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  • Fondi Expo per monitor e giustizia: gaffe di Sala, sono venuti in Comune? Ah….

    “Sindaco, cosa ne pensa delle acquisizioni della Guardia di Finanza sull’utilizzo dei fondi Expo per la giustizia  milanese?”. Risposta: “E’ una cosa che non ci riguarda, non sono venuti da noi”. “Veramente si, l’Anac ha mandato la Finanza in Comune e in Tribunale..”. Sguardo smarrito: “Ah…”.

    A Beppe Sala questa storia dei 16 milioni di euro spesi in nome di Expo con criteri poco chiari non riesce a conficcarsi nella mente. Sappiamo che il nostro sindaco, riconosciuto manager di alto livello, non ha una memoria prodigiosa, vedi proprietà non dichiarate e presunti verbali falsi di cui non ricorda l’esistenza.

    Per la seconda volta, il primo cittadino viene in Tribunale per testimoniare al processo a carico di Roberto Maroni e, data la sua affabilità, lo interroghiamo di nuovo sui monitor di Expo, sempre implacabilmente non funzionanti. L’altra volta, prima che si accendesse l’interesse di Cantone, era sembrato alieno al dossier. “A cosa servono questi schermi con la scritta ‘udienza facile”?, ci aveva domandato per poi essere attraversato da un bagliore di memoria: “Ah, sono quelli della Pomodoro…(Livia, ex presidente del Tribunale)”.

    Stavolta avrebbe dovuto essere un po’ più informato visto che la Finanza ha fatto messe di documenti proprio a Palazzo Marino il 9 febbraio scorso. Ma forse sono andati in uffici lontani dal suo. Lui, all’epoca, era commissario di Expo.

    (manuela d’alessandro)

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  • Il garante toglie il monopolio del processo telematico alla società che si è presa i fondi Expo

     

    Per 10 anni il processo civile telematico è stato regno incontrastato di una sola società, la bolognese Net Service spa, che si era accaparrata senza gara anche una parte consistente dei fondi Expo destinati alla giustizia 2.0. Ora, il Garante della concorrenza e del mercato, chiamato a pronunciarsi su eventuali violazioni da un’associazione di imprenditori ‘ e da Avvocati Telematici srl, prova a tirare una riga. E, indirettamente, conferma che qualcosa è andato storto nella ‘costruzione’ del Pct, anche con riferimento al tesoro di Expo sul quale sta indagando l’Anac di Raffaele Cantone che ha mandato nei giorni scorsi la Guardia di Finanza a prendere documenti nel Comune e nel Tribunale di Milano.

    L’autorità di controllo ha accettato quella che potremmo definire con linguaggio poco tecnico una proposta di ‘patteggiamento’ da parte di Net Service. La corazzata ex Finmeccanica incassa lo stop all’istruttoria iniziata a metà 2016 per verificare le possibili condotte contrarie alla concorrenza e, in cambio, si impegna da adesso in avanti ad ‘aprire’ il mercato. “E’ chiaro che qualcosa non è andato nella macchina amministrativa se per 10 anni non è stata fatta una gara – ci spiega l’avvocato Carlo Piana, rappresentante della ricorrente Assogestionali –   Il Pct è nato nel 2004 e io dal 2007 non ho traccia di gare”.  Tutto risolto? Non proprio, stando alle osservazioni degli Avvocati Telematici riportate nella delibera del Garante del 18 gennaio : “Gli impegni assunti da Net Service non sono di per sé sufficienti a scongiurare il protrarsi delle asimmetrie informative ai danni del mercato a valle”.

    I ‘giuramenti’ di Net Service davanti a chi deve vigilare sulla concorrenza sono due: 1) Per evitare di sfuttare il fatto di essere al tempo stesso leader del mercato nella produzione dei sistemi informatici e società che fa man bassa degli appalti con gli affidamenti, la società si impegna a individuare due aree azendali separate, una che si occupa di realizzare i prodotti, l’altra di venderli 2) La creazione di un ‘blog del Pct’ nella quale possano dialogare tutte le imprese che offrono servizi legati alla digitalizzazione della giustizia. Le perplessità riguardano soprattutto la separazione delle aree aziendali che “non è sufficiente a evitare che esse interloquiscano tra loro” e inoltre viene evidenziata “l’assenza di trasparenza dei contratti stipulati tra Net Service e il Ministero”. Intanto, questione di poco, il processo telematico sta per arrivare anche nel penale. E’ troppo chiedere che le chiavi per realizzarlo siano affidata con gare pubbliche e criteri limpidi? (manuela d’alessandro)

    Il provvedimento del Garante

  • L’accanimento degno di miglior causa della Procura contro i no Expo

     

    Le denunce dei proprietari delle auto danneggiate durante gli incidenti del primo maggio 2015 non riportano i  numeri civici di fronte ai quali erano parcheggiate. Le macchine erano sì in via Carducci ma nel tratto successivo a largo d’Ancona dove la sosta è consentita. Il pm invece colloca le auto nel tratto precedente al piazzale, “in modo del tutto arbitrario” secondo le difese dei manifestanti, tre dei quali assolti in primo grado dall’accusa di devastazione e saccheggio e che mercoledì prossimo saranno processati in appello perché la procura ha fatto ricorso.

    Una dedizione degna di miglior causa, un accanimento vero e proprio, soprattutto considerando che stiamo parlando delle iniziative della procura nota per la moratoria delle indagini sugli appalti di Expo, provata oltre ogni ragionevole dubbio dai ringraziamenti dell’allora premier Matteo Renzi ai signori del quarto piano coordinati e diretti a quel tempo da Edmondo Bruti Liberati.

    Un’altra “perla” dell’accusa, citata nella memoria difensiva, sta nel passaggio in cui la procura ha definito “inaccettabile” l’affermazione del giudice di primo grado secondo cui la maschera antigas è uno strumento di precauzione a fronte di paventati disordini.

    Del resto sempre la procura aveva collegato agli imputati un volantino anonimo fotografato nelle mani dei manifestanti e contenente istruzioni in caso di una ipotetica azione della polizia. Insomma per la procura azioni come “indietreggiare lentamente e ordinatamente”, “aiutare chi viene ferito, chi cade, chi ha problemi di respirazione o chi viene fermato” consisterebbero in suggerimenti a commettere il reato di resistenza. Sarebbe “inaccettabile” pure “la previsione di un’assistenza legale in caso di arresto o fermo”.

    La procura sta facendo di tutto per ribaltare le assoluzioni e ottenere le condanne per devastazione e saccheggio. In primo grado l’accusa aveva chiesto 6 anni di reclusione. Un solo imputato era stato condannato per il reato più grave a 3 anni e 8 mesi. La procura non ha impugnato il quantum della pena perché all’accusa interessa soprattutto il principio, in materia di concorso morale nella devastazione.

    La sentenza della settimana prossima in caso di esito favorevole per l’accusa porterà alle prossime mosse. Ci sarà la richiesta di processare i 5 anarchici greci per i quali Atene ha rigettato l’estradizione perché la corte d’appello ha spiegato che da quelle parti la responsabilità penale è personale e mai collettiva dal momento che non erano indicati nel capo di imputazione comportamenti specifici.

    Insomma è questa l’altra faccia della moratoria sui reati dei colletti bianchi che tra l’altro ha consentito a Beppe Sala tra tragicomiche archiviazioni e indagini non fatte di diventare sindaco di Milano. Il tutto a tutela del cosiddetto sistema-paese, cioè del partito degli affari e dell’evento che non poteva non essere celebrato. Il controllo di legalità non ci fu “perché bisognava fare in fretta, non c’era tempo”. Come si può notare siamo di fronte a spiegazioni e concetti “altamente giuridici”. L’obbligatorietà dell’azione penale è stata mandata a farsi benedire perché serve solo per fare ammuina nei convegni e nei comunicati dell’Anm. Per tutto il resto c’è sempre la giustizia di classe perché le pietre contro le vetrine delle banche sono molto più pericolose dell’abbuffata di Expo alla quale ha partecipato quantomeno a livello di scambi di potere anche la magistratura. (frank cimini)

  • Quando chiudiamo gli occhi ‘la mafia siamo noi’

    Dov’è la mafia? La mafia è qui, basta allungare una mano e palparne la consistenza oscena nella pagine del libro del cronista giudiziario milanese di ‘Repubblica’ Sandro De Riccardis. Se volete toccare la potenziale Cosa Vostra, annusarla e valutare se ce l’avete addosso anche voi o chi vi sta accanto o i vostri eroi, questo è il libro giusto.

    – Sandro, perché la mafia siamo noi?

    – La mafia non è un corpo a sé stante, separato dalla società, non c’è il nero o il bianco di due mondi distinti. Qui parliamo soprattutto del comportamento di quella che si considera la parte sana e che invece non lo è per indifferenza o per connivenza.

    – Ha qualcosa a che fare anche coi ‘professionisti dell’antimafia’ di Sciascia?

    – Diciamo che quello che teorizzava Sciascia nel 1987 ha valore oggi, ma non all’epoca in cui lo scrisse. In quel momento lui colpì le persone sbagliate, come Falcone. Oggi invece esiste davvero un’antimafia fatta di parole vuote a cui non corrisponde un concreto impegno sul territorio e per la legalità.

    – Addirittura, tu scrivi, c’è un’antimafia che piace alla mafia…

    -Si, e gli esempi che faccio sono tanti a cominciare da Bernardo Provenzano che da’ il via libera dalla latitanza all’ex presidente del consiglio comunale di Villabate per costituire un’associazione antimafia che poi organizzò una bella manifestazione contro Cosa Nostra con tanto di premio all’attore Raul Bova, interprete della fiction ‘Ultimo’.

    – E poi ci sono i tanti, presunti paladini dell’antimafia.

    -Una per tutti,  Rosy Canale,  icona molto attiva dell’antimafia calabrese che girava l’Italia con uno spettacolo teatrale in cui raccontava la sua storia di imprenditrice minacciata dai clan e costretta a chiudere il suo locale. Fonda il ‘Movimento delle donne di San Luca’ e promuove il progetto di una ludoteca nella terra delle faide. Ma una mattina l’arrestano per truffa e peculato perché, risulta dalle intercettazioni, usa i finanziamenti ottenuti con quella che lei stessa definisce “la favolata della legalità” per spese personali: mobili, auto, settimana bianca.

    Come facciamo nella vita quotidiana ad accorgerci se la mafia è anche Cosa Nostra?

    – A Milano la mafia si declina soprattutto nel riciclaggio. Possiamo farci della domande su locali nati dal nulla e che sono quasi sempre vuoti.  Spesso alle spalle non hanno degli imprenditori ma dei prestanome che li utilizzano per ‘lavare’ i capitali sporchi.  Leggiamo i giornali, procuriamoci carte giudiziarie o documenti della Prefettura quando c’è un’inchiesta che riguarda il nostro territorio. Non è sempre facile, certo. Pensiamo al circolo ‘Falcone – Borsellino’ di Paderno Dugnano dove si svolgevano le riunioni dei boss in Lombardia. Era gestito dall’Arci, che non si accorse di nulla. Una storia esemplare che racconto è poi quella dei liceali di ‘Cortocircuito’ che, grazie a una semplice visura camerale, si sono accorti di organizzare la festa di fine anno scolastico in un locale legato alla criminalità. E poi si deve fare rete con chi denuncia. In Lombardia un solo imprenditore ha avuto il coraggio di farlo. Un uomo solo, come lo fu all’inizio Libero Grassi a Palermo.

    – La parte più intensa del tuo libro è quella dove parli della giustizia riparativa. Perché hai inserito questo capitolo tra tante storie di denuncia?

    – Molte vittime hanno l’esigenza di non restare chiuse nel dolore e di dare un senso alla perdita del loro caro. E incontrano chi ha fatto i conti col proprio passato e ha deciso di mettersi accanto a chi vuole sconfiggere i clan. Non stiamo parlando dei pentiti e del pentitismo che è un fenomeno utilitaristico. Ci sono tante storie di chi ha già scontato la pena  e ha voglia di cambiare vita. Penso a Marisa Fiorani che perde la figlia uccisa a colpi di pietra dopo che era finita nella Sacra corona unita. Il suo racconto nel carcere di Opera porta alcuni detenuti ad aprirsi e a parlare di sé. O ai genitori di Michele Fazio che incontrano un ragazzo parte del commando che ha ucciso il figlio dopo che ha finito di scontare la pena. (manuela d’alessandro)

    ‘La mafia siamo noi’ di Sandro De Riccardis. Add editore, 238 pagg., 15 euro. Presentazione a Milano il 4 marzo alle ore 18 alla libreria ‘Centofiori’.

     

     

  • Reato di tortura, se non ora, quando?

    Lunedì sera, Teatro Pavoni, periferia di Milano.

    Le storie di Rosario Indelicato e di Giuseppe Gulotta fanno venire i brividi agli spettatori presenti. Un pubblico di addetti ai lavori e non assiste alla serata orgamizzata dalla Camera Penale di Milano per sensibilizzare sul tema della necessità di introdurre nel nostro ordinamento il reato di tortura.

    Gli interventi di Giuliano Pisapia e Monica Gambirasio aprono la prima parte. Si evidenzia la necessità che finalmente il nostro ordinamento si adegui alle convenzioni internazionali sottoscritte dall’Italia, dopo diversi tentativi andati a vuoto. Vengono sottolineati i nodi del disegno di legge che è in discussione in Parlamento. E poi ci sono le storie.

    L’avvocato Baldassarre Lauria racconta quella della lunghissima carcerazione patita dal suo assistito Giuseppe Gulotta che aveva confessato sotto tortura e sottolinea le storture della legislazione emergenziale antimafia, del 41 bis e dei reati ostativi che non consentono che il principio della rieducazione della pena li esplichi.

    Cetta Brancato, curatrice del libro che racconta la terribile detenzione a Pianosa di Rosario Indelicato, evidenzia un aspetto che accomuna le due storie: la difficoltà a raccontare eventi terribili, talmente terribili da non poter trovare credito. Rosario Indelicato e Giuseppe Gulotta non sono stati creduti e finalmente trovano ascolto.

    Vengono letti passaggi del libro ‘L’infermo di Pianosa’, storia degli abusi della carcerazione dura dopo le stragi del 1992; non è solo una storia di detenzione di 41 bis, ma soprattutto è il racconto di una violenza senza confine con lo scopo di indurre alla collaborazione detenuti neppure giudicati in primo grado. Un “libro da divorare, con un sospiro di angoscia per ogni pagine”, commenta Pisapia.

    Infine, va in scena “Come un granello di sabbia”, lo splendido monologo teatrale sulla storia di Giuseppe Gulotta, nel quale torna il tema dell’incredulità di tutti, anche dei magistrati, di fronte al grido disperato di una persona ingiustamente condannata. Il crudo racconto delle violenza subite dalle forze dell’ordine e della confessione storta è un pugno nello stomaco. Per citare il ministro Andrea Orlando: “Sul reato di tortura non c’è tempo da perdere”.

    Avvocato Valentina Alberta

  • Il giudice di Milano manda all’aria l’accordo Renzi – Procura per il miliardo ‘salva Ilva’

     

    Matteo Renzi e Francesco Greco non avevano considerato quel giudice che ha fama di ‘dura’ e che a sorpresa, quando era molto giovane, si era già guadagnata lo stupore generale prosciogliendo Silvio Berlusconi per il caso Mediatrade.

    A novembre l’allora premier, in piena ansia referendaria, e il procuratore capo di Milano, cui non mancano doti di fine mediatore, avevano annunciato l’accordo con la famiglia Riva per il rientro del miliardo e trecento milioni bloccato da anni in Svizzera e frutto di evasione fiscale. Soldi da destinare al risanamento dell’azienda siderurgica tarantina.

    In cambio, questo non si era detto in modo esplicito ma era chiaro, le procure di Milano e Taranto si impegnavano ad ‘ammorbidire’ la posizione giudiziaria degli eredi di Emilio Riva.  Detto fatto, la Procura milanese concordava coi legali di Adriano, Fabio e Nicola Riva pene comprese tra i 2 anni e mezzo e i 5 anni per reati, a vario titolo, di bancarotta, truffa ai danni dello Stato, intestamento fittizio di valori.

    Troppo basse  “a fronte della gravità dei fatti” per il giudice Maria Vicidomini. Nella sua ordinanza ritiene non congruo anche il miliardo e trecento milioni messo sul piatto dai Riva che, oltre tutto, fa gola anche alla magistratura pugliese per altri processi.

    E il magistrato sembra far proprie anche le proteste delle parti civili nei vari procedimenti aperti che scenderanno in piazza a Taranto contro i patteggiamenti tra qualche giorno quando scrive che l’intesa benedetta da governo e procure rappresenta “un accordo omnicomprensivo che, raggruppando in maniera generica una molteplicità di reciproche rinunce ad azioni esercitabili in sede civile, amministrativa e penale, rischia di tradursi in una sotanziale e totalizzante abdicazione, non solo da parte degli imputati ma anche del commissario straordinario di Ilva spa e del curatore speciale di Riva Fire alla tutela di molteplici e variegati interessi che richiederebbero altre forme di salvaguardia”.

    “Ora si rischia la paralisi, per Taranto non è un bel giorno”, commenta un avvocato vicino alla società. Tutto può ancora accadere ma non si poteva aspettare la ratifica del patteggiamento prima di illudere una città e dei lavoratori già così provati? Eppure c’era un precedente. Nel novenbre del 2015, la ‘salva Ilva’ di Renzi si era schiantata contro il Tribunale federale di Bellinzona che aveva bocciato con toni quasi beffardi lo sblocco del miliardo e trecento milioni. Il principio della decisione, caro agli elvetici, era quello di conservare il denaro sequestrato fino a una pronuncia definitiva. Appunto. (manuela d’alessandro)

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  • Mani pulite, 25 anni fa la grande farsa. E non è finita…

     

    “Intervista Borrelli”. “Intervista D’Ambrosio”. Dai capi dei giornaloni era un continuo di richieste ai loro uomini (e donne) sul campo. “Intervista su che?”. “Su quello che vogliono loro”. E andò a finire a un certo punto che a Borrelli e D’Ambrosio furono sollecitati pareri persino sull’America’s Cup di vela.

    C’era un paese ai piedi di quattro signori del quarto piano che avevano vinto un concorso. Correva l’anno 1992. La corruzione c’era pure prima del mitico ’92, solo che le procure, Milano in testa, avevano fatto finta di non vederla. Poi “all’improvviso” le toghe si svegliarono. Perché la politica era diventata debole e perché la magistratura aveva da incassare il credito acquisito un po’ di lustri prima quando le era era stato delegato il compito di risolvere la questione della sovversione interna (“anni di piombo” ,”terrorismo” definizioni anche tecnicamente sbagliate ma lasciamo perdere).

    Le toghe saltarono al collo dei politici gridando: “Adesso comandiamo noi”. E così fu. Mani pulite, un regolamento di conti all’interno della classe dirigente di un paese, con la scusa della “lotta alla corruzione”. L’azione penale fu essercitata fino in fondo a macchia di leopardo secondo convenienze e opportunità della magistratura. La fecero franca i grandi imprenditori che erano editori dei giornali i quali appoggiarono l’inchiesta sapendo di avere scheletri negli armadi. Un do ut des in piena regola. Su Fiat si fece finta di indagare, su Mediobanca neanche quello. L’editore di Repubblica se la cavò con un buffetto. Tutto a scapito dei politici che pagarono a eccezione di un partito, quello che poi manderà in Senato via Mugello l’uomo simbolo di Mani Pulite, molto attivo nel vivere a scrocco degli inquisiti del suo ufficio, insomma un esempio di alta moralità.

    E non fu una questione di toghe rosse. L’operazione aveva bisogno di una sponda politica per evitare in caso di indagini vere su tutti il varo di un’amnistia da parte del Parlamento.

    Due pesi due misure, l’utilizzo della custodia cautelare per ottenere confessioni, ammissioni, “per avere l’osso”. Folle vocianti e acclamanti in corso di porta Vittoria, bandiere e simboli di tutti i partiti dall’Msi al Leoncavallo. “Di Pietro non mollare”. “Borrelli facci sognare”. Le telecamera in prima fila erano quelle di Berlusconi che in realtà non aveva capito nulla, visto che sarà poi l’unico grande imprenditore ad essere inquisito fino in fondo dal momento della discesa in campo.

    Tonino da Montenero iniziò anche a delirare: “Mani pulite nel mondo”.  Poi clamorosamente lasciò. “Mi tiravano per la giacchetta” fu una delle 752 versioni dei fatti che diede. Ma contro non c’erano “veleni”, come ancora oggi sostengono gli orfani della grande farsa, ma fatti veri, dai prestiti a babbo morto alle auto ai cellulari con bolletta pagata. A livello penale si salvò a Brescia, complice un comunicato con cui l’Anm per la prima volta nella sua storia si schierò con l’indagato. Ovviamente fu anche l’ultima.

    Mani pulite servì alla magistratura per aumentare il suo potere nei confronti di una classe politica che arrivò perfino a suicidarsi abolendo l’autorizzazione a procedere e a un singolo magistrato per arricchirsi fino all’Italia dei valori immobiliari

    E’ cambiato qualcosa? Poco. La corruzione c’è sempre. Allora i magistrati acquisivano potere soprattutto facendo le indagini o facendo finta di farle, adesso anche non facendole. La moratoria Expo è in stile Mani pulite. Expo insomma è la Fiat del terzo millennio. Berlusconi si scontrava con le toghe e lo fa ancora oggi perchè non lo lasciano in pace nemmeno in camera da letto. Renzi ringrazia la procura di Milano “per il senso di responsabilità istituzionale” che ha permesso a Peppino Sala di diventare sindaco di Milano direttamente dalla gestione di Expo. Non tutti i conflitti di interessi sono uguali perché alcuni sono a fin di bene, come del resto certi reati. (frank cimini)

  • Né magistrati, né avvocati, le ‘nozze d’argento’ di Mani Pulite si celebrano in un’aula vuota

    Il dato nitido è che l’aula magna è vuota come neppure al più tremendo dei corsi di formazione professionale (c’è da dire che qui crediti non ne sono previsti). L’unico magistrato in aula, spettatore di se stesso, è uno dei relatori, Pier Camillo Davigo, attorno al quale cresce e poi si smorza una polemica su una presunta diserzione dell’Ordine degli Avvocati milanesi motivata dalla sua presenza di “ospite sgradito”. Così almeno ce la racconta Francesca Scoleri, presidente di Themis & Metis, che ha organizzato l’incontro. Il tempo per le agenzie di battere la notizia che arriva la precisazione del presidente dell’Ordine, Remo Danovi: “Ci mancherebbe, nessun disagio a discutere col presidente di Anm, come già accaduto in passato”. Scoleri però insiste in apertura dell’incontro: “La miglior risposta a chi ha voluto impedire questo incontro è averlo realizzato”.

    Perché allora non c’è nessuno (poco più di una decina di ‘veri’ spettatori, il resto sono giornalisti)?

    Antonio Di Pietro spiega in piedi e con foga gladiatoria dei tempi antichi la “grande amarezza di quest’aula vuota”con “l’unica cosa che resta di Tangentopoli: la desolazione dell’opinione pubblica che non ci crede più”.

    Va bene, fose non è stata data pubblicità all’evento ma la sensibilità degli avvocati non può che essere lontanissima dai proclami manettari del presidente dell’Anm. Pensiero che non sfiora nemmeno gli oratori impegnati nell’autocelebrazione di una stagione molto opaca sul fronte dei diritti delle difese. (manuela d’alessandro)

  • Poche risorse ma spunta uno scintillante tappeto rosso in procura generale

     

    Eh certo: le risorse scarseggiano, la spending review taglieggia gli uffici giudiziari. Ma come si può rinunciare a quel po’ di pompa magna senza la quale la Giustizia rischia di ridursi al rango di qualunque burocrazia pubblica? E cosa simboleggia la pompa di qualunque Autorità meglio di un bel tappeto rosso, visto che ai valletti in livrea si è dovuto – ahimè – rinunciare da tempo?
    Così ecco che la Procura Generale di Milano, da poco più di sei mesi guidata dall’Eccellenza Roberto Alfonso, decide di fare la sua parte per restituire all’istituzione giudiziaria – a partire da sè medesima Procura Generale – il decoro appannato. E nel corridoio che porta al cuore del prestigioso ufficio appare da oggi uno splendido tappeto rosso.

    Le avvisaglie si erano avute già prima della fine dell’anno,  nelle ore convulse del “caso Sala”, scatenato dalla decisione della Procura Generale di avocare l’indagine sul sindaco di Milano per gli appalti di Expo. Ebbene, in quei giorni di polemiche e di attese, con i cronisti inutilmente accampati davanti alla porta dell’Eccellenza Alfonso in attesa di qualsivolesse conferma o smentita o spiegazione, nel corridoio avevano fatto la loro comparsa tre operai armati di metro a nastro, che avevano iniziato a misurare meticolosamente il lungo ambulacro: interrogati sul senso dell’operazione, si erano lasciati sfuggire che l’attività era propedeutica alla posa del tappeto.
    Poi non se ne era più saputo più nulla, e si temeva che le ristrettezze di bilancio avessero costretto ad un ripensamento. E invece ecco che il prestigioso manufatto ha fatto la sua apparizione, ridando il giusto look ai (circa) trenta metri che ogni mattina il Procuratore Generale deve percorrere nel tragitto dall’ascensore alla vasta stanza da cui esercita il suo ruolo: trenta metri di morbida stoffa purpurea che attraversano un doppio filare di ficus da fare impallidire i cipressi di Carducci. La pompa è salva.
    Buon lavoro agli aspirapolvere.

  • Sala a Palazzo: “Fare accendere i monitor di Expo? Ne ho già abbastanza qua dentro…”

     

    Beppe Sala sbarca a Palazzo di Giustizia per testimoniare al processo Maroni e come un alieno su una terra impervia si guarda attorno e posa lo sguardo su uno dei monitor non funzionanti acquistati coi soldi di Expo. “Cosa sono? Cosa vuol dire ‘udienza facile’?”.

    “Sindaco – gli spieghiamo – sono i monitor acquistati coi soldi di Expo. Non può fare qualcosa per farli partire? Sono qui da 3 anni anni e non danno cenni di vita”. E lui, con amaro sorriso e chiaro riferimento all’indagine sulla ‘Piastra di Expo’ in cui è indagato per falso: “Ne ho già abbastanza, rischio di diventare un habitué qua dentro. Ah sì, ora ricordo, era l’appalto fatto dalla Pomodoro…”.

    Si, caro sindaco, ma lei dovrebbe saperne di più perché era il commissario unico di Expo e vennero comprati con la ‘dote’ dell’Esposizione Universale’. Quasi duecento dispositivi di marca Samsung presi nell’ambito di un appalto complessivo da circa due milioni di euro. L’obbiettivo era ‘informatizzare’ la giustizia in vista dell’appuntamento col mondo e, in particolare, far orientare i cittadini nel dedalo giudiziario, sostituendo i fogli di carta appesi alle porte delle aule.

    Spenti da secoli, ormai un arredo inerte che punteggia ogni angolo della cittadella giudiziaria, i monitor rappresentano lo spreco più evidente del ‘tesoro’ assegnato alla magistratura milanese in nome di Expo. Con l’ironia della scritta ‘udienza facile’ che lampeggia senza requie, chissà con quale dispendio di energia elettrica. E non sapremo mai di chi ne è la colpa perché nessuna indagine è mai stata aperta. Forse perché chi decideva cosa farne di quei soldi erano proprio dei magistrati. (manuela d’alessandro)

  • Il gip di Milano, “Mozzarelle al procuratore capo di Aosta in cambio di favori”

    Mozzarelle in cambio di favori. A ricevere a domicilio gioielli dal profumo campano della morbida pasta filante sarebbe stato il procuratore  di Aosta Pasquale Longarini dall’amico imprenditore Gerardo Cuomo. Scambi caseari nell’ambito di un’amicizia che, secondo la Procura di Milano, avrebbe assunto contorni di rilievo penale tanto da portare ai domiciliari sia il magistrato già autore delle indagini sul delitto di Cogne sia l’imprenditore Gerardo Cuomo che si autodefinisce “un massone” e nella valle ha eretto da anni un santuario dei formaggi che spazia dalla locale fontina all’esotica mozzarella.

    “A fronte della sollecita disponibilità nei confronti dell’amico imprenditore” – si legge nell’ordinanza di custodia cautelare in cui è ipotizzato a carico di entrambi il reato di ‘induzione indebita a dare o promettere utilità – Longarini avrebbe ricevuto “forniture di prodotti caseari”, e “favori, se non delle vere e proprie remunerazioni, come nel caso del viaggio in Marocco effettuato dal 13 al 15 settembre scorso (…)”. In particolare, è scritto in una nota del provvedimento, gli inquirenti vedono il 23 maggio 2015 “Cuomo uscire dalla propra azienda casearia insieme a Longarini e caricare uno scatolone di merce sul sedile posteriore della jeep di proprietà” del magistrato. Inoltre, da alcune conversazioni intercettate il 10 luglio 2016, “si comprende che Cuomo si reca verso le ore 20 e 30 a casa di Longarini per consegnargli delle mozzarelle”. Longarini in cambio si sarebbe interessato presso la Questura di Aosta “per far ottenere – senza peraltro riuscirvi – a un dipendente di Cuomo il rilascio della carta di soggiorno, necessaria per la stipulazione di un contratto di mutuo”. E avrebbe fatto delle “segnalazioni al primario di ortopedia dell’ospedale di Aosta affinché Cuomo in pronto soccorso per una sospetta frattura dovuta a un infortunio sul lavoro ricevesse cure sollecita da parte dei sanitari presenti”.

    Secondo l’accusa, Longarini, da più di vent’anni ‘toga’ nella valle, avrebbe chiesto a un albergatore, che in quel momento stava indagando per fatture false e frode fiscale, di favorire il suo amico Cuomo affidandogli un appalto per la fornitura di prodotti caseari del valore di 70mila euro all’anno. Di qui l’accusa di ‘induzione indebita a dare o promettere utilità’, quella che nella vecchia formula si chiamava concussione. All’imprenditore, socio di un hotel di lusso a Courmayer, il magistrato avrebbe assicurato un trattamento di favore nell’indagine da lui coordinata.  (manuela d’alessandro)

    Il 9 aprile 2019 il gup Guido Salvini ha assolto Pasquale Longarini, Sergio Barathier e Gerardo Cuomo ‘perché il fatto non sussiste’.

  • Processo blogger: pm, “condannare a 1 anno Selvaggia Lucarelli, la sua versione è inverosimile”

    “Lucarelli va condannata a un anno di carcere, la sua versione di non avere partecipato alla trattativa per la vendita delle foto a casa Clooney non è verosimile”. E’ una requisitoria dai toni pacati quella del pm Grazia Colacicco ma le conclusioni tirate a 7 anni dai fatti sono cruente. “Tutti i reati sono pienamente provati, tranne quello di accesso e detenzione di codici abusivi per Soncini. Chiedo  la pena di un anno e due mesi per Gianluca Neri, un anno per Selvaggia Lucarelli e dieci mesi per Guia Soncini”.

    Il pm ammette che “non c’è la prova della ‘pistola fumante’ che Neri si sia introdotto nella posta di Federica Fontana e poi abbia mandato le foto della festa della Canalis alla Lucarelli anche perché parliamo di una persona che sapeva come muoversi e qualche precauzione l’ha presa”, ma suo avviso c’è abbastanza materiale, tra sms, mail e testimonianze, per condannare tutti e tre.

    Colacicco si “dispiace che Lucarelli non sia venuta in aula per sottoporsi a un esame in contraddittorio davanti a me” e però, aggiunge, “quando ha negato la trattativa per vendere le foto a ‘Chi’ non può dire una cosa vera perché altrimenti Giuseppe Carriere e Alfonso Signorini sarebbero responsabili del reato di calunnia”. E ancora: “Si difende dicendo che se avesse avuto qualche vantaggio da Neri ce ne sarebbe traccia nei suoi articoli. E infatti c’è, quando scrive sul suo blog del divorzio dell’attrice Scarlett Johansson di cui parla prima con Neri nelle conversazioni interecettate”.”Anche la versione data da Neri è impossibile – aggiunge il magistrato – dice di essersi procurato i gossip su 4chan (il contenitore americano di pettegolezzi, ndr), ma noi non abbiamo la prova di questi suoi accessi dal suo pc”.

    Tra i messaggi più significativi, il magistrato cita quello in cui “Neri dice a Lucarelli che non sprecherà la parola ‘Canalis’ tra le sei opportunità che ha per indovinare la password della mail di Clooney” e quelli in cui i due parlano dell’account di Mara Venier (“Habemus Mara”, scrive lui e lei ribatte reclamando “tutti gli scheletri di Mara”). Inoltre, Colacicco ricorda che, quando si seppe delle indagini dopo le perquisizioni, “Neri suggerì a Lucarelli di dire agli inquirenti di avere ricevuto le foto dall’email giorgioclone61, cosa che poi effettivamente lei fece quando venne sentita come testimone”.

    Dopo il pm, gli avvocati Marco Tullio Giordano e Giuseppe Vaciago hanno chiesto una provvsionale di 10mila euro per ciascuna delle due parti civili Elisabetta Canalis e Federica Fontana.

    “Per quelle foto c’è stata una trattativa da diverse migliaia di euro – ha detto Giordano –  che è pienamente provata. Questo tipo di reati ha gravi conseguenze morali per chi le subisce perché le persone non sanno di essere sotto controllo. Canalis lo ha saputo solo nel 2012 e, in quel momento, ha potuto pensare di essere ancora controllata”. Prossima udienza il 27 marzo: spazio alle difese e rinvio per repliche e sentenza. (manuela d’alessandro)

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  • I furti a Milano? Le denunce non si prendono “se non sono clamorosi”

     

     

    A Milano le denunce di furto, anche quando si hanno sospetti ben precisi su chi sia stato l’autore, non vengono prese in considerazione “a meno che non si tratti di casi clamorosi” dove per “clamorosi” non si capisce esattamente cosa si intenda. Ce lo racconta l’avvocato Alessia Sorgato che se lo è sentito dire dall’impiegata all’ufficio ricezione atti della Procura.  “Mi ero presentata con tutti i sacri crismi: atto di nomina della parte lesa, sua carta di identità e denuncia in caserma in cui la mia cliente identificava chi aveva commesso il reato. Sappiamo tutti da 20 anni che le denunce contro ignoti non hanno seguito, ma qui la persona era ben  identificabile! L’impiegata però ci ha detto che non l’avrebbe rubricata nel sistema e me l’ha restituita spiegandomi che queste sono le direttive a meno che non sia qualcosa di clamoroso. E mi ha invitata a fare apposita istanza se il nostro fosse un caso particolare”.

    Al di là dello sconcerto per il no incassato alla ricezione atti, Sorgato fa notare le gravi conseguenze sui cittadini che può avere questo orientamento: “La prova del reato di ricettazione passa attraverso la denuncia di furto. Senza, non è possibile far valere nessun diritto su un oggetto di cui siamo stati derubati, nemmeno se lo riconosciamo come nostro”.   (manuela d’alessandro)

  • Va in pensione Piero Forno, il procuratore che inventò la specializzazione in reati sessuali

     

    Che rapporto hanno i pubblici ministeri con i loro inquisiti? Dopo decenni spesi a fare i conti con le colpe vere o presunte dei loro ‘clienti’, l’abitudine al sospetto li porta a convincersi che in fondo – come ebbe a dire un famoso magistrato – “non ci sono innocenti”?

    Il tema è tanto complesso quanto inesplorato. E spinge a qualche riflessione soprattutto nel caso di un pubblico ministero che ha appena lasciato la Procura di Milano, anche se in questi giorni lo si vede ancora andare e venire per finire di impacchettare le sue cose. Si chiama Pietro Forno, Piero per gli amici; è stato per anni procuratore aggiunto; ma la sua importanza nella magistratura – milanese e non solo – è indubbiamente legata all’esperienza pluridecennale su un fronte che avrebbe logorato qualunque altro magistrato: i reati sessuali. E che riporta alla domanda iniziale: rapportarsi col male è inevitabile per qualunque pm, ma quale visione del mondo matura un pm che si confronta quotidianamente con gli abissi della psiche umana, anche nelle sue forme più perverse? Un conto è avere a che fare con i rapinatori di banche, un altro è occuparsi di padri che violentano le figlie.
    Forno ha fatto anche altro, in carriera: pochi ricordano, per esempio, che fu lui – allora impegnato sul fronte dell’eversione – a vedersi affidare dai colleghi Gherardo Colombo e Giuliano Turone gli elenchi degli iscritti alla loggia massonica P2, che i due volevano mettere al sicuro prima che venissero fatti sparire. Poi però, quasi per caso, Forno iniziò ad occuparsi di alcuni casi di violenza sessuale. E presto si rese conto di come questi crimini terribili fossero affidati a inquirenti e investigatori impreparati, e della necessità di creare una specializzazione, di formare magistrati e poliziotti in grado di muoversi su un terreno reso delicatissimo dal reato stesso: un reato che nella stragrande maggioranza dei casi ha la vittima come unico testimone. Nacque così, voluta da Forno e dall’allora questore Umberto Lucchese, la sezione speciale della Squadra Mobile, che ebbe per primo capo Stefania De Bellis.
    Da allora sono passati più di venticinque anni, Forno nel frattempo è andato a Torino – la sua città – a fare il procuratore aggiunto, anche lì esportando la specializzazione nei reati sessuali. Il numero di stupratori che ha arrestato in carriera è incalcolabile. Ha ricevuto riconoscimenti ma anche critiche pesanti: non solo da una parte dell’avvocatura, che gli rimproverava un ‘pregiudizio colpevolista’, ma in qualche caso anche da parte dei suoi colleghi. E’ rimasto negli annali il suo scontro con il pm Tiziana Siciliano, che nel 2000 ereditò l’indagine di Forno su un tassista accusato di avere violentato la propria figlia di tre anni: per Forno l’uomo era un mostro, la Siciliano in aula invece chiese e ottenne l’assoluzione del tassista ‘per non avere commesso il fatto’. Ne nacquero polemiche indiavolate.
    Le statistiche dicono che le assoluzioni nei processi scaturiti dalle inchieste di Forno sono assai basse, pari o inferiori alla media di altri settori. Certo, venire accusato ingiustamente di essere uno stupratore seriale non è come subire una accusa infondata di falso in bilancio, e chi viene assolto esce comunque con la vita distrutta (specie se è passato per il carcere, dove i reati sessuali sono gli unici per cui gli altri detenuti non applicano la presunzione di innocenza).Ma sarebbe ingiusto non dare atto a Forno di essersi dedicato ad un lavoro difficile con serietà e con buoni risultati, e di non essersi mai intimidito davanti ai poteri forti: quello della Chiesa, innanzitutto, le cui coperture alle devianze dei sacerdoti pedofilii ha sempre denunciato con forza; ma anche di istituzioni benemerite come il Premio Grinzane, di cui quando era a Torino rivelò il lato inconfessabile.
    Non sarà una eredità facile da raccogliere, quella di Forno: assegnata provvisoriamente dal procuratore Francesco Greco al pm Cristiana Roveda, incaricata di guidare il ‘terzo dipartimento’ in attesa dell’arrivo di un nuovo procuratore aggiunto. Ma oltre alla esperienza inquisitoria, non sarà facile sostituirne neanche la mancanza di arroganza, i toni pacati anche in casi esplosivi come l’affare Ruby. E la assenza di sussiego con cui resse, in quanto anziano dell’ufficio, la Procura della Repubblica nell’interregno seguito alle dimissioni di Bruti Liberati. (orsola golgi)

  • Se questi sono uomini

    Dai verbali agli atti dell’inchiesta milanese che ha portato all’arresto di Osama Matammud, detto ‘Ismail,’ le testimonianze dei reclusi nel centro raccolta di migranti di Bani Al Walid, in Libia. Al somalo di 22 anni è stata notificata un’ordinanza di custodia cautelare per 4 omidici, il sequestro di centinaia di connazionali e decine di violenze sessuali. Chi parla ora è ospite del centro profughi di via Sammartini, a Milano.

     

    “Ismail si divertiva a picchiarci sempre, con sbarre di ferro, bastoni, tubi di gomma e calci e pugni. Si accaniva, io più volte l’ho visto con dei tondini di ferro pieni, di quelli che si usano per i lavori di muratura, spaccare le caviglie e i polsi di molte persone” .

    “A volte accendeva un sacchetto di plastica sopra la schiena, facendo colare la plastica incandescente, altre volte torturava con le scariche elettriche. Io stesso sono stato portato nella ‘stanza delle torture’. Ismail per me aveva trovato una tortura particolare. C’era un punto della stanza dove passava il sole dall’alto dato che questa stanza era in un edificio in parte scoperto. In questo punto della stanza faceva caldissimo. Ismail mi legava mani e piedi dietro la schiena e mi lasciava per orea sdraiato per terra finché mi disidratavo e orinavo addosso”.

    “Non c’era notte che non venisse a prendere delle ragazze, le trascinava con la minaccia dei fucili e le teneva per ore, noi sentivamo le urla”.

    “Nel capannone ci saranno state 500 persone tra uomini e donne. Dormivamo per terra, su un lato i maschi, sull’altro le donne, C’era un solo bagno per gli uomini e uno per le donne.  Ci davano da mangiare la sera, il cibo ci causava spesso dissenteria e c’erano code infinite nei bagni. Io come altri la mattina venivo preso per andare a lavorare, sempre sotto il controllo delle guardie armate. C’erano molte persone sotto il controllo di Ismail. Caricavo con altri uomini dei mattoni sulle auto dei nostri carcerieri (…). Era impossibile fuggire dal campo, il capannone era chiuso ed era una grossa costruzione in pietra, senza le finestre, e c’erano guardie armate dappertutto. Tutte le persone che erano nel campo finché non pagavano i soldi per il viaggio erano prigioniere”.

    “C’era una specie di stanza delle torture nel campo. Ho visto in molte occasioni Ismail e i suoi uomini portare delle persone in quella stanza, si sentivano le urla, quando poi le persone uscivano erano distrutte e piene di bruciature sul corpo. Ci raccontavano che venivano spogliate, bagnate con acqua ed erano poi torturate coi cavi elettrici. Questo capitava soprattutto agli uomini che tardavano a mandare i soldi per proseguire il viaggio”.

    “Era sempre Ismail che leggeva gli elenchi di chi poteva partire e chi no. Lui comandava tutti gli uomini armati che ci controllavano”.

    “Sempre nella stanza delle torture, Ismail mi faceva appendere per i piedi, a testa in giù, a dei ganci che c’erano sul soffitto, poi mi bagnavano il corpo e mi mettevano delle pinze sulla schiena e sulla pancia e facevano partire le scariche elettriche, finché io svenivo e mi ritrovavo dentro l’hanagar”

    “Un giorno, Ismail e i suoi uomini sono tornati e hanno buttato sul pavimento del capannone i corpi dei due ragazzi che avevano preso, erano morti e ho visto che avevano tutti e due una corda intorno al collo. Ismail aveva lasciato nel capannone i loro corpi come insegnamento e ha detto davanti a tutti che le loro famiglie non avevano pagato il viaggio”.

    “Mi ha legato le mani dietro la schiena, mi ha messa per terra, mi ha aperto le gambe e con uno strumento metallico, non so dire se un coltello o una lametta, ha aperto l’accesso alla mia vagina (la ragazza era stata infibulata, ndr) al fine di penetrarmi. Dal dolore sono svenuta, quando mi sono svegliata mi aveva già violentata perché perdevo sangue dappertutto”.

    “Era un pazzo, un sadico. Io stesso sono stato picchiato talmente forte che per due settimane non sono più riuscito a mangiare e mi dovevano imboccare”.

    (manuela d’alessandro)

  • Expo, il gip: ecco perché dico sì alla proroga delle indagini su Sala

    “Si tratta di una notizia di reato che ha reso particolarmente complesse le investigazioni per la molteplicità dei fatti tra loro collegati (appalti Expo) e per il considerevole numero di persone indagate”. Questo scrive il gip Lucio Marcantonio nell’ordinanza con cui proroga di sei mesi le indagini sulla cosiddetta “piastra dei servizi” di Expo che coinvolgono dal 15 novembre scorso anche il sindaco di Milano Giuseppe Sala dopo che la procura generale aveva avocato il fascicolo non condividendo la richiesta di archiviazione della procura in seguito al rigetto da parte del gip Andrea Ghinetti.

    Per Giuseppe Sala e Paolo Pizzarotti si tratta della prima proroga di indagine, ricorda il gip Marcantonio, mentre per altri cinque indagati, Piergiorgio Baita, Antonio Acerbo, Angelo Paris, Erasmo Cinque e Ottaviano Cinque ci si trova comunque all’interno del limite massimo consentito di 2 anni delle indagini preliminari.

    Il sindaco Sala è indagato per concorso in falso ideologico e materiale in relazione alla sostituzione di due componenti la commissione aggiudicatrice con verbale del 30 maggio 2012. L’accusa fa riferimento a fatti avvenuti quando Sala era amministratore delegato di Expo. Il sindaco in un’intervista rilasciata dopo aver saputo dell’indagine a suo carico spiegava di “non ricordare cosa accadde quel giorno”.

    Il sostituto procuratore generale Felice Isnardi ha tempo di svolgere ulteriori indagini fino al 10 giugno, anche se in teoria in riferimento alla posizione di Sala sarà possibile chiedere all’ufficio gip altre proroghe. Con ogni probabilità però la definizione, richiesta di archiviazione o di rinvio a giudizio, arriverà entro il mese di maggio soprattutto perchè Isnardi al compimento dei 70 anni andrà in pensione.

    Isnardi in pratica sta facendo almeno una parte del lavoro che la procura non volle fare a causa della scelta relativa alla “moratoria” sulle indagini in modo da non ostacolare la celebrazione dell’evento Expo.  Una “moratoria”, ricordiamo, in pratica confermata dall’allora premier Matteo Renzi che in ben due occasioni inserì tra i “successi” di Expo “il senso di responsabilità istituzionale della procura”.

    Sala, tra l’altro, fu indagato e archiviato senza nemmeno il disturbo di essere sentito, in riferimento all’accusa di abuso d’ufficio per l’assegnazione a Oscar Farinetti di appalti della ristorazione senza gara pubblica. “Favorì Farinetti ma non c’è prova che ne avesse l’intenzione” fu la tesi della procura sposata dal giudice, lo stesso che in altra veste per i fondi di Expo giustizia contribuì alla scelta di evitare gare pubbliche. Insomma tutto si tiene e lor signori in toga se la cantano e se la suonano (fank cimini)

    Ordinanza proroga indagini Sala

  • Ambra, Chiara e Ruby: il mistero del nuovo avvocato tra anatocismo e Scilipoti

    Che c’azzeccano Ambra e Chiara, le due “parti offese” del processo Ruby, con anatocismo, sovranità monetaria, Domenico Scilipoti, e Forza Italia-Pdl?
    Il filo è labile e spunta dal mistero aperto da un’altra domanda: chi cavolo è il nuovo legale di Ambra e Chiara, quello che si è presentato in udienza al processo Ruby ter, annunciando in pompa magna la richiesta di costituzione di parte civile con congrua richiesta di danni? Ecco, si chiama Mauro Rufini, è iscritto al foro di Roma. Il numero di studio che compare sul sito del Consiglio Nazionale Forense, da almeno due giorni, risulta però inesistente o momentaneamente disattivo. Stessa cosa per un secondo numero di telefono, che fa riferimento a uno studio di Limbiate (Mb). Abbiamo scovato un terzo numero romano, che parrebbe appartenere a una praticante di studio, stesso indirizzo: squilla a vuoto. Allora abbiamo iniziato a cercare in rete altre tracce lasciate dall’avvocato. Il quale compare come relatore a un importantissimo convegno convocato dal Pdl nel 2012 – organizzatore l’on. Domenico Scilipoti – sotto il titolo “La perdita del potere d’acquisto e della sovranità monetaria. l’Italia fuori dall’Euro?”. L’avvocato Rufini in quell’occasione tiene la dissertazione “Permanenza o uscita: vantaggi svantaggi, possibilità ed occasioni”. Il legale ricompare l’anno successivo a un ulteriore convegno scilipotesco, “Anatocismo ed Abusi Bancari le vere cause della Crisi italiana”, con una relazione sul “Perché le Banche non sono più tali”. Il link è ancora visibile sul sito movimentorevolution.it. Interessante anche l’intervento tenuto al convegno del Sindacato Nazionale Antiusura riservato ai Professionisti.

    E’ aprile 2014, ecco Rufini: https://www.youtube.com/watch?v=d0aDB8LGrvg.
    Ora, come direbbe Tonino: che c’azzecca con Ambra e Chiara? Mistero. Le due ragazze sono piemontesi. Avevano due ottimi legali torinesi, Patrizia Bugnano e Stefano Castrale, che le hanno seguite nel processo contro Lele Mora, Nicole Minetti ed Emilio Fede, in cui ottennero risarcimenti come parti civili (prequel: andarono ad Arcore, non gradirono le avance di Berlusconi). Non si costituirono però contro Berlusconi, che fu poi assolto. Nel processo Ruby ter, quello appena avviato sulla presunta corruzione in atti giudiziari Berlusconi-Olgettine, Ambra e Chiara avevano stabilito insieme ai legali di non presentarsi come parti civili. Pochi giorni prima dell’udienza l’avvocato Bugnano riceve una lettera con gli indirizzi del collega Rufini: “Cara collega, come ben sa, è stata revocata dall’incarico”, ecc. Solo che in realtà la collega non ne sa proprio nulla. Totale, le due giovani piemontesi, Ambra Battilana e Chiara Danese, si presentano in Tribunale, accompagnate dal nuovo legale romano-limbiatese che nel 2007 compariva come vicepresidente dell’Associazione Italiana Anti Savoia. Forse le due giovani sabaude non amano i re. Di certo non quelli brianzoli. Chiederanno i danni, questa volta, anche a quello di Arcore?

  • Dopo Expo, la Procura Generale vuole vederci chiaro anche sull’archiviazione di Mps chiesta dalla Procura

    Ancora lui: il pg Felice Isnardi, l’uomo che ha riaperto i giochi sulla Piastra di Expo indagando Beppe Sala, si mette di traverso a un’archiviazione chiesta dalla Procura di Milano, questa volta per banca Mps.

    Dopo la guerra Bruti – Robledo, il nuovo fronte si è spostato nel felpato corridoio della Procura Generale, da sempre poco frequentato dai giornalisti e abitato da pacifici magistrati un po’ in là con gli anni impegnati a rileggere pesanti faldoni di vecchie inchieste. La diversità di vedute su molte indagini tra la Procura e la Procura Generale  già evidente nell’ultima parte della stagione Bruti Liberati, sembra essersi accentuata con l’arrivo di Greco. Isnardi non è convinto del decreto di archiviazione emesso dalla Procura su Mps, indagata per la legge 231 del 2001 sulla responsabilità delle società per i reati commessi dai propri dipendenti nell’indagine sui derivati ‘tossici’ che coinvolge gli ex vertici della banca, Alessandro Profumo e Fabrizio Viola. Così ha deciso di sfruttare l’articolo 58 della legge 231 del 2001 che gli consente di svolgere “gli accertamenti indispensabili e, qualora ritenga ne ricorrano le condizioni, contestare all’enbte le violazioni amminsitrative conseguenti al reato”.

    Non è un’avocazione vera e propria, ma non si può eslcudere che Isnardi chieda ulteriori verifiche oltre che sulla banca anche su tutti gli indagati all’udienza in programma il 15 marzo per discutere sull’archiviazione chiesta dalla Procura nei confronti di Viola, Profumo e altri 9 accusati di avere occultato le perdite milionarie di bilancio provocate dai derivati ‘Santorini’ e ‘Alexandria’. Nel frattempo, Isnardi va avanti su Sala e stamattina si registra un lungo colloquio nel suo ufficio col pm Paolo Filippini, uno dei titolari del fascicolo avocato sulla Piastra.  (manuela d’alessandro)

  • Assolta avvocatessa accusata di avere calunniato giudice milanese

    Un giudice di Brescia assolve un’avvocatessa dall’accusa di avere calunniato un suo collega magistrato ‘perché il fatto non costituisce reato’. Succede, e quando succede è sicuramente una notizia.

    La toga milanese Benedetto Simi De Burgis aveva querelato il legale per calunnia perché lei lo aveva accusato di avere pronunciato frasi “offensive, denigratorie e umilianti” nei suoi confronti, durante un procedura in cui era curatrice, “finalizzate a farle togliere gli incarichi”.

    Due a zero per l’avvocatessa (parziale, De Burgis farà senz’altro appello) perché la vicenda penale deriva da una disciplinare, chiusa con un provvedimento definitivo di ‘censura’ da parte della Corte di Cassazione a carico del magistrato per avere tenuto “un tono irridente e allusivo” nei confronti della curatrice. Il legale aveva fatto scattare il procedimento disciplinare lamentadosi col presidente della sezione in cui lavora De Burgis del contenuto di alcuni scritti, da lei ritenuti offensivi, e lui aveva ribattuto denunciandola per calunnia. De Burgis, stando a quanto scritto dalla Cassazione, si era preso gioco dell’avvocatessa ironizzando sulla sua esosa richiesta di liquidazione rispetto al patrimonio da lei amministrato e su altre strategie procedurali del legale nell’ambito di una procedura per la nomina di un ammistratore di sostegno. Nel suo ricorso alla Cassazione, dopo una prima censura del Csm, il giudice si era difeso sostenendo che la donna avesse “specifici motivi di astio” contro di lui. (manuela d’alessandro)

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  • Da ‘limpido come acqua di fonte’ a ‘disperdetevi’, tutte le frasi di Formigoni sul processo

     

    Roberto Formigoni è stato condannato a 6 anni di carcere per corruzione e assolto dall’accusa di associazione a delinquere nel processo Maugeri. Per il ‘Celeste’ ci sarà tempo e modo di provare a dimostrare la sua completa innocenza. Noi oggi lo vogliamo omaggiare con una carrellata di frasi ‘alla Crozza’ pronunciate dal 2012, quando esplose l’indagine, a oggi.

    Triste e sfigato

    “Io in genere faccio vacanze di gruppo, il giornalista del Corriere fa vacanze sempre da solo? Che sfigato, che persona triste, sfigata e malinconica. Io, come tutti gli italiani, faccio vacanze di gruppo: alla fine del viaggio si fanno i conti ed eventualmente si pareggia”. A proposito del cronista che anticipò la sua iscrizione nel registro degli indagati.

    Limpido come acqua di fonte

    “Sono limpido come acqua di fonte. Non sono oggetto di indagine”. Dichiarazione  dopo i 5 arresti di qualche giorno prima che segnarono l’esplosione mediatica dell’inchiesta Maugeri.

    Anche Gesù

    “Anche Gesù sbagliò a scegliersi uno dei collaboratori, non pensiamo di essere impeccabili”. A proposito del suo rapporto con l’uomo d’affari Pierangelo Daccò, condannato oggi a 9 anni e due mesi.

    Brad Pitt

    “Scusate tanto, non sono Brad Pitt ma le vacanze me le posso pagare, me le sono pagate e non avere tenuto le ricevute, scusate, è un reato?”

    Il reato di cena

    “Nessun atto corruttivo, non è reato eventualmente essere stato ospite a una cena con qualche persona o per qualche week – end”.

    Io e il parrucchiere

    “Quando ero presidente, non riuscivo neanche a pagare il caffè al bar e neppure il parrucchiere che mi diceva ‘lei basta che venga qui e mi fa pubblicità’. Infatti in Regione tutti avevano preso il gusto di andare dove andava Formigoni”.

    A casa in braghette

    “Presidente (al giudice del suo processo, ndr) mi permetta di dire con orgoglio che il mio impegno per la Regione era pienissimo. Uscivo di casa alle otto del mattino e tornavo alle dieci – undici alla sera. I primi tempi mi divertivo a lavorare anche alla domenica. Quando ero a casa, guardavo la televisione in braghette, ascoltavo la musica che tanto mi piace, mi rilassavo”.

    Milioni di milioni

    “Era più che naturale che milioni di persone potessero dire di avermi conosciuto e incontrato”. A proposito della data incerta in cui incontrò Pierangelo Daccò.

    Stessa spiaggia, nuova fiamma  

    “La Procura dice che avevo l’uso ‘esclusivo’ della barca di Daccò. Per dimostrare che non era così basterebbe guardare le riviste di gossip che tutti gli anni mi attribuivano una fiamma diversa pubblicando le mie foto in barca. E chi erano? Il primo anno una figlia di Daccò, il secondo una fanciulla più o meno avvenente e poi altre”.

    La crema di bellezza

    “Preciso che quella non era una crema di bellezza ma serviva per curare un’irritazione cutanea molto profonda al volto e allora siccome a Milano non si trovava l’avevo fatto arrivare da fuori”. A proposito di un’intercettazione in cui Formigoni chiede al suo segretario: “Allora è possibile recuperarla da Chenot? Tieni presente che eventualmente lì possiamo madare l’autista. Ne ho bisogno entro lunedì al massimo”.

    Non vivevo d’aria

    “Si è insinuato che io viva d’aria. Io versavo alla mia casa dove risiedo coi memores domini dai 50mila ai 70mila euro all’anno. Era un versamento unico che serviva per l’affitto, la manutenzione, per pagare la colf”.

     Un antipasto qua, un prosciutto là

    “La Procura parla di cene da settemila euro spesi da Daccò nell’interesse di Formigoni. In realtà, Daccò organizzava le cene nell’interesse di Daccò. La mia segretaria mi diceva ‘C’è una cena da Daccò’ e se potevo passavo. Avevo tre quattro inviti a cena la sera, magari mangiavo un antipasto da una parte e il prosciutto dall’altra”.

    Alle cene andavo perché si mangiava bene

    “Alle cene c’era gente che trovava comodo parlarmi invece di fare la fila in Regione. Io a quelle cene, da Sadler o in altri ristoranti, andavo solo perché si mangiava bene”.

    Silenzio ai Caraibi

    “Cinque giorni dopo la delibera sono andato ai Caraibi con Daccò e con lui non è stata detta neanche una parola su quella delibera. Un conto sono i rapporti personali anche di amicizia e solidarietà, un conto è la funzione  di amministrazione pubblico”.

    Scontrini tra amici

    “Daccò non mi ha mai presentato il conto, entrambi godevamo della compagnia tra amici. Ma tra amici ci si sambiano scontrini e ricevute? Ecco la chiave del rapporto tra me e Daccò: siamo diventati amici e ci siamo comportati da amici, nessuno calcolava il valore di quello che uno dava all’altro. Un rapporto di amicizia è la tipica cosa in cui non ci sono calcoli, è gratuita”.

    Motoscafino

    “Tra l’altro anche Simone ha il suo motoscafino” (parlando degli yacht di Daccò, Formigoni ricorda che anche l’ex assessore lombardo Antonio Simone aveva la sua piccola imbarcazione).

    Se porto il pm in Ferrari

    “Se porto in giro la Pedio (Laura Pedio, pm dell’indagine, ndr) in Ferrari, alla fine lei non dice che la Ferrari è sua. Invece, dopo le vacanze, per l’accusa le barche sono diventate mie”.

    E ora disperdetevi o vi asfalto

    “Come ve lo devo dire? In greco, latino o arabo? Ve l’ho già detto, parlerà il mio avvocato…Disperdetevi perché sennò vi asfalto…”. Ai giornalisti a margine di un’udienza del processo.

    (manuela d’alessandro)

  • Sala fa la vittima sulla notizia dell’indagine ma le cose non sono come le racconta

    Metà del messaggio postato su Facebook in cui Giuseppe Sala annuncia di voler tornare a fare il sindaco è dedicata al suo “stupore” nell’aver appreso dalla stampa di essere indagato. “Giovedì sera nessuna comunicazione ufficiale al riguardo mi era stata fatta, nessun avviso di garanzia mi era stato notificato (…). Mi direte, non è certo la prima volta. Vero, ciò nondimenno dobbiamo tutti insieme fare uno sforzo per non considerare la cosa ‘normale’. Non lo è se riguarda un cittadino e non lo è se riguarda il sindaco di Milano”.

    Questa versione del sindaco sembrerebbe prefigurare una clamorosa violazione del segreto istruttorio a suo danno, con la ‘soffiata’ di una irrispettosa procura generale al cronista di turno. La realtà è ben diversa.

    Giovedì sera, la magistratura ha notificato una mail con la richiesta di proroga dell’indagine sulla Piastra di Expo all’avvocato d’ufficio Luana Battista. E’ quello che accade al qualsiasi “cittadino” da lui evocato che non ha già un legale perché non è mai stato coinvolto in quell’inchiesta. Sala dimentica di raccontare che ha saputo dai giornali di essere accusato per la presunta falsificazione di due verbali solo perché l’avvocato d’ufficio non ha aperto la sua posta elettronica, come da lei candidamente ammesso (“Non c’erano nomi noti nella prima pagina, sembrava una nomina come le altre”). Nel frattempo, i giornalisti hanno dato risalto a un atto non più segreto in quanto (in teoria) già conosciuto dall’indagato.

    Forse al sindaco da’ fastidio aver saputo troppo tardi che l’accusa a suo carico era ‘solo’ quella di falso.  Quando sono uscite le prime notizie, racconta chi è gli è stato vicino, il suo timore era di essere accusato di turbativa d’asta, il reato attorno a cui ruota l’inchiesta sul più ricco appalto di Expo. Di qui il tono infastidito verso stampa e Procura Generale: se avesse saputo che doveva rispondere ‘solo’ di avere retrodato dei verbali non si sarebbe cacciato nel limbo scivoloso dell’autosospensione. (manuela d’alessandro)

  • Pinelli, “la finestra è ancora aperta”. Il libro di Fuga e Maltini

     

    “Nel 1996 dagli archivi di via Appia si scopre che almeno altre 14 persone facenti capo al ministero dell’interno e mai sentite dai magistrati si aggiravano in quel quarto piano della questura di Milano la notte in cui Pinelli morì”. Bastano queste tre righe in sede di epilogo per spiegare l’importanza del lavoro di Gabriele Fuga e Enrico Maltini. “La finestra è ancora aperta” è il titolo del libro, la versione aggiornata di “e finestra c’è la morti”, pubblicato nel marzo del 2013.

    Ancora oggi la storia stessa di questo paese chiede giustiziar ancor più che giustizia conoscenza” scrivono gli autori, Enrico Maltini, fondatore della Croce Nera anarchica e l’avvocato Gabriele Fuga, in un paese in cui i cittadini continuano a morire nellemani delle cosiddette forze dell’ordine, a subire vessazioni e torture, senza che si riesca a varare una legge che sanzioni la tortura come reato. Anzi con il Quirinale che concede la grazia ai condannati per il sequestro dell’imam Abu Omar.

    Per cui il libro non si occupa solo di una storia di quasi 50 anni fa ma del presente. “Migliaia di fascicoli rivelano una sistematica azioni di intrusione, sottrazione di indizi, falsificazioni, sottrazioni di corpi di reato, depistaggi, manipolazioni di testi” è la ricostruzione su quello che avvade la notte tra il 15 e il 16 dicembre del 1969 ai danni di Pino Pinelli, ferroviere anarchico, fermato per la strage di piazza Fontana e trattenuto illegalmente per 3 giorni prima di precipitare da una finestra di via Fatebenefratelli.

    “Malore attivo” è la sintesi della sentenza emessa dal giudice Gerardo D’Ambrosio  che non usò proprio quelle parole, ma altre ancora più inquietanti. Il giudice scrisse di “atti di difesa di Pinelli”. Significa quindi che c’erano stati atti di offesa da parte dedali uomini in divisa che lo interrogavano e che a verbale affermarono cose inverosimili e contraddittorie.

    E contemporaneamente in questura in quei giorni c’erano uomini del Viminale e dei servizi segreti la presenza dei quali all’epoca fu nascosta. Tra gli uomini che frequentarono quella stanza, la sua, il commissario Luigi Calabresi era il più alto in grado ma acquattati altrove c’erano i superiori in via gerarchica arrivati da Roma. In testa Silvano Russomanno, un tempo tra i protagonisti della Repubblica Sociale.

    La presenza fisica nella stanza al momento del fatto del dottor Calabresi è un puro dettaglio. Calabresi quantomeno coprì quello che era accaduto. E a coprire tutto pensò la sentenza di D’Ambrosio, un giudice legato al presunto grande partito della classe operaia, che da un lato non poteva aderire alla versione del suicidio e dall’altro non poteva sposare la tesi dei movimenti sulla strage di Stato e l’omicidio di Pinelli. Così si arrivò a una sorta di terza via. Una sentenza oscura targata Botteghe Oscure, si potrebbe dire. Ma forse la sintesi migliore è quella di Oreste Scalzone: “un compromesso storico antelitteram”.

    La lettura del libro è consigliata in particolare a quegli “intellettuali”, alcuni sono ancora in vita che firmarono nel 1971 l’appello contro Calabresi e lo Stato e che negli anni uno dietro l’altro si sono usai tutti pentiti. Ecco, ora hanno l’occasione di pentirsi di essersi pentiti. Due nomi tanto per capirci: Paolo Mieli e Eugenio Scalfari. (frank cimini)

    “La finestra è ancora aperta” di Gabriele Fuga e Enrico Maltini, 270 pagine, 14 euro, Edizioni Colibrì.

  • Con Sala indagato si svela definitivamente la moratoria di Expo

     

    Chissà, magari Beppe Sala, il ‘sindaco della procura‘, ha provato a prendersi la palma del peggiore in questa storia di malagiustizia, inventandosi l’autospensione che tecnicamente esiste ma politicamente assomiglia molto a una pagliacciata. Ha provato ma non ci è riuscito, perché è fuor di dubbio che quella palma appartiene alla procura di Milano (non ai pm Robledo, Filippini, Pellicano e Polizzi che ci ‘provarono’), alla moratoria delle indagini su Expo che adesso con anni di ritardo per sei mesi cercherà di fare la procura generale dopo aver avocato il fascicolo.

    Sala poteva restare al suo posto perché è un semplice indagato dopo essere stato archiviato per l’assegnazione a Oscar Farinetti senza gara pubblica oppure poteva dimettersi. Invece si è autosospeso dopo aver saputo di dover rispondere di concorso in falso materiale e ideologico, la retrodatazione del cambio di due componenti della commissione aggiudicatrice sulla piastra. Non è una quisquilia si parla di verbali di riunione falsificati.

    Milano rischia di tornare al voto in primavera, pagando un prezzo salato alla celebrazione costi quel che costi di Expo. C’era fretta, non si potevano rispettare le regole, non c’era tempo. La stessa spiegazione fornita per l’affaire Farinetti. Con la procura di Milano che aderisce e di fatto copre. Ma la magistratura copre anche se stessa perché per i fondi di Expo giustizia non era stata indetta la gara pubblica e tutti possono ammirare da anni gli inutili schermi appesi per tutto il Palazzo acquistati con quei fondi.

    Fin qui era andata bene alla procura e a Sala diventato sindaco di Milano perché le indagini non erano state approfondite. Non tutte le ciambelle riescono con il buco. Si mettevano di mezzo un gip che rigettava l’archiviazione per la piastra e la procura generale che avocava. I boatos del palazzo riferiscono che dietro ci sarebbe anche una storia di correnti in lotta tra loro. Quelle correnti che al Csm fanno da sempre il bello e il cattivo tempo. E del resto il Csm rifiutò di aprire una pratica al fine di verificare l’esistenza o meno della moratoria della quale questo umile blog aveva iniziato a parlare nell’aprile del 2015, molto tempo prima dell’inaugurazione di Expo. Una voce nel deserto. Adesso la moratoria è sempre più chiara. Matteo Renzi da premier ringraziò due volte l’allora procuratore Edmondo Bruti Liberati per il senso di responsabilità istituzionale inserito tra le ragioni del sucesso di Expo.

    Comunque sia si indaga sia pure con ritardo e va considerato pure che a maggio Felice Isnardi il sostituto procuratore generale titolare del fascicolo compirà 70 anni e andrà in pensione. Magari prima di andare potrebbe anche convocare come testimone Renzi per chiedergli: “Scusi a che cosa si riferiva esattamente?”. (frank cimini e manuela d’alessandro)

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  • Ospedale di Saronno, il misterioso dietrofront dell’infermiera denunciante

    Venerdì mattina alle dieci Clelia Leto avrebbe dovuto raccontare per la prima volta pubblicamente cosa ha visto all’ospedale di Saronno e perché ha denunciato in Procura a Busto Arsizio il dottor Leonardo Cazzaniga, accusato assieme all’amante Laura Taroni di avere seminato morte tra le corsie.

    Ieri la segretaria dei legali dell’infermiera ha contattato tutti i giornalisti che da giorni cercano di strapparle una dichiarazione per convocarli all”Arengario’ di piazza Diaz a Ceriano Laghetto (Monza Brianza) dove si sarebbe dovuta svolgere una conferenza stampa.

    Oggi però è arrivato il dietrofront. La stessa segretaria ha ritelefonato ai cronisti: “La signora Leto ha cambiato idea, non se la sente di parlare, tutto annullato”. A distanza di un giorno dunque la donna che il 23 agosto 2014 si presentò ai pubblici ministeri denunciando il ‘protocollo Cazzaniga’, si è tirata indietro.

    Nel suo esposto, Leto riferiva di avere assisitito a condotte professionalmente “allarmanti” di Cazzaniga come la somministrazione di dosi letali di anestetici e sedativi per accellerare il decesso di pazienti con gravi patologie. Perché ora non vuole più parlare? Ha subito delle minacce o le è stato ‘consigliato’ dagli inquirenti di non esporsi? (manuela d’alessandro)