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  • Perché la magistratuta sbaglia sul sequestro dei 49 mln alla Lega

    Visto che tutti ne parlano, e molto spesso a sproposito, vediamo di chiarire meglio quali sono i due fatti che hanno condotto all’attuale “scontro” istituzionale tra il Ministro Salvini e l’Associazione Nazionale Magistrati, cui è stato dato ampio risalto mediatico.

    Il primo fatto è quello che ha determinato l’attuale sequestro per equivalente di 49 milioni che non essendo stati trovati nelle attuali casse della Lega oggi consente al PM genovese di sottrarre a detto partito qualsiasi somma futura dovesse ivi transitare, fino a tale concorrenza.

    Si tratta dell’esito di un’indagine (iniziata dalla Procura di Milano e in parte trasferita a quella di Genova) sull’utilizzo dei rimborsi elettorali ottenuti dalla Lega negli anni 2008/2010.

    I processi si sono conclusi con le condanne di Bossi Jr e dell’ex tesoriere Belsito per appropriazione indebita (Milano) e di Bossi Sr. per truffa ai danni dello Stato (Genova).

    Detta indagine ha fatto emergere a carico dell’allora segretario l’utilizzo a fini personali di 10mila euro per operazione e multe del figlio e per la ristrutturazione della casa di Gemonio, nonché di ulteriori 77mila euro per il diploma, sempre del figlio, a Tirana.

    In sintesi, è stato dimostrato che ai tempi in cui era segretario, Bossi Sr. avesse illecitamente sottratto al proprio partito un totale di 87 mila euro.

    Volendo accedere alla tesi accusatoria, secondo la quale quanto viene usato per fini personali non può essere addebitato allo Stato a titolo di rimborso elettorale, quella somma di 87mila euro, dovrebbe essere restituita dall’attuale dirigenza.

    Sfugge a chi scrive però, in base a quale diverso criterio, si chieda invece la restituzione dell’intero importo a suo tempo ottenuto in assenza di ulteriori elementi dai quali dedurre, in termini di certezza, che altre somme siano state distratte dal partito, non bastando certamente il mero dato che oggi, a distanza di 8 anni, non si trovano più in cassa. L’effetto finale è che oggi viene consigliato dalla stessa Procura ad un partito che ha legittimamente conquistato il 17 % dei voti all’ultimo suffragio (e che gli attuali sondaggi danno in forte crescita) di cambiare il proprio nome (SIC !) per sopravvivere, mentre l’opposizione non perde occasione per contestare all’attuale segretario di non voler restituire allo Stato 49 milioni rubati.

    Non bastasse questo, successivamente è intervenuta altra Procura, questa di Agrigento, adiuvata da quella del capoluogo, inviando all’attuale segretario un formale avviso di garanzia per un reato gravissimo, sequestro di persona, che prevede una pena detentiva molto elevata, per essersi adoperato, quale Ministro, per impedire lo sbarco dei naufraghi di una nave di clandestini che aveva attraccato in un porto italiano.

    Questa seconda accusa, a differenza della prima, appare ancor più “delicata”, perché viene criminalizzata non già, come nel primo caso, una condotta individuale per tornaconto personale (come era stato in precedenza anche nei vari processi intentati all’ex Presidente Berlusconi), bensì un’azione governativa fatta alla luce del sole da un Ministro che ha ritenuto di agire in preciso ossequio ad uno specifico programma politico di restrizione dell’immigrazione presentato dal suo Partito al momento delle elezioni, e che proprio per questo motivo (anche se non solo) era stato votato da quel citato 17 % di cittadini.

    Inoltre, e a prescindere dal non semplice problema del “dolo” di sequestro per chi assume un’iniziativa pubblica del proprio Ufficio, appare sulla carta non semplice configurare un sequestro di persona a carico di chi non consente ad altri di entrare in un determinato luogo, visto che tale inibizione consente al soggetto passivo, a differenza di quella di non consentirne l’uscita, la facoltà di sbarcare altrove, ovvero di ritornare presso il luogo da dove era partito.

    Questa ipotesi di reato per di più non ha ancora ricevuto, a differenza della prima (che ha interessato un procedimento di riesame), il vaglio di un giudice, neppure a livello meramente indiziario.

    Singolarmente infatti il pm, che pure contesta al Ministro un reato gravissimo, non ha infatti ritenuto di chiedere alcuna misura cautelare al competente GIP, nonostante fosse evidente quel pericolo di reiterazione del medesimo reato indicato alla lettera C) dell’art. 274 Cpp (e cui molto spesso la nostra Procura è sovente ricorrere), avendo il Ministro pubblicamente dichiarato di essere intenzionato a ripetere tale condotta ed essendo, gli sbarchi di navi, pratica quasi corrente sulle rive del nostro paese.

    A fronte di siffatte iniziative giudiziarie, che comportano da un lato la possibile bancarotta economica e dall’altra l’incriminazione del segretario per un reato gravissimo, nei confronti di un partito che, piaccia o meno (a chi scrive sia ben chiaro, non piace), al momento governa in forza di un legittimo suffragio, ritenere le dichiarazioni rese nell’immediatezza da Salvini un vulnus eversivo all’indipendenza della Magistratura quando non una rivendicazione nazista di impunità, paiono risposte frettolose e inadatte al problema oggettivo che si è creato e che non vorrei influenzate da eccessivo corporativismo da parte di ANM e da strumentalizzazione politica da parte del principale partito di opposizione.

    Mi rattristerebbe, da cittadino e non solo da giurista, constatare che il nostro paese ha ormai fatto il callo ai governi che cadono sotto la mannaia della giustizia, visto che sarebbe bene ricordare, a chi mostra di averlo dimenticato, due casi tra i più recenti.

    Il Prodi bis cadde per un’iniziativa improvvida di un PM di santa Maria Capua Vetere che mise sotto accusa l’allora Ministro Mastella che poi fu assolto e l’ultimo governo Berlusconi in gran parte per le note imputazioni di private alcove che la Corte di appello di Milano prima e la Suprema Corte di Cassazione poi, dichiararono totalmente infondate.

    Nessuno ovviamente si augura una magistratura “dipendente” dal potere politico, ci mancherebbe altro, e ancor meno che vengano preservate zone di impunità per chicchessia, ma anche assistere in silenzio e da anni a iniziative eclatanti di alcuni PM nei confronti di chi volta a volta governa e che poi non approdano a nulla, non dovrebbe essere ritenuta, al di là di come la si pensi, cosa buona e giusta, soprattutto da chi non perde occasione per dichiararsi fiero difensore della nostra Costituzione.

    avvocato Davide Steccanella

  • “Fai parte di una cupola”, Salvini verso la pace con il 5 stelle

    “Tutto mi si può dire ma non che sono un mafioso”. Matteo Salvini il 22 gennaio scorso al terzo piano del Palazzo di Giustizia di Milano, davanti all’aula del processo nato da una sua querela per diffamazione contro l’allora consigliere regionale dei 5 Stelle Stefano Buffagni. “La Lombardia – aveva  scritto il grillino in un post di Facebook datato 20 giugno 2016 – è una fitta rete di contatti e di uomini di fiducia agli ordini di Salvini e di Maroni. Una sorta di cupola che ricorda quella del Pd romano che usa risorse pubbliche per finanziare il proprio sistema di potere”. Quella “cupola”, riferita in particolare alle nomine nelle aziende sanitarie, aveva fatto ribollire  Matteo tanto da venire in Tribunale a raccontare quanto fosse scocciato. “Quelle frasi mi hanno provocato un danno ingente in termini di immagine ed elettorali”. Buffagni aveva spiegato al giudice nelle sue dichiarazioni spontanee: “A quell’epoca risaliva anche l’arresto del leghista Fabio Rizzi, che ha scritto la riforma della sanità lombarda. Abbiamo messo insieme una serie di fatti e presentato una denuncia di tipo politico”.

    Salvini è diventato nel frattempo vicepremier, Buffagni sottosegretario agli Affari Regionali del Governo e le loro formazioni politiche si sono allacciate alla guida del Paese. Difficile rimettersi a fare la guerra. E così oggi, con un po’ di ironia ci è parso, il giudice Stefania Donadeo nei pochi minuti dedicati all’udienza, ha domandato agli avvocati sostituti dei titolari, rimasti a casa: “Cosa è successo in questi mesi?”. E’ successo che a luglio Caterina Malavenda, l’avvocato numero uno sulle diffamazioni a cui si era affidata Buffagni, ha fatto arrivare al magistrato una nota in cui parla di “trattative in corso per perfezionare un accordo”. Insomma si cerca di fare la pace anche se, a quanto ci risulta, con qualche difficoltà. La volontà di Salvini pare essere quella di ritirare la querela ma a determinate condizioni. Buffagni aveva chiesto anche l’insindacabilità delle sue opinioni nelle vesti di consigliere regionale all’epoca, ricevendo la risposta sferzante di Salvini: “I 5 Stelle anti – casta si difendono chiedendo l’immunità”.  Ora, forse, sarà lui a evitargli il processo.  (manuela d’alessandro)

  • Il detenuto che spiega ai giovani reclusi come non fare la sua fine

    C’è un detenuto da quasi 30 anni nel carcere di Opera che ogni venerdì mattina, da otto venerdì, entra in quello di San Vittore per spiegare ai giovani reclusi come non fare la sua stessa fine. La prima volta, dice, è stata “un’emozione strepitosa”. Adriano Sannino, un’era fa killer della camorra,  ha 46 anni ed è tra gli ‘storici’ componenti del ‘Gruppo della Trasgressione’ animato dallo psicologo Juri Aparo. Uno che gira da 40 anni nelle prigioni e a un certo punto si è messo in testa , tra le altre mille cose, di portare nelle scuole chi viene percepito come reietto per evitare ai ragazzi scelte sbagliate. “La prima volta, ho pensato a quando sono entrato in carcere, buttato lì, con la mia busta, senza che nessuno mi spiegasse nulla. Ora entro dal portone principale, da cittadino. Gli agenti della polizia penitenziaria mi chiedono increduli: ‘Ma tu sei detenuto a Opera?’ e io mi sento uno di loro, un uomo delle istituzioni”. I ‘suoi’ ragazzi Aparo li porta dappertutto, spesso a confrontarsi coi familiari delle vittime, e adesso prova a farli uscire dal carcere ‘di campagna’ di Opera, destinato a chi deve scontare fardelli molto pesanti, per entrare nella galera di Milano centro a seminare libertà.

    Sannino può farlo, come presto sarà possibile anche per altri due ergastolani a Opera coinvolti nel progetto, perché è stato ammesso al lavoro esterno. Attraverso la cooperativa fondata da Aparo, scarica frutta e verdura, svegliandosi all’alba e fatica con leggerezza (“Non c’è un giorno che mi pesi”) fino al pomeriggio.  Al venerdì, dalle 12 e 30 e per tre ore, diventa lui stesso un ‘educatore’ nel reparto giovani adulti dove lo attendono una ventina di ragazzi, età media sui 20 anni. ” All’inizio mi guardano un po’ così. Ma poi quando vedono che parlo col cuore, quando gli spiego che sono stato uno stronzo e come sono cambiato, mi ascoltano e fanno un sacco di domande. Sulla mia storia, sul punto in cui è cambiata. Non ho verità in tasca, ma con loro mi metto un gioco, cerco di essere all’altezza di una grande responsabilità. Ad agosto per due venerdì, il ‘prof.’ (Aparo, ndr) era in vacanza e ha lasciato da soli me e una studentessa che fa parte del Gruppo, è stato molto emozionante”. Non è sempre facile fare breccia in chi lo ascolta. “Un ragazzo albanese, in particolare, provava a contraddire tutto quello che dicevo, sostenendo di dovere spacciare per aiutare la famiglia e che chi compra la droga è consenziente. Gli ho risposto che chi la compra è malato, non consenziente, che lui alimenta un sistema malavitoso che genera anche morte. Allora lui mi ha chiesto: ‘Preferisci essere tu quella con la pistola o avercela puntata contro?’. Gli ho detto che mi farei ammazzare per la vita e i valori in cui credo. Alla fine mi ha abbracciato e mi ha chiesto quando sarei tornato”.

    “Questo è un progetto rivoluzionario – spiega Aparo – nato in collaborazione con l’ex direttore di Opera e ora di San Vittore Giacinto Siciliano che ha l’obbiettivo di far provare ai giovani detenuti un viaggio nel futuro. Attraverso Sannino e gli altri entrano in contatto frontale con quello che potranno diventare se non cambieranno rotta, persone che a 50 anni ne hanno passati 30 in carcere. Tante volte, quando porto i detenuti fuori dal carcere, chi li sente parlare si emoziona e pensa che siano dei santi, che non debbano stare dentro. Ma io dico: se sono in carcere è perché sono stati dei coglioni. Le persone però cambiano e io sono convinto che non basti reinserire i detenuti nel lavoro e fargli guadagnare 1200 euro al mese. Bisogna metterli al centro di una progettualità, attraverso le relazioni umane e la maturazione di un senso di responsabilità”. Da ‘grande’ Sannino, a cui manca ancora qualche anno da scontare, ha un sogno per quando sarà libero: “Creare all’interno della cooperativa una piccola comunità per ragazzi disagiati e trasmettere a loro la mia esperienza”.

    (manuela d’alessandro)

    *Nella foto tratta dal sito ‘Amici della Mente Onlus’ Juri Aparo in camicia rossa col Gruppo della Trasgressione nel carcere di Bollate

     

  • Scarcerato l'(ex)ergastolano ostativo Musumeci, voce degli ‘uomini ombra’

    Per la prima volta in Italia un ergastolano ostativo ottiene la liberazione condizionale. Ed è Carmelo Musumeci, un uomo speciale che ha reso pubblici dolore e speranza attraverso il suo blog dal carcere a nome degli ‘uomini ombra’, cioé dei reclusi la cui pena detentiva coincide con la durata della vita e una data immaginifica: 31/12/99999.   Col costituzionalista Andrea Pugiotto, ha pubblicato il libro ‘Gli ergastolani senza scampo’, diventato una sorta di manifesto giuridico e umano contro la gabbia intangibile.  Un testo in cui Musumeci ha riportato i ‘dialoghi’ crudi e poetici con la sua ombra. “Il mio corpo è chiuso in questa tomba, ma il mio cuore sciocco ha sempre sperato nella libertà”.  Oggi, dopo che già da quasi due anni godeva di un regime di semilibertà, condivide dal suo profilo Facebook il giorno più luminoso: “L’altro ieri ho ricevuto una di quelle telefonate che ti cambiano la vita. Il numero era quello del carcere di Perugia. Mi avvisano di rientrare in carcere perché devo essere scarcerato”.

    Il Tribunale della Sorveglianza umbro gli ha concesso la liberazione condizionale. “Quando esco dal carcere mi gira la testa. Il mio cuore batte forte. In pochi istanti mi ritornano in mente tutti e 27 gli anni di carcere, coi periodi di isolamento, gli scioperi della fame, le celle di punizione senza libri, né carta né penna per scrivere. Passavo le giornate solo guardando il muro”. L’ex ‘boss della Versilia’  era entrato in cella il 25 ottobre del 1991 e una serie di condanne lo aveva inserito nel ristretto club di chi ha come unica prospettiva il carcere. Ma è riuscito ribaltare il suo destino, distogliendo quello sguardo dal muro con la forza e la fantasia. Grazie anche al coraggio di alcuni giudici adesso Musumeci, che ha 63 anni e tree lauree conquistate in cella, è arrivato alla soglia dell’inimmaginabile per gli ‘uomini ombra’. Come è potuto accadere ce lo spiega l’avvocato ed esponente radicale Maria Brucale, dell’associazione ‘Nessuno tocchi Caino’: “Musumeci, come altri pochi detenuti ostativi, aveva ottenuto la semilibertà dopo che era stata accolta la sua richiesta di inesigibilità della collaborazione . Ma adesso i giudici si sono spinti oltre riconoscendo la liberazione condizionale dopo un percorso lungo e faticoso. E’ una notizia meravigliosa, un grido di speranza nel buio”.

    Nella loro ordinanza, i giudici scrivono di “un grande percorso di crescita personale che ha portato Musumeci a leggere e studiare in carcere con granitica volontà” e del suo impegno come “scrittore e conferenziere”, oltre che “del suo essere un uomo nuovo che si riscatta dal passato impegnandosi quotidianamente nell’assistere la disabilita”.  L’ergastolano ostativo, a differenza di quello comune, non ha diritto ai benefici penitenziari in assenza di una “condotta collaborante” con la giustizia. A meno che, come nel caso di Musumeci, non venga riconosciuta “l’inesigibilità della collaborazione” grazie alla quale aveva ottenuto la semilibertà, goduta lavorando di giorno nella casa Famiglia di don Oreste Benzi, ma sempre con l’obbligo di rientro in carcere. Adesso  Carmelo ha tra le mani una libertà quasi intera e notti per guardare le stelle.

    “Poi scrollo la testa. Smetto di pensare al passato. Mi accendo una sigaretta e, dopo la prima tirata, smetto di fumare, medito che adesso dovrei smettere, perché ora la mia unica via di fuga per essere libero non è solo la morte.  Alzo lo sguardo al cielo. Per un quarto di secolo ho sempre creduto che sarei morto in carcere. Non è ancora la libertà piena ma ci sono vicino e sono tanto, ma tanto felice. Da solo non ce l’avrei mai fatta. Più che credere in me stesso, penso di avere scelto di credere negli altri”.  

    (manuela d’alessandro)

     

  • Caporalato, l’umiliazione nel racconto degli operai di Pavia

    Diecimila libri da spostare in un turno di lavoro, contratti ‘settimanali’ rinnovati per anni, 200 ore di straordinari mensili, violazioni sistematiche di ogni diritto. Queste erano, stando ai racconti di 300 di loro, le condizioni degli operai emerse dagli atti di un’indagine sul caporalato in uno dei più grandi poli logistici dedicati all’editoria in Europa, vicino a Pavia, una struttura al servizio delle principali case editrici italiane.

    “Dovevo spostare 10mila libri per turno, era un lavoro insostenibile.  Di notte, il mio compagno mi vedeva piangere sempre perché avevo dolori ovunque, in particolare forti dolori alle braccia e alle gambe. Successivamente sono stata in cura al San Matteo per varie patologie”. E’ la testimonianza di una lavoratrice resa alla Procura e a Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Pavia nelle carte dell’inchiesta che ha portato il 27 luglio scorso all’arresto di 12 persone accusate di sfruttamento della manodopera, oltre che di frode all’erario. Le indagini, incentrate sull’ascolto di lavoratori italiani e non, all’inizio molto reticenti a parlare per timore di ritorsioni, hanno riguardato le 40 cooperative presenti nell’area logistica della Ceva Logistics di Stradella (estranea all’indagine) ribattezzata ‘Città del Libro’ proprio perché è un centro di stoccaggio di libri e giornali delle più importanti case editrici. Cooperative che in realtà sarebbero state riconducibili, attraverso una serie di schermi societari, a un unico gruppo di persone.

    “I ritmi di lavoro sono insostenibili – è il racconto di un’altra operaia – devo correre sempre, ho perso tutti miei chili. Corro talmente tanto che scendono giù i pantaloni, ma devo accettare le condizioni perché ho due figlie da mantenere. Ora voglio collaborare, dico tutto, ma ho paura di essere lasciata a casa, come è già successo a un collega. In Ceva si applica una forma di ricatto non detta. Formalmente nessuno ti impone di fare lo straordinario, ma se non lo fai c’è un’elevata possibilità di essere lasciati a casa. Ogni turno dura in media 12 ore”. Nello stabilimento, spiegano i lavoratori, la produttività veniva valutata in base alle “righe” eseguite al giorno, dove per “righe” si intende “il prelievo di due libri al minuto”. “Dovevo eseguire almeno 130 ‘righe’ al giorno – dice un’altra lavoratrice – chi ne fa meno viene lasciato a casa. Ciascun turno prevedeva regolarmente 12 ore di lavoro e quando non sono stata più in grado di sostenere questi turni così pesanti, dovendo accudire mia madre disabile, sono stata lasciata a casa”.  “Per sette anni ho lavorato con contratti a termine della durata sempre di di 3 mesi”, svela una donna rumena, mentre altri parlano addirittura di “rinnovi settimanali” presso il cosiddetto ‘reparto picking’ (gestione e logistica del magazzino). Le ore notturne e quelle di straordinario, stando agli operai, venivano pagate sempre la stessa somma, da alcuni indicata in 7 euro all’ora. Gli straordinari, prima del 2016, quando sono ‘entrati’ i sindacati nello stabilimento e la situazione “è un po’ migliorata”, consistevano in “più 200 ore al mese”, spesso non calcolati in busta paga. “Certi giorni – afferma un lavoratore ucraino – veniva appeso un cartello con la scritta ‘Tassativamente obbligatorio sabato e domenica lavorativi’. Nella bacheca dove venivano appesi i turni veniva indicato solo l’inizio del turno mentre sulla sull’orario di fine servizio veniva indicata la dicitura F.S. (fine servizio)”. Sintetizza il gip che ha disposto le misure cautelari: “Sono emersi chiari, precisi e concordanti elementi relativi all’intermediazione illecita e allo sfruttamento dei lavoratori, al reclutamento di manodopera destinata al lavoro presso la Ceva in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori e la corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali; violando reiteramente la normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, alle ferie, in totale dispregio delle norme di igiene e del lavoro”.

    (manuela d’alessandro)

     

     

     

     

     

     

     

     

  • “Verrà la morte”, la poesia di Pavese che (anche) ha risolto’ il delitto Macchi

    Non c’è nulla di poetico in un omicidio, ma in questo omicidio c’è molta poesia.

    Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, uno degli incipit più abbaglianti della poesia italiana, viene eletto a pieno titolo tra gli indizi che hanno portato alla condanna all’ergastolo di Stefano Binda per avere ucciso con 29 coltellate Lidia Macchi il 5 gennaio del 1987 nei boschi intorno a Varese. Perché Lidia, scrivono i giudici nelle motivazioni al verdetto dell’aprile scorso, quei versi li “conservava in borsetta trascritti su un foglio” e Stefano ne era così ossessionato da parlarne in continuazione nei corridoi del liceo, come ricorda la super testimone dell’accusa Patrizia Bianchi.

    “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi /questa morte che ci accompagna dal mattino alla sera, insonne, sorda, come un vecchio rimorso o un vizio assurdo/”.

    Stefano, poi studente di Filosofia cui slanci giovanili verranno schiacciati dall’eroina, sviscerava tutti le opere del suo autore preferito, specchiandosi nelle sue inquietudini, ma quella poesia lo tormentava più di tutto. “Con corrispondenza impressionante – scrivono i giudici – ‘Verrà la morte e avrà i tuoi occhi’ è stata  trovata da lui trascritta, nella sua abitazione, durante una recente perquisizione “. E per la Corte d’Assise sempre questa lirica firmata dallo scrittore morto suicida, “è un elemento che individua Stefano Binda come l’amore segreto” di Lidia. Voleva condividere un pezzetto delle ossessioni di Stefano e per questo la custodiva in borsetta.  Lei ragazza discreta e brillante,  a sua volta amante della poesia tanto che è uscita una raccolta postuma, si era invaghita di quel giovane “molto intelligente e carismatico, famoso per la sua capacità di risolvere enigmi” prima a scuola e poi nell’ambiente di Comunione e Liberazione che entrambi frequentavano. “Un amore impossibile”, come lei stesso lo definì in una lettera senza fare il nome di Stefano ma per i suoi amici dell’epoca non c’è dubbio che si riferisse proprio a lui.  Binda è stato arrestato  il 15 gennaio del 2016, al termine di una sorprendente indagine dell’allora pg di Milano Carmen Manfredda che aveva riaperto il fascicolo dopo 27 anni di inerzia. La prova principale contro di lui  è una lettera intitolata ‘In morte di un’amica’ recapitata anonima il giorno delle esequie alla famiglia Macchi. Per i giudici l’autore sarebbe stato Stefano Binda come dimostrerebbero i “molti riferimenti ala scena del crimine oggettivamente riscontrabili alla prima lettura” di quella che definiscono “una poesia”. Ancora una poesia,  questa volta tutta sua.  (manuela d’alessandro)

     

     

     

  • La battuta choc di Berlusconi su Balotelli che non avete mai ascoltato

    Ecco la frase choc di Silvio Berlusconi che finora nessuno vi ha fatto ascoltare con le vostre orecchie. Quella battuta razzista e francamente inattesa, riferita a Mario Balotelli, di cui vi abbiamo parlato quasi due anni fa, quando il video che troverete qui sotto fu depositato agli atti dell’inchiesta Ruby ter. Da allora il catenaccio anti-giornalista messo in atto dalle parti che avevano accesso a questo documento è stato micidiale. Ora qualcosa si è spezzato.

    Riteniamo sia doveroso darne conto, considerato il ruolo pubblico che Berlusconi ancora ha, in un momento in cui il tema del razzismo è di lampante attualità. A Mario Balotelli la massima solidarietà per quello che forse non avrebbe voluto sentire e che invece fa ancora tristemente parte dell’armamentario para-umoristico italiano. La scenetta si conclude con Berlusconi che dice a Marysthelle Polanco “tu sei abbronzata, lui invece è proprio negro negro”. Parole che ci fa un certo effetto anche solo trascrivere. Il video lo trovate qui sotto.

    Eccolo: berlusconi-balotelli-giustiziami

  • Detenuti di Opera contro i topi, morso un recluso malato di cancro

    Topi nelle docce, topi che mordono detenuti e medici, che mettono in pericolo la salute di chi, già malato, sta dietro le sbarre. Cosa succede a Opera? A raccontarlo sono gli stessi reclusi che, in una lettera alla direzione della casa circondariale, protestano per la massiccia presenza di ratti, evidenziando il caso di uno di loro, malato di tumore, morso da un roditore e sottoposto per questo a profilassi.

    Una trentina di carcerati lamenta che gli episodi relativi alla presenza dei roditori, “anche di dimensioni notevoli nella doccia del reparto infermeria”, “si stanno ripetendo da mesi ma, nonostante le numerose segnalazioni, non si è giunti a nessuna soluzione da parte della direzione”. “Crediamo che la situazione sia diventata davvero intollerabile – si legge nella missiva scritta a mano che abbiamo potuto leggere – considerando il luogo in cui siamo e soprattutto l’alto numero di detenuti ristretti  con gravi patologie”. I firmatari fanno riferimento perfino a “un medico morso alla gamba come da certificazione infettivologica”.

    Il caso portato a emblema è quello di Cosimo Loiero, malato di cancro e azzannato da un topo, che ha chiesto di essere  scarcerato e messo ai domiciliari nei mesi scorsi per “l’incompatibilità del regime carcerario con le sue condizioni di salute”, ma prima la Corte d’Appello e poi il Tribunale del Riesame di Milano gli hanno detto di no. Loiero,  44 anni, condannato in primo grado a 18 anni  col rito abbreviato per associazione a delinquere finalizzata al narcotraffico, si è ammalato di un linfoma di non – Hodgkin poco dopo essere stato arrestato nel  2016. Per i giudici del Riesame, “pur dovendosi dare atto della assoluta serietà e complessità delle patologie dalle quali risulta affetto Loiero, la detenzione in sé considerata, ovviamente effettuata come nel caso in un centro clinico (ma dalle carte si evince che non ci va mai, ndr)  non palesa insuperabili problematiche connesse alla patologia”.

    La consulenza della difesa e la perizia del Tribunale concordano nel dire che  i cicli di chemioterapia a cui si sta sottoponendo determinano “un elevato rischio di complicanze infettive a breve e a lungo termine” perché il paziente è immunodepresso. Ma le conclusioni divergono. Per il medicio incaricato dalla difesa,  questo quadro clinico rende molto pericolosa la permanenza dietro le sbarre dal momento che “in ragione della terapia in corso Loiero presenta un rischio aumentato di eventi infettivi”.  Il perito del Tribunale invece si limita a indicare le precauzioni a cui dovrebbe attenersi il detenuto (”le norme igieniche devono essere garantite e verificate, evitando bagni a uso promiscuo o la scarsa pulizia degli ambienti”) ma sostiene “di non essere in grado di verificare quale sia la concreta situazione della casa circondariale, ad esempio “quante volte lavano i pavimenti o quante persone sono contemporaneamente presenti nel medesmo luogo”. La valutazione alla fine è stata fatta dal Tribunale del Riesame che ha affrontato anche l’episodio del morso del topo, esposto dallo stesso Loiero prima in udienza, dove ha mostrato i segni lasciati sul braccio dal ratto, sia  in una lettera ai suoi avvocati, firmata anche da due detenuti – testimoni.  “Il 29 aprile del 2018 alle 4 del mattino, un topo sbucato dai cestini portacibo  mi ha morso sul braccio destro ed è poi scappato. Lo ha ucciso il mio compagno di cella con una scopa e io ho deciso di conservarlo in un contenitore per alimenti per farlo vedere al medico perito che mi ha visitato il giorno dopo”. Loiero, che aveva appena terminato un ciclo di chemio, è stato visitato dal medico infettivologo del carcere che gli ha fatto una puntura antitetanica  prescrivendogli una cura di antibiotici per alcuni giorni. Sul punto, il Riesame “in assenza di elementi obbiettivi di riscontro, prende atto delle dichiarazioni del detenuto” e “nell’incertezza dell’effettività di quanto rappresentato da Loiero, segnala che sono state adottate le cautele del caso attivando un’adeguata profilassi attraverso la somministrazione di vaccino e antibiotici a riprova dell’adeguatezza della reazione sanitaria”. Non è chiaro da dove derivi l’incertezza dei giudici sul fatto dal momento che, come spiega uno dei legali di Loiero, l’avvocato Giuseppe Gervasi, “l’animale è stato conservato e consegnato al medico, il mio assistito è stato sottoposto alla profilassi del caso in carcere e in udienza ha mostrato i segni del morso”. Per il difensore “è grave che il Tribunale si limiti a ‘prenderne atto’ e a dire che il problema è stato superato dall’antitetanica senza preoccuparsi di svolgere accertamenti sull’episodio e sulla presenza di topi a Opera. Ed è assurdo  il passaggio del provvedimento in cui i giudici sottolineano che il perito ha fatto presente a Loiero  la pericolosità  della conservazione e del contatto con la carcassa, possibile causa di infezione. Come se fosse responsabilità sua essersi messo a rischio, quando invece è stato morso in carcere”. I difensori di Loiero hanno presentato ricorso alla Cassazione contro la decisione del Riesame.

    (manuela d’alessandro)

  • Il concetto di dignità quando si parla di sesso

    Esiste un concetto oggettivo di dignità quando si parla sesso? Per i giudici della Corte d’Appello di Milano sì e nelle motivazioni alla sentenza del processo Ruby bis lo applicano al mestiere delle prostitute di lusso. “L’attività delle escort, ancorché scelta deliberatamente e liberamente – scrivono – risulta porsi in contrasto con la tutela della dignità della persona umana che è il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice che punisce la condotta di agevolazione della prostituzione”.

    Molti dubbi in più li aveva manifestati tempo fa la Corte d’Appello di Bari impegnata nel processo a Silvio Berlusconi e al suo presunto ‘cacciatore’ di escort, Giampaolo Tarantini, decidendo di mandare alla Consulta gli atti per valutare la legittimità del reato di favoreggiamento della prostituzione. L’ipotesi dei magistrati pugliesi era che la legge Merlin potesse essere “lesiva del diritto alla libera sessualità autodeterminata” e contraria al “principio di laicità dello Stato, di tassatività e determinatezza e con il principio della tutela della libera iniziativa economica privata”. Su questa scia, le difese di Nicole Minetti ed Emilio Fede hanno provato a spendere la carta dell’illegittmità costituzionale trovando però il ‘muro’ dei giudici milanesi, secondo i quali la questione è ‘manifestamente infondata’ e non vale la pena di far scomodare i giudici della Consulta. Il legale dell’ex igienista dentale, Pasquale Pantano, aveva azzardato nel suo intervento in aula un accostamento tra Marco Cappato e Nicole Minetti che aveva suscitato un certo scandalo: come il leader radicale ha aiutato Dj Fabo all’esercizio di un proprio diritto, cioé la libertà di scegliere come morire, così l’ex igienista dentale ha dato un aiuto alle ospiti ad Arcore nell’esercizio della prostituzione, che rientra nella libertà di autodeterminazione. Ora, dopo le condanne ribadite in appello seppur con lievi riduzioni (Fede a 4 anni e sette mesi e Minetti a 2 anni e dieci mesi), le difese rinnoveranno alla Cassazione il tema del diritto o meno a prostituirsi. Prima potrebbe arrivare la decisione della Consulta sul processo di Bari.

    (manuela d’alessandro)

    Il testo delle motivazioni al processo Ruby bis

     

     

     

  • La mappa delle 500 telecamere nel Palazzo e i dubbi dei lavoratori

    Quella che vi mostriamo in esclusiva è la mappa del centinaio di telecamere che verranno installate entro la fine dell’anno al terzo piano del Palazzo di Giustizia di Milano. Proprio dove l’imprenditore Claudio Giardiello circa tre anni fa compì il suo eccidio con una pistola introdotta eludendo i controlli ai varchi.   In tutto gli ‘occhi elettronici’ saranno 500, sparsi in ogni angolo dell’immensa costruzione di età fascista e anche nella nuova palazzina di via San Barnaba, aule comprese se i giudici daranno l’autorizzazione.

    E’ la prima iniziativa del procuratore capo Roberto Alfonso sul tema della sicurezza sollevato dalla strage. Lo stanziamento che ha reso possibile il piano telecamere è di circa un milione e verrà seguito, entro il 2020, dall’installazione dei tornelli agli ingressi e dei videocitofoni davanti alle stanze di ogni magistrato. Si riuscirà a eliminare del tutto il rischio che scorra di nuovo del sangue nella casa milanese della giustizia?

    C’è poi il tema della privacy. Camminare nel Palazzo di Giustizia significherà essere ‘pedinati’ passo passo da uno sguardo invisibile.  In un riunione che si è tenuta nei giorni scorsi coi rappresentanti dei sindacati, Alfonso ha sostenuto che “l’unico scopo delle telecamere è aumentare gli standard della sicurezza, senza alcuna limitazione o ripercussione nei confronti dei lavoratori” e che una copia del progetto è stata mandata all’Ispettorato del Lavoro e all’Autorità garante dei dati personali. Una sindacalista ha chiesto e ottenuto dal procuratore garanzie sul fatto che le telecamere non vengano utilizzate per controllare l’attività lavorativa e, in particolare,  le timbrature. (manuela d’alessandro)

  • Per i Ligresti lo stesso fatto ‘non sussiste’ a Milano, ma a Torino sì

    Capi d’imputazione ‘fotocopia’ che a Torino hanno portato ad arresti e condanne e a Milano a un’assoluzione ‘perché il fatto non sussiste’, ribadita oggi in appello nei confronti di Paolo Ligresti. Un caso incredibile di contraddizione tra magistrati  di fronte agli stessi fatti, quelli relativi alla gestione delle società di famiglia, che il 17 luglio del 2013 portarono all’emissione di un’ordinanza cautelare per falso in bilancio e aggiotaggio firmata dal gip torinese, su richiesta della Procura sabauda, nei confronti di Salvatore Ligresti (scomparso di recente) e dei figli Jonella, Giulia e Paolo Ligresti. La ‘fortuna’ di quest’ultimo è stata quella di trovarsi, al momento del blitz, in Svizzera da cittadino elvetico. In queste vesti non ha potuto chiedere il rito immediato scelto invece dalle sorelle e dal padre, poi condannati a Torino nell’ottobre del 2016, e ha affrontato da solo un’udienza preliminare trovando un gip che ha dichiarato la propria incompetenza territoriale e ha trasmesso gli atti a Milano. Qui, nel dicembre del 2015, su richiesta dello stesso pm Luigi Orsi il l gup Andrea Ghinetti lo ha assolto col rito abbreviato. Una decisione non condivisa dal procuratore generale Carmen Manfredda che ha impugnato la sentenza ma poi, essendo andata in pensione, ha lasciato il caso alla collega Celestina Gravina che ha invece chiesto e ottenuto l’assoluzione per Paolo, difeso dall’avvocato Davide Sangiorgio, e per l’ex attuario Fulvio Gismondi e l’ex dirigente Pier Giorgio Bedogni. Le motivazioni al verdetto saranno depositate tra 90 giorni e forse a Torino si avrà la saggezza di aspettarle prima di celebrare l’appello di Giulia e Jonella, assistite dai legali Gian Luigi Tizzoni, Lucio Lucia e Salvatore Scuto. Non si può nemmeno dire che siano state date interpretazioni diversi alle stesse vicende perché a Milano ‘il fatto non sussiste’ proprio. Com’è stato possibile? Le interpretazioni sono varie, certo è che all’epoca l’impostazione dell’inchiesta del pm Orsi era meno ‘garibaldina’ di quella della Procura di Torino che intervenne con gli arresti ‘scippando’ di fatto l’indagine poi in effetti risultata di competenza milanese.  (manuela d’alessandro)

  • “Distrutto dall’inchiesta su Hacking Team, 3 anni dopo torno a vivere”

    “Ero finito nel mirino per avere lasciato la società perché non condividevo le loro scelte etiche e di business, ma ora finalmente un giudice ha messo la parola fine a questa storia”.  Alberto Pelliccione, 35 anni, sta comprando bottiglie di vino buono da offrire ai familiari a Singapore, dove si trova per lavoro. Era stato accusato di aver orchestrato, assieme ad altri ex dipendenti, il più clamoroso attacco informatico della storia italiana, quello ai danni di Hacking Team, società che vende software – spia a polizie e governi. Oltre 400 gigabyte di documenti interni alla società, tra cui email e password dei dipendenti, e il codice sorgente di Rcs, vennero squadernati sul web tra maggio e luglio 2015, e fecero il giro del mondo.

    Di pochi giorni fa la notizia, passata quasi inosservata sui media rispetto alla grande eco che ebbe l’indagine, dell’archiviazione da parte del gip di Milano Alessandra Del Corvo nei confronti di Pelliccione e degli altri indagati. A puntare il dito contro di loro era stato David Vincenzetti, l’ex ad e fondatore della società con sede a Milano. “Era il 2015, un anno e mezzo prima avevo dato le dimissioni da Hacking Team – ricorda  Pelliccione, precoce cyber talento tra i più brillanti nel settore della sicurezza –  poi sul mio esempio se ne andarono altri. Non volevamo più stare in quell’ambiente, soprattutto per ragioni etiche. Furono segnalati abusi dell’utilizzo del software in Marocco, dove venne usato contro gli attivisti per i diritti umani, a Dubai dove un professore venne imprigionato, sempre tramite il software di HT, per le sue idee, in Etiopia, dove il governo lo usò per rintracciare e punire giornalisti che erano contro il regime. E ancora, in Messico dove alcuni politici utilizzavano gli strumenti forniti dalla società per spiare i cronisti anche nell’intimità, e in Sudan”. Tutto grazie a un software che, come un cavallo di Troia, si infilava nei computer e negli smartphone consentendone la totale sorveglianza all’insaputa del ‘bersaglio’. Dopo avere lasciato Hacking Team, Pelliccione fonda la società ReaQta con sede a Malta finalizzata – secondo la denuncia di Vincenzetti rivelatasi infondata – a neutralizzare il codice Rcs. “Quando si è saputo dell’inchiesta sono rimasto sconvolto. Ho pensato subito a uno sgarbo che mi era stato fatto da dentro. All’improvviso ho cominciato a essere trattato come un criminale, sapevo di non avere fatto nulla ma ero nella mani e nei tempi della magistratura. Nessun cliente si fidava più di noi, per un anno il nostro business è rimasto congelato. La notizia era arrivata ovunque, negli angoli più remoti del mondo”. Nell’agosto del 2015, Pelliccione viene convocato dal pm Alessandro Gobbis: “Gli spiegai che secondo me si era trattato di un attacco politico, come poi venne confermato dalla rivendicazione di ‘Phineas fisher‘ (mai individuato, ndr). Credo che lui capì che non c’entravo niente ma mi fece intendere che il caso era delicato e non si sarebbe chiuso velocemente”. Dai dati resi pubblici in seguito all’attacco, era emerso che un colonnello e un generale dei servizi segreti italiani erano legati ad HT. Nel frattempo, il pm che, secondo Pelliccione “ha svolto un lavoro eccellente”, inizia a seguire la pista americana recuperando le orme di un cittadino statunitense di origini iraniane, Fariborz Davachi, titolare di una rivendita di auto nel Tennesee. Per la Procura e per il giudice che ha archiviato avrebbe avuto un ruolo nella preparazione materiale dell’attacco ma potrebbe essere stato solo l’esecutore di una trama di cui era all’oscuro. “Chi vende una pistola illegale non è tenuto a sapere delle intenzioni omicide di chi la compra”, ragiona Pelliccione secondo cui invece, a differenza di quanto sostenuto da pm e gip, gli Usa hanno collaborato come dovevano per individuare gli autori del blitz. “L’Fbi ha fatto le perquisizioni e trasmesso gli atti all’ambasciata romana, poi a un certo punto, usciti dal mondo ‘terreno’ dove si è incontrato Davachi, è diventato impossibile seguire le tracce nel mondo digitale”. Quelle che invece è certo, secondo il gip, è che l’incursione informatica non ha servito nessuna buona causa ‘umanitaria’, come sostenuto da ‘phineas fisher’, rovinando invece “indagini in corso per la scoperta di gravi reati, come il terrorismo internazionale”. Questo romanzo digitale potrebbe avere un’appendice. Pelliccione, assistito dagli avvocati Marco Tullio Giordano e Giuseppe Vaciago, sta pensando ad azioni legali contro Vincenzetti anche sulla base di un passaggio del provvedimento del gip che rimarca un possibile tentativo di intrusione proveniente dall’interno di HT ai danni di un indirizzo di Malta.

    (manuela d’alessandro)

     

  • Fondi Expo giustizia, il gip di Trento archivia tutto

    Ha attraversato città, lagune e monti il fascicolo sui fondi Expo assegnati alla giustizia milanese. Senza un’iscrizione nel registro degli indagati, senza un’attività investigativa visibile all’esterno. Alla fine, nella pace delle montagne trentine, a pochi passi dal confine italiano, ha trovato requie dopo un solo anno di vita. Il gip di Trento ha archiviato il fascicolo dell’inchiesta sulle presunte irregolarità nella gestione da parte del Comune di Milano e dei magistrati di una decina di milioni di euro destinati per lo più al processo informatico. Non è colpa di nessuno se da anni i monitor comprati coi soldi pubblici (appalto da quasi due milioni) rimandano solo buio e silenzio e non le indicazioni al cittadino su come orientarsi nel Palazzo, com’era stato promesso. E se la maggior parte del tesoro è  stato distribuito con affidamenti diretti e non con gare pubbliche può forse destare stupore ma non suggerisce, nemmeno a titolo di ipotesi, un reato. Nella primavera di un anno fa, l’Anac, ‘bastonata’ ieri dal procuratore Francesco Greco per i ritardi nella trasmissione delle segnalazioni, aveva presentato un esposto a Milano. Molto tempo prima, notizie di stampa nel 2014 avevano avanzato dubbi sull’utilizzo di questi soldi, ma a nessuno è venuto in mente di fare approfondimenti.  Fatto sta che i pm si sono accorti dopo un po’ di mesi che non potevano tenere le carte a Milano perché potenzialmente erano coinvolti dei loro colleghi seduti al tavolo attorno al quale si decideva la spartizione dei fondi. Atti a Brescia, allora, dove però il presidente delle Corte d’Appello è Claudio Castelli che a Milano da gip di era occupato del processo digitale. Tutto a Venezia ma anche qui si è scoperto che c’era un magistrato forse coinvolto nella vicenda. Infine, l’approdo a Trento, procura guidata dall’ex milanese Sandro Raimondi. Titoli di coda. Resta da attendere la Corte dei Conti che sta compiendo gli accertamenti di sua competenza prima di tirare una linea definitiva dal punto di vista giudiziario su una storia che dietro di sé lascia comunque molte perplessità.

    (manuela d’alessandro)

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  • Procura di Milano contro Anac: “Rendete inutili le nostre indagini”

    Era nell’aria da un po’ ma ora abbiamo l’ufficialità: tra la Procura di Milano e l’Anac è rottura con la prima che accusa la seconda di rendere “inutili” le sue indagini.   La mina salta alla presentazione del Bilancio di Responsabilità Sociale del 2017, un’occasione in cui di solito abbondano le ‘buone maniere’ e i linguaggi affettati. Invece il procuratore capo Francesco Greco prende il bazooka: “In attuazione del protocollo di Intesa del 5 aprile 2016 – si legge nel libretto che riassume un anno di lavoro – l’Anac ha trasmesso numerosi illeciti  da cui si potevano desumere fatti di corruzione. Tuttavia il ritardo con cui le notizie sono state trasmesse e soprattutto le modalità di acquisizione degli elementi (acquisizione di documentazione presso gli enti coinvolti) hanno determinato una discovery anticipata, sostanzialmente rendendo inutili ulteriori indagini nei confronti di soggetti già allertati”.  Un riferimento implicito certo è alle carte mandate in Procura da Raffaele Cantone  sulla vicenda dei milioni di fondi Expo per la giustizia milanese. Troppo tardi, secondo i magistrati che si sono trovati a indagare su una presunta turbativa d’asta relativa alla gestione dei soldi da parte della magistratura milanese e del Comune di Milano a distanza di anni dai fatti. E dopo che Anac è andata ad acquisire cumuli di carte a Palazzo Marino. E’ finita che la Procura di Milano si è liberata dell’indagine, non con un certo fastidio, spedendola a Brescia per potenziali coinvolgimenti di magistrati che si sono occupati del ‘tesoro’ proveniente dall’Esposizione. C’è anche da dire, almeno per questa inchiesta, che organi di stampa tra cui Giustiziami avevano scritto molto tempo prima dell’intervento di Anac ma in Procura non si era ritenuto di intervenire.

    Altro terreno di tensioni era stata  l’inchiesta sulla pubblicità delle aste giudiziarie avviata dalla Procura sempre a partire da un dossier di Anac che aveva accolto con un certo stupore, stando a nostre fonti, la richiesta di archiviazione presentata dai pubblici ministeri e poi accolta da un gip.  Secondo l’Autorità, il  bando lanciato nel 2012 dalla Camera di Commercio era stato viziato da “gravi anomalie”. A vincere fu la sola società partecipante, con un ribasso del 72,5%. L’Anac mandò gli atti alla magistratura nel 2015, 3 anni dopo i fatti, mentre l’archiviazione è del maggio scorso. Il rapporto tra l’Authority e la magistratura  era apparso invece idilliaco ai tempi del procuratore Edmondo Bruti Liberati da cui erano arrivati riconoscimenti ad Anac all’epoca dei primi arresti legati a Expo. In serata, Greco ridimensiona parlando di “problemi tecnici” e di “ottimi rapporti con Cantone”.

    (manuela d’alessandro)

     

     

     

  • Addio a Giulia Perrotti, il pm gentile che faceva stare tutti tranquilli

    E’ mancata a 64 anni Giulia Perrotti, procuratore capo del pool reati contro la pubblica amministrazione ed economici. Tra le sue inchieste più importanti, quella sulla scalata ad Antonveneta. Riceviamo un  ricordo dell’avvocato Davide Steccanella.

    “Ho appena appreso con immenso dolore che è mancata Giulia Perrotti, procuratore aggiunto al Tribunale di Milano dove era tornata dopo essere stata per alcuni anni procuratore capo a Verbania. Non era una mia amica, come pure dopo tanti anni accade anche che succeda a un avvocato che si trova da più di 30 anni ad avere quotidianamente a che fare con la controparte. Però la conoscevo da tantissimo e soprattutto da quando, da sostituto pubblico ministero, si occupava di reati economici , materia di cui  è sempre stata tra i massimi esperti dell’ufficio anche quando detti reati non erano ancora divenuti ‘di moda’ come sarebbe accaduto molti anni dopo, non c’erano i famosi pool ed era difficile trovare magistrati davvero preparati in questa materia. Ma oggi voglio ricordare la persona splendida che era, perché raramente in futuro mi sarebbe capitato di incontrare , soprattutto nelle stanze dei pm, sempre più connotati da malcelata diffidenza nei confronti degli avvocati, un interlocutore così prezioso e soprattutto gentile. Sì, gentile, termine apparentemente così banale, eppure così raro nel nostro mondo così spesso arido e che nasconde con vezzi scioccamente formali pericolosi vuoti di sostanza. Giulia Perrotti aveva un modo tutto suo di fare il pm perché sapeva trasmettere una grande tranquillità non solo agli avvocati ma anche agli imputati e lavorare con lei era sempre una sfida stimolante e leale”.

     

  • Greco: “Non sappiamo nulla di quello che accade nel Csm”

    “Palazzo d’Ingiustizia”  firmato da Riccardo Iacona e Danilo Procaccianti non gli è piaciuto, ma Francesco Greco, intervenendo a un convegno, non è apparso così distante  nei toni e nei contenuti dalle critiche al Csm espresse nel libro dai due giornalisti e da alcuni magistrati.

    “Non sappiamo nulla di quello che avviene dentro al Csm”, ha sentenziato il procuratore capo di Milano durante l’incontro intitolato: ‘L’orgoglio dell’autogoverno:Una sfida possibile per i 60 anni del Csm?’.

    “Il problema del Csm è un problema serio e se non vogliamo che il populismo giudiziario decolli bisogna ricominciare dalla trasparenza del Csm. Deve esserci un impegno scritto da parte di tutti gli eletti al Csm sulla trasparenza, può essere fatto anche dopo le elezioni (previste a breve, ndr) visto che vanno di moda i contratti”. Il magistrato ha criticato in modo feroce anche le modalità di comunicazione dell’organo di autogoverno: “Le circolari non sono mai inferiori alle 100 pagine, ti devi quasi dopare per arrivare alla fine”. Per Greco, “il Csm dovrebbe essere un palazzo di vetro. Non ci possiamo più permettere vie clientelari di accesso al Csm. Una cosa che mi fa imbestialire, per esempio, è che io vorrei sapere le cose che mi riguardano dalla segreteria del Csm e visto che hanno un sacco di soldi potrebbero farla. Invece le vengo a sapere da un consigliere amico oppure dalla segreteria di un’altra corrente”. Duro anche contro i tempi lunghi per le nomine dei magistrati quando ci sono posti vacanti: “Ci vuole trasparenza nella pubblicazione delle vacanze, si devono dare i criteri di volta in volta. E’ più importante questo tema che quello degli incarichi direttivi e semidirettivi che appassiona le liste. La decisione della Commissione deve arrivare entro pochi mesi, invece ci vogliono anche un anno e mezzo, due anni”. Per Greco, è da cambiare anche il modo con cui ci si candida agli incarichi direttivi, sul suo esempio: “Ora si scrive tutto e il contrario di tutto, invece bisogna scrivere dieci punti e basta sull’organizzazione dell’ufficio, io ho fatto così”. E ancora: “Assistiamo ad un delirio di controllo
    degli uffici di primo grado e io non mi sottraggo al controllo, ma voglio che sia garantita l’autonomia e la indipendenza delle  Procure e dei tribunali di primo grado”.  (manuela d’alessandro)

  • “Giudici in crisi quando danno l’ergastolo”, i 40 anni in Assise della cancelliera

    Quarant’anni nel palazzo di giustizia di Milano. Trenta di questi, in Corte d’assise, a contatto ogni giorno con gli aspetti più violenti dell’animo umano. Centinaia di processi, e solo una volta la cancelliera Flavia Fabi si è commossa: quando sul banco degli imputati si è trovata davanti Marco Cappato, il  radicale accusato di avere aiutato a morire Dj Fabo. Davanti ai filmati di Fabo e alle testimonianza strazianti dei suoi familiari, gli occhi di Flavia si sono riempiti di lacrime. Ma in quell’aula erano pochi gli occhi asciutti.

     

    Ora Flavia Fabi gira pagina. Va in pensione, a 66 anni di età compiuti da poco. Si porta dietro una miniera di ricordi: facce, storie, processi che attraversano ere diverse della giustizia milanese raccontati dal punto di vista particolare di un cancelliere. Dal suo banco, silenziosa e insostituibile, non si perdeva una parola.

     

    Come sei arrivata alla cancelleria dell’Assise?

    “Per caso. Sono milanese, dopo avere vinto il concorso sono arrivata subito qui a Palazzo di giustizia. Dopo una decina d’anni si è creato un problema in Assise perché un collega si era ammalato e l’ho sostituito per un processo. Poco dopo il cancelliere della Seconda sezione, Pillerio Plastina, ha superato gli esami per diventare avvocato e si è dimesso. Così ho preso il suo posto”.

    In tribunale di storie allegre ne approdano poche, ma in Assise si sente il peggio. Non ti è pesato passare tutti questi anni in mezzo a tragedie di ogni tipo?

    “Niente affatto. Non posso dire che mi staccavo da quanto accadeva in aula, perché comunque ti rendi conto di quanto è in gioco davanti a te. Ma sai di essere un’altra cosa rispetto a quanto sta succedendo e di avere un tuo ruolo da svolgere. Io mi concentravo sul mio ruolo anche se questo non mi impediva di essere coinvolta dal processo: a partire dal rapporto con l’imputato. All’inizio del processo partivo sempre critica, prevenuta; mi dicevo che questo signore se era in gabbia qualcosa doveva avere fatto. Poi nel corso del processo, mentre le udienze vanno avanti, ti fai delle convinzioni diverse. Oltretutto io mi sono sempre letta le carte dei processi a cui dovevo lavorare, sia per interesse personale sia perché sapere bene di cosa si parla torna comodo all’ufficio. In questo modo inevitabilmente una idea te la fai”.

    Hai mai visto condannare un imputato che consideravi innocente?

    “No”.

    E assolvere uno che per te era colpevole?

    “Nemmeno. Dal mio punto di osservazione, mi sento di dire che la giustizia funziona”.

    In Corte d’assise oltre che con i giudici di professione hai a che fare anche con i giudici popolari, i cosiddetti giurati. Che tipi sono? Che ruolo svolgono davvero nel chiuso della camera di consiglio?

    “Inizialmente sono tutti un po’ sbalestrati, perché tutto comincia con la polizia che arriva a casa loro ad avvisarli che sono stati scelti per fare parte della Corte: ma a volte la cosa avviene in modo un po’ brusco, e prima di capire che la polizia è lì solo per quello ci mettono un po’… Dopodiché cominciano a entrare nella parte. Una volta erano molto sprovveduti, bisognava spiegar loro tutto. Adesso invece appena realizzano cosa li attende vanno su Google, si documentano, si studiano le leggi, e arrivano alla prima riunione già abbastanza pronti. Almeno dal punto di vista tecnico, intendo. Non sono pronti a affrontare l’aspetto emotivo del processo, il suo carico di responsabilità. Così accade che giudici popolari che arrivano da noi dicendo “ci vorrebbe la pena di morte”, poi cambiano, e quando bisogna decidere la sentenza e magari condannare l’imputato all’ergastolo vanno in crisi, non se la sentono, e al momento del verdetto si commuovono. Ma devo dire che anche i giudici effettivi sentono il peso della responsabilità. Al processo per l’uccisione di un tassista anche il giudice che leggeva  il dispositivo si commosse, perché si era reso conto che se uno degli imputati aveva avuto un ruolo da leader gli altri gli erano più che altro andati dietro. Erano colpevoli, ma anche vittime delle circostanze”.

    Cosa accade in camera di consiglio? I giurati si fanno valere, o seguono le indicazioni dei due giudici effettivi?

    “Ci sono Corti piatte piatte, che non si discostano dalle indicazioni dei giudici. Ma anche Corti con una dialettica interna vivace, in cui i giudici popolari non rinunciano a fare sentire la loro voce. Non ho mai visto i giudici di mestiere messi in minoranza sulla questione principale, la colpevolezza o l’innocenza dell’imputato. Ma al momento di quantificare la pena è accaduto che i giudici popolari imponessero la loro linea”.

    Tranne che per Cappato non ti sei mai commossa. Ma ti è accaduto di provare orrore?

    “Sicuro. Il processo a un giovane che aveva ammazzato la madre e l’aveva fatta a pezzi non lo dimenticherò facilmente. La fidanzata era in casa e non ha capito niente di quello che stava succedendo…Oltretutto lui era recidivo!”

    E’ giusto che esista la pena dell’ergastolo?

    “Sì, anche perché non è quasi mai effettivo”.

    Quanto conta in Corte d’assise la figura del presidente?

    “Moltissimo. Io ho avuto la fortuna di lavorare accanto a presidenti di grande levatura. Il primo fu Antonino Cusumano, era l’epoca dei processi ai terroristi, in aula il clima era pesante, spesso i giurati avevano paura fisica; ma Cusumano riusciva a condurre il processo con polso e anche con umanità, riuscendo anche a dialogare con gli imputati. E non era facile”

    Il più tosto?

    “Renato Samek Lodovici”

    La giustizia funziona meglio per i ricchi, che si possono permettere gli avvocati più bravi?

    “No. E’ brutto dirlo, ma l’avvocato non ha un peso determinante sulla vicenda processuale”

    E il pubblico ministero, quanto conta?

    “Molto. Sia nella chiarezza della relazione introduttiva, che si usava una volta, sia nella gestione degli interrogatori dei testimoni. Non tutti sono bravi allo stesso modo, e le giovani generazioni non sono all’altezza di quelle che le hanno precedute. Di pm come Alberto Nobili e Armando Spataro non ne fanno più”.

  • Il no dell’assessore milanese al tentativo di corruzione ‘romana’

    Al telefono ci sono due collaboratori (uno è indagato) di Luca Parnasi, il costruttore finito in carcere nell’ambito dell’inchiesta sulla realizzazione del nuovo stadio della Roma che ipotizza diversi episodi di corruzione.

    – Giulio: “Siamo andati a parlare con l’assessore Maran, quello di Milano, no?

    – Valentina: “Si”

    – Giulio: “E Simone che gli prova  a vendere alla Tecnocasa un appartamento…e quello dice amico mio no! Cioé qua funziona così…qua se tu non mi dici che la cosa che riesci a fare è perché la puoi fare, a me non mi prendi per il culo perché io non mi faccio prendere…io non voglio essere…non voglio prendere per il culo chi mi ha votato…Siamo andati lì dall’assessore a fare una figura…cioé sembravamo proprio…sembravamo i romani…quelli sai…dei centomila film che hai visto? i romani a Milano….

    – Giulio: “No, peggio perché Totò è impreparato, noi eravamo preparati a quello, è diverso…Noi ci siano andati a provà”

    – Valentina: “Va beh ma che poi è quello che facciamo qua…cioé, ogni volta che andiamo a parlare con un’amministrazione. E’ perché ci proviamo” 

    – Giulio: “Esatto…qua funziona ancora comunque la Roma, rometta, Baldissoni…”

    Per il gip, “è un tentativo di corrompere l’assessore al Comune di Milano Maran, attraverso la proposta respinta di cessione di un’immobile, al fine di ottenere entrature per la realizzazione dello stadio di Milano”. Sembrerebbe, ma il contenuto dell’intercettazione “non è chiarissimo”, ci spiega una fonte inquirente, che Parnasi abbia voluto corrompere Maran attraverso i suoi emissari, offrendogli una casa o quantomeno uno sconto su di essa.  Di certo, se  a Maran fosse apparso limpido un tentativo di corruzione, avrebbe dovuto denunciarlo. Non sappiamo se l’abbia fatto, intanto però gli va dato atto di avere restituito l’idea comune di una Milano più ‘pulita’ di Roma. C’è anche da aggiungere che la Procura capitolina, soprattutto dall’arrivo dell’ex milanese Paolo Ielo,  è attivissima nelle inchieste sulla corruzione, a differenza di quella meneghina. (manuela d’alessandro)

  • “False malattie, water, bombole del gas” per il direttore del carcere di Bergamo

    “Lunedì vado all’ospedale militare e mi dici i sintomi che devo accusare. Qual è la sindrome ansioso depressiva che devo accusare”. In effetti un po’ d’ansia l’allora direttore del carcere di Bergamo Antonino Porcino sembra manifestarla  al telefono col dirigente sanitario della struttura, Francesco Berté. Un’agitazione che, secondo la Procura, è legata alla volontà di non andare a lavorare tra il 29 gennaio e il maggio del 2018, giusto il tempo di raggiungere la pensione.  “Mi volevano mettere in ferie e allora mi metto in malattia… – suona preoccupato Porcino in un’altra conversazione intercettata –  mi hanno fatto girare i coglioni ma se mi chiedono che sintomi ho non li so”. “Eh – gli spiega un interlocutore a cui si rivolge in un’altra telefonata – che hai poco interesse durante la giornata…che sei stanco…ti si chiude ogni tanto lo stomaco…in un modo che non è grave …solo un po’ di sintomi depressivi”. Ma a Porcino pare non bastare: “Devo essere grave invece…devo essere grave”.   Con la complicità di quattro indagati, tre medici e un dirigente sanitario, si legge nell’ordinanza di custodia cautelare a carico anche dell’ex direttore, “la dolosa e inveritiera attestazione di sindrome ansioso depressiva  comportava l’esonero del Porcino per la durata  di 205 giorni determinando il diritto al trattamento economico spettante per le residue ferie non dovute  col correlato illecito arricchimento”. Con “possibili riflessi economici positivi” sulla pensione.

    Quasi surreali alcune delle contestazioni mosse a Porcino, dall’aver chiesto a un agente della polizia penitenziaria di andare in orario di servizio a prelevare due bombole del gas a casa sua, ricaricarle e poi riportarle nella sua abitazione, all’essersi “appropriato” assieme a un altro indagato di “almeno due water nuovi appena imballati”, portati via dal carcere. Addirittura gli viene addebitato di essersi impossessato di una risma di carta della struttura. Infine, avrebbe pure ricevuto “scatoloni di medie dimensioni contenenti presumibilmente macchinette di caffé” per avere favorita un’azienda ‘amica’nella procedura per l’installazione di distributori di cibi, bevande e tabacchi.  Gli arresti nascono da un’inchiesta coordinata dai pm Maria Cristina Rota ed Emanuele Marchisio che era nata per far luce sul trattamento carcerario “di favore” garantito a un imprenditore arrestato, nell’aprile 2017, dalla Guardia di Finanza di Vibo Valentia, nell’ambito di indagini sulla realizzazione dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria. L’uomo, detenuto a Bergamo, aveva usufruito di un lungo ricovero all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, grazie a certificazioni mediche che attestavano un grave shock emotivo che invece non aveva subito.

    Le indagini hanno fatto emergere il coinvolgimento nella vicenda dell’attuale comandante della Polizia Penitenziaria di Bergamo, Antonio Ricciardelli,  e hanno accertato false attestazioni sanitarie per far ottenere benefici economici (pagamento licenza non fruita all’atto del pensionamento, trattamenti privilegiati di quiescenza, riposo medico per patologie inesistenti e concordate) all’ex direttore del carcere di via Gleno, da pochi giorni, in pensione. Dalle intercettazioni, spunta anche un presunto falso sulla durata di un colloquio  che il procuratore di Brescia, Tommaso Buonanno ebbe il 29 marzo  scorso con il figlio Gianmarco, detenuto per rapina. L’incontro era durato un’ora e mezza ma Ricciardelli e un agente annotarono sul registro la durata di un’ora. (manuela d’alessandro)

  • “Ciao Pino, eri il nostro porto nella bolgia delle direttissime”

    Legali e frequentatori del Palazzo di Giustizia piangono la scomparsa di Giuseppe Di Donato, da tutti conosciuto come Pino, il dirigente delle direttissime andato in pensione da poco e scomparso nei giorni scorsi (nella foto con l’avvocato Debora Piazza). Riceviamo e pubblichiamo un ricordo dell’avvocato Mauro Straini.

    Nella parte più buia dei gironi infernali del palazzo di giustizia, piano terra, sezione direttissime, dove la durezza dei processi penali quotidianamente si celebra nel modo più drammatico, la tua cancelleria, per me, per noi avvocati, è sempre stato un porto sicuro. 

    Gente simpatica, intelligente. E tu più di ogni altro, Pino. 

    Una questione di stile.

     – Ciao Pino, per quel ‘299’ ci sono novità, il giudice ha deciso se dare dare gli arresti domicliari? 

    E quasi sempre le novità erano negative.

     – E’ un rigetto. Resta in carcere.

    Anzi, lo dicevi con due g: un riggetto, con il tuo indimenticabile accento romano. 

    Ma lo dicevi in un modo che saperlo da te era un po’ meno peggio: lo dicevi come uno che sa che forse di tutto questo potrebbe anche farsene a meno, però c’è, e allora tocca fassene ‘na ragione, perché così è la vita.

    Così è la vita, caro Pino. 

    Professionale, competente, intelligente, serio, umano, simpatico sempre. 

    Ciao Pino, ci mancherai. Con te se ne va un pezzo di storia del Palazzo.

  • Cyberbullismo, dall’idea di un pm la pagina Fb per genitori e scuole

    L’idea è venuta al pubblico ministero esperto di reati informatici Francesco Cajani. Una pagina Facebook in cui  magistrati, forze dell’ordine, avvocati, docenti universitari, criminologi si mettono a disposizione di genitori e insegnanti per aiutarli ad affrontare episodi di cyberbullismo e le questioni sollevate dal rapporto tra la  tecnologia e i ragazzi. Molti di questi professionisti, per ora una sessantina, sono soci o simpatizzanti di Ilsfa, la principale associazione di informatica forense in Italia, che da un paio di settimane ha lanciato il gruppo chiuso su Fb (Ilsfa Educ@tional Response Team) a cui le scuole di ogni ordine e grado e le famiglie possono rivolgersi scrivendo un messaggio. “Vogliamo dar vita a uno spazio protetto che ha lo scopo di trovare soluzioni, idee e proposte – spiegano i promotori  – Garantiremo il nostro tempo libero e un sostegno qualificato, ma senza andare di persona nelle scuole perché spetta a genitori e insegnanti risolvere i problemi”. Tra gli strumenti offerti a chi è in difficoltà, si pensa anche a dei video da proporre nelle scuole, il cui contenuto verrà calibrato  a partire dalle sollecitazioni di chi chiede aiuto. In un recente incontro promosso da Ilsfa, Cajani, già pm in uno dei primi processi sul bullismo via web (Vividown contro Google) e punto di riferimento italiano per Eurojust, ha raccontato di avere messo “nello zainetto che mi porto in giro per l’Europa, tra Strasburgo e Bruxelles, anche il telefono di Peppa Pig sottratto ai miei figli. Trovo che sia un efficace simbolo del nostro tempo. E’ un giocattolo che, per essere venduto, deve avere necessariamente il marchio CE, un marchio che impone alle imprese ben precise regole di produzione e commercializzazione, ai fini di una sicurezza del consumatore finale in quanto minore e, per definizione, vulnerabile. Possibile invece che per i nostri telefoni che giocattoli non sono, e con i quali i nostri figli intrattengono spesso la maggior parte della loro vita di relazione, tutto questo non sia ancora previsto?”. Il rischio per il magistrato milanese “è che si posso realizzare una libertà intesa come assenza di leggi e, quale pendant culturale, uno sviluppo relazionale – tecnologico dei nostri figli anche qui caratterizzato da un’assenza di leggi”.

    (manuela d’alessandro)

  • Tutti i dubbi del processo Uva

    Perché è morto Giuseppe Uva? Di sicuro a causa di un’aritmia cardiaca. Per il resto, la narrazione della fine del manovale, deceduto in una caserma dei carabinieri di Varese il 15 giugno del 2008, prende strade incompatibili nelle parole del sostituto pg Massimo Gaballo e degli avvocati dei due carabinieri e dei sei poliziotti imputati per omicidio preterintenzionale e sequestro di persona.  Per loro, assolti in primo grado, sono state chieste pene fino a 13 anni.

    Il testimone chiave

    Alberto Bigioggero, quella sera era con Giuseppe Uva. Bevevano e facevano casino in strada. Ha raccontato che uno dei carabinieri, quando li vide, disse al suo amico: “Proprio te cercavo, questa notte non te la faccio passare liscia”. Una lezione che, secondo Bigioggero, Uva si sarebbe ‘meritato’ perché si vantava di avere avuto una relazione con la moglie del carabiniere. Ha raccontato, poi, di aver visto i carabinieri percuoterlo prima di caricarlo in macchina e di averlo sentito urlare ‘ahia’ in caserma.  Per il pg “nonostante i problemi psichiatrici e l’abuso di alcol, era perfettamente capace di intendere e di volere, come ha riferito in aula un consulente. Nel corso dei vari interrogatori, ha sempre mantenuto fermo il nucleo fondamentale delle sue dichiarazioni, nonostante le modalità degradanti con le quali è stato sentito da accusa e difesa durante le indagini e il processo di primo grado”. L’avvocato Duilio Mancini sintetizza così la posizione espressa dalle difese: “Fa rabbrividire che la vita degli imputati rischi di essere distrutta dalle farneticazioni di questo personaggio, parricida reo confesso (ieri è stato condannato a 14 anni di carcere per l’omicidio del padre, ndr). Questo testimone ha avuto una serie impressionante di ricoveri per problemi psichiatrici, è tossicodipendente e facilmente suggestionabile. Si è calato nel ruolo di protagonista principale partecipando a numerose trasmissioni televisive e alimentando con le sua calunnie il processo mediatico”.

    Il trasferimento in caserma 

    Per l’accusa, fu “totalmente illegittimo”. “Si può trattenere una persona in caserma, se non c’è un arresto in flagranza, solo se la persona si rifiuti di declinare le proprie generalità – argomenta il pg Gaballo – e non c’è prova del rifiuto di Uva. D’altra parte i carabinieri conoscevano molto bene la sua identità perché ci avevano già avuto a che fare.” Di tutt’altro avviso l’avvocato Mancini: “Nessun arresto, né legale, né illegale, ma un semplice accompagnamento in caserma. Come hanno spiegato gli imputati, Uva era pericoloso e e doveva essere neutralizzato perché era una fonte di disturbo per gli altri. L’unico modo di farlo era toglierlo dalla strada. Mettetevi nei panni dei cittadini che stavano alla finestra, disturbati dal rumore, e pretendevano che le forze dell’ordine rimuovessero questa situazione perché non ne potevano più del trambusto. La migliore prova della loro innocenza è che non lo hanno arrestato per resistenza a pubblico ufficiale, a conferma della buona fede e che non avevano nessun parafulmine da crearsi”.

    Il movente 

    La presunta liason con  la moglie del carabiniere, secondo il pg. O, almeno, la vanteria. “Non abbiamo prova che questa relazione ci fosse, ma nemmeno che non ci fosse – sostiene il pg – E’ certo invece che Bigioggero ha messo a verbale che Uva si vantava di questa relazione. Una vanteria che era più che sufficiente per una punizione. Stiamo parlando dii persone che non si fanno nessuno scrupolo a piegare i propri doveri istituzionali a interessi privati”. “Nessuna prova” su questo flirt, è la tesi dell’avvocato Ignazio La Russa, che assiste un poliziotto. “Lo sforzo del pg è arrivato addirittura a disonorare la moglie del carabiniere, e uso un termine che in certi ambienti ha ancora un significato”.

    Le lesioni

    Per il rappresentante dell’accusa, le lesioni sulla sommità del cranio e alla base del naso “sono lievi e non idonee a provocarne la morte” ma vanno inserite nell’esplodere di quella “tempesta emotiva” che avrebbe fermato per sempre il cuore di Uva. Secondo l’avvocato Mancini, “Uva si ferì con atti di autolesionismo”, ma per lil pg “non poteva sbattere la testa dappertutto, come sostenuto dagli imputati, e provocarsi solo piccole lesioni, Uva non era di gomma”.

    Gli insabbiamenti 

    Sono quelli di cui, per l’accusa, si sarebbe reso responsabile il procuratore di Varese Agostino Abate, che per questa vicenda è stato sanzionato in primo grado dalla sezione disciplinare del Csm. Inoltre, “Bigioggero è stato interrogato in primo grado con modalità barbare in violazione della legge che proibisce metodi che influiscano sulla libertà di autodeterminazione. Andatevi a vedere il suo esame durato due udienze – così il pg ha esortato i giudici – e verificate se davvero i pm volessero accertare la verità. Vedrete che il presidente della Corte ha perso il controllo del dibattimento”. “Il pg – ribatte La Russa  –  è stato costretto a creare uno scenario con argomenti che non ho quasi mai trovato nei processi. Ha avuto il coraggio di arrivare a denigrare tutti i pm che hanno operato in questo processo: Abate, Arduini, Borgonovo, Isnardi. Se è vero che Abate ha sempre avuto comportamenti sopra le righe (il pm Agostino Abate che condusse le prime indagini ed è stato sottoposto a procedimento disciplinare per omissioni e ritardi in questa vicenda, ndr), la Arduini (il pm Sara Arduini che affiancò Abate, ndr) mi dicono essere una tranquilla signora ed è inimmaginabile che Borgonovo (Daniela Borgonovo, pm varesino che chiese l’assoluzione, ndr) e Isnardi (il pg Felice Isnardi che riaprì le indagini, ndr) facciano parte di un complotto. Gaballo ha dovuto costruire un complotto per la debolezza degli strumenti accusatori a sua disposizione.

    Di cosa è morto Uva?

    Dicono le difese: solo per un attacco di cuore, determinato anche da una patologia cardiaca di cui soffriva. A ucciderlo, secondo la Procura Generale, sarebbe invece stata la “tempesta emotiva originata dal suo illegittimo trasferimento in caserma”.

    (manuela d’alessandro)

     

  • Fondi giustizia Expo: inchiesta da Milano a Brescia, possibili reati toghe

    I monitor sono sempre lì, forse qualcuno sta pensando di trasmetterci i mondiali di calcio anche se l’assenza dell’Italia non aggiungerebbe molto pathos alla loro muta presenza. Ma c’è una piccola novità nelle indagini sull’utilizzo dei fondi Expo per la giustizia milanese in cui viene ipotizzato anche lo spreco di denaro pubblico per comprare le decine di schermi Samsung appesi nel palazzo destinati, in teoria, a rendere più facile l’orientamento del cittadino. Il procuratore aggiunto Eugenio Fusco e il pm Paolo Filippini hanno trasferito le carte alla Procura di Brescia per valutare possibili ipotesi di reato a carico delle toghe meneghine coinvolte nella gestione del denaro. Nei mesi scorsi, i magistrati hanno iscritto una persona nel registro degli indagati (non un magistrato) e poi si sono resi conto che non avrebbe avuto senso trattenere un fascicolo che, prima o poi, li avrebbe chiamati a valutare una possibile responsabilità dei magistrati. Gli accertamenti compiuti a Milano entrano nel fascicolo già aperto a Brescia da mesi, dopo che, nel novembre del 2017, l’Anac aveva chiuso la sua indagine ipotizzando colpe sia del Comune di Milano che della magistratura milanese “per un improprio ricorso alle procedure negoziate senza previa pubblicazione del bando di gara” in relazione all’utilizzo di dieci dei quindici milioni di euro arrivati alla giustizia milanese in nome di Expo. Somme utilizzate per lo più per svecchiare la giustizia milanese attraverso il processo digitale.  In conclusione della sua delibera, l’autorità presieduta da Raffaele Cantone aveva annunciato l’invio del report alle Procure di Milano, Brescia e Venezia, quest’ultima competente sui reati del magistrati in servizio a Brescia, dove è presidente della Corte d’Appello l’ex giudice milanese Claudio Castelli.  Gli altri nomi dei magistrati fatti da Anac erano quelli dell’ex presidente del Tribunale Livia Pomodoro e del giudice Laura Tragni. Sulla vicenda sono in corso da tempo anche gli accertamenti della Corte dei Conti. In generale, la sensazione è che nessuno abbia troppa voglia di scavare anche perché non è facile fare indagini ‘a freddo’, senza la possibilità di intercettazioni, su fatti che risalgono a molto tempo fa.

    (manuela d’alessandro)

  • “Ci avete scippato i giornalisti”, ‘Libero’ porta in Tribunale ‘La Verità’

    “Lei è uno dei migliori giornalisti?”. Claudio Antonelli, cronista della ‘Verità’, stamattina è entrato nel  Tribunale di  Milano pensando a come rispondere a questo ingombrante quesito. I “migliori giornalisti” sono quelli che il quotidiano ‘Libero’ lamenta di essersi visto scippare dai concorrenti del ‘Giornale’ prima e  della ‘Verità’, poi, che quanto a vendita di copie se la passano decisamente meglio. Forse anche perché possono fregiarsi delle brillanti firme transfughe.

    E’ una causa bizzarra e per certi versi incredibile nel mondo del giornalismo quella che, a quanto risulta a ‘Giustiziami’,  si sta giocando in tempi diversi ma con contenuti identici, davanti ai giudici civili milanesi della sezione ‘Imprese e Lavoro’.

    Una prima sentenza ha già dato ragione al ‘Giornale’ e costretto ‘Libero’, che ha comunque fatto ricorso in appello, a sborsare una somma cospicua quantificata da una fonte in 120mila euro. Tra le firme sbarcate nel quotidiano che fu di Indro Montanelli figurano i capi della Cultura e degli Spettacoli, rispettivamente Alessandro Gnocchi e Valeria Braghieri.

    E’ in corso la sfida tra ‘Libero’ e ‘La Verità’, il quotidiano di Maurizio Belpietro che ha portato via al primo un bel po’ di lettori dell’area di centrodestra, assestandogli un colpo micidiale in un momento già poco felice.  Addirittura, il giornale fondato e diretto da Vittorio Feltri contesta ai rivali di avvalersi di cronisti che continuano a occuparsi degli stessi temi, attingendo ad esperienze e fonti acquisite quando stavano a ‘Libero’. Tra questi, oltre ad Antonelli, il giornalista d’inchiesta Giacomo Amadori.

    Insomma, un caso di ‘concorrenza sleale’ per ‘Libero, che invoca  l’articolo 2598 del codice civile la cui violazione è prevista anche per chi “compie atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente”. ‘Libero’ si è scoperto poco liberista. (manuela d’alessandro)

  • Fondi Expo, il gip chiude il caso delle aste giudiziarie

    Tutto regolare nella gara del 2012 per la pubblicità delle aste giudiziarie che,  secondo l’ Autorità Nazionale Anticorruzione, presentava invece  anomalie così gravi da richiedere di indirne con urgenza una nuova. Fonti vicine all’Anac, da cui era partito il dossier poi sviluppato dalla Procura,  riferiscono di una viva sorpresa nell’apprendere che il gip Marco Del Vecchio ha archiviato il caso dopo 9 mesi di riflessione, cioé da quando si era riservato di decidere sull’opposizione all’archiviazione presentata da una delle presunte società penalizzate.  Non ci sono prove, scrive il gip accogliendo la richiesta del pm Paolo Filippini,  di “intese triangolari” illecite tra Tribunale, Camera di Commercio e l’impresa vincitrice Edicom per turbare la gara. E nemmeno sulle possibili responsabilità dei magistrati milanesi.

    I fatti: la Camera di Commercio, nelle vesti di intermediario del Tribunale e per conto della sua partecipata Digicamere, mette a disposizione un appalto da 825mila euro biennali, in parte sono fondi Expo, per assegnare la gestione della pubblicità legale e l’informatizzazione delle procedure esecutive e telematiche nel biennio 2013 – 2014. A quella gara partecipa solo la società Edicom Finance che vince con uno stratosferico ribasso sul prezzo di base del 72,5%. Chi glielo fa fare? Secondo astelegali.net, l’avere ricevuto in cambio la garanzia di altri lavori molto redditizi, sempre attinenti alle aste. Il pm Paolo Filippini si mette a indagare e a un certo punto scopre che i servizi accessori Postal Target, Free Press e Aste Giudiziarie non inseriti nel bando di gara non solo sono rimasti  a un’azienda del gruppo Edicom, ma sono diventati obbligatori per tutte le procedure esecutive e fallimentari. Questo perché tutti i giudici della seconda e terza sezione civile avevano disposto così, tranne uno, il dottor Marcello Piscopo.  Ottimo per Edicom che ingrossa il suo fatturato di 440mila euro nel 2012 a 1,4 milioni nel 2014.

    Per il gip, nonostante “l’anomalia di una gara assegnata ad un unico partecipante, con un ribasso” del 72%, “a  fronte del quale la stazione appaltante che agiva in convenzione col Tribunale di Milano non avrebbe effettuato la verifica di congruità’”,  “non  vi sono prove per ritenere” che ci sia stata “un’intesa illecita tra le parti”.  E non si  può nemmeno  provare che Edicom “poteva comunque contare di recuperare remuneratività  dell’appalto (o quanto meno di coprirne le perdite) attraverso una gestione monopolista”.  Archiviati quindi i due indagati, difesi dall’avvocato Cristiana Totis: un funzionario di Digicamere e una donna, parente di quest’ultimo  e “collaboratrice” del gruppo Edicom che vinse la gara. In attesa della laboriosa decisione del giudice, negli ultimi mesi dalla Procura Generale della Cassazione erano arrivate al pm insistenti richieste per valutare eventuali profili disciplinari dei giudici civili.  Resta il mistero non risolto dalla Procura che aveva ammesso di non essere riuscita a risalire “alla reale proprietà della Edicom Finace”, controllata da una società con sede in Gran Bretagna, a sua volta controllata da una società con sede nel Delaware. Sì, il paradiso fiscale. (manudela d’alessandro)