Categoria: giornalismo

  • Gli indegni volantini a Milano contro il cronista Faieta, è il momento di dire basta

     

    In questi giorni sono apparsi in diverse zone della città centinaia di volantini che raffigurano il volto del cronista di ‘Milano Today’ Alfredo Faieta con le orecchie d’asino, un lungo naso e le parole: ‘Niente di quello che ho detto è mai successo! Credibilità zero ma coerenza nel mentire dieci e lode, i migliori fantasy scritti male’.  In  fondo un avvertimento anche alla sua testata: ‘Milano Today mai pensato di dire la verità?. Magari una volta, per provare com’è?’.

    Era da molto tempo che a Milano un giornalista non veniva preso di mira e peraltro avviene con una modalità subdola, vile e odiosa, rendendo molto complicato identificare chi sia l’autore. Faieta scrive da anni con passione e scrupolo inchieste pubblicate nella sezione ‘Dossier’ di Milano Today, una delle poche entusiasmanti novità nel campo editoriale per il lavoro di scavo nelle notizie e ricerca di approfondimenti originali oltre la fatuità delle news. Negli ultimi mesi si è occupato per lo più di urbanistica cittadina e di costruttori ed è lì, in quel contesto, che probabilmente i suoi articoli possono avere dato fastidio a qualcuno. Qualcuno che avrebbe potuto difendersi in molti altri modi civili e rispettosi della libertà di stampa, nel merito di quanto scritto, e invece ha scelto questa strada indegna.

    Faieta ha denunciato alla Guardia di Finanza e segnalato all’Ordine dei Giornalisti ma i volantini continuano a proliferare. E’ il momento di dire basta.  (manuela d’alessandro)

  • Un pomeriggio d’agosto nel tribunale, caccia al pm di turno nel deserto

    Bella la giustizia a Milano, ad agosto. Ci vado sempre in vacanza.

    Ieratica come i grattacieli in costruzione che svettano lucidi e snelli dalle finestre ai piani alti del palazzo, l’emblema del dèmone di questa città inseguito dalla Procura.

    Tutto azzurro oggi, vista panoramica che nemmeno in costiera e in più la pace dei sensi. What else?

    Cinque del pomeriggio: l’ora delle rese dei conti. Non qui, non ora.

    “Andiamo dal pubblico di ministero di turno a vedere se succede qualcosa a Milano” si motivano due cronisti habitué del tribunale che cercano sul sito della Camera Penale e annotano il nome del pubblico ministero a cui spettano gli affari urgenti di giornata.

     

    Non sia mai, in fondo il Watergate nacque da un’incursione di Bob Woodward e Carl Bernstein alla direttissime.Ma torniamo ai duri marmi del palazzo. Il pm è un nome mai sentito, sarà appena arrivato.

    Parte una caccia che di piano in piano si fa sempre più allucinata. L’umidità  amazzonica aiuta a trasecolare. Consultiamo i fogli con l’elenco dei nomi e dei numeri delle stanze. Il pm D. non è indicato.

    Transitiamo a fianco di cumuli di sedie e vecchi condizionatori accatastati.

    Tutto inanimato, se non fosse che le persone che si occupano delle pulizie stanno bagnando il pavimento potremmo essere nel deserto.

    Disturbiamo uno di loro per chiedere se sappiano dove stia il nostro magistrato. Negativo.  Chiediamo a  a un uomo che cammina nei paraggi, potrebbe essere un  cancelliere. Elegante.“Sa dove si trova D.?”. Il cenno negativo del capo è la risposta.

    Troviamo un pubblico ministero al lavoro dopo avere bussato invano in altre stanze. Chiacchiere di rito e la domanda: “Sa dov’è la stanza di D.?”. Risponde che forse l’ha visto in una riunione ma non sa dove sia. Saliamo, inerpicandoci negli strettti ‘vicoli’ della Direzione distrettuale antimafia. Passiano accanto a una fotocopiatrice che ha un sussulto e ce lo abbiamo pure noi, naufraghi straniti in mezzo a un mare di calda ovatta.

    Ecco una persona, un dipendente di un ufficio. “Dov’è D.?”.  Risponde, un po’ accigliato. “Dovete chiedere in centrale penale ma alle 17 di venerdì dubito che troviate qualcuno…”.

    Riscendiamo al quarto. C’è vita in un ufficio, due impiegati della giustizia si danno da fare dietro a malloppi di fascicoli. “Cercavamo D., siamo due giornalisti”. “Sì, vi conosco. Perché lo cercate?”. “Per sapere se durante il turno ci siano stati dei fatti rilevanti…”.

    Prende il telefono e chiama D. Rasserenati dalla sua esistenza, ascoltiamo la telefonata dalla quale il nostro gentilissimo interlocutore apprende dal magistrato che no, non ci sono notizie. Ma, per curiosità, insistiamo con una tigna effettivamente degna di miglior causa, dove ha la stanza il pm D.?. Lui sorride, quasi intenerito. Dai, ci siamo, pensiamo: ora ce lo dirà! E invece: “Ve lo dico lunedì”.

    Buon week end, giustizia.

    (Manuela D’Alessandro)

  • Dare dell’imputato a un indagato è diffamazione

    Dare dell’imputato a una persona che è solo indagata è diffamatorio?

    Sì, è la risposta delle sezioni unite della Cassazione che si sono espresse su una giurisprudenza contrastante su questo tema. Il caso è quello di un articolo pubblicato dal sito del settimanale ‘L’Espresso’ nel giugno del 2013 (12 anni dopo, benvenuta giustizia!).  Il numero uno di una banca d’affari era indagato con l’accusa di avere tentato una truffa ma non era ancora stato raggiunto dalla richiesta di rinvio a giudizio.

    In primo grado il Tribunale di Roma aveva assolto il cronista “perché gli errrori non avevano scalfito l’aderenza al vero nella complessiva ricostruzione dei fatti per la corrispondenza tra lo scritto e la realtà visto il coinvolgimento significativo nell’attività truffaldina”.

    La sentenza è stata ribaltata in appello con la condanna del giornalista a 5mila euro di sanzione pecuniaria.

    Ed eccoci alla decisione della Suprema Corte secondo la quale  “la differenza tra i due status, in termini giuridici, è significativa, riverberandosi sulla percezione sociale del grado di probabilità del coinvolgimento del soggetto che ne è titolare nel reato che gli viene addebitato. Non si può, quindi, relegare, di per sé e in astratto, una infedeltà narrativa di tale portata all’ambito della mera marginalità, attribuendole impropriamente neutralità ai fini del riconoscimento del carattere diffamatorio della notizia propalata. Ne deriva che i due atti non sono confondibili e non possono essere impropriamente sovrapposti”

    Insomma quel che conta è la percezione dell’opinione pubblica sullo “stato di avanzamento della vicenda giudiziaria che riguarda un soggetto la cui progressione tende ad alimentare un effettivo coinvolgimento”.

    Certo viene da pensare che la Cassazione sia molto ottimista sul garantismo dell’opinione pubblica in un Paese dove  essere indagati equivale a una condanna.

    (manuela d’alessandro)

  • Cosa il cronista giudiziario può pubblicare ora, cosa non non può ma fa e cosa non potrà

     

    Proviamo a fare chiarezza per chi non bazzica i tribunali: quali atti giudiziari potrebbero pubblicare ora i cronisti, quali effettivamente pubblicano e quali potranno pubblicare secondo la stretta voluta dal governo nel decreto?

    Una certezza: dal 2017 possono inserire nei loro pezzi i virgolettati delle ordinanze di custodia cautelare e i provvedimenti di sequestro perché è previsto dalla legge voluta dall’allora ministro della Giustizia, Andrea Orlando.

    Un’altra sicurezza, che in pochi ricordano sebbene sia materia dell’esame per diventare giornalisti professionisti, è che non si potrebbero pubblicare, nemmeno sotto forma di sintesi, gli altri atti che costituiscono la ‘trama’ di un’inchiesta e cioé i decreti di perquisizione, le richieste di misura cautelare, le informative, gli avvisi di garanzia, gli atti di chiusura delle indagini.

    Chi lo dice? Il codice penale agli articoli 114 e  684. Il primo recita: “E’ vietata la pubblicazione degli atti non più coperti dal segreto fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare”. Cioé fino a quando ci si avvia al processo.

    Il secondo individua il reato legato al divieto, quello di ‘Pubblicazione arbitraria di atti’. “Chiunque pubblica – in tutto o in parte – anche per riassunto, atti o documenti di un procedimento penale di cui sia vietata per legge la pubblicazione, è punito con l’arresto fino a trenta giorni o con l’ammendo da 51 euro a 258 euro”.

    Eppure, nelle cronache quotidiane capita molto spesso di vedere trascritte parti, anche sostanziose, di questi atti.

    Come mai? Perché si è sviluppata una ‘silenziosa’ tolleranza della violazione di questo articolo tenendo presente che spesso sono documenti già noti alle parti e perché l’entità delle multe è così risibile che ha scarso effetto deterrente e non vale nemmeno lo sforzo per chi si ritenga danneggiato imbarcarsi in un procedimento per quattro spicci.

    E veniamo al domani, il possibile domani se si completerà il ‘viaggio’ del decreto. Succede che gli atti già conosciuti alle parti potranno finire tranquillamente nelle mani dei giornalisti che però potranno pubblicarli solo attraverso parafrasi, sintesi o comunque la si desideri definire.

    Per esempio. A Milano è stato appena firmato un protocollo tra Presidenza del Tribunale, Procura, rappresentanti degli avvocati e dei giornalisti che prevede la possibilità di avere in tempi rapidi le ordinanze di custodia cautelare e farne cio’ che si vuole, sempre seguendo i canoni deontologici e il rispetto della presunzione d’innocenza. Ovviamente la nuova legge imporrebbe solo un più o meno efficace e veritiero ‘racconto’ dell’ordinanza per i novelli ‘Omero’ delle cronache giudiziarie.

    Naturalmente, se la logica ci supporta, finirebbe anche l’invio da parte delle forze dell’ordine, con l’ok delle procura, di video pedinamenti, audio o trascrizioni di intercettazioni che le parti ignorano.

    C’è un però: al momento non sono previste sanzioni per le violazioni e lo spirito del decreto sembra più  che altro sostenuto da una logica del ‘Ve lo diciamo noi cosa pubblicare’. Naturalmente, e confessiamo che è un pensiero molto malizioso, il tutto dovrebbe valere sia per il Messina Denaro arrestato, sia per l’’ndranghetista, sia per lo spacciatore, sia per il femminicida e sia per il politico. Naturalmente.

  • Sala porta Barbacetto in tribunale per i post critici sull’urbanistica

     

    Su proposta del sindaco Giuseppe Sala, la Giunta di Milano ha votato all’unanimità una delibera per chiedere un risarcimento danni al giornalista Gianni Barbacetto davanti al tribunale civile. Già fa abbastanza impressione immaginare che un’amministrazione intera con voto unanime si dedichi a perseguire un singolo cronista per averla denigrata.

    Il secondo aspetto importante è che siamo davanti a un’iniziativa di quelle che si prendono quando si vuole fare molto male: non una querela per diffamazione depositata in Procura ma direttamente una richiesta di risarcimento per i danni subiti. Ma quello davvero preoccupante è che Barbacetto venga portato a giudizio non per gli articoli pubblicati sul ‘Fatto Quotidiano’ ma per commenti su Facebook, su X e sul suo blog postati a marzo, aprile e maggio di quest’anno. Tutti contenenti dichiarazioni critiche rispetto alle politiche urbanistiche portate avanti dalla giunta Sala che hanno attirato anche l’attenzione, a torto o a ragione lo vedremo, della magistratura ma anche di tanti cittadini riuniti in comitati. Tutti che si richiamano nei contenuti agli articoli che scrive sul suo giornale. L’impressione è dunque che l’amministrazione voglia colpire ‘duro’ perché Barbacetto non godrebbe della copertura economica che gli garantirebbe il giornale a meno che il direttore Marco Travaglio non decida, com’è probabile, di battersi a fianco di uno dei suoi giornalisti più rappresentativi.

    “Da oggi sospendo ogni attività social – è stata la reazione  -. Mi è arrivata notizia dal ‘Giornale’  che la giunta di Milano ha deliberato di portarmi in tribunale, suppongo per le critiche al sindaco e le informazioni sull’atività del Comune in campo urbanistico, oggetto di inchieste della Procura. Tutto quello che posto suo social passa prima dal mio giornale che però non è stato querelato. Io da solo sono più debole”.

    Noi da piccolo blog, che ha subito un’azione simile in passato uscendone vincitore, esprimiamo la nostra vicinanza al collega.  Della storia di Davide e Golia ci piace solo il finale ed è quello che gli auguriamo.

    (manuela d’alessandro e frank cimini)

  • Come sarebbe stata la cronaca del caso Verdini senza l’ordinanza cautelare

     

    L’inchiesta sulle commesse di Anas della Procura di Roma che coinvolge anche Tommaso Verdini è l’occasione per riflettere su cosa potrebbe accadere se in un caso come questo fosse in vigore la norma che vieta la pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare.

    La legge Cartabia impone che a dare la notizia degli arresti potrebbe essere solo il procuratore capo o la forza di polizia che ha operato da lui delegata e comunque solo e soltanto entro i limiti da lui stabiliti. Altre fonti che dovessero spingersi a spiegare qualche dettaglio ai giornalisti, cosa che – è bene essere onesti – spesso accade soprattutto nelle procure più grandi -, le metterebbe a rischio di un procedimento disciplinare con possibili effetti sulla carriera. C’è più democrazia quando una sola fonte, per di più parte inquirente o investigativa, decide cos’è una notizia e come diffonderla o lo decidono più fonti?  In ogni caso la divulgazione degli arresti o altro avverrebbe, sempre sulla base dei limiti stabiliti dall’ex ministra della Giustizia, solo se il capo della Procura, col suo monopolio di per sé già discutibile, considerasse rilevante e di interesse pubblico la vicenda.

    Qui non parrebbero esserci dubbi che lo sia trattandosi di Anas e di una storia che lambisce la politica, il che garantirebbe almeno un comunicato, non è detto pure una conferenza stampa. Ci sono stati casi di un certo clamore per i quali i procuratori non hanno ritenuto opportuno un confronto coi giornalisti, si pensi all’inchiesta sull’omicidio di Giulia Cecchettin, che pure ha smosso le piazze di tutta Italia, è entrata nelle scuole, nei palazzi della politica e in tutte le case, ma durante la quale la Procura di Venezia, a parte qualche informazione iniziale, ha mantenuto un riserbo assoluto.

    Immaginiamo però che nel caso Verdini il procuratore sia di manica larga: comunicato, conferenza stampa e poi anche una spiegazione dell’ordinanza. Restiamo al nostro caso Anas, un contesto complesso in cui vengono ipotizzati appalti, episodi di turbativa d’asta, di corruzione, in uno scenario molto ‘italiano’ in cui agiscono esponenti politici, vertici di società di Stato, funzionari di alto livello, “marescialli che presidiano il fortino”, espressione presa in prestito dalle intercettazioni. Un mondo molto variegato.

    E’ immaginabile rendere un buon servizio all’informazione e delineare con precisione il ruolo di arrestati-indagati-né arrestati, né indagati senza esercitare il rigore e la precisione che solo l’apri e chiudi virgolette di un testo possono garantire?. Il tema riguarda, ribadiamolo perché questo è centrale, sia la completezza e l’equilibrio nell’esercizio del diritto di cronaca sia la tutela delle persone coinvolte. Senza un testo di riferimento, i media potrebbero offrire al lettore o all’ascoltatore una parafrasi dell’ordinanza di parte senza che ci sia un riscontro oggettivo qual è quello di un testo messo a disposizione di tutti.

    Conosciamo l’obiezione: i giornalisti danno comunque una lettura di parte, si soffermano solo sul gossip, evidenziano episodi che nulla hanno a che vedere col reato, rovinano la vita di innocenti. Ma questo non dipende in alcun modo dalla legge bensì da una scarsa onestà intellettuale, da una conoscenza approssimativa di come vada raccontata la cronaca giudiziaria in linea anche con la Costituzione, da quanto di ‘decorativo’ se non di cattivo gusto viene inserito dai magistrati, vedi le ‘classiche’ conversazioni sulle infedeltà di coppia, da prassi poco edificanti. Un esempio: ho lavorato molti anni per l’agenzia di stampa Reuters, una delle più autorevoli del globo. Nel momento in cui si scopre che una persona è indagata l’obbiettivo non è ‘bruciare’ gli altri e scrivere il nome il prima possibile ma contattare al volo un suo legale per il diritto di replica. Altrimenti la breaking news non viene diffusa.

    In ogni caso, un modo per riparare ai danni provocati da una cattiva cronaca giudiziaria, senza attenzione per la presunzione d’innocenza come purtroppo spesso accade e per la diversità di ruoli che hanno le persone citate, come in questo caso il sottosegretario leghiste Freni che non è indagato, il che ovviamente non lo sottrae a un giudizio ‘politico’ da parte del cittadino, resterebbe proprio quello di avere un testo in mano. Così come per controllare se la magistratura non abbia disposto provvedimenti di limitazione della libertà arbitrari o fumosi, un’evenienza non così rara.

    La conoscenza e la divulgazione dell’ordinanza di custodia cautelare in un Paese dove i cronisti giudiziari e i magistrati esercitassero alla perfezione la loro professione non servirebbe. In Italia spesso è un’ancora di libertà e democrazia a cui attaccarsi per non affondare, perlomeno in attesa di una stampa e di una giustizia migliori. (manuela d’alessandro)

  • Perché è impossibile trovare un’etica nei casi di cronaca (compresa la storia di Giulia)

    Che dovessimo studiare semiotica, teorie della comunicazione di massa, analisi dei media per fare i giornalisti ci sembrava in certi lunghi pomeriggi passati in via Sant’Agnese, a Milano, un po’ una perdita di tempo. Volevamo stare in redazione, scendere nell’aula del seminterrato e parlare di pezzi, interviste, foto, realtà. Poi c’era un professore che veniva dal centro San Fedele, padre Luigi Bini, un gesuita svizzero che a volte ci sembrava un marziano con le sue lezioni di etica della comunicazione.

    Passati circa venticinque anni mi viene spesso da pensare a quei colleghi della scuola di giornalismo dell’Università Cattolica, se anche a loro, guardando i Tg, leggendo i giornali, scrivendo articoli o commissionando pezzi, capiti di ritrovare qualcosa di già detto e previsto dalle analisi e le dinamiche che studiavamo in quegli anni. A me capita. Quando vedo le notizie da prima pagina, e scelgo la parola vedere apposta, mi prefiguro già la puntata successiva, come una serie di una piattaforma con tutti i passaggi e le variabili. Così prevedibili sono la realtà e l’umana natura? La risposta è no.

    Visto il luogo in cui uscirà questa sequenza di frasi, in uno spazio digitale, stilisticamente addomesticato alla brevità e alla perentorietà anche, non posso permettermi troppe divagazioni e andrò subito al punto.

    Perché quando vediamo i protagonisti di questi fatti da prima pagina ci aspettiamo invece qualcosa di nuovo, sorprendente e definitivo che porti a una svolta, un insegnamento, un’esemplarità? 

    E’ per quella cosa che dice il Censis, cioè il sonnambulismo dell’ipertrofia emotiva? Cioè l’essere sollecitati talmente tanto da un diluvio di emozioni, dolore, rabbia, indignazione, da non sentire più niente e allo stesso tempo rimanere sempre nell’attesa di un risveglio? Che qualcosa finalmente accada e ci spieghi cosa è successo prima o cosa ci siamo persi?

    Si. Questo «sì» vale però come effetto, non come causa. Prima c’è un altro meccanismo che agisce, il diventare appena si entra nel setting della notizia, sia come lettore e attore, un altro essere, finzionale, un personaggio della stessa rappresentazione mediatica.

    Entri persona reale con il tuo vissuto, il tuo passato, esci mutato e mutante, a seconda dell’inclinazione che riesci a prendere sotto il peso inerziale dell’immaginario mediatico.

    Diventi una persona simbolica, una maschera, come il personaggio della relazione sociale pensato  a Chicago da Goffman che faceva partire questo meccanismo molto prima, dalla vita quotidiana stessa. Figuriamoci per chi ascende agli onori o discende nei disonori della cronaca. Se si guarda bene è già un ruolo. Il padre, la madre, il giudice, il medico, la vittima, il soccorritore, il corrotto, il freak, il protagonista, l’aiutante, l’antagonista e la principessa. Uso queste ultime quattro figure per mostrare a cosa sto pensando, a Propp e alla sua morfologia della fiaba. C’è una morfologia della notizia che non sfugge a una simile forma, non c’è niente da fare, è l’inerzia dell’immaginario, una sorta di peso gravitazionale del nostro accadere, un recinto che ci chiude ma che ci protegge anche da realtà non classificabili che possono sempre accadere, evocate come un ignoto temibile dietro l’angolo.

    Una volta reificato, il personaggio-maschera può parlare alla massa uniformata del mondo delle correnti social che acchiappano visualizzazioni, A questo punto tutto quello che si intravvedeva di personale e unico si traduce in un linguaggio base, da paniere Istat del parlato italiano. Le parole diventano hashtag perché solo così funzionano, aggregate a flussi tematici. I discorsi ampi e articolati si frantumano in pochi secondi di reel, ripetuti senza dover cliccare la funzione restart, basta poi un gesto di un pollice per passare a un altro flusso.

    Entri subito, se non fosse per quella cosa che giudichiamo noiosa dei cookies, nella macchina economica di questo sistema, fino a determinare in una scala dimensionale le pubblicità che valgono di più se porti la pagina a moltiplicare le visualizzazioni, le home page più cliccate, fino ad alimentare le aspettative dell’audience tv e richiamare gli ingaggi delle società di produzione, gli uffici di comunicazione che dettano le scalette.

    Tutto questo apparato non si vede, riesce a non disturbare la trasparenza del media. Non fa vedere l’artefatto, sembra tutto vero e autorevole come quella frase che si diceva nel periodo dell’Archeotv «l’ha detto la televisione» o ai tempi della radio, l’antenata di tutto questo sistema come ci spiegava il professore Giorgio Simonelli con il suo piglio gentile ad equilibrare qualche conclusione apocalittica.

    E al famoso lettore, cioè a chi digita, legge, guarda, allettato da una grande notizia, dove la realtà da mostrare sembrava tanta e vivida con tante cose da svelare, con protagonisti ricchi di valori e/ o disvalori, dove si assicura una mobilitazione di pensieri tali da richiamare la spiegazione importante del pensatore onnisciente che deve però parlare poco, giusto per abbozzare un senso,  al famoso lettore, dicevamo, ora non sembra abbastanza.

    Manca l’insegnamento, un’etica definitiva, un ecco adesso ci siamo, ricordiamocelo, fissiamolo per sempre come un mai più del nostro comportamento. Mai più tragedie, mai più guerre, mai più incidenti, mai più. Seguono la delusione e poi l’accusa. La storia non regge la missione iniziale, c’è qualcosa della materia bruta che non riesce ad entrare nel making of e annulla le aspettative. C’è disorientamento, come l’effetto di un neon sparato negli occhi, che cancella le sfumature, i rilievi, le profondità. Sempre nella nostra scuola della Cattolica, Alberto Negri, professore di Semiotica del testo audiovisivo, parlava proprio di neon-tv per descrivere l’abbaglio che sembra mostrare le cose in modo più vivido ma in realtà le cancella per sovraesposizione.

    E che facciamo?  Qualcuno comincia a ribellarsi e a parlare dell’assenza di un contesto comune di valori che ci possa tutelare da questi abbagli e dalle false speranze, «ai miei tempi», «eccetera eccetera», fino a pensare che è meglio starsene rintanati nelle nostre piccole comunità, aver voglia di spegnere tutto come soluzione (tentazione a cui in realtà io cedo volentieri, ndr). Anche questo un già visto e previsto. Uscire da questa che i massmediologi chiamano infosfera non è però possibile. Cercare di prenderne le distanze si, almeno per vedere come funziona (riprendere in mano gli appunti di Padre Bini, nel mio caso) o provare a vederci da fuori, come faceva Lorenz con le oche.

    Un’etologia prima dell’etica, e sarebbe già tanto.

    Giusi Di Lauro

  • Il “potere dei buoni” di Gaber nel caso Giambruno

    “E’ il potere dei buoni costruito sulle tragedie e sulle frustrazioni/E’ il potere dei buoni che un domani può venire buono per le elezioni”.  Tramortiti dalla tempesta Gianbrunesca, ci viene da pensare al corrosivo Giorgio Gaber e ad accennare qualche riflessione che vale per Giorgia Meloni ma potrebbe valere per Elly Schlein o chiunque altro. Qual è la possibile notizia nel caso che svetta sui media italiani, mettendo a tacere il boato delle guerre sotto i nostri piedi? L’unica che cogliamo, ma non abbiamo per nulla certezza che le cose siano andate così, è che una televisione guidata dagli eredi del fondatore di un partito di maggioranza, possa  aver voluto colpire la premier.

    Al di fuori di questa possibilità, troviamo allucinante che la compagna del conduttore, che nulla c’entrava con quei fuori onda, abbia dovuto oggi pubblicare una lettera in cui comunicare all’Italia intera lo status sentimentale della sua vita privata perché in quanto premier del Paese deve dare una spiegazione manco fossimo negli USA guardoni e bigottoni che mandano a casa i presidenti ,non eventualmente perché conducono guerre discutibili , ma perché hanno annusato un paio di mutande non coniugali. Allucinante anche che tutti noi di fronte ai filmati di ‘Striscia’ (mica hanno  scoperto reati o salvato vite) finiamo con il “godere” della gogna di Giambruno, essendoci ormai assuefatti a un giornalismo televisivo sceso a un livello talmente infimo da farci rimpiangere i fotoromanzi in bianco e nero degli anni ’50. Giambruno ha avuto comportamenti sessisti? Sembrerebbe di sì, sia la sua azienda a deciderlo, non il forcone del popolo in un Paese in cui allusioni e battute di questo tipo, a volte accompagnate da ricatti professionali, sono la regola in molti uffici. E’ giusto “godere” perché la premier ha sempre esaltato la “famiglia tradizionale”? La politica fatta coi ‘fuori onda’ assomiglia troppo alla schadenfreude, il piacere del fallimento altrui.

    “La mia vita di ogni giorno è preoccuparmi di ciò che ho intorno/ogni tragedia nazionale è il mio terreno naturale perché dovunque c’è sofferenza sento la voce della mia coscienza”. Quale coscienza?

    (davide steccanella e manuela d’alessandro)

  • Lo scabroso diritto alla difesa di Alessandro Impagnatiello

    Un avvocato si e’ tirato indietro per non meglio precisate incrinature nel rapporto fiduciario col cliente, così come una seconda, nominata d’ufficio, che ha avanzato un’ incompatibilità, pare certificata. 

    La terza, quella attuale, non si è nemmeno presentata all’istituto di medicina legale né  ha indicato un consulente per partecipare all’autopsia di Giulia Tramontano, la ragazza uccisa incinta al settimo mese. Strategia concordata con la famiglia? L’assistito non voleva pagare i soldi per la consulenza?

    Fatto è che Alessandro Impagnatiello, reo confesso di avere ammazzato la giovane donna, ha avuto tre difensori nel giro di una settimana.

    Quello che sta succedendo a proposito del suo diritto alla difesa ci colpisce molto. E ci sembra un ulteriore risvolto di una vicenda in cui sono saltati alcuni schemi necessari in uno stato di diritto maturo. Il diritto costituzionale alla difesa non viene modulato in base alla gravità del reato. Esiste, e basta, in tutto il suo straordinario valore, per il capo mafia allo stesso modo che per il ladro di polli che ha rubato per fame. E anzi se c’e’ un momento in cui si ‘esalta’ di più è proprio quando il reato è più odioso, come in questo caso, nei giorni in cui si sente sulle reti pubbliche invocare perfino la pena di morte.

    Come mai è cosi difficile assistere Impagnatiello?

    La Camera Penale di Milano ha sottolineato la degenerazione del processo mediatico e i contenuti ‘spavaldi’ della conferenza stampa della Procura di Milano. Aggiungiamo che il flusso di informazioni provenienti dagli inquirenti e’ stato incessante, con foto e video veicolati attraverso canali ufficiali che avranno, forse, inorridito l’ex ministra Cartabia alla cui legge sulla presunzione d’innocenza le Procure si richiamano invece  quando sono in ballo indagini che coinvolgono politici o comunque bersagli molto più scomodi di un omicida che ha confessato.

    E’ vero che qui di innocenza proprio non se ne può parlare vista l’ampia confessione e le prove accumulate contro Impagnatiello ma ci vorra’ un processo per stabilire alcuni aspetti essenziali per la modulazione della pena che invece sono gia’ stati sviscerati con grande vigore e certezze da chi dovrebbe attenderne lo svolgimento. C’è chiaramente anche un tema sociologico. L’avvocato Davide Steccanella parla di “mostrificazione” e di “ansia di punizione e castigo estremo”. “E’ terribile quello che ha fatto questa persona ma che piacere c’è nel sapere che verrà buttata via la chiave?”.

    Giornalisti, inquirenti, avvocati. Guardiamoci in faccia e chiediamoci: perché  e’ così scabroso il diritto alla difesa di Alessandro Imapagnatiello?

    (manuela d’alessandro)

  • Differenze di trattamento del caso di Roma Termini e del figlio di Salvini

     

    Tema numero uno. Un uomo probabilmente affetto da disagio psichico, senzatetto, vagabondo, straniero, qualche precedente di polizia, accoltella una turista a Roma. Due bravi carabinieri fuori servizio lo individuano a catturano, in stazione Centrale a Milano, martedì 3 gennaio.

    Fermo di polizia giudiziaria. La mattina dopo, mercoledì 4 gennaio, il pm di turno chiede la convalida del fermo e attorno a mezzogiorno la invia al gip. Il giudice fissa l’interrogatorio per le 3 di pomeriggio dello stesso giorno. Alle 18.00 le agenzie scrivono che il fermo è convalidato, alle 18.30 aggiungono i primi dettagli sul provvedimento. Sono passate esattamente 24 ore dal fermo.

    Intanto per tutta la mattina e il pomeriggio molti giornalisti attendono di poter intervistare i due carabinieri. Loro sono disponibili, il comando pure, ma ci vuole l’autorizzazione della Procuratore capo, da cui dipende praticamente ogni comunicazione giudiziaria, in seguito alla riforma Cartabia. Ma se non c’è neanche un comunicato sul fermo, figuriamoci se sono autorizzate le interviste.

    La nota arriva alle 16.45, autorizzata dalla Procura di Roma. Comunica che l’uomo è stato arrestato – cosa che tutti sanno dalla sera prima – aggiungendo pochissimi dettagli. I giornalisti vengono fatti entrare in caserma all’istante, per intervistare i due militari.

    Tema numero due. Il figlio di un ministro viene rapinato per strada da due giovani nordafricani. E’ il 23 dicembre, due giorni prima di Natale. Non è un caso difficile da risolvere, e la parte offesa, accompagnata dal padre in Questura, dà pronta e utile collaborazione. Il 5 gennaio i due rapinatori vengono arrestati, con misura di custodia cautelare firmata dal gip, su richiesta del pm. Sono passati 13 giorni dal fatto. Alle 17.25 del 5 gennaio l’arresto viene comunicato con una tempestiva nota ufficiale.

    Dica il candidato (avvocato, giornalista):

    – Quante volte ha assistito in vita sua a tempstiche così rapide tra un fermo di pg e la sua convalida.

    – Quanto spesso tra la consumazione di un reato e l’esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare passano meno di 15 giorni.

    Determini il candidato (avvocato, giornalista)

    – Il livello di disfunzionalità e di ipocrisia istituzionale del sistema di comunicazione affidato ai soli comunicati dei Procuratori della Repubblica. (nino di rupo)

     

  • Le nuove materie ‘top secret’ sottratte dal governo all’accesso civico

    Ora che il Governo se ne va, veniamo a scoprire grazie a un tweet  della giornalista Laura Carrer che a marzo un decreto firmato dalla ministra Luciana  Lamorgese ha amputato alcuni dei più preziosi strumenti in mano non solo ai giornalisti ma anche e soprattutto a tutti i cittadini per controllare cosa combini la pubblica amministrazione.

    Il provvedimento allarga e di molto le situazioni in cui può essere negato l’accesso semplice ai documenti amministrativi e quello generalizzato, il cosiddetto FOIA d’importazione anglosassone, rendendo  complicato  avere informazioni anche in materie cruciali come l’immigrazione e le tecnologie di sorveglianza. A colpire in modo particolare è il bollino ‘top secret’ imposto su quello che accade alle frontiere. Vanno sotto chiave  “i documenti relativi agli accordi intergovernativi di cooperazione, di programmi per la collaborazione internazionale di polizia inclusa la gestione delle imprese e della cooperazione” e quelli che riguardano “la cooperazione con l’Agenzia Europea della Guardia di Frontiera e Costiera per la sorveglianza delle frontiere esterne dell’Unione Europea  coincidenti con quelle italiane”. Il riferimento sembra proprio essere a Frontex.

    Il variegato elenco delle carte sottratte al diritto di accesso comprende anche “le relazioni di servizio, le informazioni e gli altri atti o documenti inerenti a materiali di alta tecnologia utilizzati per le operazioni speciali” e le “relazioni tecniche sulle prove d’impiego dei materiali e dei sistemi informatici e di telecomunicazione oggetto di sperimentazione”.

    Alla base di queste limitazioni c’è il concetto di “sicurezza nazionale”, lo stesso in nome del quale il Governo negò nei mesi scorsi all’agenzia di stampa AGI la possibilità di far sapere in base a quali atti vennero fatti tornare indietro  nel giro di poche ore i militari spediti nelle zone di Nembro e Alzano per trasformare in  ‘zona rossa’ il territorio più aggredito dal Covid provocando, forse, più vittime delle tantissime che già si contarono.  (manuela d’alessandro)

    Testo aggiornato della legge

     

     

  • Capri espiatori, Becciu il Palamara del Vaticano

    È la logica del capro espiatorio la soluzione che organismi di potere dimostrano di gran lunga di preferire pur di non affrontare problemi e fenomeni che sono chiaramente alla radice di ciò che emerge. E non sembra una situazione caratteristica esclusiva del nostro Paese a vedere quello che sta accadendo in Vaticano con la parabola discendente di monsignor Giovanni Becciu, fino a pochi giorni fa potentissimo caro amico di Papa Francesco e ora nella polvere.
    Ci corre un paragone con la vicenda di Luca Palamara, il magistrato che veniva ripetutamente e ossessivamente cercato da colleghi che ambivano a incarichi importanti e che adesso, caduto in disgrazia, è stato scaricato da tutti.
    Ovviamente la stragrande maggioranza degli organi di informazione fiancheggia queste operazioni, si fa pochissime domande e procede a spron battuto nella distruzione dell’immagine degli ex potenti.
    Monsignor Becciu venne nominato da Benedetto XVI nel 2011. È stato sostituto per gli Affari generali, confermato da Bergoglio e nominato delegato speciale presso il Sovrano ordine militare di Malta al fine di risolvere la crisi dello stesso. Poteva gestire i fondi della Segreteria di Stato, a cominciare da quelli dell’Obolo di San Pietro, il denaro che la Chiesa raccoglie per le opere di carità in favore dei poveri.
    Evidentemente Becciu poteva agire senza controlli. Evidentemente i controlli non esistevano. Non c’erano gli anticorpi che sarebbero stati necessari per prevenire operazioni illecite, comprese quelle sottrazioni di denaro poi finito in mille rivoli che adesso vengono ipotizzate dalle inchieste sia della Santa Sede sia in Italia.
    Il modo in cui Becciu è stato eliminato, addirittura con l’esclusione dal futuro conclave, dimostra l’inutilità sostanziale di parlare di mere ipotesi investigative. Becciu non ha avuto possibilità di difendersi in presenza di un quadro accusatorio sicuramente pesante. Il monsignore sarebbe stato tra l’altro responsabile di un accordo per mettere lo stemma della Caritas sulle bottigliette della birra artigianale “Pollicino” prodotte dalla “Angel’s” amministrata dal fratello Mario.
    Tutto dovrà essere provato? Solo in teoria è così. Monsignor Becciu in sostanza è già stato condannato. Non è certo il primo collaboratore del Pontefice chiamato a svolgere incarichi importanti a finire male. Ha fatto tutto da solo? In Vaticano esistono organismi e persone che hanno il compito di vigilare? Chi controlla chi?
    E Luca Palamara ha fatto la stessa fine di Becciu. Il capo della Direzione nazionale antimafia, Federico Cafiero De Raho, come risulta dalle intercettazioni finite puntualmente sui giornali, gli telefonava per dirgli: “La tua battaglia è la nostra”. Il procuratore di Milano Francesco Greco gli dava appuntamenti: “Ci vediamo al solito posto”. Palamara aveva in mano la carriera di decine e decine di colleghi. Avrebbe contribuito alla nomina per incarichi direttivi di almeno 84 magistrati.
    Perché Palamara agiva con grande furbizia. Anche quando aveva in origine un candidato suo diverso da quello che poi avrebbe vinto, il nostro virava in extremis sul vincitore. Insomma, non perdendo praticamente mai acquisiva sempre maggiore potere.
    Ora l’ex magistrato più potente d’Italia è rimasto con un pugno di mosche in mano. Con il Csm di cui fece parte che gli ha negato a livello disciplinare il diritto a difendersi. Aveva chiesto, Palamara, 133 testimoni a discarico: ne ha ottenuti solo un paio, peraltro già presenti nella lista dell’accusa. Per i commerci sotto banco degli incarichi e per i rapporti con il mondo politico sarà il solo a pagare l’ex pm della capitale. E il suo “disciplinare” rischia di essere il processo pilota per il futuro. Quello senza diritti della difesa, quello sognato da molti procuratori almeno fino a quando non saranno loro a finire sotto inchiesta.
    Restano al loro posto tutti i colleghi che Palamara ha contribuito a far nominare. Sembra sia stato solo lui a inquinare la vita della magistratura. L’Anm non ammette critiche, lamenta addirittura che ci si occupi sui giornali delle irregolarita’ nei concorsi per magistrati (in realtà se ne scrive pochissimo).
    La politica dal canto suo è silente. Stanno zitti anche gli esponenti di partiti che in passato furono protagonisti di scontri durissimi con la magistratura, a iniziare da quelli che nel 2013 occuparono i corridoi del tribunale di Milano in difesa del loro leader, imputato in un processo per un pelo di quella lana nel quale alla fine venne assolto. Evidentemente a tutti o quasi va bene la giustizia per come viene amministrata, va benissimo il Csm ripulito dal metodo Palamara, quello usato per beneficiare tanti magistrati che continuano a impartire dal loro scranno lezioni di etica e di morale. Tutto bene ora. In Italia e pure all’estero. Senza Becciu e senza Palamara.
    (frank cimini)

  • Rossana Rossanda il Piedifesto e la giustizia

    Dal Manifesto al Piedifesto. Fanno finta di celebrare Rossana Rossanda per celebrare se stessi. Il numero dedicato alla fondatrice si candida alla nomination per il festival dell’ipocrisia e del falso. La direttrice Norma Rangeri scrive che dopo la rottura del 2012 si erano “reincrociati”, che lo scontro non era sulla linea politica ma sulla struttura del giornale. In realtà di Rossanda, del suo pensiero e delle sue battaglie nelle pagine del giornale non c’era più niente.
    Il Manifesto di Rossanda aveva candidato Pietro Valpreda per sottrarlo agli schiavettoni e alla cella. Il quotidiano di oggi non scrive una riga sugli anarchici arrestati senza ragione tra Roma e Bologna neanche quando nel caso del capoluogo emiliano il Riesame li aveva scarcerati. Nonostante due cronisti del giornale che si dice comunista disponessero delle carte dell’inchiesta. Evidentemente c’erano e ci sono direttive precise.
    Del resto sono tempi in cui si è scelto di pubblicare appelli in cui si dice che il governo Conte è il miglior esecutivo possibile. Si, con il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, pronto a inviare gli ispettori tutte le volte che i giudici di Sorveglianza, smentendo le Procure e le Distrettuali antimafia, scarcerano un detenuto per ragioni di salute anche solo per evitare che soccomba al Covid.
    Non esiste traccia che sia una di quello che fece Rossana Rossanda anche in difesa di Mambro e Fioravanti, condannati sulla base di un impianto accusatorio assurdo e poco credibile.
    La battaglia sul caso 7 aprile, che resta una pietra miliare del garantismo e del diritto, tempo fa sulle pagine del Manifesto trovò “riscontro” nella celebrazione dello storico inviato dell’Unita’ Ibio Paolucci, il quale era stato tra i pm di complemento dell’operazione con cui il grande partito si liberava dei suoi avversari politici.
    E non possiamo non ricordare l’ultimo misfatto nel numero del 2 agosto scorso, con l’articolo di Saverio Ferrari che dava credibilità alle bufale dietrologiche della Procura generale sulla strage di Bologna, con Licio Gelli che avrebbe dato un milione di dollari a Mambro e Fioravanti. Nello stesso pezzo si scriveva di rapporti tra Sisde (che nel 1978 non esisteva) e Brigate rosse, di Moro prigioniero in via Gradoli, dove non è mai stato secondo le ricostruzioni di innumerevoli processi e della stessa commissione parlamentare di inchiesta, già di per se’ capace di realizzare film fantasiosi.
    Una lettera di replica alle bufale dietrologiche e complottarde firmata da diversi storici, giornalisti e addetti ai lavori non è stata pubblicata dal giornale che a firma di Rossanda il 26 marzo del 1978 gridava in faccia al Pci che le Brigate rosse erano parte integrante del movimento operaio. Album di famiglia.
    Senza fare un plisse’ il Manifesto ha riportato le parole di Zingaretti che diceva di aver apprezzato Rossanda come insegnante del dissenso critico. Zingaretti, appena eletto segretario, si era inginocchiato davanti agli imprenditori del Tav. Una vicenda drammatica, quella dell’Alta velocità: pur di vedere realizzata l’opera, il sistema condanna Dana per blocco stradale a due anni di reclusione negando le misure alternative al carcere.

    (frank cimini)

  • Nella sentenza sul fotoreporter ucciso  il trionfo dei free lance di guerra

    Nella sentenza sul fotoreporter ucciso
    il trionfo dei free lance di guerra

    La morte di un giovane reporter. Mentre faceva il suo lavoro di reporter. Un caso risolto con il contributo fondamentale di altri reporter. C’è tutta la tragedia e al contempo il trionfo di una professione a rischio, quella dei giornalisti freelance di guerra, nelle 169 pagine con cui la corte d’Assise di Pavia motiva la condanna l’italo ucraino Vitaly Markiv accusato di aver ucciso, o meglio contribuito a uccidere, il giovane ma esperto fotografo Andrea ‘Andy’ Rocchelli.
    Quei giornalisti, spesso pagati a pezzo o a fotografia, senza tutele di categoria, animati da passione vera per il racconto di aree di crisi, sono elencati uno per uno, testimoni sul campo (il Donbass lacerato dalla guerra tra l’esercito regolare e le formazioni paramilitari ucraine contro le milizie filorusse) testimoni nel processo. Si chiamano William Roguelon (scampato per un soffio alla morte), Ilaria Morani, Marcello Fauci, Francesca Volpi, Andrea Carruba.

    Con Andy Rocchelli, vicino a Sloviansk, il 24 maggio 2014 morì anche il producer Andrej Mironov. Markiv, difeso in aula dall’avvocato Raffaele Della Valle, faceva parte della Guardia nazionale ucraina, appostata su una collina da cui partirono i colpi diretti ai giornalisti. Quelli di kalashnikov prima, sparati tra gli altri dallo stesso Markiv, quelli di mortaio poi, lanciati dall’esercito ucraino, nella ricostruzione dei giudici, su precise indicazioni di Markiv.
    Hanno contribuito certo alla condanna alcune intercettazioni ambientali, contestate dalla difesa, in cui Markiv sembra confessare l’omicidio. Ma il ruolo dei testimoni a dibattimento è stato essenziale. Come quello per la conoscenza della situazione in quel territorio: “L’attacco mortale – scrivono i giudici – fu rivolto a giornalisti nell’esercizio del diritto di documentare il conflitto in atto. Erano giornalisti ben riconoscibili come tali”.
    Nonostante Rocchelli non fosse iscritto all’Ordine e non avesse un contratto Fnsi, la Federazione nazionale della stampa nel processo era parte civile e con lo studio legale Pisapia ha contribuito a sostenere le accuse a Markiv formulate dal pm Andrea Zanoncelli.
    Una sentenza che probabilmente ad Andy sarebbe piaciuta. Qui la sentenza completasentenza-rocchelli-markiv-motivazioni_compressed

    Qui sotto alcuni passaggi.

    “Fu (in un colloquio con i giornalisti Fauci e Morani, ndr) lo stesso Markiv a collocare se stesso, quel giorno, sulla collina Karachun, pienamente al corrente dell’attacco appena sferrato ai reporter”. pag 160.

    “Non c’era nessuno scontro in atto: i giornalisti non incontrarono nessun posto di blocco filo-russo, nessun soldato filorusso, per cui scesero dal taxi per il loro servizio in una situazione di tranquillità. Solo quando, percorsa la strada, si avvicinarono al treno per scattare le fotografie un giovane ragazzo in abiti civili uscì da una piccola costruzione al lato della ferrovia e li avvertì del pericolo con la parola ‘sniper’. Mironov, il soggetto più esperto del gruppo, consigliò di allontanarsi lentamente, in fila indiana, tornando verso il taxi. Appena raggiunsero l’altezza della fabbrica Zeus ebbe inizio l’attacco, sferrato in più fasi e ccn differenti armi, che non ebbe alcun momento di desistenza sino al definitivo allontanamento del superstite Roguelon. La prima parte dell’offensiva fu portata a colpi di kalashnikov, scariche di colpi, una serie continua di raffiche che sfrecciavano sopra le loro teste e impattavano contro il muro della fabbrica Zeus. Mentre tutti i soggetti si trovavano nel fossato del boschetto proseguirono gli spari e, quindi, dopo cinque minuti, iniziò la seconda parte dell’offensiva, portata con i colpi di mortaio. (…) Dapprima venne preso di mira il taxi, Iniziò quindi la sequenza mirata a tiro progressivo di avvicinamento, dei colpi di mortaio (…) L’attacco proseguì colpendo dapprima Roguelon alle gambe. Fu nella prosecuzione di questo bombardamento che morirono Mironov e Rocchelli, che Roguelon ha ricordato a poca distanza da sé”. Pag 161

    E’ pacifica “la ricostruzione del tiro al bersaglio cui erano state sottoposte le persone che avevano cercato scampo nel fossato. In totale furono scaricati 20, 30 colpi di mortaio sui soggetti rifugiati nel boschetto”. pag. 162
    “All’agguato contro i giornalisti partecipò in modo attivo Markiv”. Era armato “del proprio Ak74, arma provvista di mirino ottico utile a consentire la migliore visione per attingere bersagli a maggiore distanza e con più precisione. Da quella postazione poteva e doveva fornire le indicazioni necessarie per indirizzare il tiro dei mortai (in uso all’esercito ucraino, ndr) che, come ogni giorno, erano pronti a intervenire”.
    Le modalità furono proprio quelle descritte a Ilaria Morani da Markiv, in quella confessione stragiudiziale, elemento rilevante del compendio probatorio, che l’imputato non ha saputo/potuto smentire a dibattimento e che, invece, ha trovato piena corrispondenza nelle ulteriori decisive prove acquisite”. Markiv, nella sua funzione di capo postazione, pur in assenza di qualsivoglia attacco di fuoco della parte nemica, insospetitto dai movimenti dei giornalisti avvicinatisi in prossimità del treno, si mosse “sparando a tutto quello che si muoveva nel raggio di due chilometri’”.
    “Markiv partecipò alla prima sparatoria con i fucili Ak74 contro i giornalisti nelle vicinanze del muro della fabbrica Zeus (…) Non riuscendo ad attingere i giornalisti con i kalashnikov, proseguì la propria azione seguendone i movimenti grazie al mirino ottico in dotazione, comunicando attraverso il proprio comandante con l’esercito al fine di colpire il taxi per impedire la fuga e immobilizzare ed eliminare i soggetti nel bosco ove si erano rifugiati (…) consentendo di calibrare quei colpi che Roguelon ha descritto come precisi, in progressivo avvicinamento e aggiustamento, che in sequenza lo attinsero alle gambe, poi caddero accanto a Rocchelli e Mironov, con un colpo più vicino, dalle conseguenze letali”. Pag 163

  • Crac dell’Unità: “pm Fava ci ha detto che sul Pd dobbiamo indagare noi”

    “Si rigettano le richieste istruttorie potendo provvedere la difesa all’acquisizione documentale e all’assunzione delle informazioni”. Così il pm di Roma Stefano Fava, coinvolto nella bufera che ha travolto il Csm, ha risposto alle richieste di approfondimento, tra cui quelle sul ruolo del Pd, presentate dai legali di 3 imputati nel procedimento sul crac della società Nie (Nuova Iniziativa Editoriale) che ha pubblicato il quotidiano ‘L’Unità’ dal 2008 al 2015.  A  raccontarlo, in vista dell’udienza preliminare che si aprirà a settembre, sono gli avvocati Pasquale Pantano e Davide Contini che assistono l’imprenditore Maurizio Mian e le consigliere di amministrazione della Nie Olena Pryschchepko e Carla Maria Riccitelli. L’accusa per loro  è di bancarotta fraudolenta.

    “Dopo che il pm ha notificato nell’aprile dell’anno scorso il 415 bis (l’atto che sigla la chiusura dell’inchiesta, ndr) – affermano i legali – ci siamo accorti che nella consulenza tecnica da lui disposta in precedenza mancavano tutta la parte relativa all’investigazione sul ruolo del Pd i i documenti societari necessari per stabilire le responsabilità nella gestione”. Pantano e Contini hanno quindi presentato un’istanza al pm chiedendo di fare luce, tra le altre cose, sull’esistenza di un patto parasociale “in forza del quale la concreta gestione dell’affare sociale di Nie era concentrata nelle esclusive mani del Partito Democratico per il tramite di Eventi Italia srl, circostanza confermata nelle interviste agli atti di Matteo Fago, Antonio Misiani e Matteo Orfini (rispettivamente socio della Nie e indagato; tesoriere del Pd; parlamentare dello stesso partito)”. Inoltre, hanno domandato al pm di sentire come testimoni Misiani, che, secondo un testimone, avrebbe firmato i patti, Orfini e Lino Paganelli, amministratore unico di Eventi Italia srl. A questa istanza, il il pm Fava ha risposto con poche righe a penna, senza entrare nel merito delle singole richieste, invitando la difesa a provvedere da sola “all’acquisizione documentale e all’assunzione delle informazioni”.  “In sostanza il pm – replicano i legali  – vuole che indaghiamo noi sul Pd quando spetterebbe a lui”. Nel frattempo, il pm Fava è finito indagato per  favoreggiamento e rivelazione di segreto d’ufficio nell’ambito dell’indagine perugina che coinvolge l’ex presidente di Anm Luca Palamara, sospeso nell’ambito della ‘crisi’ del Csm, e legato, stando alle intercettazioni, all’esponente del Pd Luca Lotti. A puntare il dito contro il partito è anche Mian in una memoria agli atti del procedimento e finora inedita. “Ho registrato una perdita di quasi 14 milioni di euro – scrive –  frutto di una gestione dir poco arrogante da parte del Pd che usava la Nuova società editrice (Nie) per assecondare i propri principi politici”.

    Attraverso la sua società, la Gunther Reform Holding (ora in liquidazione), e “su sollecitazione degli apicali del Pd” che possedeva l’1% per cento della società,  Mian aveva finanziato la Nie con 14 milioni e, in cambio, il partito gli aveva prestato una garanzia con una fideiussione.  “Con evidente senno del poi ritengo di avere fatto l’errore di fidarmi del partito – sostiene Mian- perché il Pd ha mancato di onorare le garanzie prestate, facendomi perdere una rilevante somma che io non avrei mai impegnato se il Pd non mi avesse raggirato”.  Secondo il pm romano, i 12 indagati, tra i quali anche l’imprenditore ed ex governatore sardo del Pd Renato Soru nelle vesti di socio della Nie, avrebbero “cagionato o partecipato a cagionare il dissesto della società aggravandone la crisi finanziaria e dissipando il patrimonio societario non riducendo i costi fissi relativi alla stampa del quotidiano, pur in presenza di una contrazione delle vendite della testate e di un decremento significativo dei contributi pubblici”. A quattro indagati, tra cui Mian, viene contestato in particolare di “avere distratto in concorso dal patrimonio della società, già in crisi, come evidenziato dalle perdite per gli anni 2009-2010-2011, risorse pari a 4 milioni di euro e consistenti nei contributi pubblici all’editoria che la Nie avrebbe dovuto ricevere, attraverso le cessioni di crediti datate 4 aprile e 8 giugno 2012, atti stipulati al solo fine di favorire il socio Gunther Reform Holding, restituendo allo stesso finanziamenti effettuati alla Nie”.  (manuela d’alessandro)

     

     

  • Scientology sconfitta, la stampa può investigare nella Chiesa

    Il giudice civile di Milano Nicola Di Plotti ha rigettato la richiesta di risarcimento di 80mila euro presentata dalla Chiesa Scientology di Milano nei confronti dei due cronisti Andrea Sceresini e Giuseppe Borello, autori di un documentario sulla Chiesa vincitore del Dig Awards nel 2016 e poi tramesso dal programma ‘Report’.

    Borello, con l’obbiettivo di registrare attraverso audio e immagini un’inchiesta sotto copertura, si era professato fedele e aveva utilizzato un falso nome per entrare a far parte della comunità di viale Fulvio Testi diventando membro dello staff per carpire informazioni agli adepti.
    Per il giudice non è stata commessa nessuna violazione di domicilio perché “la sede di Scientology non può essere qualificata come un luogo di privata dimora, trattandosi di un luogo aperto al pubblico”. “In quanto luogo di culto – argomenta – è accessibile a una pluralità di soggetti anche senza il preventivo consenso dell’avente diritto; l’attività ivi svolta avviene a contatto con un numero indeterminato di persone e, talvolta, in rapporto con gli stessi: in questo senso è fuori luogo parlare di riservatezza o di necessità di tutela della sfera privata del soggetto giuridico”. Borello e Sceresini, difesi dall’avvocato Cesare Del Moro, non sono inoltre responsabili per l’illecita captazione e per la divulgazione delle immagini che ritraevano i fedeli nello svolgimento dei loro rituali e sono state inserite nel documentario ‘The organization’. Questo perché “il Codice della Privacy trova applicazione unicamente nei confronti delle persone fisiche e quindi Scientology non aveva titolarità a chiedere il risarcimento”. Scientology di Milano è stata condannata a pagare oltre 13mila euro di spese processuali.

    La vicenda ha anche in corso un risvolto penale. La Procura di Milano sta svolgendo un’indagine che verrà chiusa nelle prossime settimane  sulla presunta diffamazione  attraverso il blog ‘pennivendoli.com’ (ancora online) ai danni dei due giornalisti, assistiti dall’avvocato Marco Tullio Giordano. Al vaglio degli inquirenti anche le chiamate provenienti da un telefono con una sim card riconducibile a un defunto capo dell’organizzazione. (manuela d’alessandro)

  • Il post numero 1000 di Giustiziami

    Giustiziami compie 1000 articoli. Guadagni, zero, anzi siamo in perdita perché ogni anno paghiamo ad Aruba la tassa di registrazione. Tempo ed energie, spesso ‘serali’, che si aggiungono a quelli dedicati alla ricerca delle notizie che già occupa le nostre vite professionali. Rischi di querela senza nessun editore che ce le paghi anche se finora gli unici a farci causa sono stati quelli del nostro ente pensionistico Inpgi (a proposito, per i tanti che ci chiedono: la prima udienza sarà il 4  febbraio a Roma).

    E allora: chi ce lo fa fare? Noi ci divertiamo tantissimo, e la verità è che continuiamo a scrivere per questo. Cerchiamo di farlo con professionalità. Ce lo possiamo permettere perché un lavoro già ce l’abbiamo e ci togliamo lo sfizio di ospitare anche colleghi che ci propongono pezzi ‘sgraditi’ alle loro testate per varie ragioni. Qui c’è posto per tutti, purché le storie siano ben documentate e i colleghi conoscitori delle ‘regole’ della giudiziaria. Una delle cose che ci rende più orgogliosi è essere riconosciuti da quella comunità che di giustizia ci vive: magistrati, avvocati, investigatori, consulenti, cancellieri. A voi che ci avete letto e continuate a leggerci e commentarci, amici, curiosi o anche ‘odiatori’, il nostro grazie infinito.

    Manuela D’Alessandro e Frank Cimini

    ps. un ringraziamento speciale ad alcune persone che ci hanno sostenuto sin qui in modo particolare o hanno contribuito, nelle fasi iniziali, alla creazione del blog: Jari Pilati, Igor Greganti, Cristina Manara, Luca Fazzo, gli amici de ‘Gli Stati Generali’, Jacopo Barigazzi,  Gianni Barbacetto, i ‘nostri’ avvocati Davide Steccanella, Eugenio Losco, Mauro Straini, Mirko Mazzali (con loro al nostro fianco non temiamo nessuno!) e a tutti gli altri che ogni giorno ci danno spunti per il nostro lavoro.

  • “Ci avete scippato i giornalisti”, ‘Libero’ porta in Tribunale ‘La Verità’

    “Lei è uno dei migliori giornalisti?”. Claudio Antonelli, cronista della ‘Verità’, stamattina è entrato nel  Tribunale di  Milano pensando a come rispondere a questo ingombrante quesito. I “migliori giornalisti” sono quelli che il quotidiano ‘Libero’ lamenta di essersi visto scippare dai concorrenti del ‘Giornale’ prima e  della ‘Verità’, poi, che quanto a vendita di copie se la passano decisamente meglio. Forse anche perché possono fregiarsi delle brillanti firme transfughe.

    E’ una causa bizzarra e per certi versi incredibile nel mondo del giornalismo quella che, a quanto risulta a ‘Giustiziami’,  si sta giocando in tempi diversi ma con contenuti identici, davanti ai giudici civili milanesi della sezione ‘Imprese e Lavoro’.

    Una prima sentenza ha già dato ragione al ‘Giornale’ e costretto ‘Libero’, che ha comunque fatto ricorso in appello, a sborsare una somma cospicua quantificata da una fonte in 120mila euro. Tra le firme sbarcate nel quotidiano che fu di Indro Montanelli figurano i capi della Cultura e degli Spettacoli, rispettivamente Alessandro Gnocchi e Valeria Braghieri.

    E’ in corso la sfida tra ‘Libero’ e ‘La Verità’, il quotidiano di Maurizio Belpietro che ha portato via al primo un bel po’ di lettori dell’area di centrodestra, assestandogli un colpo micidiale in un momento già poco felice.  Addirittura, il giornale fondato e diretto da Vittorio Feltri contesta ai rivali di avvalersi di cronisti che continuano a occuparsi degli stessi temi, attingendo ad esperienze e fonti acquisite quando stavano a ‘Libero’. Tra questi, oltre ad Antonelli, il giornalista d’inchiesta Giacomo Amadori.

    Insomma, un caso di ‘concorrenza sleale’ per ‘Libero, che invoca  l’articolo 2598 del codice civile la cui violazione è prevista anche per chi “compie atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente”. ‘Libero’ si è scoperto poco liberista. (manuela d’alessandro)