con l’accusa di eccesso colposo di legittima difesa perché non era lecito sparare per salvare il borsellino, ma occorreva dimostrare il rischio percepito all’incolumità personale. Il gioielliere venne assolto ma quel che è certo è che oggi quel processo non si potrebbe neppure iniziare. Quello che stupisce è come l’attuale governo si sia distinto in questi pochi mesi in una serie di interventi legislativi sulla giustizia che paiono creare un finale paradosso che ovviamente in quanto tale non deve essere preso alla lettera ma che si ritiene non discorsasi troppo dalla realtà. Con il nuovo sistema potrebbe anche accadere che: 1) Tizio travestito sia pagato dallo Stato per fare la spia contro Caio che lavora nell’amministrazione pubblica 2) Caio venga condannato a parecchi anni di reclusione per avere accettato un biglietto del bus gratis da quel Tizio 3) dopo 25 anni di interminabili processi, Caio venga sbattuto in galera senza passare dal via anche se ormai è decrepito ma 4) se sempre Caio, mentre lo portano dentro, spara alla schiena di Sempronio che cercava di rubargli quel biglietto del bus e lo uccide come un cane, lo Stato non solo lo punisce ma gli paga anche l’avvocato.

    Il mio, lo ripeto, è un paradosso ma non vorrei che alcune leggi dello Stato siano la conseguenza del fatto che nonostante in Italia ci siano più di 1800 detenuti all’ergastolo ostativo, si continui ancora da più parti a sostenere che nel nostro Paese ‘i delinquenti la fanno franca’ perché non ci sarebbe la certezza della pena. Me lo chiedo perché non credo, e i numeri non paiono smentirmi, che oggi in Italia si commettano molti più delitti di 10 anni fa, E allora, perché?

    avvocato Davide Steccanella

  • Milano è il primo comune parte civile contro il cybercrime

    Per la prima volta un Comune, quello di Milano, entra come parte civile in un processo per chiedere che vengano risarciti i cittadini vittime di frode informatiche. Succede nel giudizio col rito abbreviato a carico di 13 imputati che avrebbero costituito un’ associazione a delinquere tra l’Italia e la Romania finalizzata, tra le altre cose, alla clonazione delle carte di credito e alla falsificazione di documenti d’identità.

    Il giudice Lorenza Pasquinelli ha accolto l’istanza in cui il legale dell’amministrazione comunale, l’avvocato Federico Bier, evidenzia che le tecniche utilizzate dal presunto gruppo criminale, tra cui e – mail ‘trappola’, “si caratterizzano per essere particolarmente subdole, tese a colpire in particolar modo vittime vulnerabili che per diverse ragioni si dimostrano inesperte nel fronteggiare tentativi di frode informatica e spesso, per debolezza e timore, rinunciano a sporgere denuncia”. Persone che “ingannate dalle richieste provenienti dai falsi istituti di credito presso i quali erano correntisti, hanno fornito in buona fede le credenziali di accesso ai loro conti, dai quali sono state sottratte somme di denaro”. Attraverso il suo legale, il Comune fa presente di avere da anni attivato una serie di iniziative, anche in collaborazione con la Procura,  per prevenire i reati informatici e ha costituito nel 2014 un ‘Fondo per le vittime vulnerabili’.  Ad alimentarlo sono i risarcimenti degli indagati, come i 9mila euro versati da Salvatore Aragona, uno dei presunti capi dell’associazione a delinquere, che ha ottenuto l’ok del pm Francesco Cajani a patteggiare una pena a 3 anni e sei mesi di carcere. Scopo della costituzionale di parte civile è quello di chiedere i danni non patrimoniali “sotto il profilo del turbamento provocato ai cittadini” e patrimoniali “con riferimento alle spese sostenute dal Comune, anche sotto il profilo organizzativo, per la realizzazione di tutte le attività di prevenzione, formazione e contrasto ai reati informatici”. (manuela d’alessandro)

  • La visita del Ministro Bonafede dove è caduto il giovane avvocato

    Dice il procuratore Francesco Greco guardando le balaustre alte pochi centimetri al terzo piano del Palazzo di Giustizia: “Ma vi rendete conto quante sentenze abbiamo ascoltato appoggiati qua?”.  E’ appena finito un incontro durato circa un paio d’ore nell’ufficio del Presidente della Corte d’Appello Marina Tavassi tra i vertici della giustizia milanese e il Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Antonio Montinaro, l’avvocato di 31 anni precipitato da un parapetto al quarto piano, è a pochi metri da qua, in un letto del Policlinico. “Abbiamo ascoltato e preso in carico le istanze della giustizia milanese che merita la nostra particolare attenzione – promette il Guardasigilli – Non può accadere che in un tribunale e in uno Stato come il nostro una persona si faccia male perché si appoggia a un parapetto”.

    Stavolta non si puo’ dire che non fosse stato annunciato: “Abbiamo presentato 5 – 6 segnalazioni negli ultimi due anni, l’ultima un paio di mesi fa, sia sulla sicurezza in generale che sulle balaustre in particolare – spiega Greco – dossier mandati alla Commissione Manutenzione (di cui fanno parte Tavassi, il Presidente del Tribunale Roberto Bichi e il Procuratore Generale Roberto Alfonso) che li ha girati a sua volta al Ministero”. Risposte zero. Il  lungo torpedone di magistrati, ministro, giornalisti, avvocati, sovrintendenti si sofferma prima dove Antonio è cascato sei metri più sotto, poi in altri  punti critici, con una particolare attenzione per le acciaccate vetrate. Ha un senso di solenne e ridicolo vedere il corteo snodarsi nel vecchio Palazzo mentre Antonio rischia di non camminare mai più. (manuela d’alessandro)

  • Praticante caduto, quel parapetto fu segnalato alla Commissione manutenzione

    Stamattina un ragazzo che sogna di fare l’avvocato si è appoggiato al parapetto del quarto piano del palazzo di giustizia di Milano ed è precipitato al piano di sotto.  Rischia di rimanere paralizzato a causa di gravi lesioni spinali, ora è in terapia intensiva al Policlinico. Stava telefonando quando ha perso l’equilibrio ed è caduto. Il pm Maura Ripamonti, esclusa l’ipotesi del gesto volontario anche sulla base delle dichiarazioni del giovane, ha aperto un’inchiesta per lesioni colpose gravisisme a carico di ignoti. Difficile pensare che quei parapetti siano a norma. Nel 2016, la Procura aveva fatto una segnalazione alla Commissione manutenzione proprio su quei parapetti, sottolineandone la pericolosità. In questi anni, si sono spesi milioni di euro ’dote’ di Expo, compresi i soldi per gli inutili monitor, ormai diventati scheletri digitali.

  • Soldi per il banchetto della figlia, la strana spiegazione del leghsita condannato

    Stefano Galli, ex capogruppo della Lega in Regione Lombardia, è stato l’ex consigliere a cui è toccata la condanna più alta, 4 anni e otto mesi di carcere, nel processo sulla presunte ‘spese pazze’ coi fondi destinati ai gruppi consiliari.  Era accusato di peculato per una serie di spese ‘extra mandato istituzionale’ e truffa aggravata per erogazione indebita di fondi pubblici in relazione a una consulenza affidata al genero. I giudici non hanno  creduto alla curiosa spiegazione, mai riportata dai media prima d’ora , che aveva dato in udienza per giustificare i 6180 euro di soldi pubblici spesi per organizzare un banchetto di 103 persone in occasione del matrimonio della figlia.  “Qui è stato un pasticcio – aveva detto Galli – un errore da parte mia perché non ho verificato, non ho controllato…le cose le ho sapute poi dopo. Quando avvenne il patatrac delle indagini, io continuavo a rispondere ai giornalisti che mi telefonavano, mi dicevano: ‘Guardi che c’è il matrimonio, un rimborso del matrimonio di sua figlia’ e io continuavo a dire: ‘Ma voi siete matti, di cosa parlate?. Poi una sera a casa non riuscivo a capacitarmi , mia moglie mi dice: ‘Guarda, c’è stato un pasticcio’. In pratica, mia figlia, quando è partita per il viaggio di nozze, ha portato a casa dia mia moglie il vestito da sposa suo e di suo marito con la richiesta di portarli in lavanderia perché erano sporchi. Mia moglie, nel pulire i vestiti, ha trovato la ricevuta del matrimonio di mia figlia e inavvertitamente l’ha messo sulla credenza dove mettevo le mie ricevute quando andavo a pranzo, a cena, a livello istituzionale. Io non ho controllato, quando è stato il momento ho messo le ricevute nelle solite buste e non mi sono accorto che ho consegnato anche la ricevuta  e nemmeno che poi mi è stata rimborsata, perché di banche non me ne sono mai occupato, lo faceva mia moglie”. (manuela d’alessandro)

     

  • Quattro sindacalisti condannati per un ‘picchetto’ a Milano

    Una condanna inflitta a dei sindacalisti per il reato di violenza privata durante una manifestazione di lavoratori fa notizia: in questo caso ancor di più perché l’accusa aveva chiesto l’assoluzione e nessuno, come sottolinea il loro avvocato Mirko Mazzali, si è fatto male.

    E’ successo a Milano dove il giudice Alberto Carboni ha condannato quattro rappresentanti del Si Cobas a un anno e otto mesi di carcere nel processo con al centro una manifestazione di protesta di decine di lavoratori davanti ai cancelli della Dhl Supply Chain di Settala (Milano), parte del gruppo leader mondiale nella logistica. I fatti risalgono al 19 marzo 2015 e gli operai, impiegati in cooperative per lavori di facchinaggio, chiedevano il riconoscimento di diritti previsti dal contratto nazionale. Assieme a loro sono stati condannati a pene comprese tra un anno e otto mesi e due anni e sei mesi 3 manifestanti frequentatori di un centro sociale. Assolti altri 18 imputati, tra cui diversi operai e altri rappresentanti dei centri sociali. “I sindacalisti sono stati condannati per la loro sola presenza. Nessuno si è fatto male, tutto si è svolto tutto in un clima pacifico”, afferma uno dei loro legali, l’avvocato Mirko Mazzali. Nell’originario capo d’imputazione, poi ‘smentito’ alla luce del dibattimento dallo stesso vpo (viceprocuratore onorario) che ha chiesto l’assoluzione, veniva contestato agli imputati il reato di violenza privata perché attraverso un picchettaggio all’ingresso dello stabile della DHL Supply Chain “impedivano l’accesso di altri lavoratori non aderenti alla manifestazione e l’ingresso e l’uscita degli automezzi con a bordo prodotti farmaceutici con comportamento violento e minaccioso”. A nessuno dei condannati sono state riconosciute le attenuanti generiche. Durante il processo, un poliziotto della Digos, sentito come testimone, aveva spiegato che “c’era una situazione abbastanza calma“. Lo stesso giudice che ha gestito il dibattimento, Emanuela Rossi, che poi ha passato la mano a Carboni perché è stata trasferita al Tribunale dei Minorenni, sembrava propendere verso un altro epilogo del processo. “Da quello che ci ha detto – aveva affermato rivolgendosi al teste della Digos – tutto si è svolto in modo pacifico”. (manuela d’alessandro)

     

  • Casalino ‘assolto’, in confidenza poteva ‘sbracare’ coi giornalisti

    L’audio in cui Rocco Casalino esprimeva, tra le altre cose, l’intenzione di “far fuori tutti questi pezzi di merda del Mef se non dovessero uscire i soldi per il reddito di cittadinanza” appartiene  a “quel tipo di comunicazione che rientra in un rapporto di confidenzialità che connota la vita dei Palazzi e dei rapporti tra portavoce e giornalisti”. Così il Consiglio di disciplina dell’Ordine dei Giornalisti lombardo argomenta l’archiviazione dell’istruttoria avviata sul portavoce dei 5 Stelle  in relazione al messaggio vocale mandato via whattsapp a  diversi cronisti che poi l’hanno diffuso sulle loro testate nel settembre scorso. L’accusa per Casalino era quella di avere violato le regole deontologiche, in particolare le sue dichiarazioni venivano giudicate dall’Ordine “non pertinenti e non continenti”, come impone la legge professionale.

    “Si tratta di un dialogo privato – obbiettano gli autori della decisione (il  presidente il giornalista della ‘Stampa’ Paolo Colonnello affiancato dal collega del ‘Corriere della Sera’ Giuseppe Guastella e dall’avvocato Claudia Balzarini) – dove certe circostanze, le ventilate minacce a non meglio identificati funzionari del Mef, la caccia ai burocrati che non garantirebbero le coperture finanziarie richieste, rappresentano un modo colorito per significare una situazione politica in essere”. “Nessuna minaccia” nelle parole di  Casalino quando dice al collega: “Se domani vuoi uscire con una cosa che può essere simpatica, la metti come che nel Movimento 5 Stelle è pronta una mega vendetta, cioé c’è chi giura che se  poi non dovessero uscire fuori i soldi, tutto il 2019 sarà dedicato a far fuori una marea di gente nel Mef”.  “E’ noto a chi si occupa di politica ma anche di cronaca, e intende riportare dei retroscena in determinate vicende, come il rapporto con le fonti sia di vitale importanza – si legge ancora nel provvedimento – ed é in questa confidenzialità, al di fuori dunque di un ambito pubblico, che si crea un perimetro di garanzia all’interno del quale si può esplicare quel rapporto fiduciario necessario al giornalista per comprendere e poi riportare nei toni e nei modi dovuti alcuni aspetti non ufficiali della notizia”. (manuela d’alessandro)

    archiviazione istruttoria Casalino

     

     

     

  • Due anni senza motivazioni, le vittime dell’amianto si ribellano

    E’ vero che era una sentenza di assoluzione e non c’è nessuno in carcere, ma due anni per il deposito delle motivazioni sono un’enormità e giustamente chi si ritiene danneggiato ora si fa sentire. Anche perché il tema – quello dell’amianto – meriterebbe massimo rispetto per chi ha visto morire i propri cari, a prescindere dalle responsabilità penali finora negate dal Tribunali in quasi tutti i processi.
    In questo caso, si parla dei 28 morti o ammalati per amianto che avevano lavorato negli stabilimenti milanesi della Pirelli tra gli anni ’70 e ’80. Il 19 dicembre 2016, il Tribunale di Milano aveva assolto 9 ex manager Pirelli accusati di omicidio colposo e lesioni gravissime, e ancora non sono state depositate le motivazioni dal giudice  Anna Maria Gatto, magistrato peraltro stimato, che aveva condotto in modo brillante anche il dibattimento Ruby bis.  Allo scoccare dei due anni di attesa, il Comitato per la difesa della salute nei luoghi di lavoro, Medicina Democratica e l’Associazione italiana esposti Amianto, parti civili nel processo,  hanno inviato una segnalazione ai vertici del Tribunale, spiegando che la prescrizione incede e che non possono impugnare il verdetto. “Con il tempo, la prescrizione corre con grave danno per le parti civili costituite nel processo – spiegano – Chiediamo all’autorità giudiziaria di assumere i provvedimenti riguardo al caso in esame, riservandoci di intraprendere iniziative di lotta contro il persistere di questa malagiustizia che rappresenta un affronto a chi aspetta giustizia”. In attesa della motivazioni, “le vittime e le loro associazioni non possono neanche presentare appello. Non si ferma invece la conta dei morti fra chi ha lavorato alla Pirelli, in attesa di una giustizia che non arriva mai altri ex lavoratori continuano ad ammalarsi e a morire. Anni di lotte in fabbrica e sul territorio, anni di ricerche sul cancerogeno amianto hanno contribuito a sensibilizzare l’opinione pubblica e la magistratura sui rischi concreti del killer amianto, ma tutto questo a una parte del Tribunale di Milano sembra non interessare”. Le motivazioni avrebbero dovuto essere depositate entro 90 giorni ma i termini sono stati prorogati più volte dal giudice Gatto che attualmente presiede il Tribunale di Pavia. Finora, nonostante gli appassionati sforzi del pm Maurizio Ascione, che si è occupato di molte indagini sulle morti per amianto nelle fabbriche milanesi, oltre che in metropolitana e alla Scala, tutti i processi si sono chiusi con delle assoluzioni per la difficoltà a trovare un nesso causale tra le presunte responsabilità dei manager e i danni provocati dalla sostanza ai lavoratori. (manuela d’alessandro)

  • Il super poliziotto Gallo va in pensione, ignorato dai magistrati

    “Avevo invitato anche i magistrati con cui ho lavorato in questi anni: Spataro, Romanelli, Nobili…”. Carmine Gallo si ferma qui, non fa polemiche. Ma basta guardarsi intorno, nella sala stracolma del ristorante di Lainate scelto per l’occasione, per rendersi conto che di magistrati non c’è neanche l’ombra. Nessuno dei tre citati da Gallo, nessuno dei tanti altri con i quali nei suoi quarantun anni da poliziotto ha lavorato a contatto di gomito. Per celebrare l’addio di Gallo alla divisa sono arrivati da tutta Italia: il vicecapo della polizia Luigi Savina, il questore di Torino Francesco Messina, una lunga serie di poliziotti che hanno fatto la storia delle indagini a Milano, da Francesco Colucci e Massimo Mazza. Il clima è quello consueto di queste occasioni, un po’ di amarcord e un po’ di commozione: come quando Gallo ringrazia sua moglie “per tutte le volte in cui l’ho chiamata dicendo che arrivavo dopo mezz’ora e riapparivo dopo una settimana”. Ma è anche un’occasione speciale, perché Gallo è stato un poliziotto speciale. Formidabile nella mole di lavoro e formidabile nei rapporti con il mondo della malavita, dove conosceva quasi tutti e dove tutti sapevano che – nel rispetto dei ruoli – di Gallo ci si poteva fidare. Come dice il sindaco di Rho, che l’ha avuto come capo del commissariato negli ultimi anni, “se avevo un problema chiamavo Carmine, a qualunque ora del giorno e della notte. E lui mi rispondeva: ci penso io”.

    Ecco, anche per tanti magistrati Gallo è stato questo: l’uomo a cui rivolgersi quando c’era un problema da risolvere. Ne ha risolti tanti, di problemi: dal sequestro Sgarella al delitto Gucci. Così fa un certo effetto scoprire che ieri nessuno dei pm con cui ha lavorato (tutti impegnatissimi, per carità…) ha sentito il dovere di essergli affianco. E’ difficile non collocare questa storia nel grande tema dei rapporti tra magistrati e polizia giudiziaria: un rapporto di cui le toghe sono giustamente gelose, e da cui – grazie alla sentenza della Corte Costituzionale – sono riuscite a impedire il controllo della politica. Un rapporto fato di fiducia reciproca, a volte quasi di simbiosi tra magistrato e investigatore. 

    Gallo è stato anche questo, per anni. Ma la sua non è stata una storia a lieto fine. Incriminato a ripetizione, sempre assolto tranne che per una accusa che riguardava in pieno i suoi rapporti con i pm, con le indagini, con i confidenti. Nessuno dei magistrati che lo svegliavano nel cuore della notte è stato al suo fianco in questa fase, come nessuno è stato presente al suo addio. Così va il mondo, si dirà. Lui va in pensione, in silenzio, schivo. L’ultimo ad abbracciarlo è Gigi Savina: “Grazie, commissario Gallo, per come hai servito il Paese”.(Orsola Golgi) 

  • Processato per avere preso la parola durante un’occupazione

    Si può essere processati per avere parlato durante un presidio di protesta contro una legge. E, per fortuna, assolti ‘perché il fatto non costituisce reato’.

    E’ successo a un giovane peruviano di 29 anni accusato di “avere preso la parola, anche con uso di un megafono, svolgendo attività di ‘speakeraggio‘ nel corso di riunione pubblica non autorizzata, partecipata dal ‘Comitato Abitanti di San Siro’ e dal ‘Movimento Asia’ svoltasi all’interno ed all’esterno della sede del Consiglio Regionale della Lombardia il 4 febbraio 2016″. La norma di riferimento, citata nel capo d’imputazione, e’ l’articolo 18 del Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza che disciplina le modalità di promozione delle riunioni in luogo pubblico o aperto al pubblico. I manifestanti avevano occupato l’ingresso del Pirellone per protestare contro la legge regionale di riordino dell’Aler e del settore case popolari. “L’accusa ha sbagliato a scrivere il capo d’imputazione, non esiste il reato di ‘prendere parola’”, spiega l’avvocato Mirko Mazzali, legale dell’imputato per il quale il vice procuratore onorario aveva tuttavia chiesto la condanna a un mese di carcere. (manuela d’alessandro)

  • Gli avvocati milanesi fanno un ‘film’ contro la prescrizione

     

    Come sarebbe il processo penale dopo l’abrogazione sostanziale della prescrizione? I legali della Camera Penale di Milano rispondono con un breve video distopico  intitolato ‘3001 Odissea nel Processo‘, visibile sulla loro pagina Facebook, la cui prima scena è quella dell’esercito coreano.  “Un’immagine scelta per far capire quali possono essere gli esiti del giustizialismo”, afferma l’avvocato Matteo Picotti, tra gli autori del ‘film’ girato in occasione dell’astensione dei penalisti da oggi a venerdì.  Il ‘corto’, che si annuncia come “basato su fatti realmente accaduti,” immagina cosa accadrebbe con lo stop dello scorrere del tempo dopo il primo grado di giudizio auspicato dal Governo a guida Lega – 5 Stelle. “Nel 2020 d. C. eliminarono la prescrizione, dopo la riforma i processi durarono una vita e nel 3001 d.C. ogni cittadino aveva un processo infinito”, le scritte sovrapposte alle scene, tra cui quella di una piazza con folla urlante, la Statua della Libertà e riferimenti al romanzo di George Orwell ‘1984’. In sottofondo musiche di grande pathos a enfatizzare la delicatezza del momento. Infine un cartello funerario firmato dagli avvocati annuncia che “dopo una lunga e penosa malattia si è spenta tra atroci sofferenze la giustizia”. Titoli di coda con ruoli e nomi nella produzione dell’opera, tra cui quello della regista Monica Gambirasio, la presidente della Camera Penale di Milano ‘Gian Domenico Pisapia’, nel cui distretto sono comprese anche comprende Como, Lecco, Pavia, Sondrio, Varese, Monza e Busto Arsizio. “Abbiamo voluto lanciare una provocazione”, spiega Picotti, il giovane legale che ha montato l’opera – che si rifà a intuizioni già avute da registi e intellettuali sulle estreme conseguenze che può avere questa riforma. Non abbiamo inventato nulla”.

    (manuela d’alessandro)

     

  • “Alla domenica non lavoriamo”, protesta dei dipendenti del Tribunale

    “Alla domenica a queste condizioni non vogliamo più lavorare”. Monta dall’ufficio gip di Milano la protesta del centinaio di dipendenti che affiancano i giudici nell’impegno quotidiano al settimo piano del Tribunale e che, da due giorni, hanno proclamato lo stato di agitazione e l’astensione dal lavoro straordinario. “I magistrati vogliono sfruttare i lavoratori – spiega Lino Gallo, segretario nazionale della FLP (Federazione Lavoratori Pubblici e Funzioni Pubbliche) –  Ci fanno venire a lavorare alla domenica riconoscendoci solo 4 ore di straordinario e non concedendoci il riposo settimanale, previsto dalla Costituzione”. Lo stato di agitazione è stato deciso al termine di in un’assemblea molto partecipata e vivace convocata dopo che, si legge nel documento finale, non sono arrivate risposte dai dirigenti al disagio manifestato dai lavoratori. In particolare, lamentano “l’inasprirsi delle relazioni sindacali determinato dalle decisioni unilaterali assunte dal dirigente del Tribunale in materia di organizzazione del lavoro e del personale e segnatamente l’imposizione dell’obbligo, non conforme alla normativa contrattualistica, di prestazione di lavoro straordinario nella giornata di domenica”. Le proteste erano state sospese “su invito del presidente dei gip Aurelio Barazzetta, che si era impegnato a dare una concreta risposta alle richieste del personale entro il 3 settembre, ma allo stato prendiamo atto dell’assenza di cambiamenti nella direzione auspicata”. “Non possiamo essere obbligati a venire a lavorare alla domenica”, insiste Gallo che preannuncia, se non dovessero esserci evoluzioni, un possibile ricorso anche allo sciopero generale. (manuela d’alessandro)

     

  • Il procuratore Greco parla come il capo dell’Agenzia delle Entrate

    Quando parla di evasione fiscale Francesco Greco sembra il capo dell’Agenzia delle Entrate e non il capo della procura di Milano. “Mi fa piacere pensare che qui si è creato un network positivo, un circolo virtuoso, tra procura, guardia di finanza. La voluntary è un sistema positivo perché è difficile aggredire capitali all’estero. Quindi meglio farli rientrare pacificamente”.

    Il compito delle procure sarebbe (il condizionale è d’obbligo considerando come poi le cose vanno nella realtà) quello di istruire dei processi portare delle persone davanti ai giudici e verificare così la validità del lavoro svolto. A Greco da anni invece piace vantarsi di soldi “recuperati”. Del resto era stato lui a farsi la campagna elettorale per diventare procuratore capo con una serie di indagini sui colossi del web, con tutti i giornaloni che lo magnificavano sempre per il denaro “recuperato”. Ma tutti omettevano di precisare che si trattava di somme che erano la ventesima parte del dovuto.

    E comunque non è un problema di quantità, ma istituzionale perché il capo della procura si sostituisce all’Agenzia delle Entrate o comunque la dirige nelle trattative. E’ un paese il nostro dove i giornali non sono soliti criticare i magistrati a meno che non abbiano l’editore sotto inchiesta. E mentre Greco si diletta a parlare di evasione fiscale assumendo vesti sbagliate sembra che a Milano vi sia la pubblica amministrazione più onesta del mondo. Per farsi un’idea basta sentire i lamenti degli avvocati che solitamente difendono i colletti bianchi. “Non ci sono più indagini e non arrivano incarichi” è il coro quasi generale, anche se è vero che per anni i legali erano stati abituati fin troppo bene. Ma adesso dicono di lavorare esclusivamente nei tribunali di fuori Milano e qualcuno (probabilmente esagerando) afferma addirittura di pensare di cambiare lavoro. (frank cimini)

     

     

     

  • Niente diritto di sciopero se l’avvocato lo comunica via mail

    Cosa c’è di più autentico, di una Pec, ovvero un messaggio certificato di posta elettronica, di cui le moderne tecnologie garantiscono “al di là di ogni ragionevole dubbio” l’identità del mittente e del destinatario, nonché l’avvenuta consegna?

    Nulla, si direbbe: tant’è vero che una cospicua serie di atti giudiziari vengono notificati ai difensori con questo strumento. Bene, è il progresso! Peccato che lo stesso non valga nella direzione opposta. E che si sia recentemente arrivati al paradosso di un cinquantenne milanese, imputato di truffa, che si è visto rifilare una condanna definitiva perché il suo avvocato il giorno dell’udienza d’appello era sceso in sciopero aderendo all’astensione decida dall’Unione delle camere penali, dandone la comunicazione alla cancelleria della Corte: ma lo aveva fatto in ritardo e soprattutto utilizzando la Pec. Per la Cassazione, quella mail è carta straccia, perché “nel processo penale alle parti private non è consentito effettuare comunicazioni, notificazioni ed istanze mediante l’utilizzo della posta elettronica certificata”. E’ un orientamento già espresso dalla Cassazione in altre sentenze, ma che in questo caso viene portato alle estreme conseguenze, perché di fatto – rifiutando la mail inviata dall’avvocato – l’apparato giudiziario da un lato non riconosce il diritto di sciopero del difensore, e dall’altro rende definitiva la condanna di un cittadino che ha avuto modo di difendersi solo in primo grado. 

    Il pronunciamento della Cassazione è espresso nella sentenza 44236 di quest’anno, depositata dalla Seconda sezione penale il 4 ottobre scorso. L’imputato, M.F., era accusato di avere “bidonato” un concessionario di motociclette, facendosi consegnare una due-ruote e sparendo poi nel nulla senza pagare. Per questo nel luglio 2015 era stato condannato con rito abbreviato per truffa, ma contro questa sentenza aveva fatto ricorso in appello. L’udienza in camera di consiglio viene fissata per il 22 marzo 2017. Ma all’inizio di marzo l’Unione delle camere penali indice cinque giorni di sciopero per contrastare il decreto legge del ministro Andrea Orlando, in particolare contro la modifica dei termini di prescrizione e l’ampliamento degli interrogatori per videoconferenza: astensione da tutte le udienze (tranne quelle con imputati detenuti) dal 20 al 24 marzo. Il 21, alla vigila dell’udienza, l’avvocato di M.F. comunica alla cancelleria della Corte d’appello che intende aderire all’iniziativa dell’Ucpi.

    La mattina successiva, il presidente della sezione davanti alla quale è chiamato il processo decide: adesione irrituale, il processo si fa lo stesso. E la condanna inflitta in primo grado viene confermata integralmente. L’imputato non ci sta, e ricorre in Cassazione spiegando di non avere avuto modo di difendersi. Niente da fare: per la Cassazione “la comunicazione del difensore di fiducia di voler partecipare all’astensione era avvenuta tramite Pec, circostanza che legittimava la Corte a non tener conto della richiesta di rinvio”. La condanna diventa definitiva, e per soprammercato oltre alle spese processuali M.F. viene condannato anche a pagare “la somma di duemila euro alla cassa delle ammende, commisurata all’effettivo grado di colpa dello stesso ricorrente nella determinazione della causa di inammissibilità”.  (Orsola Golgi)

  • Una denuncia al giorno contro i medici, quasi tutte archiviate

    Se lo dice quella che, con ironia, si definisce “il maggior persecutore di medici degli ultimi anni”, c’è da riflettere. Le Procure, e in particolare quella di Milano, città che ha fama di ospitare poli sanitari di alto livello, sono assediate da denunce pretestuose contro i medici. Una “patologia” arriva a definirla Tiziana Siciliano che, tra le ragioni, ci mette anche il ‘divieto di morire’, categoria culturale che appartiene alla nostra epoca. “Ogni giorno che Dio manda in terra c’è una denuncia contro un medico –  rivela il procuratore aggiunto milanese dal palco di un convegno in materia di responsabilità nelle professioni sanitarie in corso a Palazzo di Giustizia – nel 2017 abbiamo iscritto a Milano circa 300 fascicoli su presunte colpe mediche. Buona parte di queste denunce ha carattere strumentale per fare pressioni sui medici in vista di richieste di risarcimento in sede civile”. Ma c’è anche altro a spingere i cittadini a rivoltarsi contro chi li ha curati o dovrebbe averlo fatto. “Altre denunce vengono sporte sull’onda dell’emotività del dolore, tenendo presente che siamo nell’epoca del ‘divieto di morire’. Parlo di cose che mi sono successe, è arrivata una denuncia per la morte di un paziente di 97 anni dai suoi familiari”. Poi c’è Internet, ricorda Siciliano, con Wikipedia che da’ a tutti la patente di medici e li spinge a credersi vittime di errori.  “Non ci possiamo permettere questo carico insensato – sostiene il magistrato che ha rappresentato l’accusa anche nel caso della clinica Santa Rita – la massima parte di queste denunce finisce con un’archiviazione che da scrivere può essere anche più complicata di un capo d’imputazione. Per arrivarci bisogna comunque fare costose consulenze che ti fanno entrare in un terreno scivolosissimo, con termini che si fa fatica a capire. Spesso poi arriva l’opposizione all’archiviazione e qui forse qualche  responsabilità ce l’ha anche la classe forense. Fascicoli di questo tipo sono per noi delle rogne pazzesche”. Al momento, inoltre, “non sono state ancora fissate le linee guide sulla responsabilità dei medici che dovrebbero essere emanate in base alla legge Gelli del 2017. Sarebbe cosa buona farlo per eliminare le incertezze”. (manuela d’alessandro)

  • Perché il sindaco di Riace non andava arrestato

    Dico subito che desta parecchie perplessità la lettura dell’ordinanza (132 pagine) con la quale il gip presso il Tribunale di Locri ha disposto l’arresto (domiciliare) del sindaco di Riace Domenico Lucano, noto alle cronache per il costante impegno nell’accoglienza di cittadini extracomunitari.

    La richiesta di misura cautelare del pm risultava datata 6 luglio e configurava a carico del sindaco (e di altre 30 persone) una moltitudine di reati rubricati dalla lettera A alla lettera Y, e che andavano dalla associazione a delinquere al peculato, dalla truffa ai danni dello Stato per svariati milioni al falso e dall’abuso d’ufficio alla concussione.

    Delitti per i quali, oltre alla misura cautelare, il medesimo pm richiedeva altresì il “sequestro preventivo per equivalente delle somme presenti sui conti degli indagati.”.

    Il primo dato che balza all’occhio dalla lettura dell’ordinanza  è la sonora “bocciatura” della lunga indagine (18 mesi) della Guardia di Finanza e avente ad oggetto, si legge: “l’iter di ottenimento e i meccanismi di gestione di rilevanti somme di denaro pubblico ottenute per organizzare la permanenza sul territorio comunale di migranti”.

    Questo perché al termine dell’esame degli atti, il gip ha ritenuto del tutto insussistenti gli indizi a sostegno di tutte le imputazioni, eccezion fatta che per le ultime due, invero minimali, e di cui si dirà.

    Si legge infatti nel provvedimento di “vaghezza e genericità al capo di imputazione” e “riferimenti a collusioni e mezzi fraudolenti che si risolvono in formule vuote prive di tipicità” (pag. 37), di “impossibilità per il gip di sostituirsi al pm per individuare collusioni trattandosi di operazione impedita dai più elementari principi processual-penalistici” (pag. 38), di “considerazioni addotte a sostegno della fondatezza quantomeno laconiche” (pag. 41), di “inattendibilità del denunciante Ruga” (pag. 46), di “alcun ingiusto vantaggio arrecato dal Lucano agli enti attuatori dei servizi” (pag. 123), fino a leggersi espressamente (pag. 123), e con riferimento alla più grave accusa di associazione a delinquere, che “i programmi perseguiti dagli indagati non possono definirsi illeciti, né si sono tradotti in condotte penalmente rilevanti”, e che, per quanto riguarda le specifiche condotte attribuite al sindaco (pag. 125) le stesse “erano dal suo punto di vista finalizzate a garantire a soggetti svantaggiati la possibilità di permanere in Italia o di raggiungere il Paese per qui godere di un migliore regime di vita”.

    Ciò nonostante il gip ha ugualmente applicato la medesima misura coercitiva richiesta dal pm per ben 9 reati (pag. 22), per le sole due ipotesi finali rubricate alle lettere T e Y.

    La prima (T) è l’accusa (riqualificata dal GIP come art. 353 bis Cp rispetto al reato di turbativa d’asta indicato dal PM) di avere affidato il servizio di pulizia della spiaggia a due cooperative sociali prive del requisito dell’iscrizione all’albo regionale, e la seconda (Y) è quella di avere concorso nel 2017 con una cittadina etiope in un falso matrimonio con il fratello per consentire a quest’ultimo l’ingresso nel nostro paese per coniugio, fatto peraltro non verificatosi per il di lui intervenuto arresto nel paese di origine.

    Sul punto si legge da pagina 69 in avanti un lungo resoconto di svariate intercettazioni che attestano il coinvolgimento del sindaco anche in altri due “matrimoni di comodo”, il primo dei quali tra tali Giosi (cittadino italiano) e Sara, e sempre per le medesime finalità.

    A sostegno dell’arresto, motivato, si legge, dal concreto pericolo che il sindaco, se libero, possa reiterare analoghe condotte di reato, scrive il gip (pag. 121) di “naturalezza a trasgredire norme civili” e di “disarmante spigliatezza con la quale il Lucano, nonostante il ruolo istituzionale rivestito, ammetteva pacificamente e più volte ad un nutrito gruppo di interlocutori di essersi adoperato in prima persona per consentire alla complice il matrimonio con il fratello”, stigmatizzandone (pag. 125), il “ricorso a condotte non solo penalmente, ma anche moralmente riprovevoli (per quanto dal suo punto di vista finalizzate a garantire a soggetti svantaggiati la possibilità di permanere in Italia o di raggiungere il Paese per qui godere di un migliore regime di vita)”, per concludere (pag. 126) che “l’indagato vive oltre le regole che ritiene d’altronde di poter impunemente violare nell’ottica del fine giustifica i mezzi, dimentico però che quando i mezzi sono persone il fine raggiunto tradisce tanto paradossalmente quanto inevitabilmente quegli stessi scopi umanitari che hanno sorretto le proprie azioni”.

    A corollario di ciò il gip esclude (pag. 126) “tranquillamente che in sede di prevedibile condanna possa essergli concesso il beneficio della sospensione condizionale”.

    Ora, non si discute sulla ritenuta sussistenza indiziaria di quegli unici addebiti usciti “superstiti” dalla falcidia del gip, ma è proprio questo dato che avrebbe dovuto indurre detto gip a considerare che una misura cautelare richiesta per chi si sarebbe, in ipotesi, reso responsabile di tutti (o quasi) i reati ricompresi nell’intero codice penale, non dovrebbe trovare uguale attuazione anche per chi invece può avere al massimo violato alcune regole per finalità umanitarie.

    Ovviamente sarà il processo di merito a stabilire da quale parte stanno i torti e le ragioni e se il predetto sindaco in caso di condanna dovrà o meno finire in carcere, né questa è la sede per disquisire su ipotesi di disobbedienza civile o per difendere scelte politiche e sociali di un sindaco impegnato in prima linea in un territorio a dir poco “difficile” (scelte che peraltro, io condivido in pieno), ma la lettura di quella ordinanza e di alcune considerazioni soggettive che non dovrebbero competere a un giudice penale, quali “moralmente riprovevoli” o “tradimento di scopi umanitari”, non può non destare allo stato, e lo si ripete, parecchie perplessità negli addetti ai lavori.

    avvocato Davide Steccanella

  • Perché la magistratuta sbaglia sul sequestro dei 49 mln alla Lega

    Visto che tutti ne parlano, e molto spesso a sproposito, vediamo di chiarire meglio quali sono i due fatti che hanno condotto all’attuale “scontro” istituzionale tra il Ministro Salvini e l’Associazione Nazionale Magistrati, cui è stato dato ampio risalto mediatico.

    Il primo fatto è quello che ha determinato l’attuale sequestro per equivalente di 49 milioni che non essendo stati trovati nelle attuali casse della Lega oggi consente al PM genovese di sottrarre a detto partito qualsiasi somma futura dovesse ivi transitare, fino a tale concorrenza.

    Si tratta dell’esito di un’indagine (iniziata dalla Procura di Milano e in parte trasferita a quella di Genova) sull’utilizzo dei rimborsi elettorali ottenuti dalla Lega negli anni 2008/2010.

    I processi si sono conclusi con le condanne di Bossi Jr e dell’ex tesoriere Belsito per appropriazione indebita (Milano) e di Bossi Sr. per truffa ai danni dello Stato (Genova).

    Detta indagine ha fatto emergere a carico dell’allora segretario l’utilizzo a fini personali di 10mila euro per operazione e multe del figlio e per la ristrutturazione della casa di Gemonio, nonché di ulteriori 77mila euro per il diploma, sempre del figlio, a Tirana.

    In sintesi, è stato dimostrato che ai tempi in cui era segretario, Bossi Sr. avesse illecitamente sottratto al proprio partito un totale di 87 mila euro.

    Volendo accedere alla tesi accusatoria, secondo la quale quanto viene usato per fini personali non può essere addebitato allo Stato a titolo di rimborso elettorale, quella somma di 87mila euro, dovrebbe essere restituita dall’attuale dirigenza.

    Sfugge a chi scrive però, in base a quale diverso criterio, si chieda invece la restituzione dell’intero importo a suo tempo ottenuto in assenza di ulteriori elementi dai quali dedurre, in termini di certezza, che altre somme siano state distratte dal partito, non bastando certamente il mero dato che oggi, a distanza di 8 anni, non si trovano più in cassa. L’effetto finale è che oggi viene consigliato dalla stessa Procura ad un partito che ha legittimamente conquistato il 17 % dei voti all’ultimo suffragio (e che gli attuali sondaggi danno in forte crescita) di cambiare il proprio nome (SIC !) per sopravvivere, mentre l’opposizione non perde occasione per contestare all’attuale segretario di non voler restituire allo Stato 49 milioni rubati.

    Non bastasse questo, successivamente è intervenuta altra Procura, questa di Agrigento, adiuvata da quella del capoluogo, inviando all’attuale segretario un formale avviso di garanzia per un reato gravissimo, sequestro di persona, che prevede una pena detentiva molto elevata, per essersi adoperato, quale Ministro, per impedire lo sbarco dei naufraghi di una nave di clandestini che aveva attraccato in un porto italiano.

    Questa seconda accusa, a differenza della prima, appare ancor più “delicata”, perché viene criminalizzata non già, come nel primo caso, una condotta individuale per tornaconto personale (come era stato in precedenza anche nei vari processi intentati all’ex Presidente Berlusconi), bensì un’azione governativa fatta alla luce del sole da un Ministro che ha ritenuto di agire in preciso ossequio ad uno specifico programma politico di restrizione dell’immigrazione presentato dal suo Partito al momento delle elezioni, e che proprio per questo motivo (anche se non solo) era stato votato da quel citato 17 % di cittadini.

    Inoltre, e a prescindere dal non semplice problema del “dolo” di sequestro per chi assume un’iniziativa pubblica del proprio Ufficio, appare sulla carta non semplice configurare un sequestro di persona a carico di chi non consente ad altri di entrare in un determinato luogo, visto che tale inibizione consente al soggetto passivo, a differenza di quella di non consentirne l’uscita, la facoltà di sbarcare altrove, ovvero di ritornare presso il luogo da dove era partito.

    Questa ipotesi di reato per di più non ha ancora ricevuto, a differenza della prima (che ha interessato un procedimento di riesame), il vaglio di un giudice, neppure a livello meramente indiziario.

    Singolarmente infatti il pm, che pure contesta al Ministro un reato gravissimo, non ha infatti ritenuto di chiedere alcuna misura cautelare al competente GIP, nonostante fosse evidente quel pericolo di reiterazione del medesimo reato indicato alla lettera C) dell’art. 274 Cpp (e cui molto spesso la nostra Procura è sovente ricorrere), avendo il Ministro pubblicamente dichiarato di essere intenzionato a ripetere tale condotta ed essendo, gli sbarchi di navi, pratica quasi corrente sulle rive del nostro paese.

    A fronte di siffatte iniziative giudiziarie, che comportano da un lato la possibile bancarotta economica e dall’altra l’incriminazione del segretario per un reato gravissimo, nei confronti di un partito che, piaccia o meno (a chi scrive sia ben chiaro, non piace), al momento governa in forza di un legittimo suffragio, ritenere le dichiarazioni rese nell’immediatezza da Salvini un vulnus eversivo all’indipendenza della Magistratura quando non una rivendicazione nazista di impunità, paiono risposte frettolose e inadatte al problema oggettivo che si è creato e che non vorrei influenzate da eccessivo corporativismo da parte di ANM e da strumentalizzazione politica da parte del principale partito di opposizione.

    Mi rattristerebbe, da cittadino e non solo da giurista, constatare che il nostro paese ha ormai fatto il callo ai governi che cadono sotto la mannaia della giustizia, visto che sarebbe bene ricordare, a chi mostra di averlo dimenticato, due casi tra i più recenti.

    Il Prodi bis cadde per un’iniziativa improvvida di un PM di santa Maria Capua Vetere che mise sotto accusa l’allora Ministro Mastella che poi fu assolto e l’ultimo governo Berlusconi in gran parte per le note imputazioni di private alcove che la Corte di appello di Milano prima e la Suprema Corte di Cassazione poi, dichiararono totalmente infondate.

    Nessuno ovviamente si augura una magistratura “dipendente” dal potere politico, ci mancherebbe altro, e ancor meno che vengano preservate zone di impunità per chicchessia, ma anche assistere in silenzio e da anni a iniziative eclatanti di alcuni PM nei confronti di chi volta a volta governa e che poi non approdano a nulla, non dovrebbe essere ritenuta, al di là di come la si pensi, cosa buona e giusta, soprattutto da chi non perde occasione per dichiararsi fiero difensore della nostra Costituzione.

    avvocato Davide Steccanella

  • La mappa delle 500 telecamere nel Palazzo e i dubbi dei lavoratori

    Quella che vi mostriamo in esclusiva è la mappa del centinaio di telecamere che verranno installate entro la fine dell’anno al terzo piano del Palazzo di Giustizia di Milano. Proprio dove l’imprenditore Claudio Giardiello circa tre anni fa compì il suo eccidio con una pistola introdotta eludendo i controlli ai varchi.   In tutto gli ‘occhi elettronici’ saranno 500, sparsi in ogni angolo dell’immensa costruzione di età fascista e anche nella nuova palazzina di via San Barnaba, aule comprese se i giudici daranno l’autorizzazione.

    E’ la prima iniziativa del procuratore capo Roberto Alfonso sul tema della sicurezza sollevato dalla strage. Lo stanziamento che ha reso possibile il piano telecamere è di circa un milione e verrà seguito, entro il 2020, dall’installazione dei tornelli agli ingressi e dei videocitofoni davanti alle stanze di ogni magistrato. Si riuscirà a eliminare del tutto il rischio che scorra di nuovo del sangue nella casa milanese della giustizia?

    C’è poi il tema della privacy. Camminare nel Palazzo di Giustizia significherà essere ‘pedinati’ passo passo da uno sguardo invisibile.  In un riunione che si è tenuta nei giorni scorsi coi rappresentanti dei sindacati, Alfonso ha sostenuto che “l’unico scopo delle telecamere è aumentare gli standard della sicurezza, senza alcuna limitazione o ripercussione nei confronti dei lavoratori” e che una copia del progetto è stata mandata all’Ispettorato del Lavoro e all’Autorità garante dei dati personali. Una sindacalista ha chiesto e ottenuto dal procuratore garanzie sul fatto che le telecamere non vengano utilizzate per controllare l’attività lavorativa e, in particolare,  le timbrature. (manuela d’alessandro)

  • Procura di Milano contro Anac: “Rendete inutili le nostre indagini”

    Era nell’aria da un po’ ma ora abbiamo l’ufficialità: tra la Procura di Milano e l’Anac è rottura con la prima che accusa la seconda di rendere “inutili” le sue indagini.   La mina salta alla presentazione del Bilancio di Responsabilità Sociale del 2017, un’occasione in cui di solito abbondano le ‘buone maniere’ e i linguaggi affettati. Invece il procuratore capo Francesco Greco prende il bazooka: “In attuazione del protocollo di Intesa del 5 aprile 2016 – si legge nel libretto che riassume un anno di lavoro – l’Anac ha trasmesso numerosi illeciti  da cui si potevano desumere fatti di corruzione. Tuttavia il ritardo con cui le notizie sono state trasmesse e soprattutto le modalità di acquisizione degli elementi (acquisizione di documentazione presso gli enti coinvolti) hanno determinato una discovery anticipata, sostanzialmente rendendo inutili ulteriori indagini nei confronti di soggetti già allertati”.  Un riferimento implicito certo è alle carte mandate in Procura da Raffaele Cantone  sulla vicenda dei milioni di fondi Expo per la giustizia milanese. Troppo tardi, secondo i magistrati che si sono trovati a indagare su una presunta turbativa d’asta relativa alla gestione dei soldi da parte della magistratura milanese e del Comune di Milano a distanza di anni dai fatti. E dopo che Anac è andata ad acquisire cumuli di carte a Palazzo Marino. E’ finita che la Procura di Milano si è liberata dell’indagine, non con un certo fastidio, spedendola a Brescia per potenziali coinvolgimenti di magistrati che si sono occupati del ‘tesoro’ proveniente dall’Esposizione. C’è anche da dire, almeno per questa inchiesta, che organi di stampa tra cui Giustiziami avevano scritto molto tempo prima dell’intervento di Anac ma in Procura non si era ritenuto di intervenire.

    Altro terreno di tensioni era stata  l’inchiesta sulla pubblicità delle aste giudiziarie avviata dalla Procura sempre a partire da un dossier di Anac che aveva accolto con un certo stupore, stando a nostre fonti, la richiesta di archiviazione presentata dai pubblici ministeri e poi accolta da un gip.  Secondo l’Autorità, il  bando lanciato nel 2012 dalla Camera di Commercio era stato viziato da “gravi anomalie”. A vincere fu la sola società partecipante, con un ribasso del 72,5%. L’Anac mandò gli atti alla magistratura nel 2015, 3 anni dopo i fatti, mentre l’archiviazione è del maggio scorso. Il rapporto tra l’Authority e la magistratura  era apparso invece idilliaco ai tempi del procuratore Edmondo Bruti Liberati da cui erano arrivati riconoscimenti ad Anac all’epoca dei primi arresti legati a Expo. In serata, Greco ridimensiona parlando di “problemi tecnici” e di “ottimi rapporti con Cantone”.

    (manuela d’alessandro)

     

     

     

  • Greco: “Non sappiamo nulla di quello che accade nel Csm”

    “Palazzo d’Ingiustizia”  firmato da Riccardo Iacona e Danilo Procaccianti non gli è piaciuto, ma Francesco Greco, intervenendo a un convegno, non è apparso così distante  nei toni e nei contenuti dalle critiche al Csm espresse nel libro dai due giornalisti e da alcuni magistrati.

    “Non sappiamo nulla di quello che avviene dentro al Csm”, ha sentenziato il procuratore capo di Milano durante l’incontro intitolato: ‘L’orgoglio dell’autogoverno:Una sfida possibile per i 60 anni del Csm?’.

    “Il problema del Csm è un problema serio e se non vogliamo che il populismo giudiziario decolli bisogna ricominciare dalla trasparenza del Csm. Deve esserci un impegno scritto da parte di tutti gli eletti al Csm sulla trasparenza, può essere fatto anche dopo le elezioni (previste a breve, ndr) visto che vanno di moda i contratti”. Il magistrato ha criticato in modo feroce anche le modalità di comunicazione dell’organo di autogoverno: “Le circolari non sono mai inferiori alle 100 pagine, ti devi quasi dopare per arrivare alla fine”. Per Greco, “il Csm dovrebbe essere un palazzo di vetro. Non ci possiamo più permettere vie clientelari di accesso al Csm. Una cosa che mi fa imbestialire, per esempio, è che io vorrei sapere le cose che mi riguardano dalla segreteria del Csm e visto che hanno un sacco di soldi potrebbero farla. Invece le vengo a sapere da un consigliere amico oppure dalla segreteria di un’altra corrente”. Duro anche contro i tempi lunghi per le nomine dei magistrati quando ci sono posti vacanti: “Ci vuole trasparenza nella pubblicazione delle vacanze, si devono dare i criteri di volta in volta. E’ più importante questo tema che quello degli incarichi direttivi e semidirettivi che appassiona le liste. La decisione della Commissione deve arrivare entro pochi mesi, invece ci vogliono anche un anno e mezzo, due anni”. Per Greco, è da cambiare anche il modo con cui ci si candida agli incarichi direttivi, sul suo esempio: “Ora si scrive tutto e il contrario di tutto, invece bisogna scrivere dieci punti e basta sull’organizzazione dell’ufficio, io ho fatto così”. E ancora: “Assistiamo ad un delirio di controllo
    degli uffici di primo grado e io non mi sottraggo al controllo, ma voglio che sia garantita l’autonomia e la indipendenza delle  Procure e dei tribunali di primo grado”.  (manuela d’alessandro)

  • “Giudici in crisi quando danno l’ergastolo”, i 40 anni in Assise della cancelliera

    Quarant’anni nel palazzo di giustizia di Milano. Trenta di questi, in Corte d’assise, a contatto ogni giorno con gli aspetti più violenti dell’animo umano. Centinaia di processi, e solo una volta la cancelliera Flavia Fabi si è commossa: quando sul banco degli imputati si è trovata davanti Marco Cappato, il  radicale accusato di avere aiutato a morire Dj Fabo. Davanti ai filmati di Fabo e alle testimonianza strazianti dei suoi familiari, gli occhi di Flavia si sono riempiti di lacrime. Ma in quell’aula erano pochi gli occhi asciutti.

     

    Ora Flavia Fabi gira pagina. Va in pensione, a 66 anni di età compiuti da poco. Si porta dietro una miniera di ricordi: facce, storie, processi che attraversano ere diverse della giustizia milanese raccontati dal punto di vista particolare di un cancelliere. Dal suo banco, silenziosa e insostituibile, non si perdeva una parola.

     

    Come sei arrivata alla cancelleria dell’Assise?

    “Per caso. Sono milanese, dopo avere vinto il concorso sono arrivata subito qui a Palazzo di giustizia. Dopo una decina d’anni si è creato un problema in Assise perché un collega si era ammalato e l’ho sostituito per un processo. Poco dopo il cancelliere della Seconda sezione, Pillerio Plastina, ha superato gli esami per diventare avvocato e si è dimesso. Così ho preso il suo posto”.

    In tribunale di storie allegre ne approdano poche, ma in Assise si sente il peggio. Non ti è pesato passare tutti questi anni in mezzo a tragedie di ogni tipo?

    “Niente affatto. Non posso dire che mi staccavo da quanto accadeva in aula, perché comunque ti rendi conto di quanto è in gioco davanti a te. Ma sai di essere un’altra cosa rispetto a quanto sta succedendo e di avere un tuo ruolo da svolgere. Io mi concentravo sul mio ruolo anche se questo non mi impediva di essere coinvolta dal processo: a partire dal rapporto con l’imputato. All’inizio del processo partivo sempre critica, prevenuta; mi dicevo che questo signore se era in gabbia qualcosa doveva avere fatto. Poi nel corso del processo, mentre le udienze vanno avanti, ti fai delle convinzioni diverse. Oltretutto io mi sono sempre letta le carte dei processi a cui dovevo lavorare, sia per interesse personale sia perché sapere bene di cosa si parla torna comodo all’ufficio. In questo modo inevitabilmente una idea te la fai”.

    Hai mai visto condannare un imputato che consideravi innocente?

    “No”.

    E assolvere uno che per te era colpevole?

    “Nemmeno. Dal mio punto di osservazione, mi sento di dire che la giustizia funziona”.

    In Corte d’assise oltre che con i giudici di professione hai a che fare anche con i giudici popolari, i cosiddetti giurati. Che tipi sono? Che ruolo svolgono davvero nel chiuso della camera di consiglio?

    “Inizialmente sono tutti un po’ sbalestrati, perché tutto comincia con la polizia che arriva a casa loro ad avvisarli che sono stati scelti per fare parte della Corte: ma a volte la cosa avviene in modo un po’ brusco, e prima di capire che la polizia è lì solo per quello ci mettono un po’… Dopodiché cominciano a entrare nella parte. Una volta erano molto sprovveduti, bisognava spiegar loro tutto. Adesso invece appena realizzano cosa li attende vanno su Google, si documentano, si studiano le leggi, e arrivano alla prima riunione già abbastanza pronti. Almeno dal punto di vista tecnico, intendo. Non sono pronti a affrontare l’aspetto emotivo del processo, il suo carico di responsabilità. Così accade che giudici popolari che arrivano da noi dicendo “ci vorrebbe la pena di morte”, poi cambiano, e quando bisogna decidere la sentenza e magari condannare l’imputato all’ergastolo vanno in crisi, non se la sentono, e al momento del verdetto si commuovono. Ma devo dire che anche i giudici effettivi sentono il peso della responsabilità. Al processo per l’uccisione di un tassista anche il giudice che leggeva  il dispositivo si commosse, perché si era reso conto che se uno degli imputati aveva avuto un ruolo da leader gli altri gli erano più che altro andati dietro. Erano colpevoli, ma anche vittime delle circostanze”.

    Cosa accade in camera di consiglio? I giurati si fanno valere, o seguono le indicazioni dei due giudici effettivi?

    “Ci sono Corti piatte piatte, che non si discostano dalle indicazioni dei giudici. Ma anche Corti con una dialettica interna vivace, in cui i giudici popolari non rinunciano a fare sentire la loro voce. Non ho mai visto i giudici di mestiere messi in minoranza sulla questione principale, la colpevolezza o l’innocenza dell’imputato. Ma al momento di quantificare la pena è accaduto che i giudici popolari imponessero la loro linea”.

    Tranne che per Cappato non ti sei mai commossa. Ma ti è accaduto di provare orrore?

    “Sicuro. Il processo a un giovane che aveva ammazzato la madre e l’aveva fatta a pezzi non lo dimenticherò facilmente. La fidanzata era in casa e non ha capito niente di quello che stava succedendo…Oltretutto lui era recidivo!”

    E’ giusto che esista la pena dell’ergastolo?

    “Sì, anche perché non è quasi mai effettivo”.

    Quanto conta in Corte d’assise la figura del presidente?

    “Moltissimo. Io ho avuto la fortuna di lavorare accanto a presidenti di grande levatura. Il primo fu Antonino Cusumano, era l’epoca dei processi ai terroristi, in aula il clima era pesante, spesso i giurati avevano paura fisica; ma Cusumano riusciva a condurre il processo con polso e anche con umanità, riuscendo anche a dialogare con gli imputati. E non era facile”

    Il più tosto?

    “Renato Samek Lodovici”

    La giustizia funziona meglio per i ricchi, che si possono permettere gli avvocati più bravi?

    “No. E’ brutto dirlo, ma l’avvocato non ha un peso determinante sulla vicenda processuale”

    E il pubblico ministero, quanto conta?

    “Molto. Sia nella chiarezza della relazione introduttiva, che si usava una volta, sia nella gestione degli interrogatori dei testimoni. Non tutti sono bravi allo stesso modo, e le giovani generazioni non sono all’altezza di quelle che le hanno precedute. Di pm come Alberto Nobili e Armando Spataro non ne fanno più”.

  • Il no dell’assessore milanese al tentativo di corruzione ‘romana’

    Al telefono ci sono due collaboratori (uno è indagato) di Luca Parnasi, il costruttore finito in carcere nell’ambito dell’inchiesta sulla realizzazione del nuovo stadio della Roma che ipotizza diversi episodi di corruzione.

    – Giulio: “Siamo andati a parlare con l’assessore Maran, quello di Milano, no?

    – Valentina: “Si”

    – Giulio: “E Simone che gli prova  a vendere alla Tecnocasa un appartamento…e quello dice amico mio no! Cioé qua funziona così…qua se tu non mi dici che la cosa che riesci a fare è perché la puoi fare, a me non mi prendi per il culo perché io non mi faccio prendere…io non voglio essere…non voglio prendere per il culo chi mi ha votato…Siamo andati lì dall’assessore a fare una figura…cioé sembravamo proprio…sembravamo i romani…quelli sai…dei centomila film che hai visto? i romani a Milano….

    – Giulio: “No, peggio perché Totò è impreparato, noi eravamo preparati a quello, è diverso…Noi ci siano andati a provà”

    – Valentina: “Va beh ma che poi è quello che facciamo qua…cioé, ogni volta che andiamo a parlare con un’amministrazione. E’ perché ci proviamo” 

    – Giulio: “Esatto…qua funziona ancora comunque la Roma, rometta, Baldissoni…”

    Per il gip, “è un tentativo di corrompere l’assessore al Comune di Milano Maran, attraverso la proposta respinta di cessione di un’immobile, al fine di ottenere entrature per la realizzazione dello stadio di Milano”. Sembrerebbe, ma il contenuto dell’intercettazione “non è chiarissimo”, ci spiega una fonte inquirente, che Parnasi abbia voluto corrompere Maran attraverso i suoi emissari, offrendogli una casa o quantomeno uno sconto su di essa.  Di certo, se  a Maran fosse apparso limpido un tentativo di corruzione, avrebbe dovuto denunciarlo. Non sappiamo se l’abbia fatto, intanto però gli va dato atto di avere restituito l’idea comune di una Milano più ‘pulita’ di Roma. C’è anche da aggiungere che la Procura capitolina, soprattutto dall’arrivo dell’ex milanese Paolo Ielo,  è attivissima nelle inchieste sulla corruzione, a differenza di quella meneghina. (manuela d’alessandro)

  • Fondi Expo, il gip chiude il caso delle aste giudiziarie

    Tutto regolare nella gara del 2012 per la pubblicità delle aste giudiziarie che,  secondo l’ Autorità Nazionale Anticorruzione, presentava invece  anomalie così gravi da richiedere di indirne con urgenza una nuova. Fonti vicine all’Anac, da cui era partito il dossier poi sviluppato dalla Procura,  riferiscono di una viva sorpresa nell’apprendere che il gip Marco Del Vecchio ha archiviato il caso dopo 9 mesi di riflessione, cioé da quando si era riservato di decidere sull’opposizione all’archiviazione presentata da una delle presunte società penalizzate.  Non ci sono prove, scrive il gip accogliendo la richiesta del pm Paolo Filippini,  di “intese triangolari” illecite tra Tribunale, Camera di Commercio e l’impresa vincitrice Edicom per turbare la gara. E nemmeno sulle possibili responsabilità dei magistrati milanesi.

    I fatti: la Camera di Commercio, nelle vesti di intermediario del Tribunale e per conto della sua partecipata Digicamere, mette a disposizione un appalto da 825mila euro biennali, in parte sono fondi Expo, per assegnare la gestione della pubblicità legale e l’informatizzazione delle procedure esecutive e telematiche nel biennio 2013 – 2014. A quella gara partecipa solo la società Edicom Finance che vince con uno stratosferico ribasso sul prezzo di base del 72,5%. Chi glielo fa fare? Secondo astelegali.net, l’avere ricevuto in cambio la garanzia di altri lavori molto redditizi, sempre attinenti alle aste. Il pm Paolo Filippini si mette a indagare e a un certo punto scopre che i servizi accessori Postal Target, Free Press e Aste Giudiziarie non inseriti nel bando di gara non solo sono rimasti  a un’azienda del gruppo Edicom, ma sono diventati obbligatori per tutte le procedure esecutive e fallimentari. Questo perché tutti i giudici della seconda e terza sezione civile avevano disposto così, tranne uno, il dottor Marcello Piscopo.  Ottimo per Edicom che ingrossa il suo fatturato di 440mila euro nel 2012 a 1,4 milioni nel 2014.

    Per il gip, nonostante “l’anomalia di una gara assegnata ad un unico partecipante, con un ribasso” del 72%, “a  fronte del quale la stazione appaltante che agiva in convenzione col Tribunale di Milano non avrebbe effettuato la verifica di congruità’”,  “non  vi sono prove per ritenere” che ci sia stata “un’intesa illecita tra le parti”.  E non si  può nemmeno  provare che Edicom “poteva comunque contare di recuperare remuneratività  dell’appalto (o quanto meno di coprirne le perdite) attraverso una gestione monopolista”.  Archiviati quindi i due indagati, difesi dall’avvocato Cristiana Totis: un funzionario di Digicamere e una donna, parente di quest’ultimo  e “collaboratrice” del gruppo Edicom che vinse la gara. In attesa della laboriosa decisione del giudice, negli ultimi mesi dalla Procura Generale della Cassazione erano arrivate al pm insistenti richieste per valutare eventuali profili disciplinari dei giudici civili.  Resta il mistero non risolto dalla Procura che aveva ammesso di non essere riuscita a risalire “alla reale proprietà della Edicom Finace”, controllata da una società con sede in Gran Bretagna, a sua volta controllata da una società con sede nel Delaware. Sì, il paradiso fiscale. (manudela d’alessandro)

     

     

  • L’abbraccio del ragazzo al padre imputato prima dell’assoluzione

    Un ragazzo alto con una felpa rossa abbraccia da dietro il padre. L’uomo è malfermo sulle gambe, un’ombra densa di preoccupazione sul viso. Ma guarda dritto davanti a sé. Il ragazzo è l’unico che parla. “Papà, non ti preoccupare, se anche ti condanneranno tu non hai fatto niente”. E alla madre, lì accanto: “Mamma, non dire nulla e non piangere”.

    E’ buia e stretta l’aula della X sezione penale dove sta per suonare la campanella che annuncia l’ingresso del collegio chiamato a giudicare l’ingegnere Salvatore Primerano, 50 anni, accusato di associazione a delinquere, truffa, falso e turbata libertà di scelta del contraente nell’ambito dell’indagine su Infrastrutture Lombarde. Assoluzione da tutti i reati, è il verdetto. Il ragazzo salta per la gioia, i genitori piangono.

    Sono tante le assoluzioni (16 su 26 imputati) in questo processo e tante, per fortuna e tutti i giorni, nelle aule del Tribunale. Ma questa ha un sapore dolce e regala una scena rara: non di rabbia, ma di tenerezza. “Quando nel 2012 ho ricevuto un avviso di garanzia quasi non ci ho fatto caso, non ho nemmeno capito quasi fossero le accuse – racconta Primerano al telefono, ancora la voce è spezzata dall’emozione – Mi sono reso conto di quello che stava succedendo solo due anni dopo quando è arrivata la Guardia di Finanza nell’ufficio della società di cui ero responsabile tecnico. Ho trascorso 3 mesi e mezzo ai domiciliari. Sono venuti ad arrestarmi all’alba.  Per me è stata una tragedia morale perché io ero venuto a Milano dalla Calabria per costruirmi un futuro da solo e sottrarmi a un certo mondo del lavoro basato sui ‘favori’ “. Quello che l’ingegnere deve al figlio Andrea, 20 anni, alla moglie e agli amici è una scelta importante: “Il giorno prima che scadessero i termini mi è arrivata dal pm la proposta di patteggiare una pena sotto i due anni. Stavo per accettare, ma i miei familiari mi hanno convinto a non farlo. Se l’avessi fatto, avrei tradito me stesso. Ho sempre avuto fiducia nelle istituzioni ma aspettavo questa sentenza per capire se potevo continuare ad avercela. Ora voglio fare qualcosa per dare un senso a questa esperienza, ancora non so cosa, ma non passerà senza lasciare un segno”. (manuela d’alessandro)

  • Il libro di Iacona fa riaprire un’inchiesta sui poliziotti

    Il libro di Riccardo Iacona fa riaprire l’indagine su tre poliziotti presunti autori di furti di droga e soldi che, stando alla ricostruzione del giornalista e dell’allora procuratore Alfredo Robledo,  sarebbe naufragata a causa dell’inerzia di Edmondo Bruti Liberati e dei colleghi degli agenti. A raccontarlo, durante la presentazione di ‘Palazzo d’Ingiustizia’ alla Feltrinelli di piazza Duomo, è stato il conduttore di ‘Presa Diretta’: “Dopo la pubblicazione del libro, il questore Marcello Cardona ha chiesto al capo della Squadra Mobile di togliere questi 3 poliziotti dall’antinarcotici. E oggi Cardona è andato da Greco che gli ha assicurato la riapertura di un fascicolo d’inchiesta”. La storia è quella del fallimento dell’indagine sui poliziotti chiamati da alcuni testimoni ‘quelli delle giacche’ “perché quando arrivavano sulla piazze dello spaccio i pusher scappavano, buttavano via la giacca e i poliziotti si fermavano a raccogliere soldi e droga, senza denunciare e tenendo tutto per sé”. Un’inchiesta coordinata nel 2012 da Robledo e dal pm Paolo Filippini che sarebbe abortita per l’ostracismo manifestato dalla Squadra Mobile, addirittura con la distruzione delle microspie per intercettare i colleghi. E perché Bruti si sarebbe opposto alla richiesta arrivata dal suo vice di far compiere gli accertamenti ai carabinieri, richiamandosi al garbo istituzionale che imponeva ai poliziotti di arrestare le ‘mele marce’.

    Un centinaio di persone, in un clima a tratti da stadio, ha assistito alla presentazione del volume che sta facendo impazzire le mailing list dei magistrati. Tra gli altri, l’ex pg Felice Isnardi, che ha riaperto le indagini su Expo e sul sindaco Giuseppe Sala archiviate in nome della “sensibilità istituzionale”, l’ex magistrato della Cassazione  Antonio Esposito, il giudice Maria Rosaria Sodano che, in un intervento dalla platea, ha espresso “solidarietà” a Robledo. Presenti anche diversi vpo (viceprocuratori onorari), tanti avvocati ed esponenti della polizia giudiziaria, alcuni dei quali facevano parte della ‘squadra’ del magistrato trasferito per punizione a Torino (ritenuto colpevole di uno scambio di messaggi con l’avvocato Domenico Aiello). Senza pietà  Iacona nelle sua valutazioni sulla giustizia e sul cuore del suo potere: “Quando ho messo gli occhi sugli esposti presentati da Robledo al Csm sono saltato sulla sedia e mi sono spaventato da cittadino pensando a cosa può succedere a noi cittadini se queste cose accadono nel posto dove si esercita il controllo della legalità. Nelle carte ci sono le prove che il Csm ha usato come una mazza i provvedimenti disciplinari per ridurre le critiche. E’ una cosa che fa paura. Quando alla Rai mi hanno cancellato il programma dove lavoravo per volontà di Berlusconi, i miei colleghi mi hanno difeso. Qui nelle mail i magistrati se ne stanno dicendo di cotte di crude, ma fuori non arriva questo dibattito. A loro dico: ‘Rivolgetevi a noi!’”. “Pentito di quello che hai fatto?”, ha chiesto il moderatore Gianni Barbacetto ad Alfredo Robledo: “No, quella dei pentiti è una categoria che non mi piace in generale. Ho avuto un dolore enorme da questa storia che ho trasformato in testimonianza con questo libro. Il dolore più grande me l’ha dato il silenzio dei magistrati. La gran parte sono persone oneste ma hanno taciuto. Nel momento in cui ci sono magistrati nominati in base a delle trattative, e rubo questo termine ad altri contesti, per fare carriera soprattutto si tace. Contro Bruti non ho nulla di personale, lui era solo una pedina”.  E al giornalista Danilo Procaccianti, coautore del libro, Robledo ha detto: “A me la giustizia oggi fa paura e lo dico da magistrato”. Tra  le domande dal pubblico quella del cronista del ‘Sole 24 Ore’ Nicola Borzi che ha denunciato alla Consob con un lungo e coraggioso lavoro d’inchiesta quello che accadeva nel gruppo editoriale, oggetto di un’indagine in corso a Milano a carico anche dell’ex direttore Roberto Napoletano.  “Avevo presentato un esposto molti anni prima dell’indagine attuale, ma poi non ne ho più saputo nulla. Dottor Robledo, mi sa dire se è finito in un cassetto come altri?”. Risposta: “Non sono un indovino, ma non escludo situazioni di questo genere”. (manuela d’alessandro)

     

  • “Caro Sironi, niente chiasso artistico in aula!”

    Marcello Piacentini era un tipo che amava tenere tutto sotto controllo. Volle scegliere di persona le oltre 140 opere di 52 artisti per impreziosire il grandioso Palazzo di Giustizia di Milano da lui progettato nel 1932. Mario Sironi era invece uno che aveva un talento esplosivo: come tutti i futuristi, poteva avere una tendenza all’esagerazione, anche se poi si rivelò sensibile alla malinconia in molti suoi dipinti. Un carteggio tra i due portato alla luce dall’esposizione sull’arte italiana tra le due guerre alla Fondazione Prada (fino al 25 giugno) svela i grattacapi dell’architetto su una delle opere simbolo del Palazzo, il mosaico affidato al pittore e scultore fascista, oggi visibile nella Corte d’Assise d’Appello. “Caro Sironi – scrive il 19 settembre 1938 l’architetto scelto dal regime – mi dicono che sei stato a Milano per presentare i cartoni del mosaico del Palazzo di Giustizia. Tu sai che ho piena fiducia in te, ma avrei avuto piacere di vederti prima di iniziare il lavoro musivo. In ogni modo ti raccomando caldissimamente di tenerti il più possibile – senza naturalmente con questa significare nessuna rinuncia alla tua personalità d’artista – a proporzioni – anche nei particolari – giuste e normali, senza deformazioni. Tu devi sempre ricordarti che la più importante aula del Palazzo di Giustizia non può essere palestra di polemiche e discussioni artistiche . Guai se magistrati e avvocati dovessero amministrare la giustizia in un ambiente che suscitasse chiasso artistico!”. Piacentini era preoccupato che l’estro dell’artista uscisse dai binari della sobrietà nell’esecuzione dell’imponente mosaico che rappresenta la ‘Giustizia armata con la legge’.  E in effetti Sironi non tradì le sue indicazioni. Anche nel colore, nota il critico Marcello Ronchi sul sito della Procura, “Sironi mira all’essenza e sul brunico registro del fondo concede qualche azzurro grigio, del bianco, qualche terra rossa, un po’ di azzurro chiaro e pochissimo rosso vivo. Tavolozza elementare che sostituisce la gioia che può dare una ricca gamma coloristica con il senso di un misurato linguaggio composto di note gravi, che meglio fa risaltare la forma plastica”.  (manuela d’alessandro)

  • Botte da orbi tra i magistrati per il libro di Iacona

    “E’ inaccettabile paragonare le attività del Csm ai metodi utilizzati dalle organizzazioni criminali”. “Così intimidite chi esercita il diritto di critica”. Botte da orbi tra le toghe, spaccate sul libro ‘Palazzo d’Ingiustizia’ firmato da Riccardo Iacona e uscito nel momento in cui gli equilibri del potere giudiziario sono più labili in vista delle elezioni per il nuovo Csm. Ieri sera, quattro magistrati, tra i quali Piercamillo Davigo (intervistato nel libro), hanno recapitato alla mailing list di Anm un invito: “Prendiamo atto che, a seguito della pubblicazione di un libro che contiene specifiche e gravi accuse all’indirizzo del Csm, le uniche reazioni associative hanno riguardato le modalità espressive di tali critiche.  Confrontiamoci invece apertamente sul merito delle questioni denunciate piuttosto che sulla forma delle espressioni, anche per evitare il rischio che la pubblica sollecitazione di iniziative disciplinari si traduca in una sostanziale intimidazione nei confronti di chi ha esercitato o vorrebbe esercitare il diritto di critica”. Stamattina, la violenta replica di Anm a cui, mastica e rimastica, continua ad andare di traverso l’intervista in cui il giudice Andrea Mirenda riferisce di “metodi mafiosi” nell’organo di autogoverno,considerazioni che gli sono valse una richiesta di procedimento disciplinare. Il paragone secondo Anm “è inaccettabile e inappropriato” e “fatta salva la libertà di manifestazione del pensiero danneggia l’Istituzione e l’intero ordine giudiziario, instillando nei cittadini l’idea di un Csm che non garantisce l’indipendenza e l’autonomia della magistratura, così offuscandone l’immagine, gettandovi discredito”.  Sempre oggi, per la prima volta il nome di Alfredo Robledo, dal cui racconto è nato il libro, emerge dal dibattito aperto da giorni, ma senza mai citarlo.  A farlo è la candidata al Csm Alessandra Dal Moro (moglie di Gherardo Colombo) che definisce l’inchiesta di Iacona “la presentazione di una vicenda in totale condivisione con uno dei protagonisti” la cui “unilateralità del taglio, immediatamente evidente, è estranea al mio modo di ragionare”. “Non mi convince neppure – aggiunge Dal Moro, di Area come Edmondo Bruti Liberati – la rappresentazione di una Procura della Repubblica che col lavoro quotidiano di tutti i suoi sostituti ha fatto tanto per questo Paese”. Tra le risposte, quella di Felice Lima: “I Democraticoni fanno fuoco e fiamme contro Mirenda, solo perché Mirenda è piccolo e solo e sarebbe giudicato dalla giustizia disciplinare gestita come dicono Iacona e Robledo”. Anche al Palazzo di Giustizia di Milano il malumore di molti è alto per le accuse contenute nel libro, tanto che si vocifera di iniziative a tutela dell’”orgoglio di appartenenza” a questo Tribunale che tra i suoi ‘eroi’ vide proprio  Davigo e Colombo. Alcuni magistrati si chiedono tra loro se sia opportuno o meno andare alla presentazione ufficiale del volume, prevista per il 2 maggio alla Feltrinelli di Milano. Lontano il tempo quando Riccardo Iacona veniva chiamato a moderare i convegni di Anm, ora può essere pericoloso andarlo a sentire. (manuela d’alessandro)

  • Il libro di Iacona, l’ingiustizia nei Tribunali in ‘presa diretta’

    “Ricordati che al plenum sei stato nominato aggiunto per un solo voto di scarto, un voto di Magistratura Democratica. Avrei potuto dire a uno dei miei colleghi al Csm che Robledo mi rompeva i coglioni e di andare a fare la pipì al momento del voto, così sarebbe stata nominata la Gatto che poi avremmo sbattuto alle esecuzioni” disse il procuratore Edmondo Bruti Liberati al suo aggiunto Alfredo Robledo che replicò: “Cosa c’entra la corrente di Md con la funzione giurisdizionale, io sono un magistrato, ho giurato sulla Costituzione. Mi meraviglio che proprio tu dica certe cose”. “Sappiano tutti che il mondo va così” la controreplica…”Il tuo va così, non certo il mio” chiuse Robledo.

    “Palazzo d’ingiustizia”, 208 pagine a firma di Riccardo Iacona, giornalista e conduttore tv, dimostra che quando c’è la possibilità di sapere le cose emerge che la magistratura si delegittima da sola con i suoi comportamenti.

    E davanti al Csm Bruti poi spiegherà: “Io ho fatto una battuta di spirito… Robledo sembrava lamentare di non essere da me abbastanza amato e dissi che era tanto amato che Md lo aveva entusiasticamente votato. Le frasi in questione è meglio per la dignità di tutti che rimangano dove sono”. Insomma il procuratore, in evidente imbarazzo, invocava gli omissis.

    “Io penso che questa storia non sia mai stata raccontata per quello che ha realmente significato. Perché non è solo la storia di Alfredo Robledo (declassato nei giorni scorsi da aggiunto a pm a Torino, ndr), è la storia della giustizia italiana e di come non viene esercitata” spiega  Iacona. “Altro che scontro tra due personalità esuberanti! Lo scontro è stato ed è molto più importante dei due contendenti e ci riguarda molto da vicino. In ballo c’è l’autonomia del magistrato quando amministra la giustizia, e non è cosa da poco”.

    Insomma se Robledo non avesse presentato l’esposto al Csm contro il suo capo non avremmo saputo molte cose. Il libro è basato su più incontri tra l’autore e Robledo a partire dai primi di agosto del 2017, da cui sono scaturite decine di ore di registrazione. Ma anche su documenti e  resoconti strenografici resi dai protagonisti nel corso delle audizioni davanti al Csm. “Ho chiesto un’intervista ai colleghi magistrati citati da Robledo nei due esposti – scrive Iacona – entrambi non hanno risposto alle mie email”.  Ha parlato, e tanto, Bruti anche se non ho voluto domande dirette sui contenuti dell’esposto di Robledo. Gliene va dato atto, così come di non avere mai querelato chi l’ha criticato per le sue scelte quando era procuratore.

    “L’Expo non doveva esserci, ma si è fatta grazie a Cantone e Sala, grazie a un lavoro istituzionale d’eccezione, al prefetto e alla procura di Milano che ringrazio per aver gestito la vicenda con sensibilità istituzionale” sono parole dette da Matteo Renzi allora capo del governo il 5 agosto 2015 e che saranno poi ripetute a novembre.

    Il 24 parile 2015 una settimana prima dell’inaugurazione di Expo questo blog, come si ricorda nel libro, pubblicava un articolo dal titolo: “La moratoria sulle indagini della procura di Milano per Expo”.

    A Iacona Bruti dice: “Senza quella impostazione del nostro lavoro tale risultato avrebbe rischiato di non realizzarsi. Se si vuole chiamare questo ‘sensibilità istituzionale’ io sono d’accordo. Abbiamo protetto qualcuno? Aspetto che i giornalisti di inchiesta mi dicano chi avremmo protetto, non con chiacchiere ma con elementi precisi utilizzabili processualmente”. E i ringraziamenti di Renzi? “Io non entro nella testa degli altri. Che cosa volesse dire, dovete chiederlo a Renzi”.

    Iacona ricorda pure “l’intervento a gamba tesa” di Giorgio Napolitano Capo dello Stato secondo il quale”non si possono superare gli elementi di di disordine e tensione che si sono creati a Milano senza un pacato riconoscimento delle funzioni ordinatrici e cooordinatrici che spettano al capo dell’ufficio”. Cioè, in parole povere, il capo della procura è il padrone  e nessuno rompa le scatole.

    Il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale è stato mandato a farsi benedire perché la magistratura ha scelto di essere parte del sistema paese e di salvaguardare Expo a tutti costi.

    Del resto Beppe Sala da amministratore di Expo assegna la ristorazione di due padiglioni a Oscar Farinetti senza gara pubblica. Indagato per abuso d’ufficio viene prosciolto senza nemmeno essere interrogato. Nella motivazione della procura si legge: “Sala favorì di fatto Farinetti ma senza averne l’intenzione, manca il dolo”. Amministratori pubblici, sindaci in testa, vengono processati e anche condannati per molto meno. A prosciogliere Sala provvide uno dei giudici che per i fondi di Expo giustizia contribuì alla scelta di non fare gare pubbliche affidandosi ad aziende “in rapporti di consuetudine con la pubblica amministrazione”.

    Nel libro di Iacona si parla anche del famoso fascicolo “dimenticato” per sei mesi in un cassetto e riemerso a bocce tirate quando la gara d’asta per la Sea si era già svolta e in pratica non si potevano più svolgere indagini. Le carte arrivarono sul tavolo di Robledo troppo tardi per responsabilità esclusiva del suo capo. L’inchiesta fatta a tempo debito avrebbe messo in imbarazzo la neonata giunta di centrosinistra di Pisapia. Anche in questo caso “senso di responsabilità istituzionale”, ma stavolta senza ringraziamenti pubblici. Pensiamo a un pm che dimentica nel cassetto per sei mesi un fascicolo su Berlusconi. Buttano via la chiave della cella.

    A poche ora dall’uscita del libro, il giudice Andrea Mirenda – che ha denunciato nel libro “il tumore” delle correnti  nella magistratura a Danilo Procaccianti, collaboratore di Iacona – è stato colpito da una richiesta di sanzione disciplinare inviata dall’ex membro laico del Csm e parlamentare Pierantonio Zanettin al Ministro Andrea Orlando. (frank Cimini e manuela d’alessandro)

  • “Sono bugiarde”, nei guai per Maroni l’avvocato Rossello e la portavoce Votino

     

    “Mi sento in imbarazzo qui, non è il mio ambiente”, aveva ammesso con un candore raro per un avvocato di lungo corso, già legale di Silvio Berlusconi nella sua causa di separazione e coinvolta nella vicenda del ‘papello’ dei Ligresti. Era il 23 febbraio 2017 e la neo deputata di Forza Italia, Cristina Rossello, si era appena liberata  di un’impegnativa testimonianza nel processo a carico di Roberto Maroni accusato, tra l’altro, di avere esercitato pressioni indebite per portare in missione a Tokyo,  a spese di Expo, la sua collaboratrice e amante Maria Grazia Paturzo. Infastidita, Rossello si era avvicinata ai cronisti in aula chiedendo  di non fare riferimenti nei loro articoli ad alcuni passaggi della sua deposizione. Ora il pm Eugenio Fusco, in coda alla requisitoria conclusa con la richiesta di condanna a 2 anni e sei mesi di carcere per l’ex Governatore, ha chiesto al Tribunale di trasmettere gli atti della sua testimonianza e di quelle della Paturzo e della storica portavoce di Maroni, Isabella Votino, alla Procura. “Dichiarazioni assolutamente mendaci”, per il pm,  rese in aula dalle due ex amiche, proprio in relazione alla liason tra Paturzo e Maroni.  Il pm aveva interrogato Rossello sul contenuto di alcuni sms che si era scambiata con la portavoce, prima della trasferta giapponese, poi annullata secondo l’accusa “per la gelosia della Votino” nei confronti della Paturzo.

    “Isabella aveva una gelosia professionale nei confronti di un’altra donna vicina a Roberto Maroni – così l’avvocato aveva ricostruito l”Eva contro Eva’ al Pirellone – La sua era una preoccupazione lavorativa, e di diminuzione del proprio ruolo professionale. C’era un’altra persona di fiducia molto presente nella vita del Presidente. Isabella è molto brava nel suo lavoro di pubbliche relazioni. Ma lì non stava più bene, forse aveva fatto il suo tempo. Così le suggerii di trovare un lavoro nel privato”. Dopo che saltò la missione in Giappone, Rossello aveva troncato il suo rapporto con Votino perché “ero stanca dei pettegolezzi”. Quali pettegolezzi?, la domanda del pm e dei giudici. “Spesso nelle attività professionali ci possono essere gelosie tra donne e io ho temuto fosse un sentimento di gelosia professionale, non di altro”.

    Una versione simile a quella consegnata al Tribunale dalla Votino la quale aveva motivato così il suo disappunto per la possibile presenza della Paturzo a Tokyo: “Non mi ero trovata bene con lei in una precedente esperienza di lavoro, a volte succede. Non ero contenta di lavorare con lei e questo mi creava disagio. Quando al telefono dissi che che avrei liberato il mio posto se ci fosse stata lei, sarà stata una battuta, il tono non si evince dal testo. In quei  giorni non mi sentivo bene, ero stressata anche per motivi familiari”.

    “Sono una persona affettuosa, scrivo messaggi in cui esprimo il mio affetto anche a parenti e amici”,  la versione di Paturzo per  gli scambi intercettati al telefono con Maroni. Messaggi che, ha svelato il pm nella requisitoria, sono stati ridotti all’essenziale nelle trascrizioni, evitando quelli “morbosi e sgradevoli” rivelatori della storia che avrebbe fatto infuriare la Votino.

    (manuela d’alessandro)

  • “Aiuto, ci tagliano lo stipendio”, le paure delle toghe sul governo M5S

    “Un conto è il taglio degli stipendi pubblici (tutti, però) nell’ottica di un risparmio generalizzato. Tutt’altra cosa è che una forza politica che si presenta come nuova ma che di nuovo, rispetto ai tradizionali populismi del passato, ha solo le forme del suo postmoderno linguaggio propagandistico, individui la magistratura, nell’ambito della pubblica amministrazione, quale unico settore a cui tagliare, peraltro maldestramente, gli stipendi”.

    Considerazioni acuminate di uno dei magistrati che partecipa al dibattito più caldo del momento nella mailing list di Anm, quello sul possibile Governo a 5 stelle e sull’attuazione del programma per la giustizia stilato dal Movimento   “Non raccontiamoci storie – prosegue – in questo caso non c’entra nulla l’Unione Europea, che ormai è diventata solo l’alibi dei fallimenti nazionali e che l’internazionale sovranista e populista, a trazione russa, prende a pretesto per agguantare facilmente il potere e ridisegnare i futuri assetti geo – politici. Si tratta solo di un espediente demagogico che ha facile presa nel ‘popolino’ ignorante e/o superficiale e in certe élite rancorose e disoneste”.

    Il tema è, anzitutto, come interpretare il punto del programma sulla retribuzione dei magistrati: “il riconoscimento dell’indennità aggiuntiva avvenga solo per coloro che ricoprono davvero il ruolo corrispondente (ad esempio, l’indennità magistrato di Cassazione valga solo per coloro che lavorano in Cassazione”.  Che vuol dire? Stipendio e indennità sono sinonimi? Ecco qualche ipotesi provenienti da vari partecipanti alla discussione (sono magistrati che lavorano in diverse sedi). Dice uno: “La parola stipendio è molto più chiara…però hanno usato la parola indennità…non sopravvalutiamoli…purtroppo semplicemente non sanno”. E un altro: “E’ ovvio che intendono stipendio, ma dovendolo spiegare al diciottenne e al disoccupato poco scolarizzato, hanno utilizzato il loro tipico linguaggio social – media popolare, con categorie retributive comprensibili, come indennità”. E un terzo, più tecnico: “Il timore è che la cosa potrebbe essere intesa nel senso che lo stipendio previsto un anno dopo la terza sia dato solo a chi svolge funzioni di appello, quello della quinta solo a chi sta in Cassazione e via così. (il riferimento è alle valutazioni periodiche che danno luogo all’aumento di grado e stipendio, ndr). Ovviamente è tutta una follia, ma viste le premesse…”.

    Un altro, netto: “La buona notizia è che non esiste già alcuna indennità aggiuntiva…la cattiva è che evidentemente non sanno nulla di ciò di cui parlano”.  Un’altra gli risponde: “Nel programma ci sono anche proposte di tagli dei nostri stipendi, non più progressione per anzianità, ma per le funzioni effettivamente svolte”.  Non tutti hanno paura di un eventuale esecutivo guidato da Luigi Di Maio. E anzi ci vanno giù pesante coi colleghi: “Certi privilegi vanno meritati, oppure sono sentiti come ingiusti. Per il nuovo che avanza siamo solo parte della razza padrona. Ed effettivamente, ormai tutti avvoltolati nelle nostre questioni impiegatizie, di carriera, di rancori che non si riesce a sopire, di miserabili ambizioni, come certe volte appariamo, anche nei dibattiti in questa lista, incapaci di andare oltre la nostra pancia, possiamo facilmente essere scambiati come tali”. E un altro, riferendosi al sorteggio per la composizione del Csm pure ipotizzato nel programma, scrive: “C’è una parolina che terrorizza centinaia e centinaia di magistrati…Sarà questo che comincia a preoccupare alcuni nostri rappresentanti associativi e correntizi?”. (manuela d’alessandro)

  • Promossi e bocciati nella nuova mappa della Procura di Milano

    Gli scontenti ci sono, alcuni a mezzi bocca, altri in modo esplicito. Ma anche quelli felici che hanno avuto proprio il posto che volevano.  In ogni caso, questa è la nuova squadra della Procura di Milano disegnata dal procuratore Francesco Greco, chiamata a rivitalizzare il panorama fiacco delle indagini negli ultimi tempi. A dirlo sono i gip del settimo piano (“Non c’è mai stato un un periodo di calma piatta tanto lungo”) e gli avvocati (“Lavoriamo più in provincia che qui”, spiega un legale di lungo corso).

    Corruzione

    A guidare il pool sarà Ilda Boccassini, che prende il posto della collega Giulia Perrotti, costretta ad allontanarsi dal lavoro per motivi personali. Viene descritta come “entusiasta” per il suo nuovo incarico dopo lo scoramento della fase in cui era tornata pm ‘semplice’, a due anni dalla pensione.  Al suo fianco, tra gli altri,  i pm dei casi Telecom e Mps, Stefano Civardi e Giordano Baggio; Piero Basilone, con una lunga esperienza in reati di terrorismo; Maurizio Ascione, autore di numerose indagini sui morti per amianto e Paolo Filippini e Giovanni Polizzi, impegnati da anni in questo settore; Luca Poniz, esperto di reati contro la pubblica amministrazione.  Tra i ‘bocciati’ Luca Gaglio, pm del caso Ruby (perché troppo giovane di servizio) e Gianluca Prisco (“non ha attitudini specifiche per le materie trattate”).

    Antimafia  

    Nel dipartimento guidato da Alessandra Dolci, le novità sono il pm rugbista (in serie B) Stefano Ammendola e la collega Silvia Bonardi, che per molti anni si è occupata di criminalità organizzata a Brescia e a Milano è impegnata anche nel caso Mediaset – Vivendi. ‘Bocciata’ la domanda del pm Paola Pirotta, che si è occupata di diverse indagini di terrorismo internazionale.

    Finanza internazionale 

    Nel nuovo pool, il capo Fabio De Pasquale sarà affiancato da tre magistrati giovani ma già di grande esperienza: Paolo Storari, Isidoro Palma e Gaetano Ruta.

    Salute e lavoro

    Nella squadra di Tiziana Siciliano vengono schierati la pm Sara Arduini, che ha avuto al suo fianco nel processo a Marco Cappato, e Mauro Clerici che lascia il pool reati economici.

    Stupri e stalking

    E’ il dipartimento che si occupa delle cosiddette ‘fasce deboli’ e ora lo guida Letizia Mannella che coordinerà il lavoro di 12 pm, anche di Michela Bordieri, che ha una lunga esperienza al Tribunale dei Minorenni.

    Truffe informatiche 

    Anche questo un dipartimento nuovo che viene incontro al proliferare di reati online. A guidarlo Eugenio Fusco, la cui esperienza in altri settori, come l’anticorruzione, avrebbe potuto forse essere sfruttata meglio. Nella lotta alla criminalità informatica avrà vicino due tra i massimi esperti in materia, Francesco Cajani e Alessandro Gobbis.

    Crimini gravi     

    Nel pool guidato da Laura Pedio entra anche il pm Leonardo Lesti, che si sta occupando del disastro ferroviario di Pioltello e farà parte pure dell’antiterrorismo. Per quest’ultimo aveva fatto domanda anche il pm Marcello Musso, ma la sua istanza è stata respinta.

    Bancarotte 

    Sotto il procuratore Riccardo Targetti lavoreranno sei pm, tra i quali un’esperta del settore, Donata Costa, e Roberto Fontana, ex giudice fallimentare a Milano, poi a Piacenza e ora di ritorno.

    (manuela d’alessandro)

     

  • Lavoro gratis senza certezze per gli aspiranti giudici di pace

    Almeno sei mesi di lavoro gratis e senza la certezza di diventare magistrati onorari. Una prospettiva deprimente per gli oltre 100mila, finora, che hanno risposto all’appello del Csm rivolto agli aspiranti giudici di pace e viceprocuratori onorari in diversi distretti giudiziari, tra cui Milano.  In tanti protestano nelle chat dei candidati anche perché della gratuità non si parla nel bando ma viene ‘nascosta’ in un articolo del decreto legislativo che fissa i principi sul conferimento degli incarichi (“Ai magistrati onorari in tirocinio non spetta nessuna indennità”).

    Le regole del gioco prevedono che verrà stilata una graduatoria per titoli (tra i plus, per la prima volta, la giovane età) e saranno individuati 600 nominativi da avviare al tirocinio, al termine del quale ne saranno scelti solo 400 (300 giudici di pace e 100 vice procuratori). Agli altri 200 un bel ‘grazie e saluti’ per essersi messi sulla spalle il gigantesco peso della giustizia minuta. Ma non è finita. Una volta nominate, le toghe onorarie potranno lavorare al massimo due giorni alla settimana – meno che in passato per contenere i costi -,  mentre  per il tirocinio saranno impegnate verosimilmente dal lunedì al venerdì in quello che un candidato definisce “un aiuto gratuito ai giudici del Tribunale”, da aggiungersi alle 30 ore di corso previste dal bando. Gli avvocati interessati, la cui professione garantisce punti in graduatoria, fanno notare che un tirocinio così impegnativo non gli consentirebbe di svolgere il loro lavoro in quei sei mesi, e questo, va di nuovo sottolineato, senza nessuna garanzia di entrare nei magnifici 400 pagati poi poche centinaia di euro.

    (manuela d’alessandro)

  • Padri e figli, i due pesi e due misure del Csm

     

    I due pesi e due misure del Csm. Il capo della procura di Salerno Corrado Lembo rischia il trasferimento per incompatibilità ambientale a causa della candidatura di suo figlio a sindaco di Campagna un paese della provincia. Un pratica in tal senso è stata aperta su impulso del Movimento Cinque Stelle. Nessun “fascicolo” invece l’organo di autogoverno dei giudici ha aperto in relazione a Tommaso Bonanno capo della procura di Brescia dopo che un figlio è stato arrestato a Bergamo con l’accusa di rapina e un altro figlio è indagato in una vicenda di spaccio di droga tra i tifosi dell’Atalanta.

    Nei giorni scorsi in una nota la sezione dell’Anm di Brescia aveva espresso “disagio” per la situazione creatasi pur esprimendo solidarietà al procuratore dal punto di vista umano. In un dibattito tra i pm di Brescia era stato ipotizzata una situazione di “incompatibilità oggettiva”.

    Il quadro appare ancora più inquietante se si pensa che già nel  giugno del 2016 il consigliere togato del Csm Nicola Clivio aveva sollecitato l’apertura di una pratica in relazione alla situazione ambientale della procura di Brescia dove nove sostituti in poco tempo avevano chiesto e ottenuto di lasciare l’ufficio mentre era andato deserto il bando per occupare tre posti. Clivio chiedeva che della vicenda si occupassero la prima commissione per la questione ambientale e la terza commissione per la copertura dei posti.

    Va ricordato che Bonanno era stato nominato a capo della procura di Brescia dopo essere stato indagato e prosciolto dallo stesso ufficio in qualità di procuratore di Lecco sulla base di una denuncia presentata per sequestro di persona da parte del figlio finito in una comunità di recupero per tossicodipendenti e recentemente arrestato a Bergamo per rapina.

    Clivio chiedeva di far luce sulla “fuga” dei pm da Brescia e su eventuali “criticità strutturali e ambientali”. La richiesta del consigliere restava inascoltata e il Csm non si è mosso nemmeno dopo gli ultimi sviluppi di cronaca: diverso è stato il comportamento dell’organo di autogoverno in riferimento alla procura di Salerno dove evidentemente ha pesato il richiamo della campagna elettorale in corso. (frank cimini)

  • Guido Galli diventa Alessandro, la gaffe della Scuola Superiore della Magistratura

    Viene quasi da ridere a pensare al tema del convegno: “L’identità personale”. Perché, nel promuovere un incontro su questo argomento, la Scuola Superiore della Magistratura incorre in una clamorosa gaffe storpiando l’identità del giudice Guido Galli, assassinato il 19 marzo del 1980 a Milano da un nucleo armato di Prima Linea all’interno dell’Università Statale.

    Forse per una crasi, l’aula Magna del Palazzo di Giustizia di Milano dove si svolgerà il meeting viene intitolata a Emilio Alessandrini e Alessandro Galli. Tra i temi presi in esame dai relatori ci sarà proprio il “diritto al nome, avuto riguardo della giurisprudenza nazionale e internazionale”.

    (manuela d’alessandro)

     

  • ‘Palazzo d’Ingiustizia’, Iacona racconta la guerra in Procura

    Il titolo è ‘Palazzo d’Ingiustizia’ e quel Palazzo d’Ingiustizia è proprio quello di Milano dove ancora si raccolgono – in un’atmosfera di levigata, nuova quiete – le pallottole lasciate a terra dal conflitto più sanguinario che la giustizia ricordi, in una Procura da sempre ieratica garanzia di compattezza.

    Edmondo Bruti Liberati e Alfredo Robledo. Le loro pistole sono ormai scariche. Il primo è in pensione, il secondo cacciato a Torino dal Csm dove esercita le funzioni di procuratore aggiunto. Ma il clamore della loro sfida, i temi che ha sollevato, dalla moratoria di Expo ai rapporti tra politica e magistratura, rivivranno presto in un libro al fulmicotone edito da Marsilio e firmato dal conduttore di ‘Presa diretta’ e maestro delle inchieste tv Riccardo Iacona.

    Si dirà: una visione di parte di quello che è successo e senz’altro lo è dal momento che in ballo c’è uno dei contendenti. L’autore assicura di avere tentato una ricostruzione per tabulas della vicenda. Tanti i documenti proposti, in una prospettiva che cerca di andare al di là della contesa personale. Carte che raccontano i passaggi più cruenti del conflitto spesso con un linguaggio ai limiti dell’incredibile (come dimenticare Bruti su Robledo: “Avrei potuto dire a uno dei miei colleghi che mi rompeva i coglioni e andare a fare la pipì, così sarebbe stata nominata come aggiunta la Gatto”).

    Iacona è andato a sentire anche Bruti, a cui come sempre va dato atto di non sottrarsi alle domande, e ha scritto perfino a Giorgio Napolitano che da allora presidente della Repubblica decise da che parte stare, ed era quella del capo a cui aveva affidato la gestione delle inchieste legate a Expo in modo da non disturbarne le magnifiche sorti. Moratoria ci fu, è una delle conclusioni a cui giunge il libro, con la benedizione di Matteo Renzi che ringraziò Bruti per la “sensibilità istituzionale”. Il giornalista ci arriva interrogando, a volte virgolettandoli e altre no, anche diversi protagonisti della giustizia milanese. Ne escono a brandelli il Csm e il mito di un potere giudiziario indipendente dalla politica. E intaccata per sempre la Procura di Milano che ancora oggi, nel rinnovato clima di pace, sta scontando la pena di quei giorni di guerra. (manuela d’alessandro)

  • La gaffe del sottosegretario Migliore sul giorno della Memoria

    Che l’inaugurazione dell’anno giudiziario sia una cerimonia fuori dal tempo è noto. Fuori dal tempo c’era però anche il rappresentante del Governo, il sottosegretario  del Pd Gennaro Migliore, che più volte ha fatto riferimento al giorno della Memoria collocandolo a “domani“, quando è piuttosto noto a tutto il mondo che sia oggi.

    Nel suo intervento gonfio d’orgoglio per le misure adottate dall’esecutivo in materia di giustizia, l’ex di Rifondazione Comunista giustamente, come altri oratori di giornata, inserisce anche diversi cenni all’importante ricorrenza in cui si ricordano le vittime dell’Olocausto, del Nazismo e del Fascismo. Il 27 gennaio 1945 le truppe dell’Armata Rossa arrivarono ad Auschwitz scoprendo l’enorme campo di concentramento. Peccato che Migliore sempre faccia riferimento a “domani”, nonostante un brusio della sala accompagni il suo lapsus temporale. Forse perché chi gli ha scritto ieri il discorso (quasi identico a quello di Orlando) ha fatto un po’ di confusione ma, caro sottosegretario, bastava aprire un giornale o un sito stamattina per evitarsi la gaffe. (manuela d’alessandro)

  • La protesta dei lavoratori della giustizia: lo Stato ci ‘deve’ 40 milioni

    I lavoratori della giustizia chiedono alla Corte dei Conti di accertare che fine abbiano fatto i 64 milioni di euro risparmiati attraverso l’introduzione del processo civile telematico (PCT). Circa 40 di questi milioni, sostengono nell’esposto presentato nei giorni scorsi all’organo contabile del Lazio, dovrebbero essere redistribuiti a chi è impiegato nei tribunali, come prevede la legge.

    “Abbiamo chiesto alla Dgisia (Direzione centrale degli appalti informatici del Ministero della Giustizia) come sia stata impiegata questa somma – spiegano i rappresentanti della FLP, il sindacato che ha firmato l’esposto – ma né il suo direttore Pasquale Liccardo, né il Ministro della Giustizia Andrea Orlando hanno risposto”. Secondo i calcoli di chi protesta, spetterebbero circa 1000 euro annui a ciascun lavoratore. E, visto che nessuno ha mosso ciglio di fronte alla rimostranze, il sindacato ha deciso di rivolgersi alla Procura Generale della Corte dei Conti chiedendole di “accertare i fatti esposti; l’avvenuta violazione delle disposizioni normative e le ragioni del loro mancato rispetto; le ragioni della mancata destinazione delle somme dovute al personale dipendente; la destinazione che hanno avuto le somme risparmiate: la sussistenza di illeciti contabili”.

    La legge invocata da chi ha promosso il ricorso alla Corte dei Conti prevede che “una quota fino al 30% dei risparmi sui costi di funzionamento derivanti da processi di ristrutturazione, riorganizzazione e innovazione all’interno delle pubbliche amministrazioni è destinata, in misura fino ai due terzi, a premiare il personale coinvolto”. Una norma che appare molto chiara ma molto di quello che accade attorno al PCT diventa oscuro, a cominciare dall’utilizzo dei milioni di fondi Expo destinati a digitalizzare la giustizia milanese sui quali dovrebbe indagare, oltre alle Procure di 3 città, anche la Corte dei Conti lombarda.  (manuela d’alessandro)

  • Le ragioni giudiziarie di Maroni per puntare a Palazzo Chigi

     

    E se Roberto Maroni avesse rinunciato alla Lombardia pensando a Palazzo Chigi proprio a causa del suo processo (le famose “ragioni personali”)?.

    Alcuni indizi cominciano a mettersi in fila. Nell”intervista di oggi  al ‘Foglio’ il Governatore spende  parole accorate per Giuseppe Orsi e Mattia Palazzi, l’ex ad di Finmeccanica e il sindaco di Mantova usciti indenni con tante scuse dalle rispettive  vicende giudiziarie  dopo “avere subito un’inacccettabile aggressione mediatica”. Il tarlo giudiziario sembra avere lavorato dentro di lui in questi ultimi anni, considerando anche che l’inchiesta ha svelato aspetti molto privati della sua vita, come la relazione con una delle collaboratrici che avrebbe favorito.  Non a caso ha citato Palazzi, pure lui al centro di un presunto ‘sex gate’.  

    Sempre oggi, il Tribunale ha cancellato due udienze previste a febbraio (uffcialmente per l’incombere di altri processi con detenuti, ma non si esclude una pax elettorale tra magistrati e difesa) fissando la requisitoria al  22 marzo e le discussioni delle difese al 12 e al 19 aprile, tutto dopo il voto. Questo significa che la sentenza del processo iniziato – tenetevi forte –  il primo dicembre 2015 e proseguito con una lentezza sfinente arriverà a nomina del premier abbondantemente avvenuta. A quel punto, dando retta agli scenari mediatici non confermati dai protagonisti, il leghista potrebbe essere il nuovo capo del Governo.

    Maroni avrebbe accettato il rischio di rinunciare alla certezza di un secondo mandato lombardo ponderando proprio le conseguenze di un eventuale epilogo a lui sfavorevole del processo, peraltro improbabile data l’assoluzione per gli stessi fatti dell’ex dg di Expo Malangone in appello, ma la paura può tutto. L’accusa per lui è di avere esecitato pressioni illecite  finalizzate a  far ottenere un lavoro e un viaggio a Tokyo a due sue ex collaboratrici, una delle quali presunta amante.

    E qui entra in gioco la legge Severino che prevede la decadenza di un amministratore pubblico condannato anche solo in primo grado, in questo caso per il reato di induzione indebita. Se fosse stato rieletto Governatore avrebbe dovuto alzarsi subito dalla poltrona. La decadenza riguarda però solo gli amministratori locali, non i parlamentari e il premier che sono costretti a lasciare le cariche solo al termine dei tre gradi di giudizio. Un Maroni a Palazzo Chigi rimanderebbe di un paio d’anni il suo eventuale problema con la giustizia. (manuela d’alessandro)

  • Spese pazze, la sentenza per i consiglieri lombardi arriva dopo il voto

    Col rinvio dell’udienza di oggi al 28 febbraio, viene meno la possibilità che si arrivi alla sentenza di primo grado del processo a carico di 56 consiglieri ed ex regionali lombardi accusati di avere sperperato oltre 3 milioni di euro con i fondi messi a disposizione dallo Stato per l’attività politica e istituzionale.

    Non possiamo dire se sia una buona o cattiva notizia per per Luca Gaffuri, ex capogruppo e attuale consigliere del Pd, Elisabetta Fatuzzo (Pensionati), i leghisti Angelo Ciocca e Massimiliano Romeo (quest’ultimo capogruppo), e Alessandro Colucci di Nuovo centrodestra, i 5 imputati ancora in carica che potrebbero ripresentarsi alle urne il 4 marzo. E nemmeno per altri che, saltato un giro, potrebbero candidarsi di nuovo. Forse alcuni, certi di un riconoscimento della loro innocenza,  avrebbero voluto essere giudicati prima di riproporsi al di sopra di ogni sospetto, altri invece temevano l’eventuale condanna da parte dei giudici.

    Il processo è di quelli sul crinale, dove tutto potrebbe accadere, anche, nelle migliori delle ipotesi per le difese, un’assoluzione di massa oppure una sentenza di condanna ma con riqualificazione del reato da ‘peculato’ a ‘indebita percezione di erogazioni’ pubbliche che aprirebbe le porte della prescrizione, come accaduto  di recente  a 3 ex consiglieri condannati col rito abbreviato in primo grado. In questo caso, i giudici d’appello sembrerebbero avere accolto la tesi che i soldi non erano direttamente a disposizione dei consiglieri ma venivano erogati dai capigruppo.

    Certo è che il processo era iniziato un’era fa, il primo luglio del 2015 e non ha avuto certo ritmi serrati, con udienze spesso a distanza di un mese dall’altra. Le richieste di condanna fino a sei anni di carcere del pm Paolo Filippin risalgono all’8 marzo scorso, sono ancora in corso le arringhe delle difese.

    E anche i fatti contestati dalla Procura appartengono al Neolitico della politica lombarda: soldi pubblici usati tra usati tra il 2008 e il 2012 per necessità personali come regali di Natale, corone di fiori e necrologi sui quotidiani, rami di orchidee, un banchetto di nozze per la figlia, vacanze sulle neve. E ancora, pranzi e cene, anche in ristoranti a cinque stelle talvolta a base di aragosta o sushi, caricabatterie e custodie protettive per telefoni touch, I-Phone, computer, fino alle cartucce da caccia, ai gratta e vinci ai feltrini antiscivolo per le seggiole e ai wafer. (manuela d’alessandro)

     

     

  • La corte europea ammette il ricorso di Robledo contro il Csm

    Alfredo Robledo contro Italia. Si chiama così la causa che pende davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo a cui l’ex procuratore aggiunto di Milano si è rivolto lamentando l’”iniquità” del procedimento disciplinare con cui il Csm lo trasferì a Torino nel pieno della battaglia con l’allora suo capo Edmondo Bruti Liberati.

    “Il ricorso è stato dichiarato ammissibile dalla Corte, evento non molto frequente perché succede solo nel quattro per cento delle istanze presentate”, spiega il legale di Robledo, l’avvocato Federico Cerqua, figlio dello scomparso giudice Luigi per tanti anni presidente della Corte d’Assise milanese. Ora la Corte Europea dovrà pronunciarsi nel giro di sei mesi – un anno nel merito del ricorso che ipotizza la violazione dell’articolo 6 della Convenzione dei Diritti dell’Uomo sul diritto a essere giudicati da un tribunale “soggettivamente e oggettivamente imparziale”. 

    La decisione di cacciare Robledo da Milano maturò in due momenti diversi. Prima, il 5 febbraio 2015,  con l’accoglimento da parte della Sezione Disciplinare del Csm in funzione cautelare della richiesta di trasferirlo in modo provvisorio a Torino firmata dal Procuratore Generale della Cassazione. Poi, il 21 aprile 2016 quando ancora la Sezione Disciplinare del Csm con l’identica composizione (relatore Luca Palamara)  dichiarò Robledo colpevole di due illeciti disciplinari per le vicende Aiello e Albertini e lo trasferì nel capoluogo piemontese.

    Nel dicembre 2016 l’ex capo del pool anti- corruzione milanese si vide respingere dalla Cassazione il ricorso in cui faceva presente che il giudice cautelare non poteva essere anche quello di merito. Per gli ‘ermellini’ non c’erano dubbi invece sull’imparzialità del collegio che troncò l’avventura milanese di Robledo. Secondo l’avvocato Cerqua, la dimostrazione che i giudici non erano arbitri neutrali starebbe nel fatto che ampi stralci del provvedimento cautelare sono stati poi ripresi in modo letterale nella sentenza di condanna. Tra le altre cose si leggeva che Robledo avrebbe fornito informazioni “privilegiate” all’avvocato Domenico Aiello nell’ambito dell’inchiesta sui consiglieri regionali. (manuela d’alessandro)

  • Il no della ‘decaduta’ Boccassini all’incarico proposto da Greco

    Gestire Ilda Boccassini non più procuratore aggiunto, diciamo a fine carriera, deve essere difficile, per il carisma del personaggio, quanto lo fu avere a che fare con Francesco Totti per l’allora mister romanista Luciano Spalletti. Da ottobre Ilda non è più procuratore aggiunto della Dda ma semplice sostituto per motivi di età. Non può essere messa a capo di un altro pool e nemmeno stare ancora all’antimafia, di cui si può far parte per un massimo di dieci anni.

    Che fare? Il procuratore Francesco Greco – i rapporti tra i due sono sempre stati alterni ma al momento paiono burrascosi – aveva pensato di metterla a capo della Sezione Distrettuale Misure di Prevenzione, uno dei 4 ‘quasi dipartimenti’ da lui creati (gli altri sono Antiterrorismo, Esecuzione Penale e Portale). Ma alla magistrata, protagonista di tante inchieste antimafia e nemico pubblico numero 1 di Silvio Berlusconi, l’offerta non ha garbato per nulla come si evince anche da uno scambio epistolare tra i due che Giustiziami ha potuto leggere.

    Nel primo documento, datato 30 novembre, Greco scrive che “l’incarico di coordinatore della Sezione Misure di Prevenzione risulta assegnato dall’11 gennaio 2010 alla dottoressa Ilda Boccassini e dunque non è vacante” e non va messo a bando come gli altri tre di nuova creazione.

    A stretto giro, Boccassini risponde che a suo avviso va invece fatto un bando “in modo che tutti i sostituti abbiano la possibilità di concorrere manifestando, comunque, la mia volontà di non parteciparvi” e sostiene che la responsabile attuale delle Misure di Prevenzione sia Alessandra Dolci (futura aggiunta della Dda) e non lei.  L’ultima parola al capo: “Si rileva che l’incarico, avendo durata decennale, scade in data 10 gennaio 2020. Pertanto solo in tale data sarà vacante. Allo stato non esistono i presupposti per l’interpello”.

    Al di là di questo scambio formale, vengono segnalati più episodi indicativi di una forte tensione tra i due magistrati. Uno, in particolare, con urla della pm all’indirizzo di Greco.  Cosa farà ora l”ingombrante’ Boccassini nei due anni prima della pensione? Secondo alcuni suoi colleghi, avrebbe voluto che Greco assumesse l’interim alla Dda lasciando lei a fare il capo ‘di fatto’ e posticipando l’incoronazione di Alessandra Dolci a capo dell’Antimafia.

    (manuela d’alessandro)

  • Crisi senza fine della Sorveglianza, la rabbia degli avvocati milanesi

     

    C’è Como, dove i detenuti che ne avrebbero il diritto non vengono scarcerati perché a stendere le relazioni sui loro progressi da allegare alle istanze di misure di prevenzione o liberazione anticipata è rimasto un solo educatore su quattro che erano. Spiega l’avvocato Paolo Camporini della Camera Penale lariana che “le istanze vengono così rigettate per mancanza della documentazione di sintesi”.

    C’é Milano, dove chi potrebbe lasciare il carcere non lo può fare perché, mancando 3 magistrati su 12 alla Sorveglianza e 10 persone su 43 nel personale amministrativo, i tempi di attesa per decidere sulle richieste sono biblici (“ritardi anche di 2 anni nella fissazione delle udienze e c’è un arretrato che continua a crescere, al momento di 26mila fascicoli”, da’ i numeri l’avvocato Eugenio Losco, consigliere con la delega al carcere della Camera Penale).

    C’è mezza Lombardia (anche Lecco, Monza, Pavia, Busto Arsizio, Sondrio e Varese) dove per il presidente della  Camera Penale milanese Monica Gambirasio “la popolazione carceraria non vede risposta alle proprie legittime istanze e, al contempo, assiste a un drammatico peggioramento delle  proprie condizioni di vita”. A San Vittore, per dire, ci sono 6863 persone a fronte di una capienza regolamentare di 5167.

    Oggi gli avvocati si mobilitano – termine tecnico, sarebbe meglio dire si arrabbiano –  per denunciare la “grave crisi” dei Tribunali di Sorveglianza e delle carceri in quello che viene spesso indicato come un distretto giudiziario se non modello, comunque meglio della media in un Paese fustigato più volte dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per come umilia i detenuti. E si appellano per l’ennesima volta negli ultimi mesi  al Ministro Andrea Orlando e al Csm per rimediare. Il presidente dell’Ordine degli Avvocati Remo Danovi annuncia di avere istituito dieci borse di studio per altrettanti praticanti che avranno il compito  di “prestare aiuto alla Sorveglianza per sei mesi mi auguro prorogabili a un anno anche se resta il grave problema del sovraffollamento e di una disumanità dello Stato che non ha paragoni”.

    A ottobre, il Presidente della Sorveglianza Giovanna Di Rosa era arrivata a chiedere ai legali milanesi di occuparsi delle spese di assicurazione e viaggio per i ‘volontari’ della giustizia che nel Tribunali suppliscono al deficit di personale nelle cancellerie. Una giustizia che per salvarsi deve affidarsi al volontariato o alle borse di studio fa paura. (manuela d’alessandro)

     

     

  • In palla la consolle del magistrato, la crisi del Pct creato con Expo

     

    Ancora guai –  e grossi, a sentire i magistrati – per il Processo Civile Telematico, creato coi fondi Expo per la giustizia milanese distribuiti in modo così sospetto che si sono mosse 3 procure e l’Anac di Raffaele Cantone.

    E’ in tilt la consolle del magistrato, il programma che dovrebbe consentire ai giudici e ai loro assistenti di gestire il processo senza carta.

    Ci viene mostrato quello che accade ormai da settimane, dall’ultimo aggiornamento del sistema che per ammissione dello stesso Presidente del Tribunale Roberto Bichi aveva generato “gravi malfunzionamenti”, poi smentiti dal Ministro Andrea Orlando.

    Quando il giudice apre word per scrivere un provvedimento la consolle si impalla. “Ho perso un’ordinanza e ho dovuto riavviare 3 volte durante l’udienza”, ci spiega uno dei magistrati, uno di quelli che ancora prova a usare la consolle, lo strumento principe del processo digitale, vanto della giustizia milanese per avere fatto da apripista nella giustizia 2.0. Altri hanno abbandonato le speranze rinunciando da tempo ad attivare la consolle che in teoria – leggiamo sul sito del Csm – doveva dare al giudice “la possibilità di redigere tramite word provvedimenti, di firmarli digitalmente e di trasmetterli al cancelliere per la loro pubblicazione all’interno del fascicolo informatico”. Il processo digitale, che ha preso forma con affidamenti diretti milionari e senza alcuna gara a partire da una decina di anni fa, è al centro delle inchieste in cui Comune di Milano e magistrati si rimbalzano le responsabilità in attesa che, si auspica, un’autorità giudiziaria riesca a mettere ordine nella vicenda. (manuela d’alessandro)

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  • A Milano nessuno viene più assolto in udienza preliminare

    La sensazione era ormai netta, di fronte ai comportamenti pressoché costanti ed uniformi dei giudici preliminari: a Milano le sentenze di ‘non luogo a procedere’ non esistono più, come se la norma che assegna al giudice preliminare la facoltà di non rinviare a giudizio gli imputati fosse stata tacitamente cancellata dal codice di procedura penale.

    Invece la norma è ancora lì, al suo solito posto, all’articolo 425 del codice di procedura penale. Fa finta di essere viva, ma è morta. E a confermarlo agli avvocati milanesi ha provveduto, con encomiabile franchezza, proprio un giudice preliminare: Sofia Fioretta, invitata a parlare ad un evento formativo della Camera penale.

    E la Fioretta ha spiegato, dati alla mano: davanti alle richieste di rinvio a giudizio presentate dalla Procura, i casi in cui il giudice dice ‘no’ sono praticamente inesistenti. Un centinaio in un anno quelli in base al primo comma, cioè i proscioglimenti inevitabili per motivi formali: come quando la querela della vittima era indispensabile ma non è mai stata presentata o è stata ritirata. Zero quelli a norma del terzo comma, la norma che dava al giudice il potere di sindacare se gli elementi addotti dalla pubblica accusa erano ‘insufficienti, contraddittori o comunque inidonei a sostenere l’accusa in giudizio’. In un anno, non è mai accaduto una sola volta che le tesi del pm venissero bocciate in udienza preliminare.

    Come è possibile che si sia arrivati ad abdicare in questo modo a una funzione prevista dal codice, svuotando di fatto di significato l’udienza preliminare che del codice è un asse portante? I gip danno in qualche modo la colpa alla Cassazione, che negli ultimi anni annullerebbe regolarmente le loro sentenze di non luogo a procedere, accogliendo i ricorsi presentati dalla Procura. Si narra di annullamenti quasi surreali, come quello che riguardò il proscioglimento di un medico di cui sia la perizia della Procura che quella del gip avevano sancito la regolarità del comportamento: la Cassazione ordinò che venisse comunque mandato a processo, perché magari una nuova perizia avrebbe potuto ‘incastrarlo’. Sta di fatto che lo stesso presidente dell’ufficio dei giudici preliminari, Aurelio Barazzetta, ha fatto presente recentemente ai suoi colleghi che – se così stanno le cose – tanto vale rinviare tutti a giudizio, lasciando poi che la rogna venga sbrigata dai giudici del dibattimento. E amen se l’imputato deve affrontare costi e patemi di un processo che magari non meritava.

    Per attutire l’asprezza del ‘new deal’, i giudici si appellano a qualche altro dato: secondo cui, almeno a Milano, è la stessa Procura della Repubblica a fare da filtro, scremando le inchieste in cui l’innocenza dell’imputato è evidente, con oltre diecimila richieste di archiviazione all’anno. Ma resta il fatto che per tutti gli altri arriva la richiesta di rinvio a giudizio accolta a occhi chiusi dal gip, destinata a costare anni di processi che in percentuale non esigua approderanno alla assoluzione: la stessa assoluzione che lo stesso gip avrebbe potuto disporre a suo tempo. Intanto: vite e carriere rovinate, soldi spesi.

    Che fare? Nel suo intervento al seminario dei penalisti, il giudice Fioretta ha suggerito il rimedio: se proprio siete convinti della innocenza del vostro assistito, chiedete il giudizio abbreviato. Ma, come la stessa gip sa bene, in questo modo l’imputato si ‘brucia’ un grado di giudizio, e in caso di condanna si ritrova con l’appello come unico spiraglio di merito per vedere riconosciute le proprie ragioni. Insomma, in un modo o nell’altro a venire sacrificate sono quelle tutele che il codice di procedura penale aveva introdotto come vera svolta rispetto al vecchio processo inquisitorio ereditato dal fascismo. (orsola golgi)

  • Il pg Isnardi va in pensione e lascia l’inchiesta su Sala aperta a tutto

    Felice Isnardi allo scoccare dei 70 anni ripone la toga, offre spumante al bar del Palazzo e lascia nel mezzo del cammino l’inchiesta sulla Piastra di Expo che coinvolge il sindaco Beppe Sala. Non sarà lui, ma chi erediterà gli atti – i colleghi Massimo Gaballo e Vincenzo Calia – a decidere se chiedere l’archiviazione oppure il processo per l’accusa di turbativa d’asta relativa alla fornitura di 6mila alberi per l’Esposizione Universale.

    Il 20 settembre scorso Isnardi, dopo avere strappato l’inchiesta alla Procura ritenuta inerte che mai aveva indagato Sala, si era limitato a chiedere il rinvio a giudizio del sindaco per il reato di falso (udienza preliminare il 14 dicembre) nella sostituzione di 2 commissari di gara, lasciando immaginare di avere stralciato l’ipotesi della turbativa in vista di un’archiviazione.

    Invece rumors degli ultimi giorni davano molto probabile una richiesta di processo anche per la turbativa che sembrava potesse arrivare oggi come ultimo atto del magistrato. Non è accaduto e le interpretazioni possono essere varie. Si è preferito lasciare ai due pg che potrebbero sostenere l’accusa nel processo la parola finale. Ci sono state pressioni del procuratore capo Roberto Alfonso su Isnardi che potrebbe avere preferito non mettere la faccia su un epilogo non condiviso.

    Il magistrato che iniziò la carriera con l’inchiesta cinematografica ‘Pizza connection’ è apparso comunque sereno al brindisi d’addio. Scherzando coi giornalisti ha detto: “Verrò a trovarvi in sala stampa per avere da voi informazioni o magari farò una ‘Procura ombra‘”. In fondo proprio questo è quello che ha fatto negli ultimi anni riaprendo casi come quelli dell’operaio Giuseppe Uva morto dopo un arresto, di Mps e della ‘Piastra’. Inchieste che per la Procura Generale erano state archiviate con troppo fretta e senza i dovuti approfondimenti, quella su Expo in nome della ‘moratoria’ terreno di scontro feroce tra gli ex numeri uno e due Edmondo Bruti Liberati e Alfredo Robledo. (manuela d’alessandro)

  • Il mistero dell’appello scomparso del processo Ruby – bis

     

    Che fine ha fatto l’appello del processo Ruby bis?

    Il 22 settembre 2015 la Corte di Cassazione, accogliendo i ricorsi delle difese, aveva annullato con rinvio le condanne di Emilio Fede (4 anni e 10 mesi) e Nicole Minetti (3 anni).  Gli ‘ermellini’ spiegavano che sarebbe stato necessario rifare a Milano un nuovo processo di secondo grado alla luce del “grave vuoto motivazionale” della sentenza impugnata. In particolare, ai giudici della Corte d’Appello veniva rimproverato di non aveva accertato a carico dei due imputati fatti concreti relativi alle singole ragazze che avrebbero indotto a prostituirsi nonostante “la meticolosità con la quale si soffermavano sui concetti generali in tema di prostituzione, induzione  e favoreggiamento”.

    E d’accordo che la prescrizione è di là da venire, ma più di due anni per fissare una data appaiono davvero tanti e fanno pensare che non ci sia nessuna voglia di celebrare un processo forse ritenuto non così indispensabile. Nel frattempo, Fede ha compiuto 86 anni e l’ex igienista dentale si è trasferita a Ibiza da dove  pochi giorni fa ha messo in mostra  il suo ‘lato b’ riflesso in uno specchio per le migliaia di  follower su Instagram. Del resto, c’è poca fretta anche per altre indagini e processi nell’ambito della saga giudiziaria nata dalle rivelazioni della ragazza marocchina. L’impressione è che questo sia un capitolo ormai archeologico che si abbia voglia di chiudere. In fondo, ora Berlusconi è diventato anche una vittima  per questa  Procura che ha aperto un’inchiesta sulla base di un suo esposto nella vicenda di Vivendi per l’affare (saltato) Mediaset Premium.   (manuela d’alessandro)

     

  • Tre Procure sui fondi Expo per la giustizia, avremo una verità?

    Tre Procure ognuna per conto proprio  – caso alquanto eccezionale – stanno indagando sul gigantesco pasticcio dei fondi Expo assegnati alla giustizia milanese tra il 2010 e il 2015.  A quella di Milano, che aveva aperto un’indagine a carico di ignoti per turbativa d’asta, si aggiungono Brescia e Venezia, come si evince dalla lettura dell’atto di conclusione dell’istruttoria avviata a febbraio dall’Anac, più di due anni dopo le inchieste giornalistiche di Giustiziami, del ‘Giornale’ e del ‘Fatto’.

    Nelle settimane scorse, i magistrati di queste due città hanno chiesto all’Autorità nazionale anticorruzione la trasmissione delle carte  sulle presunte anomalie nelle 25 procedure analizzate del valore di circa 9 milioni di euro. Brescia è competente su eventuali reati commessi dai magistrati milanesi, a cominciare dall’allora presidente del Tribunale Livia Pomodoro, mentre le toghe veneziane potrebbero essere interessate a chiarire la posizione di Claudio Castelli, che presiede la Corte d’Appello bresciana, e fu uno dei protagonisti al tavolo dove si discusse come utilizzare il ‘tesoro’ di Expo.

    I nomi dei magistrati non sono indicati nel rapporto finale di Anac, molto più interessato  alle responsabilità del Comune, accusato come stazione appaltante di  avere distribuito il denaro attraverso affidamenti diretti quando la legge avrebbe imposto delle gare pubbliche.  Tra i “numerosi profili di criticità e di non rispondenza alle previsioni normative” spiccano quelli relativi all’assegnazione di una montagna di denaro per il processo civile telematico, la cui ‘costruzione’ è stata affidata  in regime pressoché monopolistico “senza indagini di mercato” a due società, Net Service ed Elsag Datamat.  Sospetti anche sulla fornitura della segnaletica per orientarsi nel Palazzo (come non ricordare i monitor disseminati nel Palazzo che senza requie né senso rimandano la beffarda scritta ‘Udinza Facile’)  e  sul curioso acquisto da Telecom, senza un apparente perché,  di 33 armadi e 1500 prese. Ingiustificato appare anche l’affidamento diretto alla Camera di Commercio per il nuovo sito del Tribunale in nome della Convenzione stipulata da Pomodoro che, finalmente,  e forse anche alla luce di un’inchiesta spinosa,  il suo successore Roberto Bichi ha revocato qualche giorno fa.

    Ma che faranno ora le tre Procure  cui Anac ha girato il suo dossier finale?

    Milano sembra scettica. Al procuratore Francesco Greco non sarebbe piaciuto il ritardo con cui Cantone ha cominciato a fare accertamenti e che non consentirebbe di indagare con intercettazioni e altri strumenti più tempestivi. Brescia per tradizione non ama infierire sui vicini colleghi, forse Venezia, lontana dal cuore e geograficamente da Milano, potrebbe essere più incisiva nella ricerca di una verità che appare necessaria. (manuela d’alessandro)

    la delibera finale di Anac

     

     

  • Robledo assolto nonostante il grave abbaglio del pm sul figlio

     

     

    Alfredo Robledo, un tempo procuratore aggiunto a Milano ora in servizio a Torino, è stato prosciolto a Brescia dall’accusa di abuso d’ufficio nata dall’esposto presentato da Edmondo Bruti Liberati all’epoca capo della procura di Milano in relazione al deposito di soldi sequestrati non nel Fondo unico giustizia ma presso la Banca del Credito Cooperativo di Carate Brianza.

    Il proscioglimento arrivato solo adesso lascia ampiamente capire che lo scopo dell’esposto di Bruti non era certo quello di accertare le responsabilità del collega in relazione ai fondi sequestrati alle banche nella vicenda dei derivati a Palazzo Marino ma quello di metterlo in cattiva luce e in parole povere di farlo fuori. Insomma uno dei tanti capitoli della guerra interna alla procura di Milano, con  sullo sfondo la moratoria delle indagini su Expo decisa dal vertice massimo dell’ufficio inquirente.

    La procura di Brescia, oggi smentita dal gup, aveva coltivato l’esposto di Bruti fino ad affermare: “Il presidente della Bcc di Carate Annibale Colombo era conoscente di lunga data dell’imputato Robledo e il figlio di quest’ultimo dipendente della filiale Bcc di Barlassina”. Il figlio di Robledo fa l’allenatore di pallacanestro e non ha mai lavorato in banca.  Un funzionario dell’istituto sentito come testimone aveva escluso la presenza di congiunti di Robledo tra i dipendenti ma evidentemente ciò non è bastato al pm, interessato a diffondere veleni. Va ricordato inoltre che la procura di Brescia aveva pure svolto accertamenti patrimoniali su Robledo che in relazione al reato di abuso d’ufficio non sono consentite.

    Robledo nel corso della guerra interna alla procura era stato poi trasferito a Torino in riferimento a una serie di sms scambiati con l’avvocato della Lega Nord Domenico Aiello. L’uscita di Robledo ovviamente consentiva al capo della procura di dispiegare tutta la potenza della moratoria su Expo, solo parzialmente rimessa in discussione dall’avocazione da parte della procura generale che metteva sotto inchiesta il sindaco di Milano Beppe Sala e ne chiedeva il rinvio a giudizio per falso che sarà discusso davanti al gip il 14 dicembre prossimo.

    Sala comunque era stato “salvato” dall’accusa di abuso d’ufficio per non aver indetto la gara pubblica sulla ristorazione con appalto assegnato direttamente a Oscar Farinetti. Per la procura di Bruti Sala favorì Farinetti “senza averne l’intenzione”. E poi c’era fretta, bisognava realizzare Expo. Insomma un abuso d’ufo a fin di bene, con archiviazione decisa dallo stesso giudice che come responsabile dell’informatizzazione aveva contribuito a evitare gare pubbliche sui fondi Expo giustizia. Ironia della sorte, tra i beneficiati addirittura una società con sede nel paradiso fiscale del Delaware.

    Dunque Robledo ostacolava la moratoria e persino gli “affari” delle toghe. Doveva pagarla, l’ha pagata e la sentenza di proscioglimento di oggi a Brescia suona quasi come una beffa. Nel frattempo a Milano di nuove indagini su reati contro la pubblica amministrazione non c’è traccia. Del resto a succedere a Bruti ora in pensione è stato il suo braccio destro Francesco Greco eletto all’unanimità dal Csm dell’omertà. Il cosiddetto organo di autogoverno infatti, regista nemmeno tanto occulto Giorgio Napolitano, aveva da subito supportato Bruti contro Robledo (frank cimini)

  • Bichi ai giudici, “errori fatali” e “atti dispersi” per il crac del processo digitale

    “Allo stato non sembra possa escludersi l’eventualita’ di ‘atti dispersi‘”, “si sta lavorando per il recupero degli errori fatali”.

    Una forza cieca e malevola accompagna il Processo Civile Telematico che vive l’ennesima empasse  perché dal 15 settembre, come spiega il presidente del Tribunale Roberto Bichi in una lettera mandata ai giudici, si sono verificati “gravi malfunzionamenti” nell’invio e nella ricezione degli atti.

    Quasi apocalittiche le conclusioni: “Allo stato sembra non possa escludersi l’eventualità di atti dispersi” e “si pone il problema dell’individuazione della data di deposito per gli atti inviati dagli avvocati e rimasti in situzione di non conoscibilità da parte delle cancellerie e del giudice”.

    Di fronte a questa “situazione”, “tutti noi siamo chiamati ad una valutazione prudente e che agevoli, anche sotto il profilo del valido recupero processuale, la
    ricostruzione della serie degli atti processuali, là dove siano
    proposte istanze di remissione in termini o comunque volte a
    sanare la situazione, giacché l’inadempimento non può  certo
    essere imputato alla parte”. E meno male. Il processo civile telematico del resto la comunità l’ha già pagato abbastanza, con i milioni di fondi Expo investiti per agevolare il primato milanese sulla via del digitale.  Con modalità all’attenzione dell’Anac e di due Procure (Milano e Venezia) dopo le inchieste di Giustiziami, del ‘Giornale’ e del ‘Fatto’ tre anni fa.

    (manuela d’alessandro)

  • Fondi Expo per il processo telematico, Milano sconfitta in Europa

    Milano battistrada nazionale del Processo Civile Telematico, Milano che a luglio faceva sapere a mezzo stampa di essersi candidata alla prestigiosa ‘Bilancia di cristallo della giustizia’, il riconoscimento del Consiglio d’Europa alla pratiche innovative che contribuiscono all’efficienza e qualità della giustizia.

    Ma poi, vuoi mettere: con tutti i milioni elargiti nel nome di Expo proprio per realizzare il sogno di un processo ‘leggero’, senza straziare foreste, come si poteva non vincere?

    E invece. E’ di oggi la notizia che ad aggiudicarsi la ‘Bilancia’ è il Tribunale di Catania scelto per il progetto che punta a migliorare i tempi delle procedure reative ai ricorsi dei migranti che si sono visti rifiutare la protezione  internazionale dalle Commissioni Territoriali. La proposta etnea è stata selezionata assieme ad altre provenienti dall’Azerbaijan, Bulgaria e Norvegia, scelte tra 37 candidature arrivate da 18 Paesi.

    Un dubbio: e se ai giurati l’idea di consegnare una ‘Bilancia di cristallo’ a un Tribunale che ha assegnato i fondi Expo in modo così opaco, tanto da ‘meritarsi’ gli strali dell’Anac e due inchieste penali, sia apparsa un po’ comica?

    (manuela d’alessandro)

  • La nuova mappa del potere in Procura, gli aggiunti scelti dal Csm

    Cambia la mappa del potere a Milano con 6 procuratori aggiunti nuovi di zecca chiamati a sostituire Francesco Greco, Pietro Forno, Alfredo Robledo, Maurizio Romanelli e Ilda Boccassini che per vari motivi hanno lasciato o lasceranno a breve il loro posto a capo dei dipartimenti.

    Dopo mesi di trattative tormentate, dalla votazione della quinta Commissione del Csm, quella che si occupa degli incarichi direttivi, vengono fuori 5 nomi già sicuri del posto: due con l’unanimità, Maria Letizia Mannella e Tiziana Siciliano più Fabio De Pasquale, Eugenio Fusco e Alessandra Dolci con 5 voti. Entreranno al Plenum come ‘generali’ e tali ne usciranno. A parte Mannella, sostenuta dalla corrente moderata Unicost, gli altri sono tutti esponenti di Area, formazione di sinistra. 

    Sarà bagarre invece sul sesto nome perché l’attuale pg Nunzia Ciaravolo e il pm Laura Pedio hanno preso 3 voti a testa. Sembra leggermente favorita la prima, che nel curriculum ha esperienza in Kosovo per l’Onu, e dovrebbe contare sui voti di Unicost, Magistratura Indipendente e di alcuni consiglieri laici, oltre alla preferenza del presidente della Cassazione Giovanni Canzio, col quale è stata a lunga nel consiglio giudiziario milanese. Pedio è sostenuta da Area e dal procuratore capo Francesco Greco che le ha affidato diverse inchieste economiche di rilievo. (manuela d’alessandro)

  • Il giudice lascia l’aula alla bimba per conoscere il papà presunto torturatore

    L’esperto giudice Giovanna Ichino ne ha viste tante ma un processo così mai. Osman Matammud, 22 anni, somalo, viene accusato di avere sequestrato centinaia di connazionali in un campo da lui gestito in Libia, ucciso quattro persone e stuprato decine di donne. Oggi, chiamata dalla difesa, è venuta a deporre la moglie dell’imputato che vive a Roma e non lo vede da anni. Con sé ha una bimba coi codini di 4 anni. Mentre la mamma testimonia per due ore davanti alla Corte d’Assise, la piccola passa il tempo disegnando in una stanza adiacente.

    Alla fine dell’udienza, il legale di Matammud, l’avvocato Gianni Rossi, chiede al presidente Ichino se è possibile un breve saluto dalla gabbia dove siede il suo assistito tra Matammud, la moglie e quella bimba che è la figlia del ragazzo e lui non ha mai visto prima d’ora. Il magistrato si spinge oltre con un gesto definito dall’avvocato Rossi “di grandissima umanità”. Va via dall’aula assieme agli altri giudici disponendo che le sbarre si aprano. La bimba può così abbracciare e riempire di baci per la prima volta il suo papà. Per lei l’uomo  indicato dalla legge come un presunto aguzzino e che per il suo avvocato è la vittima innocente di un conflitto tra clan è solo il papà di cui la mamma le ha parlato per tanto tempo.  Dieci minuti tra gli sguardi inteneriti di tutti i presenti in un’aula di Tribunale illuminata da una presenza infantile, come mai accade (i minori non possono entrare). La gabbia si chiude ma un agente della polizia penitenziaria vedendo la bambina esitare ad andarsene decide di spalancarla per l’ultima volta:”Dai, vai a salutare il tuo papà”. E lei corre.  (manuela d’alessandro)

     

     

  • Perché un avvocato difende anche uno stupratore

    L’avvocato che non deve difendere. Nulla di nuovo sotto il sole (ma sarebbe più giusto dire nuvole) se il peggior becerume nostrano si è scagliato in questi giorni contro un avvocato di Lugo, reo di prestare la propria opera professionale a un imputato di omissione di soccorso stradale. O se una collega romana ha ritenuto di doverci pubblicamente spiegare che ha accettato di difendere uno dei due carabinieri accusati di stupro solo perché ne avrebbe letto negli occhi la di lui innocenza.

    Quante volte infatti, anche in contesti più ‘evoluti’, ci viene richiesto con dissimulata malizia: “Come fai a difendere un assassino ?”. O uno stupratore o un mafioso o un pedofilo o anche, perché no? un bancarottiere o un politico corrotto e persino un truffatore, aggiungo: il codice penale è ricco, come la vita, di figure delinquenziali.

    Si ha un bel dire che i paesi civili si distinguono da quelli ove vige la legge del taglione proprio perché esiste il diritto, il processo e quindi anche gli avvocati difensori. O che assistere tecnicamente un imputato affinché vengano rispettate le regole sancite da quella stessa legge che sarebbe stata da lui violata è un principio tutelato anche dalla nostra tanto amata Costituzione, oltre che dal mero buon senso, eppure nulla da fare. Difendere il ‘mostro’ equivale, per i benpensanti di risulta, a contribuire al suo crimine garantendogli impunità, e pertanto non resta che confidare nei bravi e onesti magistrati che non si fanno buggerare dall’azzeccagarbugli prezzolato di turno. Ai quali invece a nessuno verrebbe in mente di chiedere, con altrettanta malizia e tra un tramezzino e l’altro di una serata mondana, “Ma come fai a sbattere in una gabbia per tutta la vita un essere umano ?”. Eppure il mestiere dell’avvocato dovrebbe essere considerato non si dice nobile, anche se un tempo pare lo fosse, ma almeno utile perché consiste semplicemente nel vigilare che venga applicata la legge che regola il processo accertativo di un fatto, anche perché, come disse anni fa qualcuno ben più bravo di me: “il codice penale è scritto per i colpevoli e quello di procedura per gli innocenti”.

    Una sentenza giusta è una sentenza che ha applicato la legge, e quella legge prevede che il verdetto sia la conclusione di un iter che indica tra le parti necessarie anche l’avvocato, altrimenti è una sentenza sbagliata che non vale nulla. E’ un controsenso dire che non si difendono i colpevoli di un certo reato, anche perché difendere non significa solo sostenere contro ogni logica l’innocenza del proprio assistito, ma far sì che venga condannato alla pena giusta. E se al termine del processo le prove a suo carico si sono rivelate insufficienti, la sentenza giusta è quella che lo assolve e non quella che lo condanna nel dubbio per tacitare la voglia di forca, e bene ha fatto l’avvocato a impegnarsi perché non avvenisse ciò. A questo servono gli avvocati, che per definizione si occupano di fatti accaduti “ad altri” e non certo a loro, e mi piace ricordare come rispose una simpatica e brava avvocata a un cliente che le diceva che con il suo mestiere ne avrebbe ‘viste’ di tutti i colori: “Abbia pazienza, ne sento, non ne vedo…”. Ma il diritto non piace più, piace la legalità intesa nel suo peggiore degli ossimori, esultando quando una gabbia si chiude e gridando allo scandalo quando si apre, al punto che sono stati coniati neologismi imbecilli tipo “garantista”, per definire un giudice che rispetta la legge.

    Perché è legittimo non esserlo? Assistiamo a leggi assurde sulla prescrizione trasformata da secolare baluardo di diritto a mero escamotage da contrastare. Però detto questo, diciamoci la verità colleghi, è anche colpa nostra se da anni vige intorno a noi questa pessima fama. Da quanto tempo abbiamo consentito che anche nei Tribunali il nostro ruolo venisse pesantemente sminuito se non considerato d’intralcio alla giusta prevenzione e repressione del male “in nome del popolo italiano”? Da quanto tempo anche tra noi il legale apprezzato è solo quello che collabora col magistrato e coi media, altrimenti viene ritenuto un fastidioso rompiscatole se non in taluni casi addirittura un connivente? E allora, se non serviamo a nulla e finiamo con il partecipare quali convitati di pietra ad un gigantesco teatrino, sol per comperarci la casa o fare le vacanze al mare con la famigliola e la bella macchina, fanno bene tutti gli altri a considerarci degli inutili impicci alla tanto agognata legalità, e ad additarci come mercenari del crimine.

    avvocato Davide Steccanella

     

     

  • Fondi Expo, il Comune accusa i magistrati e fa i loro nomi ad Anac

     

    Se qualcuno ha truccato la distribuzione dei fondi Expo alla giustizia milanese, quelli sono solo e unicamente i magistrati. E si fanno nomi e cognomi di chi nel Palazzo di Giustizia avrebbe deciso in autonomia, e molto spesso senza gare pubbliche, come assegnare i milioni di euro regalati dall’Esposizione.

    La tesi che Palazzo Marino  offre nella sua recente relazione all’Autorità anti corruzione segna un punto di violenta rottura rispetto alla dichiarazione del presidente del Tribunale Roberto Bichi il quale, tre mesi, fa aveva sottolineato che “la stazione appaltante non eravamo noi, bensì il Comune”. Una precisazione arrivata al termine di una drammatica riunione tra giudici seguita al documento in cui Anac, 3 anni dopo l’inchiesta di questo blog  e del ‘Giornale’, individuava 18 appalti illeciti per l’assegnazione di milioni di euro in nome dell’Esposizione Universale.

    Spiega Fabrizio Dall’Acqua, da poco segretario generale e responsabile anti corruzione dell’amministrazione comunale: “Il compito del Comune di Milano era di tradurre in atti amministrativi le scelte operate dagli Uffici Giudiziari. In caso di affidamenti diretti, l’individuazione del fornitore è stata fatta dagli Uffici Giudiziari e dal Dgsia (articolazione ministeriale, ndr) che avevano contezza dei rapporti pregressi e delle problematiche tecniche sottostanti”.

    Ed eccoli i nomi che il Comune fa in modo esplicito.

    Claudio Castelli, attuale Presidente della Corte d’Appello di Brescia e all’epoca presidente facente funzione dei gip e responsabile del Processo Civile Telematico (PCT). E’ lui che in una riunione del 2012, rispondendo alle lamentele della Corte d’Appello che si sente poco coinvolta nelle scelte, puntualizza che le decisioni sui finanziamenti già assegnati “hanno tenuto in considerazione i vari Uffici Giudiziari (…)” e anche per i fondi ancora da distribuire “sono in corso incontri coni i referenti degli Uffici Giudiziari per acquisire un elenco di fabbisogni e priorità”.

    Giovanni Canzio, presidente della Corte di Cassazione e all’epoca presidente della Corte d’Appello di Milano e l’allora presidente del Tribunale Livia Pomodoro.

    Da una loro lettera del 2012 al sindaco Giuliano Pisapia, si deduce che “fabbisogni, valutazioni e scelte operative sono state eseguite dagli Uffici Giudiziari col contributo di CISIA/DGSIA e che il Comune si è limitato ad adottare i conseguenti provvedimenti amministrativi”.

    Canzio viene chiamato in causa anche per un affidamento diretto al Politecnico  relativo a un software di gestione del personale, assieme al consigliere e giudice Laura Tragni. Le mail tra quest’ultima e Castelli riportate nella relazione spiegherebbero, secondo il Comune, anche la scelta di affidare il restyling del sito del Tribunale alla Camera di Commercio sulla base di una convenzione tra i due contraenti.

    Infine, anche la nomina contestata da Anac di Giovanni Xilo nel gruppo di lavoro sugli appalti fu avallata da Pomodoro e Castelli che lo presentarono come “consulente degli Uffici Giudiziari” e “non ebbe mai” invece dal Comune “alcun incarico, né formale, né informale”. Xilo in passato intrattenne rapporti economici, come fornitore, con Net Service, una delle società a cui è spettata una bella fetta del ‘tesoro’ di Expo. (manuela d’alessandro)

    Relazione del Comune sui Fondi Expo

     

     

  • 17 anni per chiudere un’indagine su uno spaccio all’inizio del millennio

    Capita, a inizio stagione giudiziaria, di trovare un avvocato nei corridoi della Procura e, dopo i saluti di rito, chiedergli se abbia qualcosa di interessante. “Nulla di che, sto andando a informarmi su un’inchiesta chiusa dopo 17 anni”, ti risponde come se fosse un’attività di routine.

    Un’indagine complessa, non c’è che dire. Un’ottantina di indagati in origine, diversi pm all’opera, venti faldoni di intercettazioni, pedinamenti, ricostruzioni su un maxi spaccio di pasticche di ecstasy avvenuto a Milano all’inizio del nuovo millennio.  Ma 17 anni per arrivare alla chiusura delle indagini notificata a 11 persone  è un tempo che ci appare davvero mostruoso. “La prescrizione non c’è ancora, ci vogliono più di 20 anni”, spiega l’avvocato Mirko Perlino cui la chiusura è stata recapitata in questi giorni, sebbene la data sull’atto, firmato dal pm Francesca Celle, sia 31 marzo 2016. “Forse hanno fatto fatica a individuare i domicili di alcuni degli indagati”, ipotizza il legale. In effetti, 17 anni dopo uno avrà pure cambiato casa.

    (manuela d’alessandro)

  • “L’avvocatessa aveva ragione a sentirsi perseguitata dal giudice”

    Erano “fondate” le lamentele di un’avvocatessa milanese sull’atteggiamento “persecutorio” manifestato a suo danno dal giudice Benedetto Simi De Burgis. Lo scrive il giudice di Brescia Vincenzo Nicolazzo nelle motivazioni alla sentenza di assoluzione pronunciata a gennaio nei confronti della legale accusata dal magistrato di calunnnia. De Burgis aveva querelato l’avvocatessa perché lei lo aveva accusato di avere pronunciato frasi “offensive, denigratorie e umilianti” durante alcune procedure in cui era stata curatrice “finalizzate a farle togliere gli incarichi e diffamarla”.

    Dalle motivazioni si scopre che, tra le altre cose, De Burgis, nelle sue vesti di giudice tutelare, si sarebbe rivolto in modo offensivo verso l’avvocatessa sostenendo che si era intascata una liquidazione troppo alta nell’ambito di una procedura da lui ritenuta “priva di specifica complessità” perché la persona sottoposta a tutela era “sufficientemente autonoma”. L’avvocatessa ha invece spiegato che la sua assistita era affetta dal morbo di Alzheimer in un contesto di “condizioni familiari critiche”. E ancora:  De Burgis avrebbe mostrato poco rispetto per la legale accusandola, nelle sue vesti di amministratore di sostegno”, di “depauperare” la sua assistita.  Ma anche qui la presunta calunniatrice ha risposto in modo puntuale alle critiche. In un altro caso ancora, l’aveva tacciata di essersi trattenuta illecitamente 5mila euro nell’ambito di una curatela, accusa anche questa vanificata da tutti i chiarimenti del caso.

    Per spiegare l’assoluzione ‘perché il fatto non costituisce reato’, il giudice Nicolazzi ricorda che il reato di calunnia c’è quando il calunniatore “abbia la certezza dell’innocenza” della vittima. “Non si vede – scrive il magistrato – come si possa affermare che l’imputata fosse convinta  dell’innocenza dell’incolpato, emergendo, al contrario, non solo la sua buona fede, ma altresì la fondatezza delle sue doglianze “.

    La vicenda penale deriva da una disciplinare, chiusa con un provvedimento definitivo di ‘censura’ da parte della Corte di Cassazione a carico del magistrato per avere tenuto “un tono irridente e allusivo” nei confronti della curatrice. Il legale aveva fatto scattare il procedimento disciplinare lamentadosi col presidente della sezione in cui lavora De Burgis del contenuto di alcuni scritti, da lei ritenuti offensivi, e lui aveva ribattuto denunciandola per calunnia.  Nel suo ricorso alla Cassazione, dopo una prima censura del Csm, il giudice si era difeso sostenendo che la donna avesse “specifici motivi di astio” contro di lui.

    (manuela d’alessandro)

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  • “Evaso per mangiare la pizza”. E il giudice lo lascia libero.

    Mesi di prigione per una decina di rapine. Finalmente il suo avvocato Glauco Gasperini riesce a fargli concedere  i domiciliari. E il ragazzo che fa?

    Dieci giorni dopo evade. In un modo bizzarro, è vero, ma tanto basta per fargli rischiare di tornare dentro. Così riecco il giovane senegalese davanti a un giudice. Con una giustificazione che strappa un sorriso a tutti: “Mia madre cucina proprio da schifo, ero sceso solo a prendermi un trancio di pizza”. E uno spot per lo ius soli. “Io ormai sono del tutto italiano e la cucina senegalese non mi piace più”.

    Il giudice Guido Salvini, a cui lo spirito non manca, ribatte: “La prossima volta ordinala con una consegna a domicilio”. E decide di non applicare nessuna misura (peraltro non chiesta nemmeno dal rappresentante dell’accusa) rinviando la causa a ottobre per vedere come si comporta. Gustizia umana, direbbe Fantozzi.

    (manuela d’alessandro)