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  • ‘Vai Fabiano, la mamma vuole che tu vada’

     

    Non si è mai vista piangere tanta gente in un’aula, compreso un giudice popolare che si copriva gli occhi per pudore. Non si è mai visto un pubblico ministero (Tiziana Siciliano) porgere dei fazzoletti a un testimone dicendole che era stata fino a quel momento “sin troppo forte”. Non c’è nessun commento alle parole della fidanzata e della sorella di Dj Fabo, morto in Svizzera col suicidio assistito, che qui riportiamo come le abbiamo ascoltate nel processo a Marco Cappato, imputato per ‘aiuto al suicidio’.

    VALERIA, LA FIDANZATA DI FABIANO

    Fabo

    “Ci conoscevamo da 25 anni, prima da amici, poi da una decina di anni da fidanzati. Con lui non non ci si poteva annoiare mai, c’era sempre qualcosa che proponeva, era vivo, era l’essenza della vita. Aveva voglia di vivere ogni secondo al massimo. Non stava mai un attimo fermo, a volte litigavamo per questo, per lui le giornate dovevano durare 48 ore. L’incidente è ‘ arrivato nel momento migliore della nostra storia. Avevamo deciso di trasferirci a Goa. Eravamo felici. Lui avrebbe fatto il dj, io la psicologa e l’insegnante di pugilato per i bambini indiani. Eravamo tornati in Italia per salutare gli amici e la famiglia.

    L’incidente

    Quella sera, il 12 giugno 2014, lui doveva suonare al compleanno di un amico in un locale a Milano. La festa andò bene, c’era un sacco di gente, era contento di suonare in un posto prestigioso. Dopo la serata, Fabiano decise di tornare nella casa di famiglia sul lago, a Ispra, dove voleva terminare dei lavori, nonostante io gli avessi detto ‘Fermati, sei stanco’. Quando  sua madre mi comunicò dell’incidente, saltavo per la casa per il nervoso  perché glielo avevo detto di non mettersi in auto, ma se lui decideva una cosa neanche il Papa gli faceva cambiare idea.

    Lo specchio

    In ospedale gli ho portato uno specchio, volevo che vedesse che la faccia era come prima. Lui non poteva parlare, era tracheotomizzato. Gli dicevo: ‘Ti vedi?’, ma lui guardava verso l’alto. ‘Guarda che bello questo bracciale che ti hanno regalato’, ma lui alzava gli occhi al cielo. Ho capito che era la fine. Fabiano forse poteva vivere da tetraplegico ma non da cieco. Amava gli amici forse più della fidanzata, essere circondato dalla gente, vedere le reazioni di gioia o anche di odio che sucitava, perché  o l’amavi o lo odiavi. Non avrebbe potuto vivere senza vedere la gente che ballava quando suonava.

     Le staminali e le ombre

    Andiamo in India a tentare il trapianto delle staminali, anche se i medici italiani ci dicono che è inutile. Lui non mollava, sognava di tornare a Goa a suonare sul mare. La mia speranza era che gli restituissero almeno delle ombre. Sembrò succedere qualcosa, riusciva a stringermi la mano, me la strinse un sacco di volte e mi diceva che non vedeva più tutto nero, ma un po’ più chiaro. Era contento. Ma l’effetto svanì presto e quando tornammo in Italia vedeva tutto nero di nuovo.

    L’amore

    Dopo l’India era cambiato. Non voleva più fare la fisioterapia. Un giorno mi ha detto: ‘Valeria, che vita è questa, per me non ha più senso’ e mi ha chiesto di aiutarlo a morire in Svizzera. Era la primavera del 2016. Non sono rimasta stupita, dissi a sua madre, che persa la speranza delle staminali non ne aveva altre, e senza speranza non poteva vivere. Questa scelta di morire faceva parte di Fabiano, lui che era vita all’ennesima potenza. A questo punto io che ero diventata la sua protesi decisi di aiutarlo. Se non l’avessi fatto avrebbe significato che non lo amavo.

    L’ultimo giorno

    Il giorno prima abbiamo fatto una prova per posizionare il pulsante nel modo migliore possibile. Fabiano era agitato, non capiva gli infermieri che parlavano in italo – tedesco. Ci siamo innervositi tutti, poi si è calmato e abbiamo scherzato e parlato di tutto per tutto il giorno. La mattina del 27 febbraio 2017 mi sono infilata con lui nel suo letto, mi sono appoggiata vicino al suo orecchio per fargli sentire che c’ero. Si sveglia e mi dice ‘Ci siamo’ , io rispondo che può ripensarci. Mi chiede uno yogurt. Poi lo mettono un po’ seduto sul letto per fargli schiacciare il pulsante. Io e sua mamma usciamo, dopo 5 minuti arrivano gli infermieri e annunciano che è morto.

    Sarò energia nell’universo   

    Credeva in qualcosa sopra di lui, prima di morire mi assicurò che ci saremmo reincontrati, che lui si sarebbe trasformato in energia nell’universo. Dopo la scelta di pubblicizzare la sua scelta di andare in Svizzera alle ‘Iene’, era sollevato. Si sentiva di nuovo utile e vivo. Gli dissi che, da pugile, sentivo di essere stata sconfitta dalla Signora Morte perché lui voleva morire ma lui mi rispose che non dovevo sentirmi sconfitta perché  quella per lui era una vittoria.

    CARMEN, LA MAMMA DI FABIANO

    Lui e Cappato

    I colloqui tra mio figlio e Marco Cappato erano meravigliosi. Parlavano di molte cose, lui gli raccontava dell’India, della sua musica, era diventato un suo amico. E poi erano uomini, lui interagiva solo con donne, con me e Valeria. Cappato lo informò che avrebbe potuto morire a casa sospendendo le cure. Ma lui non voleva, aveva più  paura della sofferenza che della morte, aveva paura di morire soffocato forse o di un’agonia che spiegarono poteva durare anche dieci giorni. Ma di morire no, mi ha sconvolto questo coraggio che non credevo potesse avere”.

    Anche solo la tua testa

    Un giorno in ospedale  mi hanno informato che voleva parlarmi. Sono entrata nella stanza e mi ha detto ‘Mamma, voglio che tu accetti la mia decisione di andare in Svizzera’. Tutte le infermiere che erano li’ hanno sentito queste parole. Io l’ho ascoltato emozionata e lui mi ha detto’ Vuoi che continui a vivere  cosi’?’, e io gli ho risposto: ‘”Ti vorrei anche solo con la testa’. I suoi dolori erano terribili. Mi diceva che si sentiva ‘un diavolo in corpo’, urlava, aveva contrazioni continue. Un medico mi spiegò che, per paradosso, piu’ faceva fisioterapia più diventava sensibile al dolore. Ha lavorato tantissimo con la fisioterapia, ha lottato ma dopo il ritorno dall’India, quando ci siamo accorti che il trapianto delle staminali non ha dato benefici, non faceva che parlare della Svizzera. Era diventato un incubo. Aveva paura che rallentassimo le procedure, minacciava di non mangiare. Quando io e Valeria parlavamo a bassa voce, si arrabbiava perche’ voleva sapere tutto. Era lucido, forse sarebbe stato meglio lo fosse stato meno.

    Via Fabiano, la mamma vuole che tu vada

    Fabiano ha fatto tutto da solo, è stato  bravissimo. Per fare capire com’era mio figlio, lui aveva capito che non avevo accettato  interiormente la sua scelta e allora per farlo andare via  sereno gli ho detto ‘Vai Fabiano, la mamma puo’ continuare, voglio che tu vada’. E lui ha schiacciato il bottone.

    (manuela d’alessandro)

  • Omicidio dell’aperitivo, il pm cambia idea sulla pena al fotofinish

     

    Succede molto di rado e, quando succede, per gli avvocati ha i crismi dell’evento miracoloso. Nel corso delle repliche, quindi all’ultimo ‘giro’ prima della sentenza, il pubblico ministero Piero Basilone chiede di ridurre la pena per omicidio da 30 a 17 anni e quattro mesi  perché l’imputato e la difesa gli hanno fatto cambiare idea.

    Il processo è quello a carico di  Jeison Elias  Moni Ozuna, il dominicano che il 12 novembre 2016 fece fuoco all’ora dell’aperitivo a piazzale Loreto assassinando il 37enne connazionale Rafael Antonio Ramirez.  L’aggressione aveva scatenato polemiche sulla sicurezza tanto da indurre il sindaco Beppe Sala a pretendere dal Governo più militari in città.

    Il 14 novembre scorso il pubblico ministero ci era andato pesante: 30 anni col rito abbreviato e l’aggravante della premeditazione e senza generiche.

    Nel 99 per cento dei casi, a difesa e imputato non resta che rivolgersi al giudice per convincerlo all’ultimo secondo che la pena è troppo alta. Invece questa volta è il pm a vacillare dopo avere ascoltato gli avvocati Francesca Salvatici e Rocco Romellano e le dichiarazioni spontanee dell’imputato che forniscono elementi di prova alla ricostruzione dei fatti.

    Tanto che il gip Stefania Donadeo sposa la nuova linea dell’accusa e lo condanna ‘solo’ a 18 anni riconoscendogli  le attenuanti generiche equivalenti all’aggravante della premeditazione. Fuori dall’aula, prima del verdetto, il pm, noto per la sua severità ma anche per la sua gentilezza nei modi, riconosci ai difensori di averlo convinto al ricalcolo della pena.

    Nell’ambito delle indagini, condotte dalla Squadra mobile, anche grazie alle telecamere era stato possibile ricostruire il ruolo avuto dal dominicano e da un suo complice ancora latitante nell’uccisione di Ramirez per un debito di droga di 10mila euro. L’uomo ancora ricercato avrebbe sferrato le prime coltellate alla vittima, mentre Moni, arrestato nella notte tra il 5 e il 6 dicembre dell’anno scorso, l’avrebbe poi uccisa sparando due colpi di Beretta calibro 7.65.  Con le sue spontanee dichiarazioni il dominicano ha messo a verbale che quel pomeriggio verso le 17, un paio d’ore prima dell’omicidio, il suo complice gli telefonò e gli disse, riferendosi a Ramirez: “Dobbiamo ammazzarlo o mandarlo in ospedale”. All’appuntamento, poi, ha raccontato ancora Moni Ozuna, il complice si sarebbe presentato con pistola e coltello, consegnando la prima a lui. (manuela d’alessandro)

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  • In palla la consolle del magistrato, la crisi del Pct creato con Expo

     

    Ancora guai –  e grossi, a sentire i magistrati – per il Processo Civile Telematico, creato coi fondi Expo per la giustizia milanese distribuiti in modo così sospetto che si sono mosse 3 procure e l’Anac di Raffaele Cantone.

    E’ in tilt la consolle del magistrato, il programma che dovrebbe consentire ai giudici e ai loro assistenti di gestire il processo senza carta.

    Ci viene mostrato quello che accade ormai da settimane, dall’ultimo aggiornamento del sistema che per ammissione dello stesso Presidente del Tribunale Roberto Bichi aveva generato “gravi malfunzionamenti”, poi smentiti dal Ministro Andrea Orlando.

    Quando il giudice apre word per scrivere un provvedimento la consolle si impalla. “Ho perso un’ordinanza e ho dovuto riavviare 3 volte durante l’udienza”, ci spiega uno dei magistrati, uno di quelli che ancora prova a usare la consolle, lo strumento principe del processo digitale, vanto della giustizia milanese per avere fatto da apripista nella giustizia 2.0. Altri hanno abbandonato le speranze rinunciando da tempo ad attivare la consolle che in teoria – leggiamo sul sito del Csm – doveva dare al giudice “la possibilità di redigere tramite word provvedimenti, di firmarli digitalmente e di trasmetterli al cancelliere per la loro pubblicazione all’interno del fascicolo informatico”. Il processo digitale, che ha preso forma con affidamenti diretti milionari e senza alcuna gara a partire da una decina di anni fa, è al centro delle inchieste in cui Comune di Milano e magistrati si rimbalzano le responsabilità in attesa che, si auspica, un’autorità giudiziaria riesca a mettere ordine nella vicenda. (manuela d’alessandro)

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  • Quando sono i magistrati a non capire le violenze sulle donne

     

    A volte sono proprio i magistrati o chi li affianca nelle loro inchieste  a non ascoltare le donne, a non aiutarle a ottenere giustizia quando raccontano di avere subito delle violenze. A spiegarlo è il giudice milanese Fabio Roia nel libro ‘appena uscito Crimini contro le donne’ in cui, oltre a presentare il panorama legislativo in materia, attinge alla sua esperienza di ogni giorno nelle aule di giustizia da quando, all’inizio degli anni Novanta, assieme a tre colleghe diede vita al primo e storico pool ‘famiglia’ specializzato in abusi tra le mura domestiche. “La trama diventa drammatica – scrive Roia, ora a capo della sezione misure di prevenzione del Tribunale – quando il pregiudizio invade il mondo dell’intervento giudiziario dove si registrano ancora, fortunatamente a intermittenza ma con una tendenza al consolidamento, atteggiamenti culturali di fastidio, di resistenza, di negazionismo del problema che rivelano certamente dei pregiudizi”. Ecco allora che “operatori di polizia giudiziaria non formati sul piano culturale accolgono le donne che vogliono denunciare la violenza del compagno con indicazioni incoraggianti tipo signora, ci pensi bene, è il padre dei suoi figli, poi le portano via i bambini, lei non ha prove”. Il pregiudizio, spiega Roia, “si trasforma poi in errore tecnico nel processo”. “Così nelle aule di giustizia si sostiene che se ci sono periodi di tranquillità nella vita familiare il maltrattamento, neanche fosse una riduzione in schiavitù, non può sussistere; che se la donna testimone non ripete esattamente più volte sempre le stesse cose non può essere considerata attendibile; che la denuncia, soprattutto quando c’è una separazione in corso, può essere strumentale; che non è possibile che una parte lesa abbia sopportato anni di violenza senza parlarne con qualcuno o andare al pronto soccorso dicendo ai medici la vera genesi delle lesioni accertate”. E ancora, ci sono magistrati che nelle sentenze “scrivono frasi devastanti per la vittima che aspetta dalla decisione giudiziaria un riconoscimento istituzionale della sua violenza, che interpretano atteggiamenti e tratteggiano valutazioni di moralità, come scrivere che la ragazza ha una vita ‘non lineare’”. Roia striglia anche alcuni avvocati, come il difensore di un uomo che abusò di una donna “incosciente a causa di un’assunzione smodata di alcol”. Il legale chiese un’attenuazione della pena perché la vittima “essendo incosciente non aveva percepito l’invalidità del gesto”. Accadeva a Milano, nel 2014.

    “Crimini contro le donne” di Fabio Roia, Franco Angeli Editore, pagg. 183, euro 24.

  • Guerra col Comune, la difesa del ‘papà’ del processo digitale sui fondi Expo

    “Il Comune dice che è colpa nostra? Succede, la vita è bella perché è varia”. Pasquale Liccardo, magistrato e capo della Dgisia, la direzione per i sistemi informativi del Ministero della Giustizia, non ha molta voglia di parlare degli appalti milionari senza gara assegnati col tesoro di Expo.

    Eppure l’occasione è ghiotta. I protagonisti del processo civile telematico sono tutti qui nell’aula magna del Palazzo di Giustizia a discutere delle prospettive di una giustizia senza carta. Liccardo, considerato il papà del Pct, è un uomo ottimista tanto da promettere a un giovane avvocato seduto in platea che “tra 4-5 anni” potrà depositare la richiesta di rito abbreviato al giudice di Gela via computer senza sobbarcarsi il viaggio infinito che domani dovrà intraprendere per portare il pezzo di carta sull’isola. Prima di lui sia il procuratore Francesco Greco che il Presidente del Tribunale Roberto Bichi  avevano ammesso con candore che non tutto sta filando giusto col processo digitale.

    Su quegli appalti senza gara indagano le Procura di Venezia, Brescia e Milano. Hanno acquisito oltre alla relazione dell’Anac che segnala irregolarità in almeno dei 10 milioni su 15 stanziati in nome di Expo anche il report del Ministero della Giustizia, a firma dello stesso Liccardo. Pochi giorni fa, il Comune di Milano ha presentato un ricorso al Tar in cui chiede di annullare la delibera dell’Autorità anticorruzione scaricando ogni responsabilità su magistrati e Ministero della Giustizia.

    Torniamo a Liccardo, che avviciniamo alla fine del convegno. “Dottore, che ne pensa di questa mossa del Comune?”. “Noi abbiamo fatto le nostre valutazioni, ora vediamo cosa decide il Tar. La nostra esperienza è stata molto positiva, abbiamo portato il Pct a Milano. Su questa vicenda siamo molto tranquilli”.  Poi, la risposta a dire il vero un po’ seccata sulla varietà degli scenari nella vita a proposito dello scaricabarile del Comune.

    Liccardo all’epoca dei fatti al centro delle inchieste non era il capo del Dgsia, posizione occupata da Daniela Intravaia, e ora sta per lasciare anche lui proprio mentre è stato pubblicato il bando per assegnare una marea di milioni per lo sviluppo del Pct (entità dell’appalto una trentina di milioni). Dopo 12 anni e un durissimo intervento del Garante della Concorrenza sul monopolio della corazzata bolognese Net Service, si fa per la prima volta una gara europea. C’è agitazione tra le altre imprese che operano nel settore e che avevano segnalato le anomalie degli affidamenti diretti. A chi toccherà scrivere il futuro della giustizia? (manuela d’alessandro)

     

  • Ritratto di famiglia in sentenza: crociere, domestici e lussi di Veronica Lario

    “Lunghe crociere ai Caraibi per almeno 4/5 settimane all’anno”, “estetiste, parrucchieri e personal trainer a domicilio”, la “frequentazione, per almeno 5 settimane all’anno, di Villa Certosa a Porto Rotondo”. Il provvedimento con cui i giudici della Corte d’appello di Milano Maria Cristina  Canziani (presidente), Pietro Caccialanza e Maria Grazia Domanico(consiglieri) tolgono l’assegno mensile di 1,4 mln a Veronica Lario restituisce anche un brillante ‘ritratto di famiglia’ e degli agi in cui ha vissuto l’allora first Lady. Sono gli stessi legali della signora Lario a rivelare in un lungo elenco i lussi di cui godeva la Lario quando spiegano  il tenore di vita che desidererebbe mantenere. Durante il matrimonio, “hanno sempre prestato servizio domestico presso Villa Belvedere di Macherio almeno una dozzina di persone”, “i costi relativi alla gestione, al personale, alla vigilanza e alla sicurezza sono sempre stati sostenuti in parte dal dott. Berlusconi personalmente e in parte attraverso societa’ a lui riconducibili”; “è  stata svolta attivita’ di manutenzione e conservazione della Villa Belvedere, del parco, compreso  impianto irriguo, statue, vasche, fontane, della piscina coperta, della palestra e dei macchinari in essa contenuti, degli automezzi, anche di quelli elettrici usati per lo spostamento nella proprietà”; Veronica “ha sempre praticato attivita’ sportiva anche nella palestra pertinenziale a Villa Belvedere, attivita’ sportiva seguita da personal trainer e istruttori”. E ancora si legge nel provvedimento che “durante il matrimonio gli addetti alla sicurezza di Villa Belvedere di Macherio e della signora erano circa 25, operanti su turni che comportavano la presenza fissa 365 giorni all’anno, sia diurna che notturna” e che “anche più volte alla settimana e ogni volta che ne aveva necessità, in prossimità dei viaggi la signora riceveva attraverso la propria segretaria, che a sua volta ne aveva fatto richiesta al marito a mezzo del suo contabile, somme di denaro contanti per le spese minute”. Veronica “era solita utilizzare aerei ed elicotteri della società del marito per i propri spostamenti internazionali, oltre a voli di linea nella classi massime” e “più volte all’anno ha svolto viaggi, anche intercontinentali” e negli ultimi 4 anni, si è recata alle Galapagos, in Polinesia, nelle Fiji, in Nuova Zelanda, in Cambogia, Laos e Thailandia, in Brasile, Siria, a Parigi, a Praga e a New York, a Londra, in montagna, a Venezia e a Roma”. Gli “oneri relativi a tutti i viaggi”, viene precisato, “erano sostenuti direttamente dal marito o attraverso veicoli societari a lui riconducibili”. I suoi legali danno conto pure che la loro assistita “”ha sempre acquistato abiti realizzati da noti stilisti e si è dedicata alla cura del proprio corpo, sia dal punto di vista estetico che sportivo”.   (manuela d’alessandro)

  • Il libro che spiega come convivono tortura e democrazia

     

    “Anche le democrazie possono convivere con la tortura. E di fatto convivono…Senza curarsi troppo del biasimo diffuso tra i cittadini, lo attestano i sondaggi… La maggior parte degli americani sono favorevoli, purchè abbiano la certezza che sventerà un attaco terroristico’”. La filosofa Donatella di Cesare scrive 237 pagine editate da Bollati Boringhieri per dire che di strada da fare ce n’è ancora tantissima.

    La tesi è una sorta di “democratizzazione della tortura” che non dipende da una specifica forma politica. “Proprio la tortura rivela che il mistero della politica non è la legge, ma la polizia” aggiunge di Cesare. L’esempio più citato è “la guerra del terrore” dichiarata dagli Usa all’indomani dlel’11 settembre. Una guerra illimitata nello spazio e nel tempo.

    Il saggio della filosofa è di grandissima attualità in un paese in cui non esiste una legge adeguata a sanzionare la torura come reato del pubblico ufficiale. La norma recentemente approvata dal nostro parlamento secondo le istituzioni europee non recipisce fino in fondo le direttive della convenzione internazionale. Ovviamente neanche la migliore delle leggi basterebbe.

    Gli Usa che tutte le convezioni avevano recepito hanno poi aggirato l’ostacolo inventando una nuova categoria di nemico, quella del “combattente illegale”, perché le organizzazioni terroristiche non hanno firmato le convenzioni di Ginevra. E dunque il “combattente illegale” non può essere protetto.

    Guantanamo, Abu Ghraib sono le tappe citate dal saggio e “accettare di discutere l’uso vuol dire già mettere in questione il veto di principio, l’interdizione assoluta. Così è nata l’ideologia liberale della tortura”. E ancora: “dato che la tortura è un male necessario si muta in bene”. Insomma è la morale del male minore, ma pure il male minore è un male.

    Una serie televisiva americana, sempre dopo l’11 settembre, ha celebrato Jack Bauer, “il torturatore gentiluomo”. Tutto ruota intorno a un imminente attacco terroristico. “E lasciate fare a Jack” che sa come ottenere le informazioni per evitare l’attacco. “Jack, un patriota”.

    Chi subisce la tortura non sopravvive alla morte degli altri ma alla propria, perché la tortura interrompe la continuità della vita. Nel saggio si parla di Giulio Regeni, dei fatti del G8 di Genova, dei fermati che venivano accolti in caserma con un “benvenuto ad Auscwitz”. Di Cesare rievoca la “tortura bianca” del carcere di Stemmaheim in Germania dove furono “suicidati” i militanti dlla Raf, i desaparecidos dell’America Latina. E pure quanto accadde in Italia durante i cosiddetti “anni di piombo”, ricordando le parole di Leonardo Sciascia: “Non c’è paese al mondo che ammetta la tortura ma di fatto sono pochi quelli in cui polizie, sottopolizie e criptopolizie non la pratichino”.

    “La tortura non è un passo verso il genocidio ma manifesta lo stesso proposito distruttivo”, è la conclusione (frank cimini)

    Tortura. Donatella Di Cesare. Bollati Boringhieri, 237 pagine.

  • A Milano nessuno viene più assolto in udienza preliminare

    La sensazione era ormai netta, di fronte ai comportamenti pressoché costanti ed uniformi dei giudici preliminari: a Milano le sentenze di ‘non luogo a procedere’ non esistono più, come se la norma che assegna al giudice preliminare la facoltà di non rinviare a giudizio gli imputati fosse stata tacitamente cancellata dal codice di procedura penale.

    Invece la norma è ancora lì, al suo solito posto, all’articolo 425 del codice di procedura penale. Fa finta di essere viva, ma è morta. E a confermarlo agli avvocati milanesi ha provveduto, con encomiabile franchezza, proprio un giudice preliminare: Sofia Fioretta, invitata a parlare ad un evento formativo della Camera penale.

    E la Fioretta ha spiegato, dati alla mano: davanti alle richieste di rinvio a giudizio presentate dalla Procura, i casi in cui il giudice dice ‘no’ sono praticamente inesistenti. Un centinaio in un anno quelli in base al primo comma, cioè i proscioglimenti inevitabili per motivi formali: come quando la querela della vittima era indispensabile ma non è mai stata presentata o è stata ritirata. Zero quelli a norma del terzo comma, la norma che dava al giudice il potere di sindacare se gli elementi addotti dalla pubblica accusa erano ‘insufficienti, contraddittori o comunque inidonei a sostenere l’accusa in giudizio’. In un anno, non è mai accaduto una sola volta che le tesi del pm venissero bocciate in udienza preliminare.

    Come è possibile che si sia arrivati ad abdicare in questo modo a una funzione prevista dal codice, svuotando di fatto di significato l’udienza preliminare che del codice è un asse portante? I gip danno in qualche modo la colpa alla Cassazione, che negli ultimi anni annullerebbe regolarmente le loro sentenze di non luogo a procedere, accogliendo i ricorsi presentati dalla Procura. Si narra di annullamenti quasi surreali, come quello che riguardò il proscioglimento di un medico di cui sia la perizia della Procura che quella del gip avevano sancito la regolarità del comportamento: la Cassazione ordinò che venisse comunque mandato a processo, perché magari una nuova perizia avrebbe potuto ‘incastrarlo’. Sta di fatto che lo stesso presidente dell’ufficio dei giudici preliminari, Aurelio Barazzetta, ha fatto presente recentemente ai suoi colleghi che – se così stanno le cose – tanto vale rinviare tutti a giudizio, lasciando poi che la rogna venga sbrigata dai giudici del dibattimento. E amen se l’imputato deve affrontare costi e patemi di un processo che magari non meritava.

    Per attutire l’asprezza del ‘new deal’, i giudici si appellano a qualche altro dato: secondo cui, almeno a Milano, è la stessa Procura della Repubblica a fare da filtro, scremando le inchieste in cui l’innocenza dell’imputato è evidente, con oltre diecimila richieste di archiviazione all’anno. Ma resta il fatto che per tutti gli altri arriva la richiesta di rinvio a giudizio accolta a occhi chiusi dal gip, destinata a costare anni di processi che in percentuale non esigua approderanno alla assoluzione: la stessa assoluzione che lo stesso gip avrebbe potuto disporre a suo tempo. Intanto: vite e carriere rovinate, soldi spesi.

    Che fare? Nel suo intervento al seminario dei penalisti, il giudice Fioretta ha suggerito il rimedio: se proprio siete convinti della innocenza del vostro assistito, chiedete il giudizio abbreviato. Ma, come la stessa gip sa bene, in questo modo l’imputato si ‘brucia’ un grado di giudizio, e in caso di condanna si ritrova con l’appello come unico spiraglio di merito per vedere riconosciute le proprie ragioni. Insomma, in un modo o nell’altro a venire sacrificate sono quelle tutele che il codice di procedura penale aveva introdotto come vera svolta rispetto al vecchio processo inquisitorio ereditato dal fascismo. (orsola golgi)

  • La donna ecuadoriana vittima della ‘ndrangheta a cui Milano volta la faccia

    “A Pioltello la vita è diventata per me invivibile. Quando ieri sono tornata a casa a prendere le mie cose la gente del condominio voleva picchiarmi perché diceva che era colpa mia quello che era successo”.

    C’è una famiglia ecuadoriana vicino a  Milano che deve scappare perché è perseguitata dalla ‘ndrangheta che, secondo la Procura,  è arrivata a far esplodere una palazzina per intimidirla a causa di un debito non onorato.

    Chi mette a verbale il suo terrore è la mamma del ragazzo beneficiario di un prestito usurario incassato da Alessandro Manno, 25enne appartenente alla famiglia mafiosa della ‘locale’ di Pioltello oggi arrestato dai carabinieri per avere provocato lo scoppio del 10 ottobre scorso.

    E mezza famiglia in effetti se n’è andata: prima il figlio, ad agosto, e poi il padre, subito dopo l’attentato a lui preannunciato il giorno prima da Manno (“Se non paga il figlio paga il genitore e vedrai quello che ti succederà lunedì”). Il ragazzo aveva chiesto dei soldi per fronteggiare i debiti contratti durante la sua attività di impresario di cantanti sudamericani.

    Restano a Pioltello la mamma e l’altro figlio più piccolo, forse ancora per poco. E, a quanto racconta la donna, con scarsa solidarietà attorno. “Mi accorgo che mia cognata non ha piacere che io rimanga a casa sua. Si sente osservata dalle persone che incontra e tutti noi viviamo in un clima di terrore. A Pioltello tutti sanno che i Manno sono gente pericolosa. Mia cognata ieri è andata al parco col bambino e mi hanno detto che le persone la additavano dicendo che il padre di Manno era in carcere e tra un anno sarebbe uscito, sottolineando che quando ai Manno toccano i loro figli non si fermano davanti a niente. Io e mio marito volevamo stare in Italia. Lui aveva un  buon lavoro, non eravamo ricchi ma volevamo continuare a stare in Italia, ma questo non è possibile”. E lo stesso giudice Paolo Guidi, che firma l’ordinanza di custodia cautelare, riconosce : “E’ del tutto verosimile che il clima di intimidazione realizzato dai Manno nel territorio di Pioltello possa incidere su coloro che hanno reso dichiarazioni in questo procedimento”. Tutta questa paura a 13 chilometri da Milano. (manuela d’alessandro)

  • Il pg Isnardi va in pensione e lascia l’inchiesta su Sala aperta a tutto

    Felice Isnardi allo scoccare dei 70 anni ripone la toga, offre spumante al bar del Palazzo e lascia nel mezzo del cammino l’inchiesta sulla Piastra di Expo che coinvolge il sindaco Beppe Sala. Non sarà lui, ma chi erediterà gli atti – i colleghi Massimo Gaballo e Vincenzo Calia – a decidere se chiedere l’archiviazione oppure il processo per l’accusa di turbativa d’asta relativa alla fornitura di 6mila alberi per l’Esposizione Universale.

    Il 20 settembre scorso Isnardi, dopo avere strappato l’inchiesta alla Procura ritenuta inerte che mai aveva indagato Sala, si era limitato a chiedere il rinvio a giudizio del sindaco per il reato di falso (udienza preliminare il 14 dicembre) nella sostituzione di 2 commissari di gara, lasciando immaginare di avere stralciato l’ipotesi della turbativa in vista di un’archiviazione.

    Invece rumors degli ultimi giorni davano molto probabile una richiesta di processo anche per la turbativa che sembrava potesse arrivare oggi come ultimo atto del magistrato. Non è accaduto e le interpretazioni possono essere varie. Si è preferito lasciare ai due pg che potrebbero sostenere l’accusa nel processo la parola finale. Ci sono state pressioni del procuratore capo Roberto Alfonso su Isnardi che potrebbe avere preferito non mettere la faccia su un epilogo non condiviso.

    Il magistrato che iniziò la carriera con l’inchiesta cinematografica ‘Pizza connection’ è apparso comunque sereno al brindisi d’addio. Scherzando coi giornalisti ha detto: “Verrò a trovarvi in sala stampa per avere da voi informazioni o magari farò una ‘Procura ombra‘”. In fondo proprio questo è quello che ha fatto negli ultimi anni riaprendo casi come quelli dell’operaio Giuseppe Uva morto dopo un arresto, di Mps e della ‘Piastra’. Inchieste che per la Procura Generale erano state archiviate con troppo fretta e senza i dovuti approfondimenti, quella su Expo in nome della ‘moratoria’ terreno di scontro feroce tra gli ex numeri uno e due Edmondo Bruti Liberati e Alfredo Robledo. (manuela d’alessandro)

  • Reati ‘domestici’ contro le donne, a Milano il 40% viene assolto

    Italiano, 42 anni, disoccupato e alcolista. E’ questo il profilo dell’imputato per reati di violenza di genere (maltrattamenti contro familiari o conviventi, stalking, violenza sessuale) nei Tribunali di Milano (sezioni nona e quinta), Como e Pavia. Ma nel 40% dei procedimenti viene  assolto/prosciolto. “Una percentuale molto elevata”, commenta il giudice Fabio Roia tra gli autori dello studio, assieme all’avvocato Silvia Belloni, promosso dalla Regione Lombardia, dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati e dal Tribunale meneghino che ha preso in considerazione 120 procedimenti tra l’1 gennaio e il 31 luglio 2017. La relazione tra imputati e parti offese è di conviventi (61%), separati/divorziati (27%) e partner (12%).

    Netto il ‘primato’ degli italiani con il 59%. Dall’Europa orientale proviene il 12% degli imputati, il 10% dal Nord Africa, l’8% dall’Asia e dall’America Latina. Il dato sulla condizione lavorativa vede la prevalenza di disoccupati (31%) e operai (25%). Seguono impiegati (11%), artigiani/commercianti (5%), dirigenti/professionisti (3%). Tra le caratteristiche dell’imputato tracciate da questa indagine figura quella della dipendenza da alcol e droghe (40%).
    La maggior parte dei presunti autori dei reati ha precedenti penali, il 14% sulla stessa vittima (nel 61% è la convivente), il 28% per reati contro la persona. Altissima la soglia di ‘sopportazione’ della donna: i maltrattamenti durano più di 5 anni nel 31% dei casi.  Basso il ricorso ai centri anti – violenza, solo nel 25% dei casi. Le parti offese preferiscono rivolgersi alle forze dell’ordine (60%) e agli ospedali (58%) e poi in maggioranza non si costituiscono parti civili (solo il 42% lo fa).

    Sorprende il dato dei proscioglimenti e delle assoluzioni che sfiora il 40%. Colpevole è il 63% degli imputati per violenza sessuale, il 61,5% per stalking e il 62% per maltrattamenti. Per i maltrattamenti le assoluzioni sono motivate da mancanza del dolo (14%) mancanza di abitualità (22%), mancanza di riscontri esterni (11%), assenza di credibilità della parte offesa (10%), ritrattazione (7%). La media delle pene è di 1 anno e tre mesi per lo stalking, 6 anni e otto mesi per la violenza sessuale, 2 anni e sei mesi per i maltrattamenti. (manuela d’alessandro)

     

     

  • Il direttore rivoluzionario Siciliano via da Opera per “scelta politica”

    Giacinto Siciliano lascia il carcere di Opera, quello più grande d’Italia, col numero più elevato di ’41 bis’, tanti ‘cattivissimi’ che prima di lui stavano solo nelle grotte più oscure della fantasia di chi è fuori. Lui li ha esposti dandogli luce e dignità, li ha messi davanti a un leggio a scandire i nomi delle vittime di mafia e a una telecamera a raccontare cos’erano e cosa volevano diventare. Nessun direttore è stato più amato da chi ha compiuto i crimini peggiori e a quella figura istituzionale si è sempre rivolto con freddezza.

    Se ne va dopo 10 anni, anzi lo mandano a San Vittore –  dicono avvocati e magistrati che ne hanno apprezzato il lavoro in questi anni –  non per un normale avvicendamento ma per una scelta ‘politica’ mascherata da una scadenza di fine mandato. Per lo slancio, la fantasia, la spregiudicatezza con cui ha cercato di sovvertire un luogo comune,  quello del carcere duro e senza speranza. Nell’estate del 2015, con l’aiuto anche della Camera Penale e del Garante Alessandra Naldi, ha messo i detenuti attorno ai tavoli di quelli che sono stati chiamati ‘Gli Stati Generali’. Per mesi hanno discusso e riflettuto di carcere, fragilità, affetti, bambini, migranti, libri, suicidio. Ha contribuito a far nascere uno sportello per il lavoro, primo in Italia, dentro le mura.  Ha usato come terapia la parola, la musica, il teatro.

    Ha portato per la prima volta gli  ergastolani ostativi, quelli che davvero hanno una pena senza fine, a incontrare gli studenti della Bicocca.

    E gli ha regalato l’opportunitàdi brillare di una luce diversa nel docu – film di di Ambrogio Crespi ‘Spes contra Spem’ girato a Opera, volato al Festival del cinema di Venezia e in mezza Italia, tra chi per la prima volta ha potuto vedere cosa c’è nella grotta oscura di chi sta in un carcere di massima sicurezza. Qualcosa che fa meno paura sotto la luce. (manuela d’alessandro)

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  • Il mistero dell’appello scomparso del processo Ruby – bis

     

    Che fine ha fatto l’appello del processo Ruby bis?

    Il 22 settembre 2015 la Corte di Cassazione, accogliendo i ricorsi delle difese, aveva annullato con rinvio le condanne di Emilio Fede (4 anni e 10 mesi) e Nicole Minetti (3 anni).  Gli ‘ermellini’ spiegavano che sarebbe stato necessario rifare a Milano un nuovo processo di secondo grado alla luce del “grave vuoto motivazionale” della sentenza impugnata. In particolare, ai giudici della Corte d’Appello veniva rimproverato di non aveva accertato a carico dei due imputati fatti concreti relativi alle singole ragazze che avrebbero indotto a prostituirsi nonostante “la meticolosità con la quale si soffermavano sui concetti generali in tema di prostituzione, induzione  e favoreggiamento”.

    E d’accordo che la prescrizione è di là da venire, ma più di due anni per fissare una data appaiono davvero tanti e fanno pensare che non ci sia nessuna voglia di celebrare un processo forse ritenuto non così indispensabile. Nel frattempo, Fede ha compiuto 86 anni e l’ex igienista dentale si è trasferita a Ibiza da dove  pochi giorni fa ha messo in mostra  il suo ‘lato b’ riflesso in uno specchio per le migliaia di  follower su Instagram. Del resto, c’è poca fretta anche per altre indagini e processi nell’ambito della saga giudiziaria nata dalle rivelazioni della ragazza marocchina. L’impressione è che questo sia un capitolo ormai archeologico che si abbia voglia di chiudere. In fondo, ora Berlusconi è diventato anche una vittima  per questa  Procura che ha aperto un’inchiesta sulla base di un suo esposto nella vicenda di Vivendi per l’affare (saltato) Mediaset Premium.   (manuela d’alessandro)

     

  • Lui condannato gli altri assolti, revisione del processo per Daccò

    Pierangelo Daccò l’abbiamo visto molte volte in questi anni nelle aule milanesi. Sempre più sottile e sofferente. Ha trascorso 4 anni di carcerazione preventiva, davvero un eccesso, al di là della sua colpevolezza o innocenza, per uno strumento che non dovrebbe costituire una condanna anticipata.

    Quando il 3 ottobre del 2012 il gup Maria Cristina Mannocci gli inflisse per il crac del San Raffaele 10 anni col rito abbreviato (sarebbero stati 15 in ordinario) era incredulo non solo il suo avvocato ma anche il pm che aveva chiesto 5 anni e mezzo, in pratica la metà.  In appello gli venne tolto un anno e si arrivò alla sentenza definitiva a 9 anni di carcere.

    Nel frattempo, è successo che alcuni imprenditori coimputati di Daccò che avevano scelto il rito ordinario siano stati assolti per dei reati che, secondo l’accusa, avevano commesso in concorso con l’uomo d’affari amico di Roberto Formigoni e suo compagno delle gite in barca (per la vicenda Maugeri è stato condannato in primo grado a 9 anni e due mesi).

    Ora la Cassazione accoglie l’istanza di revisione  presentata dai legali Gabriele Vitiello e Massimo Krogh e già respinta nel settembre del 2016 dalla Corte d’Appello di Brescia. “E’ apodittica e alquanto priva di significato –  ragionano gli ‘ermellini’ –  l’affermazione dei giudici bresciani per i quali la vera ragione della diversità dell’esito dei due processi stava nella diversità del rito col quale erano stati detenuti”. Insomma, qualcosa non torna e la condanna a Daccò è stata quantomeno esagerata, se tanto o poco lo stabiliranno i giudici della Corte d’Appello di Venezia ai quali spetta il nuovo giudizio.

    Secondo la Procura di Milano, a partire dal 2005, dalle casse del San Raffaele, fondato da don Luigi Verze’, sarebbero stati distratti circa 47 milioni, cinque dei quali arrivati direttamente a  Daccò, accusato, oltre che di concorso in bancarotta, anche di associazione per  delinquere finalizzata alla distrazione di fondi, all’appropriazione indebita e alla frode fiscale. Col rito  ordinario erano stati  assolti Giovanni Luca Zammarchi, Fernando Lora e Carlo Freschi in relazione a presunte sovrafatturazioni a un paio di  società.

    “Siamo fiduciosi che venga scritta una pagina positiva per la giustizia italiana in una vicenda che ha tante ombre – commenta l’avvocato Vitiello – Daccò ora è domiciliari dal gennaio del 2017 dopo essere entrato in carcere, da incensurato, il 14 febbraio del 2011”. (manuela d’alessandro)

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  • NoTav, Cassazione ai pm: rassegnatevi, non fu terrorismo

    “Il ricorso tende ancora una volta a sollecitare una diversa valutazione dei fatti che non compete alla corte di legittimità”. Questo scrive la Cassazione nel motivare perché respinge il ricorso della procura e della procura generale di Torino contro la sentenza che aveva assolto i militanti NoTav dall’accusa di aver agito con finalità di terrorismo nell’azione contro il cantiere dell’alta velocità di Chiomonte quando fu danneggiato un compressore.

    Quel riferimento ad “ancora una volta” ricorda che si tratta della terza volta, tra misure cautelari e processo, in cui i rappresentanti dell’accusa puntano a dimostrare l’agire per finalità di terrorismo. In pratica è un invito esplicito a rassegnarsi. Innanzitutto perché il ricorso contro la decisione della corte d’assise d’appello non è in diritto ma nel merito. E anche perché non c’era volontà di ledere la vita degli operai del cantiere o del personale di polizia ma solo di provocare danni ai mezzi. La Cassazione inoltre nega che vi fosse l’obiettivo di far recedere i pubblici poteri dal realizzare l’opera dell’alta velocità in Val Susa.

    La motivazione che ricalca quella del Riesame e della corte d’assise d’appello assume particolare importanza anche alla luce di recentissime diatribe giuridico-politiche legate alla giunta regionale del Veneto che aveva approvato una mozione con cui si chiede al governo e al parlamenti di “innovare” la legislazione introducendo il reato di “terrorismo da piazza”.

    L’ accusa legata alla finalità di terrorismo, rivelatasi poi insussistente, era costata ai militanti NoTav una lunghissima carcerazione preventiva in regime di alta sorveglianza proseguita anche quando l’imputazione era già caduta. Insomma i pm torinesi Antonio Rinaudo di esplicite simpatie destrorse, Andrea Padalino ex militante dei giovani comunisti, l’ex procuratore generale Marcello Maddalena ora in pensione, impegnati a inseguire fantasmi, avrebbero fatto bene a dedicarsi ad altro. Magari agli appalti dell’alta velocità in Val Susa che sembrano gli unici onesti e trasparenti in un paese dove la corruzione dilaga. (frank cimini)

  • Tre Procure sui fondi Expo per la giustizia, avremo una verità?

    Tre Procure ognuna per conto proprio  – caso alquanto eccezionale – stanno indagando sul gigantesco pasticcio dei fondi Expo assegnati alla giustizia milanese tra il 2010 e il 2015.  A quella di Milano, che aveva aperto un’indagine a carico di ignoti per turbativa d’asta, si aggiungono Brescia e Venezia, come si evince dalla lettura dell’atto di conclusione dell’istruttoria avviata a febbraio dall’Anac, più di due anni dopo le inchieste giornalistiche di Giustiziami, del ‘Giornale’ e del ‘Fatto’.

    Nelle settimane scorse, i magistrati di queste due città hanno chiesto all’Autorità nazionale anticorruzione la trasmissione delle carte  sulle presunte anomalie nelle 25 procedure analizzate del valore di circa 9 milioni di euro. Brescia è competente su eventuali reati commessi dai magistrati milanesi, a cominciare dall’allora presidente del Tribunale Livia Pomodoro, mentre le toghe veneziane potrebbero essere interessate a chiarire la posizione di Claudio Castelli, che presiede la Corte d’Appello bresciana, e fu uno dei protagonisti al tavolo dove si discusse come utilizzare il ‘tesoro’ di Expo.

    I nomi dei magistrati non sono indicati nel rapporto finale di Anac, molto più interessato  alle responsabilità del Comune, accusato come stazione appaltante di  avere distribuito il denaro attraverso affidamenti diretti quando la legge avrebbe imposto delle gare pubbliche.  Tra i “numerosi profili di criticità e di non rispondenza alle previsioni normative” spiccano quelli relativi all’assegnazione di una montagna di denaro per il processo civile telematico, la cui ‘costruzione’ è stata affidata  in regime pressoché monopolistico “senza indagini di mercato” a due società, Net Service ed Elsag Datamat.  Sospetti anche sulla fornitura della segnaletica per orientarsi nel Palazzo (come non ricordare i monitor disseminati nel Palazzo che senza requie né senso rimandano la beffarda scritta ‘Udinza Facile’)  e  sul curioso acquisto da Telecom, senza un apparente perché,  di 33 armadi e 1500 prese. Ingiustificato appare anche l’affidamento diretto alla Camera di Commercio per il nuovo sito del Tribunale in nome della Convenzione stipulata da Pomodoro che, finalmente,  e forse anche alla luce di un’inchiesta spinosa,  il suo successore Roberto Bichi ha revocato qualche giorno fa.

    Ma che faranno ora le tre Procure  cui Anac ha girato il suo dossier finale?

    Milano sembra scettica. Al procuratore Francesco Greco non sarebbe piaciuto il ritardo con cui Cantone ha cominciato a fare accertamenti e che non consentirebbe di indagare con intercettazioni e altri strumenti più tempestivi. Brescia per tradizione non ama infierire sui vicini colleghi, forse Venezia, lontana dal cuore e geograficamente da Milano, potrebbe essere più incisiva nella ricerca di una verità che appare necessaria. (manuela d’alessandro)

    la delibera finale di Anac

     

     

  • La lettera di Spataro agli avvocati, l’orgoglio e l’amore per Andrea

     

    Col permesso dell’autore, pubblichiamo la meravigliosa lettera che il magistrato Armando Spataro ha inviato agli avvocati milanesi per ricordare il figlio Andrea.

     

    “Carissimi Avvocati,

    è trascorso un mese dall’ultima volta in cui ho visto mio figlio Andrea, giovane avvocato penalista di 36 anni.

    Ho già ringraziato molti di voi per la vicinanza manifestata in questi momenti di immaginabile dolore, ma spero ora di non apparire inopportuno nel tentativo di “far parlare Andrea”: sono tanti i genitori che soffrono per simili tragedie e non tutti hanno questa possibilità… e forse lo stesso mio figlio, dotato di una grande sobrietà, potrebbe non essere d’accordo…

    Vi chiedo scusa, allora, se mi lascio guidare dal cuore: ho deciso di scrivervi egualmente perché voglio affidarvi non solo il ricordo di un figlio, ma quello di un figlio-avvocato. E ve lo trasmetto attraverso parole di un avvocato e di un giudice.

    L’avv. Salvatore Scuto del foro di Milano, presso il cui studio mio figlio lavorava, ha di lui scritto: “Andrea aveva sviluppato una bella idea della funzione difensiva, moderna, senza retorica ma ferma nella convinzione dell’imprescindibile suo ruolo nella dinamica processuale. A volte rientrava da un’udienza o da un colloquio con un pubblico ministero infastidito, se non arrabbiato (in questo, e per fortuna, non era ancora un ‘disilluso’ ed io credo che non lo sarebbe diventato mai), per aver visto svolgere il ruolo della controparte in un modo non coerente con la sua idea del processo e della tutela dei diritti. Andrea è andato avanti ed ha superato e vinto la sua sfida con la forza delle sue idee e delle sue convinzioni, orgoglioso come era di essere avvocato. Quella forza e quella dignità lo hanno sostenuto sino alla fine facendo a gara con una riservatezza così ferrea da lasciare oggi, in chi gli ha vissuto accanto nella vita lavorativa, ammirazione accompagnata però da una punta di smarrimento.  I tanti suoi amici del tifo juventino hanno trovato le parole giuste per salutarlo nello stadio della sua Juventus quando gli hanno dedicato un striscione esposto nell’ultimo derby torinese con la scritta <<Andrea nessuno muore nel cuore di chi resta!>>. È’ proprio così Andrea”.

    Ed il giudice Bruno Giordano, che lo ha seguito anche in una significativa esperienza accademica, così lo ha ricordato, descrivendo la sua incertezza nelle decisioni da prendere per il futuro: “..gli chiedo se vuole “veramente” preparare il concorso per magistrato. Lo trovo combattuto tra magistratura e avvocatura, che sceglie con il coraggio e la forza di chi vuole farcela, bene e da solo. Un giorno dopo il pensionamento del prof. Dominioni (con cui aveva collaborato) lo sento deluso, non vuole perdere l’incipiente carriera accademica, ma mi sembra che Andrea si senta finalmente libero di scegliere una sua strada. Gli propongo di iniziare un dottorato di ricerca. Ci pensa due giorni chiedendomi di non parlarne con il padre. E infatti non l’ho mai fatto. Poi Andrea mi raggiunge in ufficio, dove con garbo e eleganza, ma con commozione, mi dice che vuole fare l’avvocato, andare in udienza, lottare, lottare e lottare per affermare un diritto. Io mi arresi, Andrea ha lottato fino all’ultimo.

    Il 5 luglio 2014 avevo spedito ad Andrea una mail per raccontargli della bellissima cerimonia cui avevo assistito nell’Aula Magna del Palazzo di Giustizia di Torino, intitolata a Fulvio Croce, quella annualmente organizzata dal locale Consiglio dell’Ordine in onore degli Avvocati che hanno esercitato per 60 o 50 anni la professione forense. Avevo parlato ad Andrea di una cerimonia “solenne ed informale insieme, carica di giustificato orgoglio dei protagonisti”. Gli avevo poi ricordato le coinvolgenti parole del Presidente avv. Mario Napoli e dell’avv. Ottolenghi (“un passato anche da partigiano ed un presente pure da scrittore”), citandogli infine quelle di  Giampaolo Zancan: “In cinquant’anni ho difeso tutti, ma non ho preso ordini da alcuno”, una frase che a mio figlio era piaciuta molto, che  esalta la libertà di pensiero e la coerenza che sono le doti morali più importanti per chiunque operi nel campo della giustizia.

    Così chiudevo quella mail ad Andrea: “Zancan è giustamente orgoglioso della sua carriera, come io lo sono del fatto che tu sia un giovane avvocato!”

    Andrea amava lottare, appunto, con libertà di pensiero, dignità e coerenza: non a caso gli piaceva molto la bronzea statua equestre di Ferdinando di Savoia – Duca di Genova, che domina il centro della Piazza Solferino di Torino: il cavallo ferito nella battaglia di Novara del marzo 1849 combattuta contro gli invasori durante la prima guerra di indipendenza, sta cadendo e morendo, ma chi lo cavalca continua a combattere con la spada in pugno. La lapide sotto la statua così descrive quella scena e ricorda Ferdinando “Ferito a morte il cavallo nella battaglia di Novara, seppe vendicare col valore l’ingiuria della fortuna”. Già, l’ “ingiuria della fortuna”.

    Andrea era anche un accanito e conosciuto collezionista di statuette varie, soprattutto – ma non solo – dei Cavalieri dello Zodiaco, combattenti per il bene del cosmo e per la pace sulla Terra.

    La lotta…la lotta dunque come regola di vita, non in senso retorico, ma quella quotidiana e silente per i principi in cui si crede, per il bene, per la solidarietà, per la vita…Ed eroe non è sempre e solo chi per tutto questo combatte e vince, ma anche chi combatte e perde.

    L’11 settembre, cioè il giorno della S. Messa per Andrea, i suoi più cari amici gli hanno dedicato due pagine di amore che uno di loro ha letto in un’affollata Basilica milanese. Tra le altre, hanno ricordato queste sue belle parole da giovane avvocato che si guarda intorno e vuole capire e conoscere, parole che ripeteva ai suoi amici e colleghi: “il Tribunale va vissuto…e la giustizia non è l’avventura di un giorno !”

    Erano questa sua visione della giustizia e la dignità con cui viveva la sua professione che mi rendevano e mi rendono orgoglioso di avere avuto un “figlio-avvocato”.

    Sono queste sue parole che mi consentono di avere sempre mio figlio accanto.

    Voglio ringraziarvi ancora, con tutto il cuore ed insieme a mia moglie, per l’affetto che ci avete manifestato in questi giorni di dolore, un affetto dedicato ad Andrea”.

    Armando Spataro

     

  • Per Orlando va tutto bene, ma il processo digitale è di nuovo in tilt

    Va tutto bene, aveva garantito in un comunicato il Ministro Andrea Orlando, il processo digitale funziona che è una meraviglia. Rassicurazioni arrivate all’indomani di una mail ai giudici in cui il Presidente del Tribunale Roberto Bichi ammetteva i gravi “malfunzionamenti” derivati da un “importante” aggiornamento del sistema e la possibilità di “atti dispersi” causati da “errori fatali”.

    Invece veniamo a sapere che da venerdì a ieri c’è stata una nuova paralisi del sistema determinata da un imprevisto ‘riaggiornamento’ dell’aggiornamento che ha bloccato i registri della cancelleria, la consolle del magistrato e il deposito telematico degli atti da parte dei giudici.

    A smentire subito Orlando (“l’attività è tornata a livelli di normalità col pieno recupero della funzionalità dopo l’aggiornamento”) era stato il giudice Enrico Consolandi che in una mail ai colleghi lamentava “migliaia di errori fatali”. E altri magistrati hanno fatto notare di avere autorizzato in questi giorni il deposito cartaceo di atti mandati dagli avvocati alla consolle e mai arrivati.

    Ci spiega un giudice: “La consolle era talmente perfetta che hanno dovuto rilasciare un aggiornamento totale. Dopo il nuovo stop, persistono anomalie nella scrittura. Tutto il peso dei problemi del Pct si sta riversando sui tecnici che sono pochi e non ce la fanno”. (manuela d’alessandro)

    bichi-ai-giudici-errori-fatali-e-atti-dispersi-per-il-crac-del-processo-digitale

    Malfunzionamenti_PCT_precisazioni_dal_Ministero_della_Giustizia.html

  • Foto a casa Clooney, perché è stata assolta Selvaggia Lucarelli

    Non ci sarebbe stata Selvaggia Lucarelli, ma la show girl Elena Santarelli dietro la trattativa col settimanale ‘Chi’ per la pubblicazione delle foto scattate alla festa di compleanno di Elisabetta Canalis nella villa sul lago di Como di George Clooney. E’ più di un’ipotesi quella che il giudice Stefano Corbetta avanza nelle 99 pagine di motivazioni in cui spiega perché  ha assolto il 17 luglio scorso l’opinionista del ‘Fatto’, scrittrice e giurata  tv assieme al blogger Gianluca Neri e alla giornalista Guia Soncini.

    I primi due erano accusati di essersi intrufolati nella posta elettronica della mail della soubrette Federica Fontana e del marito Federico Rusconi per sottrargli 191 scatti patinati, preziosi perché carpiti all’interno delle preziose mura della villa di George, e di avere tentato di venderli  alla rivista regina del gossip per 120mila euro. Questa, almeno, la ricostruzione del pm Grazia Colacicco che viene fatta a pezzi dal giudice il quale accoglie in modo pressoché integrale la tesi contenuta nella memoria difensiva firmata dall’avvocato Barbara Indovina, legale di ‘Macchianera’.

    “Non c’è prova che le foto oggetto della trattativa ‘Chi’ fossero proprio quelle che Neri inviò alla Lucarelli” e anzi “deve presumersi che la provenienza delle foto sia diversa” visti i “numerosi contatti sia telefonici sia tramite sms avuti nel periodo settembre – ottobre 2010 tra Parpiglia ed Elena Santarelli, una delle persone presenti alla festa di compleanno di Canalis e destinataria delle foto inviate da Federico Rusconi”. Manca peraltro, in questa ricostruzione del Tribunale, la “pistola fumante” sulla circostanza che “un qualche dispositivo nella disponibilità di Neri (o di Lucarelli o Soncini) si sia collegato o abbia tentato di collegarsi all’account federicafontana@me.com”. E neppure è provato che “le due mail” indirizzate al direttore di ‘Chi’ Signorini siano state inviate da Neri”, come sostenuto dalla Procura.

    Incrociando le date  degli incontri tra i protagonisti della vicenda e le analisi delle pen drive sequestrate, il giudice arriva alla conclusione che vi è un dubbio “più che ragionevole” che le foto al centro della trattativa presenti sulla chiavetta del fotografo Gabriele Parpiglia  non fossero nemmeno quelle che Neri si era procurato su 4chan (contenitore di gossip mondiali dal quale il blogger ha sempre detto di avere attinto gli scatti ndr) e che poi furono inviate alla Lucarelli”.

    Quanto alle presunte incursioni illecite degli imputati nelle mail di vari personaggi famosi, tra i quali Mara Venier (“Habemus Mara” e “Voglio tutti i suoi scheletri in fila”,  gli  sms di  Neri e Lucarelli), il giudice ritiene di accogliere l’orientamento della Cassazione per cui “il reato di trattamento illecito dei dati personali non è integrato se l’utilizzo avvenga per fini esclusivamente personali, senza una loro diffusione o destinazione a una comunicazione sistematica”.  Ma anche a volere non accogliere questa interpretazione  della Suprema Corte, Corbetta fa notare che mancherebbe un “danno di natura patrimoniale o non patrimoniale”  per configurare il reato. Resta da vedere se la Procura vorrà impugnare una sentenza che, così com’è, appare uno schiaffo a sette anni di indagini. (manuela d’alessandro)

     

  • Robledo assolto nonostante il grave abbaglio del pm sul figlio

     

     

    Alfredo Robledo, un tempo procuratore aggiunto a Milano ora in servizio a Torino, è stato prosciolto a Brescia dall’accusa di abuso d’ufficio nata dall’esposto presentato da Edmondo Bruti Liberati all’epoca capo della procura di Milano in relazione al deposito di soldi sequestrati non nel Fondo unico giustizia ma presso la Banca del Credito Cooperativo di Carate Brianza.

    Il proscioglimento arrivato solo adesso lascia ampiamente capire che lo scopo dell’esposto di Bruti non era certo quello di accertare le responsabilità del collega in relazione ai fondi sequestrati alle banche nella vicenda dei derivati a Palazzo Marino ma quello di metterlo in cattiva luce e in parole povere di farlo fuori. Insomma uno dei tanti capitoli della guerra interna alla procura di Milano, con  sullo sfondo la moratoria delle indagini su Expo decisa dal vertice massimo dell’ufficio inquirente.

    La procura di Brescia, oggi smentita dal gup, aveva coltivato l’esposto di Bruti fino ad affermare: “Il presidente della Bcc di Carate Annibale Colombo era conoscente di lunga data dell’imputato Robledo e il figlio di quest’ultimo dipendente della filiale Bcc di Barlassina”. Il figlio di Robledo fa l’allenatore di pallacanestro e non ha mai lavorato in banca.  Un funzionario dell’istituto sentito come testimone aveva escluso la presenza di congiunti di Robledo tra i dipendenti ma evidentemente ciò non è bastato al pm, interessato a diffondere veleni. Va ricordato inoltre che la procura di Brescia aveva pure svolto accertamenti patrimoniali su Robledo che in relazione al reato di abuso d’ufficio non sono consentite.

    Robledo nel corso della guerra interna alla procura era stato poi trasferito a Torino in riferimento a una serie di sms scambiati con l’avvocato della Lega Nord Domenico Aiello. L’uscita di Robledo ovviamente consentiva al capo della procura di dispiegare tutta la potenza della moratoria su Expo, solo parzialmente rimessa in discussione dall’avocazione da parte della procura generale che metteva sotto inchiesta il sindaco di Milano Beppe Sala e ne chiedeva il rinvio a giudizio per falso che sarà discusso davanti al gip il 14 dicembre prossimo.

    Sala comunque era stato “salvato” dall’accusa di abuso d’ufficio per non aver indetto la gara pubblica sulla ristorazione con appalto assegnato direttamente a Oscar Farinetti. Per la procura di Bruti Sala favorì Farinetti “senza averne l’intenzione”. E poi c’era fretta, bisognava realizzare Expo. Insomma un abuso d’ufo a fin di bene, con archiviazione decisa dallo stesso giudice che come responsabile dell’informatizzazione aveva contribuito a evitare gare pubbliche sui fondi Expo giustizia. Ironia della sorte, tra i beneficiati addirittura una società con sede nel paradiso fiscale del Delaware.

    Dunque Robledo ostacolava la moratoria e persino gli “affari” delle toghe. Doveva pagarla, l’ha pagata e la sentenza di proscioglimento di oggi a Brescia suona quasi come una beffa. Nel frattempo a Milano di nuove indagini su reati contro la pubblica amministrazione non c’è traccia. Del resto a succedere a Bruti ora in pensione è stato il suo braccio destro Francesco Greco eletto all’unanimità dal Csm dell’omertà. Il cosiddetto organo di autogoverno infatti, regista nemmeno tanto occulto Giorgio Napolitano, aveva da subito supportato Bruti contro Robledo (frank cimini)

  • Il compito che prova la truffa del concorso in magistratura del 1992

    Questo documento è la prova solare – che vi mostriamo in esclusiva –  di come venne truccato il concorso per magistrati del 1992. Il compito del candidato non reca in calce né il voto della commissione, né le firme del segretario e del presidente, in palese violazione dell’articolo 13 della legge che disciplinava l’esame.

    Eppure, l’aspirante toga passò lo scritto a differenza di Pierpaolo Berardi che pure era convinto, quel giorno di maggio all’hotel Ergife di Roma, di avere sviluppato in modo più che convincente le tracce di diritto penale, romano e amministrativo. Tutti argomenti sui quali, per studio matto o perché per caso aveva seguito un seminario pochi giorni prima che riguardava proprio i temi della prova, era preparatissimo.

    Mentre i diòscuri di Mani Pulite seducono il Paese, il giovane avvocato astigiano comincia una battaglia lunga 20 anni per capire le ragioni di un’inspiegabile bocciatura che ora viene raccontata in un capitolo del libro ‘Società, crimine e diritto’, scritto dal professor Cosimo Loré e pubblicato da Giuffré.

    Il cocciuto Pierpaolo chiede e ottiene dopo molta insistenza di poter vedere i suoi compiti e quelli degli altri. Si accorge subito che molti non sono stati nemmeno corretti. “Calcolai i tempi. Tre prove giuridiche complesse non potevano essere corrette ed esaminate riportando voti e verbale per ciascuno in tre minuti”.

    Più scava e più trova abissi di irregolarità. Alcuni elaborati dei promossi sono riconoscibili perché vergati in stampatello o con calligrafia doppia o segni ‘particolari’, altri sono zeppi di erroracci giuridici oppure senza voto, come quello della foto. Dagli archivi del Ministero è sparita la prova di uno dei vincitori.

    Il Tar e il Consiglio di Stato danno ragione a Berardi, il Csm accoglie la sua richiesta di ricorreggere i temi. Peccato che invece di nominare una nuova commissione disponga che sia la stessa che lo ha bocciato a farlo. Per oltre due decenni, e ancora adesso, alcuni magistrati che passarono quel concorso hanno deciso sulla libertà delle persone e molto altro.

    (manuela d’alessandro)

     

  • Bichi ai giudici, “errori fatali” e “atti dispersi” per il crac del processo digitale

    “Allo stato non sembra possa escludersi l’eventualita’ di ‘atti dispersi‘”, “si sta lavorando per il recupero degli errori fatali”.

    Una forza cieca e malevola accompagna il Processo Civile Telematico che vive l’ennesima empasse  perché dal 15 settembre, come spiega il presidente del Tribunale Roberto Bichi in una lettera mandata ai giudici, si sono verificati “gravi malfunzionamenti” nell’invio e nella ricezione degli atti.

    Quasi apocalittiche le conclusioni: “Allo stato sembra non possa escludersi l’eventualità di atti dispersi” e “si pone il problema dell’individuazione della data di deposito per gli atti inviati dagli avvocati e rimasti in situzione di non conoscibilità da parte delle cancellerie e del giudice”.

    Di fronte a questa “situazione”, “tutti noi siamo chiamati ad una valutazione prudente e che agevoli, anche sotto il profilo del valido recupero processuale, la
    ricostruzione della serie degli atti processuali, là dove siano
    proposte istanze di remissione in termini o comunque volte a
    sanare la situazione, giacché l’inadempimento non può  certo
    essere imputato alla parte”. E meno male. Il processo civile telematico del resto la comunità l’ha già pagato abbastanza, con i milioni di fondi Expo investiti per agevolare il primato milanese sulla via del digitale.  Con modalità all’attenzione dell’Anac e di due Procure (Milano e Venezia) dopo le inchieste di Giustiziami, del ‘Giornale’ e del ‘Fatto’ tre anni fa.

    (manuela d’alessandro)

  • Fondi Expo per il processo telematico, Milano sconfitta in Europa

    Milano battistrada nazionale del Processo Civile Telematico, Milano che a luglio faceva sapere a mezzo stampa di essersi candidata alla prestigiosa ‘Bilancia di cristallo della giustizia’, il riconoscimento del Consiglio d’Europa alla pratiche innovative che contribuiscono all’efficienza e qualità della giustizia.

    Ma poi, vuoi mettere: con tutti i milioni elargiti nel nome di Expo proprio per realizzare il sogno di un processo ‘leggero’, senza straziare foreste, come si poteva non vincere?

    E invece. E’ di oggi la notizia che ad aggiudicarsi la ‘Bilancia’ è il Tribunale di Catania scelto per il progetto che punta a migliorare i tempi delle procedure reative ai ricorsi dei migranti che si sono visti rifiutare la protezione  internazionale dalle Commissioni Territoriali. La proposta etnea è stata selezionata assieme ad altre provenienti dall’Azerbaijan, Bulgaria e Norvegia, scelte tra 37 candidature arrivate da 18 Paesi.

    Un dubbio: e se ai giurati l’idea di consegnare una ‘Bilancia di cristallo’ a un Tribunale che ha assegnato i fondi Expo in modo così opaco, tanto da ‘meritarsi’ gli strali dell’Anac e due inchieste penali, sia apparsa un po’ comica?

    (manuela d’alessandro)

  • La nuova mappa del potere in Procura, gli aggiunti scelti dal Csm

    Cambia la mappa del potere a Milano con 6 procuratori aggiunti nuovi di zecca chiamati a sostituire Francesco Greco, Pietro Forno, Alfredo Robledo, Maurizio Romanelli e Ilda Boccassini che per vari motivi hanno lasciato o lasceranno a breve il loro posto a capo dei dipartimenti.

    Dopo mesi di trattative tormentate, dalla votazione della quinta Commissione del Csm, quella che si occupa degli incarichi direttivi, vengono fuori 5 nomi già sicuri del posto: due con l’unanimità, Maria Letizia Mannella e Tiziana Siciliano più Fabio De Pasquale, Eugenio Fusco e Alessandra Dolci con 5 voti. Entreranno al Plenum come ‘generali’ e tali ne usciranno. A parte Mannella, sostenuta dalla corrente moderata Unicost, gli altri sono tutti esponenti di Area, formazione di sinistra. 

    Sarà bagarre invece sul sesto nome perché l’attuale pg Nunzia Ciaravolo e il pm Laura Pedio hanno preso 3 voti a testa. Sembra leggermente favorita la prima, che nel curriculum ha esperienza in Kosovo per l’Onu, e dovrebbe contare sui voti di Unicost, Magistratura Indipendente e di alcuni consiglieri laici, oltre alla preferenza del presidente della Cassazione Giovanni Canzio, col quale è stata a lunga nel consiglio giudiziario milanese. Pedio è sostenuta da Area e dal procuratore capo Francesco Greco che le ha affidato diverse inchieste economiche di rilievo. (manuela d’alessandro)

  • Tutti i no del medico del Policlinico alle “protesi di merda”

    “Gli ho detto: ‘Bruno dai, quella protesi lì…e poi guarda che loro sono disposti…anche dietro compenso o che cosa…a modificare lo strumentario’. E lui mi ha risposto: ‘Ti posso dire  una cosa? Non me ne frega un cazzo!‘”.

    Il dottor Bruno Arosio era l’ossesione di Fabio Bestetti e Marco Valadé, i due chirurghi del Policlinico di Monza arrestati con l’accusa di associazione a delinquere e corruzione perché avrebbero ricevuto denaro e viaggi dai rappresentanti della società Ceraver in cambio dell’acquisto di protesi da applicare in sala operatoria. “Protesi di merda”, le definiscono loro stessi nelle intercettazioni, e infatti il dottor Arosio non ne vuole sapere di comprarle per i suoi pazienti. “E’ una protesi di merda quella lì – conferma “furibondo” a colloquio con  Bestetti – Tu puoi montarla però vedrai che ti romperò i coglioni per non farla mettere più una roba del genere perché non ti faccio più proteggere dal Policlinico. Non so come cazzo fai a mettere quella roba lì”. E l’altro, mitemente: “Bruno, dai, tranquillo. Domani ne parliamo. Vai a casa, mangi la pappa, così ti rilassi un po’ e poi domani ne parliamo”.

    Ma tutti i domani che ne parlano il dottor Arosio non è mai rilassato. Valadé, dialogando con un venditore della Cerever, Marco Camnasio, anche lui arrestato: “Io gli ho detto ‘ascolta Bruno…vabbé io comunque martedì metterò una protesi di queste qua  perché viene qui proprio il responsabile’. ‘Sono cazzi tuoi mi ha detto..m’ha riposto così, capito? Sono cazzi tuoi. Allora gli ho detto: ‘Ma ascolta Bruno, guarda che loro, sono una ditta in espansione, sono molto disponibili, aiutali magari a modificare qualcosa dello strumentario (…) cioé gli ho fatto capire…non è che te lo fanno gratis, capito? E lui mi ha risposta: ‘Guarda, in questo momento non mi interessa’ “.

    A un certo punto dalle intercettazioni emerge che Arosio scrive pure una lettera alla Direzione del Policlinico.

    Finché i due medici pensano alla soluzione finale. E’ Bestetti a buttarla lì: “Gli diamo il ‘disturbo’ anche a lui”. ‘Disturbo’ è la parola chiave di decine di telefonate: s’intende, scrive il gip, “il compenso, sotto varie forme, promesso come corrispettivo per l’impianto delle protesi Ceraver”. Ma Valadé: “No no no…adesso non parliamo perché sai che Bruno è uno ligio al dovere...capito? Lui lo fa proprio per comodità, per correttezza, per tutto, capito?”. Comodità, dice proprio così. (manuela d’alessandro)

  • Milano invasa dai manifesti per ringraziare il re della coca Morabito

    Rocco è tornato in Italia il 4 settembre dopo 25 anni di latitanza patinata in Uruguay e Milano  si prostra al cospetto del suo ex re della coca attraverso un centinaio di manifesti appesi ovunque, nei quartieri di lusso (la foto è stata scattata in via Santa Sofia) e in quelli più periferici e spigolosi, come Quarto Oggiaro.

    Un inchino ironico al boss della ‘ndrangheta ma con dati reali inoppugnabili che certificano il primato milanese tra gli ‘sniffatori’ europei.

    I cartelli sono stati ‘rivendicati’ dall’esperto di comunicazione  Klaus Davi e da un pubblicitario già autori, una quindicina di giorni prima dell’arresto, della campagna intitolata ‘Rocco, dove sei?’ che aveva rivestito i muri di Palermo con la foto di Morabito affiancata da quella di un suo possibile travestimento al femminile. “Sapevo che qualcosa stava per accadere, se ne parlava nei bar di Africo”, aveva commentato la cattura il semiveggente Davi.   (manuela d’alessandro)