Blog

  • Ruby, le 300 pagine di motivazioni che spiegano l’assoluzione di Berlusconi

    Motivazioni Ruby appello

    Nelle oltre trecento pagine che potete leggere cliccando sul link, i giudici della seconda sezione della Corte d’Appello di Milano spiegano perché hanno assolto il 18 luglio scorso Silvio Berlusconi dalle accuse di concussione e prostituzione minorile.

    L’ex premier va asssolto dal primo reato perché non ebbe alcun “atteggiamento intimidatorio o costrittivo” verso i funzionari della Polizia che affidarono Ruby a Nicole Minetti la notte del 27 maggio 2010. E’ vero, concedono i giudici, in quel momento Berlusconi aveva “interesse” che Ruby, portata in Questura dopo essere stata fermata, fosse rilasciata e non affidata a una comunità per minorenni, perché aveva saputo che era minorenne e temeva le sue rivelazioni sul ‘bunga – bunga’. Tuttavia, il funzionario che gli rispose al telefono, Pietro Ostuni, agì non perché costretto da Berlusconi, ma per “eccessivo ossequio e precipitazione”, “timore reverenziale” e “debolezza”.

    Quanto all’accusa di prostituzione minorile, i giudici argomentano che il leader di Forza Italia non era a conoscenza della minore età della ragazza quando ebbe rapporti sessuali con lei durante le serate ad Arcore. E smontano, definendola una “congettura”, la ‘prova logica’ invocata dal Tribunale per cui sarebbe stato Emilio Fede ad informarlo della reale età di Karima. (m.d’a.)

  • Occhio al vip! Settimo piano ‘chiuso’ per il Trota

    “Per piacere, allontanatevi”, ci dicono gentilmente i carabinieri. Settimo piano ‘blindato’ ai giornalisti. Chi c’è? Un politico di rango, un boss mafioso, una stella del gossip? Acqua, acqua…Il ‘personaggio’ per cui l’ufficio gip ha deciso di chiudere il piano è un ex ‘talento’ della politica bruciato da un’inchiesta in cui gli viene contestato di essersi comprato una laurea all’Università di Tirana con la ‘paghetta’ della Lega. Una ‘figurina’ ormai vintage negli album della politica, ex consigliere regionale del Pirellone, e ora, a quanto pare, agricoltore in erba.

    Ecco, ci siete arrivati. Sì, stanno proibendo ai giornalisti di passeggiare col loro taccuino al settimo piano con tanto di carabinieri per la ‘delicatissima’ presenza del ‘Trota’ Renzo Bossi. Davanti al gip Carlo Ottone De Marchi si deve difendere insieme al papà, al fratello Riccardo e all’ex tesoriere Francesco Belsito, dall’accusa di appropriazione indebita e truffa per la truffa da 40 milioni di euro che sarebbe stata messa a segno coi rimborsi elettorali del partito. (m. d’a.)

  • La difesa di Stasi consegna i tweet del consulente alla Corte
    Clima da Juve – Roma al processo su Garlasco

    Clima da Juventus – Roma alla riapertura del processo di Garlasco. La difesa di Alberto Stasi ha duellato a lungo coi periti nominati come ‘arbitri’ dalla Corte d’Assise d’Appello per far chiarezza sul dna trovato sulle unghie di Chiara Poggi e sulle possibilità per Stasi di non sporcarsi le scarpe col sangue della vittima camminando nel villino di via Pascoli.

    L’aspro confronto dialettico ‘a porte chiuse’ (processo col rito abbreviato) che ha animato gran parte dell’udienza è stato preceduto da un ‘riscaldamento’ significativo sull’aria che tira in questa delicata partita. I legali dell’imputato guidati dal professor Angelo Giarda hanno depositato alla Corte i tweet scritti dal  consulente informatico della famiglia Poggi, Paolo Reale, durante le (in teoria) segretissime operazioni peritali che si sono svolte nelle settimane passate. Pare che l’ingegner Reale, che è anche cugino della vittima, non abbia incassato molto bene l’accusa di aver fatto trapelare in anticipo le attività degli esperti. Anche oggi il presidente del collegio, Barbara Bellerio, si è raccomandata con le parti di mantenere un atteggiamento sobrio con la stampa sottolinenando con ironia di non poter affidare ai carabinieri il compito di controllare che non si parli troppo coi cronisti. (manuela d’alessandro)

     

     

     

  • Il provvedimento con cui Bruti ha silurato Robledo

    Ecco il documento con cui il procuratore Edmondo Bruti Liberati ha esautorato Alfredo Robledo dal ruolo di capo del pool anti – corruzione. Un provvedimento ‘storico’, che segna l’ultimo colpo di scena nella faida interna alla Procura di Milano. (m.d’a.)

    Bruti denuncia robledo 3 ottobre 2014(1)

     

  • Nessuno vuole il posto di Robledo, Bruti se lo tiene

    Il procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati aveva contattato alcuni magistrati al fine di trovarne uno disposto a prendere anche provvisoriamente l’incarico di reponsabile del dipartimento anticorruzione occupato fino a venerdì della scorsa settimana da Alfredo Robledo esautorato e “sbattuto” al settore esecuzioni penali dallo stesso Bruti in una vicenda di esposti  e controesposti al Csm che sembra senza fine.

    La pesca non è andata a buon fine. Non ha abbocato all’amo nemmeno un’acciuga. Per cui Bruti è stato in pratica costretto a riservare a sè la delega del dipartimento in attesa che il Csm senza fretta designi l’aggiunto numericamente mancante dopo l’andata in pensione di Nicola Cerrato e che parta l’interpello formale per sostituire Robledo.

    E’ insolito che in una grande ufficio inquirente il capo tenga per sè il coordinamento di un dipartimento, ma in questa vicenda troppe circostanze sono insolite. Insomma non ci sono precedenti e non sappiamo come finirà, anche perchè il Csm sembra abbia tutto fuorchè l’urgenza di prendere decisioni. Nonostante stia per arrivare sui tavoli dell’organo di autogoverno la replica di Robledo alle contestazioni di Bruti con la richiesta di essere sentito con urgenza. Ma i consiglieri togati e laici  si sono appena insediati, dovranno studiare la pratica. Il problema è avvicinarsi il più possibile alla data della pensione di Bruti, 31 dicembre 2015. Decidere di non decidere, rinviare, esattamente ciò che in questa storia è successo fino a oggi. I magistrati non sono meglio dei politici. E’ il messaggio che arriva dalla querelle Bruti-Robledo. Amen. (frank cimini)

  • Lotta di potere in procura, Bruti caccia Robledo dall’anticorruzione

    L’aggiunto Alfredo Robledo reagisce sorridendo e dicendosi tranquillo: “Me l’aspettavo, eccome”. Da stamattina Robledo non è più a capo del secondo dipartimento quello che si occupa dei reati contro la pubblica amministrazione. Lo ha deciso con un ordine di servizio il capo della procura Edmondo Bruti Liberati contro il quale Robledo aveva presentato un esposto al Csm lamentando tra l’altro violazioni in materia di assegnazioni di inchieste e in particolare il ritardo di sei mesi (“fascicolo scomparso”) per l’arrivo sul suo tavolo dell’indagine sulla acquisizione della Sea, affare sensibile per l’allora neonata giunta di centro-sinistra.

    La “guerra” era iniziata addirittura prima che Bruti venisse designato quasi all’unanimità dal Csm capo della procura di Milano. Quella di oggi è una svolta importante dopo che Bruti prima aveva escluso Robledo da alcuni interrogatori sul caso Expo e poi gli aveva tolto l’inchiesta. Stamattina il terzo atto. Da subito Robledo dovrà prendere servizio come aggiunto al dipartimento delle esecuzioni penali dove da tempo lavora il sostituto procuratore anziano Ferdinando Pomarici una sorta di memoria storica della procura, famoso da quando bloccò per primo i beni dei sequestrati per evitare che i familiari pagassero il riscatto. Parliamo di decenni fa, altra era era geologica. Pomarici, protagonista di uno scontro durissimo con Bruti sul caso Sallusti, lasciando la sua stanza per il pranzo è lapidario: “Sono riusciti a distruggere quello che era il miglior ufficio giudiziario del paese”.

    Di coordinare il dipartimento anticorruzione si occuperà direttamente Bruti, probabilmente fino al giorno in cui dovrà andare in pensione il 31 dicembre dell’anno prossimo. Contro la decisione del suo capo Robledo non potrà ricorrere. Potrà solo rispondere punto per punto alle contestazioni di Bruti inviando memorie al consiglio giudiziario e al Csm che eventualmente faranno le loro valutazioni. Ma si annunciano sicuramente tempi lunghi. E il Csm ha già fatto ampiamente capire di non avere fretta per usare un eufemismo anche perchè il capo dello stato Giorgio Napolitano presidente dell’organo di autogoverno dei magistrati sulla lotta di potere interna alla procura di Milano ha più volte preso posizione salvaguardando Bruti Liberati. E non è detto che il suo successore nel caso arrivi prima della fine del 2015 abbia voglia di mettere subito  le mani in un guazzabuglio che comunque finisca ha scoperto molti altarini e messo in dubbio principi tanto sbandierati a parole dall’Anm come indipendenza e autonomia della magistratura e obbligatorietà dell’azione penale.

    Se il movimento del ’68 perse la sua innocenza con la strage di Piazza Fontana si può dire che la procura di Milano e con lei l’intera magistratura ha perso la verginità ammesso e non concesso che l’abbia mai avuta. Perchè scorrendo gli atti della querelle Bruti-Robledo viene fuori im modo chiarissimo che la politica non è certo estranea alle toghe con i suoi giochi di potere. E i fatti, per ultimo quello di oggi, finiscono per ledere l’immagine delle stesse delicate inchieste in corso. “Non sappiamo cosa fare, come procedere” mormora un pm. Trema il palazzo che fu simbolo di Mani pulite e a causa di un terremoto interno. Non ci sono complotti estrerni organizzati da inquisiti eccellenti e nemmeno dal più importante di tutti. Insomma i magistrati si sono dati la zappa sui piedi. Potessero, a questo punto si arresterebbero tra loro. E non è detto che non accada perchè la storia è ancora lunga (frank cimini)

  • Che fai, mi cacci?
    Bruti spedisce Robledo
    al dipartimento esecuzione

    Ecco il documento con cui il procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati toglie l’aggiunto Alfredo Robledo dal dipartimento pubblica amministrazione ‘esiliandolo’ al dipartimento esecuzione penale. Poche righe molto formali e ben scritte. Ultimo atto della guerra in Procura. Disposizioni sul coordinamento dei Dip. II, VI ed Esecuzione penale

     

     

  • Yara, pm monitorano la fedeltà di mamma Bossetti

    E’ la funzione vicaria della magistratura che ormai non conosce più limiti. Da Bergamo, depositata ovviamente in edicola, arriva la notizia udite udite che la signora Ester Arzuffi ha concepito fuori dal matrimonio oltre a Giuseppe Bossetti, unico indagato per l’omicidio di Yara Gambirasio, pure il fratello Fabio. E per giunta con un uomo diverso da Guerinoni che sarebbe il padre naturale di Giuseppe.

    L’indagine non è ancora chiusa, gli atti non sono a disposizione dei difensori dell’indagato ma in edciola e sul web esce di tutto ogni giorno. La procura sta facendo il processo sui giornali e questo purtroppo nel nostro paese non è insolito. Non parliamo del merito, degli indizi gravi o meno a carico di Bossetti ma del metodo. Non bastasse ciò, siamo costretti a sciropparci di continuo minuto per minuto la vita sessuale della signora Ester, dettagli e particolari, a chi la dava. Sorge il sospetto sia pure un po’ vago che i pm non siano così sicuri delle carte che hanno in mano per sostenere l’accusa e che di conseguenza come spesso accade abbiano deciso di celebrare il processo in anteprima sui giornali, sputtanando non solo l’indagato  ma pure i suoi familiari.

    I pm di Bergamo sono gli stessi che dirottarono due navi per arrestare in relazione all’omicidio di Yara il tunisino Fikri. Agirono con le manette senza aver capito bene le parole intercettate. Fikri è stato prosciolto. Risarcito con 9 mila euro, nulla rispetto al fango che la procura gli aveva buttato addosso. E’ la giustizia bellezza. Ma anche la stampa non scherza. (frank cimini)

  • Morte Ferrulli, le motivazioni della sentenza che ha assolto i 4 poliziotti

    doc08423220141001095731

    Sono motivazioni durissime nei confronti dell’accusa, tacciata di avere seguito la “vox populi” di un uomo morto per essere stato “ammazzato di botte” dai poliziotti, quelle con cui i giudici della Prima Corte d’Assise di Milano motivano l’assoluzione dei 4 agenti imputati per la morte di Michele Ferrulli (le potete leggere cliccando il file sopra). “Non ci fu alcuna violenza gratuita” da parte dei poliziotti – scrive il giudice Guido Piffer -gli agenti mantennero una condotta di ‘contenimento’ che era giustificata dalla legittimità dell’arresto”. Una condotta, secondo la Corte, “giustificata dalla necessità di vincere la resistenza di Ferrulli a farsi ammanettare” e che “si mantenne entro i limiti imposti da tale necessità, rispettando altresì il principio di proporzione”. Una lettura completamente diversa rispetto a quella del pm Gaetano Ruta che aveva chiesto 7 anni di carcere per i quattro in divisa per omicidio preterintenzionale.  (m.d’a.)

  • Le scuse di Spatuzza a Milano 22 anni dopo:
    “Perdono per via Palestro, avevo venduto l’anima a Satana”.

    L’ultimo ‘pezzo’ della strage di via Palestro è una voce ruvida senza volto che ci catapulta 21 anni indietro, quando l’esposione della Fiat uno imbottita di esplosivo davanti al Padiglione di Arte Contemporanea falciò cinque vite.  Ed è una voce che chiede perdono a una città, ma non risparmia immagini feroci definendo un “incidente di percorso” le vittime.

    In video conferenza dal carcere, il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza interviene alla prima udienza del processo a carico del presunto basista dell’attentato, Filippo Marcello Tutino, che a gennaio ha ricevuto un ordine di arresto, ultimo protagonista dell’attacco firmato da Cosa Nostra individuato dalla Procura milanese. A indicarlo come basista, “perché era quello che conosceva meglio di tutti Milano”, proprio Spatuzza.

    “Perdono, chiedo perdono alla città, ai morti, ai loro familiari – esordisce la ‘voce’ – sono responsabile di 40 omicidi. Ho partecipato a cose mostruose, abbiamo venduto l’anima a Satana . Solo ora mi sto liberando dal male che avevo dentro, ho cominciato un percorso di ravvedimento per prendere le distanze dal mio passato”. “Quei morti furono incidenti di percorso, conseguenze non volute – spiega ‘la voce’, senza però manifestare alcuna flessione, sempre ruvida – in quella fase volevamo colpire i monumenti, non le persone. In via Palestro come in via dei Georgofili. Non so cos’è successo, ci fu un problema a parcheggiare la macchina, non so perché non abbiamo centrato l’obiettivo”. Spatuzza non era lì quando l’auto scoppiò. Era già a Roma per preparare altri ‘attacchi’. La ‘voce’ si fa più dolce, proprio mentre accusa l’imputato. “Io con Marcello ero più che amico, ero fratello, siamo cresciuti insieme. Con lui e suo fratello Vittorio ho condiviso scelte e persone sbagliate. Cristianamente li considero ancora miei fratelli, ma non condivido più le loro idee, i loro sentimenti”. Alla fine nella piccola tv la ‘voce’ si spegne e si vede nell’altra metà dello schermo Tutino, che ha ascoltato il collaboratore,  alzarsi lentamente dalla sedia. (manuela d’alessandro)

     

     

     

  • La candida divisa da gelataio non piace
    a chi fa le pulizie per i giudici

    Bella la nuova divisa del gelataio, no? Trasmette senso di pulizia. Ah no, a Palazzo di giustizia, di gelatai non ce ne sono. (Certo, qualcuno potrebbe avere obiezioni sul punto). Ci sono invece una cinquantina di addetti delle pulizie assunti da una cooperativa, la Coop Multiservice, che ha pensato di imporre a tutti quanti, uomini e donne, una bella divisa bianca e azzurra. Il colore più adatto per chi ripulisce il Tribunale, capirete bene. New look. Prima, erano blu. Come le tute blu, che non ci stanno più. Forse per questo gli addetti alle pulizie sono diventati bianchi e azzurri. Dalla cinta in giù, candidi come la neve (fino alla prima ramazzatura, ça va sans dire). Sopra, la camiciola a righine bianche e azzurre.


    Per gli utenti di palazzo il dettaglio che aggiunge colore al già eccitante panorama piacentiniano. Un po’ meno estasiati sono coloro che quelle divise le devono indossare. “A fare le pulizie, sai, ci si sporca. E di divise ce ne danno solo due. Scrivilo, siamo un po’ arrabbiati”. Più che arrabbiato, chi pronuncia queste parole sembra vergognarsi un po’, ha lo sguardo triste. Cinquecento euro al mese per un part-time, sui 900 per chi lavora a tempo pieno. La camicia è a maniche corte. D’estate va benissimo, d’inverno un po’ meno, ma è comoda. Così è e così sia, nel palazzo di giustizia.

  • “Qui abbiamo salvato le vite di avvocati e magistrati”.
    Ma l’ambulatorio del Palazzo sta per chiudere.

    Il 30 settembre, dopo una trentina d’anni di attività, si spegne il ‘pronto soccorso’ del Palazzo di Giustizia.  Nonostante la raccolta firme promossa dai sindacati, il sipario sull’ambulatorio al primo piano del Tribunale sembra ineluttabile. “Eppure qui abbiamo salvato delle vite – sottolinea con amarezza il medico della Asl Gildanna Marrani che da 20 anni accoglie il ‘popolo’ del Palazzo ogni giorno –  adesso per settemila euro di spese di luce e riscaldamento che non vuole più pagare, il Comune, proprietario dell’ambulatorio, chiude tutto”. Palazzo Marino ha chiesto alla Asl di versare i soldi che garantirebbero la sopravvivenza del presidio sanitario ricevendo un secco no di risposta.

    “Si è scritto che qui più che misurare la pressione ai cancellieri non facciamo – recrimina Marrani – ma non è proprio così. E nemmeno è vero che abbiamo cento pazienti all’anno, la media, negli ultimi anni, si attesta a 600 persone”. La dottoressa, dipendente dell’Asl, apre il libro dei ricordi più gustosi. Alcuni buffi, altri drammatici. “Ricordo il vecchietto malato di Alzheimer, che era tornato indietro di 20 anni e veniva qui pretendendo di partecipare all’udienza della sua separazione. Riuscii a evitargli un tso. Ma anche l’avvocato a cui consigliai il ricovero per dei forti dolori alla pancia, nonostante il suo medico gli avesse assicurato che non aveva niente. Alla fine mi ascoltò e si salvò dalle conseguenze di una peritonite”. Tra i suoi ‘clienti’, giudici, avvocati, gente di passaggio. “Gli avvocati sono restii a farsi curare. Vanno sempre di fretta, sono incoscienti e non ascoltano i medici”. Le torna in mente quando ‘salvò’ un processo importante. “Un detenuto cardipopatico ebbe una crisi ipertensiva durante un’udienza. Lo rimisi in piedi con una puntura e ancora oggi il giudice mi ringrazia perché quella era un’udienza molto delicata”. Dal 30 settembre, la dottoressa chiuderà per sempre la stanzetta dove ha curato migliaia di malati “sempre gratis”. “Io non resto disoccupata, l’Asl mi darà un altro incarico, ma ci tengo a rivendicare il lavoro fatto in questi anni di cui ora nessuno sembra ricordarsi più”. (manuela d’alessandro)

     

     

     

     

  • Yara, ecco il documento in cui i Ris dubitano del dna di Bossetti

    Vi proponiamo l’istanza di scarcerazione presentata al gip di Bergamo dai legali di Massimo Giuseppe Bossetti, il presunto assassino di Yara Gambirasio. In essa viene citato un passo dell’informativa dei Ris in cui i Carabinieri sembrano avanzare dubbi sulle tracce trovate sui leggins e sugli slip della piccola ginnasta seviziata e abbandonata nel campo di Chignolo d’Isola. Nel documento che potete leggere in versione integrale, gli esperti scrivono: “Una logica prettamente scientifica che tenga conto dei non pochi parametri che si è tentato di sviscerare in questa sede non consente di diagnosticare in maniera inequivoca le tracce lasciate da Ignoto 1 sui vestiti di Yara”. L’istanza è stata ‘bocciata’ dal gip Ezia Maccora che ha definito “ottima” la traccia di dna trovata sul corpo della ragazzina.

    istanza scarcerazione Bossetti

     

  • Expo, perché Raffaele Cantone viene in Tribunale?

    Raffaele Cantone viene spesso in Tribunale per incontrare il procuratore Edmondo Bruti Liberati. A volte passa quasi inosservato ma oggi la visita dell’affabile magistrato ‘elevato’ a Presidente dell’Anticorruzione è stata seguita con ansia dai cronisti dopo l’avviso di garanzia notificato ieri ad Antonio Acerbo, l’uomo del Padiglione Italia, accusato di corruzione e turbativa d’asta per l’appalto sulle ‘vie d’acqua’. “Non vengo a chiedere al Procuratore elementi sulle indagini perché non ho nessun interesse e nessun titolo a farlo – ha spiegato Cantone –   e sull’inchiesta so quello che sapevo prima, cioé quello che esce sui giornali”. Invece, Cantone ha rivelato di avere parlato con Bruti della possibilità di un eventuale commissariamento della Maltauro (la ditta che si è aggiudicata i lavori) in relazione al progetto delle ‘vie d’acqua’. “In questo momento comunque – ha precisato – non ci sono i presupposti per richiedere il commisariamento, che può essere valutato in presenza di un rinvio a giudizio o di un’ordinanza di custodia cautelare. Nel caso di Acerbo (dimissionario dal ruolo di Commissario delegato ma non da quello di responsabile del Padiglione Italia, ndr) , c’è ancora una base probatoria incerta”.

    Quindi, Cantone perché viene così spesso in Tribunale? Lasciateci sospettare: forse qualcosina sulle indagini gli viene svelato, ma sarebbe difficile giustificarlo nonostante i superpoteri che gli sono stati conferiti. Oppure, più italianamente, viene a metterci la faccia per tranquillizzare i milanesi quando spunta una nuova indagine.

    Sì, ormai manca solo che indaghino i bronzi di Riace o Foody (la mascotte di Expo ispirata ad Arcimboldo)  per concorso in corruzione, ma l’aria paciosa del magistrato partenopeo che incontra i colleghi in trincea  deve far sperare che non tutto è ancora perduto, nonostante tutto. (manuela d’alessandro)

  • Il video dell’occupazione dell’aula in solidarietà al No – Tav

    IMG_2807 (video)

    Una quarantina di antagonisti, urlando slogan e battendo i pugni sui tavoli, ha occupato l’aula dove si svolge il processo per gli scontri all’Università Statale del luglio 2013 per testimoniare solidarietà a Graziano Mazzarelli. Arrestato con l’accusa di avere partecipato all’assalto del cantiere della Tav di Chiomonte, il 23enne leccese era seduto, in manette, nella gabbia riservata ai detenuti. L’occupazione dell’aula, durata circa mezz’ora, è stata interrotta quando le forze dell’ordine hanno riportato in carcere Mazzarelli. Il processo riprenderà il 2 dicembre a porte chiuse su disposizione dei giudici della IV sezione penale che hanno trasmesso alla Procura gli atti relatvi a quanto accaduto oggi. Gli occupanti rischiano di essere indagati per interruzione di pubblico servizio. (m.d’a.)

  • Annibale compie 80 anni.
    Da Mina ad Alessandrini, i suoi 45 anni nel Palazzo.

     

     

     

    “Ciao, sono un certo Carenzo”. Da 45 anni, dalla sala stampa del Palazzo di Giustizia di Milano, le sue telefonate in redazione cominciano sempre così, con un filo di understatement. Poi, detta poche righe: anche quelle senza aggettivi, né iperboli, notizie clamorose e ‘brevi’ di cronaca, raccontate sempre allo stesso modo, come si insegnava una volta ai cronisti delle agenzie di stampa.

    Oggi Annibale Carenzo, decano dei cronisti giudiziari milanesi, compie 80 anni. E li compie al suo posto, sempre in giacca e cravatta, alla piccola scrivania in fondo alla sala stampa che nessuno dei tanti colleghi più giovani osa insidiare, dietro alla macchina da scrivere che è il suo unico strumento di lavoro insieme al telefono. “Mi avevano convinto a usare il computer. Una volta ho mandato un pezzo e non è arrivato. Così ho preso il computer, l’ho infilato in un cassetto e non l’ho più toccato”.

    Nei lanci di agenzia di Carenzo sono passati decenni di storia giudiziaria di Milano e del paese. Un punto di osservazione privilegiato per un professionista dell’informazione, ma anche nel raccontare la sua vita tra aule e processi Carenzo schiva qualunque enfasi.

    Annibale, ti sei divertito in questi anni?

    “No”.

    Come no?

    “Non mi sono mai divertito a venire qui e non mi diverto neanche adesso, ma preferisco stare qui che a casa a fare niente. Il divertimento è un’altra cosa. E’ quando vedo le partite del Toro o quando trovi una da portarti a letto”.

    Come sei arrivato a Palazzo? Ti ricordi il tuo primo giorno?

    “Sono arrivato nel 1969 con la strage di piazza Fontana dopo avere lavorato per parecchi anni con la ‘Provincia Pavese’ e un giornale, ‘Il Giornale di Pavia’, che avevo creato con una collega di Mantova. Quando ha chiuso perché il proprietario è stato dichiarato fallito anche se andava bene, mi hanno chiamato dall’Ansa chiedendomi se venivo a lavorare qui. Io ho ringraziato e sono venuto subito”.

    In quegli anni hai anche avuto un’esperienza in politica…

    “Sono stato uno dei sindaci più giovani d’Italia, a Copiano, in Liguria. Ero stato eletto nella Dc ma poi sono stato il primo sindaco a mettere in giunta un comunista. In quel periodo scrivevo anche canzoni, ero iscritto alla Siae come paroliere e alcune mie canzoni le ha cantate anche Mina”.

    Com’era il Tribunale quando sei arrivato?

    “Aveva solo 4 piani. La sala stampa era al piano terra”.

    Erano gli anni del terrorismo, sei mai stato minacciato?

    “No, non ho mai avuto paura, qui nel Palazzo mi sembrava di essere molto protetto, molto controllato”.

    C’è qualche processo o personaggio che ricordi con particolare emozione?

    “Sì. Io sono uno che non piange mai. Una delle poche volte che ho pianto è stato quando hanno ammazzato Alessandrini. Era uno assolutamente normale, una persona dolcissima. Con lui lavorava come uditrice la dottoressa Manfredda, che ora è alla Procura Generale”.

    Il rapporto coi magistrati è cambiato in questi anni?

    “Non direi. Io mi sono sempre trovato a mio agio sia con gli avvocati che con i magistrati, a parte qualcuno un po’ strano. Sì, Di Pietro era uno un po’ strano ma alla fine sono andato d’accordo anche con lui.  Nessun problema anche coi colleghi, anche perché, lavorando per l’Ansa che per anni è stata l’unica agenzia di stampa presente qui, non avevo concorrenza”.

    Tu hai un appuntamento fisso a pranzo…,

    “Tutti i giorni un’amica che lavora qui da 18 anni cucina per me nel cortile del Palazzo”.

    Come li vedi i colleghi più giovani?

    “Bene, è una generazione di ragazzi preparati”.

    Fino a quando verrai qui?

    “Fin quando la salute mi assisterà”.

    (manuela d’alessandro e orsola golgi)

  • Giustizia sprint: l’ordinanza del Tribunale “contro” il difensore su modulo pre – stampato

     

    “Contro”, a prescindere. La giustizia va lenta e il Tribunale di Milano la velocizza tirando fuori dal cassetto un’ordinanza con la scritta “contro” pre – stampata (di solito è a penna) per rispondere alla richiesta di revoca del provvedimento presentata da un avvocato.

    Un ‘leggero’ pregiudizio contro la difesa? Così parrebbe, però concediamo al magistrato di avere dimostrato un verecondo riguardo verso il legale cerchiando la parola “contro” a penna: come a dire, mi è scappato il pre – stampato, ma poi stai tranquillo che ci ho anche pensato su. (m.d’a.)

  • A Milano record di avvocati che non pagano la quota
    Nomi e cognomi vanno in bacheca

    E’ record di toghe non paganti nelle aule del Palazzo. “Da dicembre a oggi abbiamo convocato per sollecitare il pagamento della quota annuale 260 legali. Non sono mai stati così tanti in passato”, fa i conti Cinzia Preti, tesoriera dell’Ordine degli Avvocati. La curiosità di chiederle in quanti non pagano l’obolo ce l’ha fatta venire l’insolitamente nutrito elenco degli avvocati morosi, con tanto di nomi e cognomi (ma la privacy?), esposto nelle bacheche dell’Ordine a Palazzo.

    “La ragione sta in parte nella crisi, ma bisogna considerare anche i tanti colleghi che si trasferiscono all’estero, e che smettono di  pagare”, è la lettura l’avvocato Preti. Una volta ‘ammoniti’ dall’Ordine, la maggior parte degli inadempienti tuttavia rimedia in fretta. “Dei 260 richiamati, 35 li abbiamo sospesi, e sono quelli che si possono leggere in bacheca, mentre gli altri si sono messi in regola “. Il nuovo regolamento approvato nella primavera scorsa obbliga  gli Ordini a inviare al Consiglio Nazionale Forense la lista dei non paganti e i provvedimenti presi nei loro confronti. Il mancato avvio nei 60 giorni successivi alla comunicazione dell’elenco della procedura di sospensione dall’albo comporta per gli Ordini  una segnalazione al Ministero della Giustizia. Un meccanismo che rende gli Ordini ancora più zelanti nello scovare e ‘denunciare’ gli avvocati riottosi. (manuela d’alessandro)

     

     

  • Sette anni dopo riparte a tutta velocità l’inchiesta su Garlasco.
    Panzarasa, ancora tu?

    Sette anni dopo l’omicidio di Chiara Poggi, il pg Laura Barbaini tira fuori dalla naftalina di una delle inchieste più tormentate degli ultimi anni una delle vittime mediatiche illustri del delitto di Garlasco. Marco Panzarasa, compagno di liceo dell’unico indagato di questa storia, Alberto Stasi, nonché recordman di querele vinte contro i giornalisti per essere stato accostato a un crimine con cui non c’entra nulla (il 13 agosto 2007 era al mare in Liguria mentre la povera ragazza veniva massacrata), è stato convocato alla fine di luglio dal magistrato che rappresenta l’accusa nell’appello – bis con una frettolosa telefonata al mattino per un appuntamento in Procura al pomeriggio.

    Cosa voleva sapere con tanta urgenza Barbaini dal vecchio compagno di Alberto che, nel frattempo, si è laureato in Legge e ha messo su famiglia? Possiamo solo ipotizzarlo, mettendo in fila le informazioni che abbiamo intercettato sull’intensa estate lavorativa del magistrato Come quasi mai accade durante un processo d’appello, il pg ha deciso di svolgere indagini integrative ‘ a fondo perso’. Se ne ricaverà qualcosa proverà a convincere i giudici della seconda Corte d’Assise d’Appello di avere portato nuove prove a sostegno dell’accusa, altrimenti sarà stato lavoro inutile.

    Tutto ruota attorno all’ipotizzato scambio di pedali delle biciclette in possesso di Stasi, il nuovo fronte aperto da una memoria presentata a giugno dal legale di parte civile Gian Luigi Tizzoni. Il pg non si è risparmiata nel coltivare la pista indicata dal legale dei Poggi: ha sentito un produttore di pedali per oltre sei ore, ha fatto portare via dal Gico della Finanza documentazione contabile nella sede della ditta del papà di Alberto, Nicola Stasi, morto dopo che la Cassazione ha cancellato due assoluzioni disponendo l’appello – bis. Ha ascoltato i dipendenti della ditta e, in questi giorni, continua a sentire ‘esperti’ di biciclette. Gli avvocati ufficialmente non sanno nulla perché nulla è stato da lei depositato (non è obbligata a farlo, a meno che per qualcuna di queste attività non fosse stata necessaria la loro presenza). Ma Garlasco è piccola, difficile che passasse inosservato il rinnovato fervore dell’accusa.

    Torniamo al nostro Panzarasa, chiamato in gran fretta e segreto una mattina di questa piovosa estate. Perché? L’ipotesi è che il pg gli abbia posto una domanda che già circolava sette anni fa, fondata, a quanto si sa, sul nulla: Marco potrebbe avere prestato una sua bici ad Alberto? (manuela d’alessandro)

  • Arriva l’arresto ‘all’americana’ con la legge svuota – carceri.

    Scena classica di un film americano: il poliziotto fa l’arresto, serra le manette e, rivolgendosi al sospettato, dice: “Hai diritto di non parlare, hai diritto a chiamare un avvocato” e via così, con un lungo elenco di avvertimenti. Ora, qualcosa di molto simile al ‘Miranda warning’, arriva anche in Italia.

    L’articolo 293 del codice di procedura penale, ritoccato dalla legge ‘svuota – carceri’  in vigore dal 16 agosto, stabilisce che le forze dell’ordine debbano consegnare un provvedimento scritto in cui informano l’indagato di una sfilza di suoi diritti: alla nomina di un legale, ad avere un interprete, ad avvalersi della facoltà di non rispondere, ad accedere agli atti su cui si fonda il provvedimento, ad informare le autorità consolari e i familiari, ad accedere all’assistenza medica d’urgenza, a essere interrogato da un magistrato nei giorni successivi all’arresto, a impugnare il provvedimento. Tutte informazioni che, se non fosse possibile fornire con un foglio scritto, devono essere date oralmente per poi essere comunque trascritte in un provvedimento da notificare al pm e al gip. Prima della riforma, l’articolo 293 era molto più striminzito e prevedeva solo l’obbligo per chi eseguiva l’ordinanza di comunicare al sospettato la facoltà di nominare un difensore di fiducia. (manuela d’alessandro)

  • Addio a Lo Giudice, fu legale di Craxi.
    Ostinatamente, un avvocato.

    Quando gli avvocati milanesi sfilavano davanti alla porta di Antonio Di Pietro implorando un salvacondotto in cambio di una confessione, tra i loro colleghi a scandalizzarsi, a chiamarsi fuori da quel rituale un po’ avvilente, erano in pochi. Enzo Lo Giudice, morto questa mattina nella sua casa calabrese, era uno di questi. Per cultura giuridica, per formazione politica, per carattere, andare a baciare la pantofola del pm superstar sarebbe stato per lui un insulto a sè medesimo. E da questo punto di vista si trovò in piena sintonia con il suo assistito più importante di quegli anni: Bettino Craxi, segretario del Partito socialista, che dello scontro frontale e senza esclusione di colpi con i magistrati del pool Mani Pulite aveva fatto la sua unica strategia difensiva.
    Andò a finire come è noto: Craxi sommerso dai mandati di cattura e poi dalle condanne, fuggiasco nella villa di Hammamet. E Lo Giudice, con il suo collega Giannino Guiso, ostinati a difenderlo nelle aule di processi sempre più scontati nell’esito e sempre più vani nelle conseguenze concrete. Un po’ rassegnati, Lo Giudice e Guiso, ma ancora con la fierezza dei vecchi del mestiere, convinti di testimoniare non la innocenza di Craxi ma l’orgoglio di una professione.
    Sono passati vent’anni, Lo Giudice ha continuato a portare la toga e a lottare, ma – come per tutti i protagonisti della stagione di Tangentopoli – quell’epoca straordinaria gli è rimasta cucita nell’anima, e quella battaglia è una medaglia che si porterà appresso nel paradiso degli avvocati che sanno fare il loro lavoro. (orsola golgi)

  • Andrea e Gabriele, 30enni inviati di guerra a Gaza.
    Dal Tribunale alle sentenze di morte.

     

     

     

     

     

     

    Andrea e Gabriele hanno 66 anni in due e sono tra i pochissimi italiani inviati di guerra nella striscia di Gaza. Vi chiederete cosa c’entri la loro storia con la giustizia e allora potremmo affidarci al pretesto che uno dei due, Gabriele Barbati, 35 anni, romano, esordì come cronista giudiziario nel Palazzo milanese durante uno stage all’Ansa. In realtà siamo ammaliati dalla storia di questi ragazzi giornalisti che hanno seguito il vento che gli batteva dentro, volando a raccontare quello che nulla ha a che fare con la giustizia. Che colpisce a caso e senza processo, senza avvocati, senza giudici, e sempre con sentenze a morte.

    Gabriele, moro, ricciuto con gli occhi chiari, dopo una stagione a Pechino come corrispondente di Sky, si è spostato a Gerusalemme e adesso segue il conflitto israelo – palestinese per le reti Mediaset e la televisione svizzera italiana. Non sono giorni facili per lui, e non solo per le difficoltà di fare bene un mestiere difficile. Da oggi Gabriele ha deciso di sospendere i commenti su quanto vede pubblicati dall’inizio del conflitto nel suo profilo Facebook “a fronte degli attacchi esponenziali contro me e contro Mediaset”. Sui social intorno al suo nome si è scatenata una cruda ‘guerra nella guerra’ tra chi esprime apprezzamento per i suoi reportage  e chi lo accusa di essere antisemita, un “impiegato di Hamas” al servizio del tg5 il cui direttore, Clemente J. Mimum, ha peraltro origini ebree.

    Andrea Bernardi, 31 anni, riccioli biondi, laureato alla Cattolica, vive a Istanbul e si trova a Gaza per l’agenzia France Presse. Ha percorso continenti per raccontare la rivoluzione egiziana, la guerra civile siriana,  l’Irak e l’Afghanistan, la proteste delle Camicie Rosse in Thailandia. A Milano per qualche tempo si è occupato degli intrighi nella Regione Lombardia finché un giorno ha radunato amici e colleghi davanti a un aperitivo e ha spiegato che la passione lo portava altrove. Ieri su Facebook ha scritto: “L’ultima delle mie nonne è morta ieri sera, mentre io sono chiuso a Gaza. Sono sicuro che saprà perdonarmi per non poter essere al suo funerale domani. Ciao nonna!”. (manuela d’alessandro)

    Nei loro tweet immagini e commenti sulla guerra. Vale la pena seguirli: @gabrielebarbati.it e @andrwbern.

  • “Manipolò titoli per 8,5 mln”, Procura Generale chiude un’altra indagine avocata a pm Greco

    Il pg Carmen Manfredda chiude un’altra indagine che nei mesi scorsi era stata avocata al capo del pool reati economici Francesco Greco  (la-procura-non-indaga-tolte-sette-indagini-a-greco). Nell’avviso di conclusione dell’inchiesta, la Procura Generale contesta all’indagato Massimo De Paola il reato di manipolazione del mercato previsto dall’articolo 185 del Testo Unico della Finanza per avere movimentato tra il 23 agosto 2011 e il 15 settembre 2011 in modo illecito 8.558.000 euro in titoli provocandone “una sensibile alterazione del prezzo” attraverso “uno schema artificioso e reiterato non corrispondente a una genuina intenzione negoziale, ma attuato al solo fine di conseguire indebiti profitti”.

    La denuncia firmata direttamente dal Presidente della Consob sul presunto reato commesso da De Paola era arrivata sul tavolo di Greco che, nel giro di una settimana, aveva deciso di chiederne l’archiviazione sostenendo che la sua condotta “non era idonea” ad alterare i titoli. Il gip Andrea Salemme aveva ‘bocciato’ la richiesta di archiviazione e, a quel punto, era intervenuta la Procura Generale che, sfruttando il suo potere – dovere di avocazione delle indagini, peraltro fino a quale momento quasi mai utilizzato, le aveva sottratte a Greco. In questi mesi, il pg Manfredda e l’avvocato dello Stato Laura Bertolé Viale  hanno afidato alla Consob il compito di svolgere nuovi accertamenti su De Paola, già colpito da sanzioni amministrative da parte dell’organo di vigilanza per questa vicenda, e sono arrivate alla conclusione che c’è materiale sufficiente per ipotizzare un processo a suo carico.

    Intanto, a partire dalle avocazioni in serie di indagini per le quali Greco aveva chiesto l’archiviazione ( a-processo-gli-evasori-archiviati-dal-pm-francesco-greco), la Procura Generale ha cominciato a fare un inedito e massiccio utilizzo del potere – dovere di avocare le inchieste ai pubblici ministeri, non solo per reati economici ma anche per crimini di sangue. (manuela d’alessandro)

  • Il Processo Civile Telematico? Più lento di quello cartaceo.
    E poco efficiente nonostante i fondi Expo.

    E’ stato solo il “Sogno di una notte civile telematica”? Questo era il ‘titolo’ della festa in abito da sera organizzata  il 2 luglio dai vertici del Tribunale di Milano per celebrare l’avvio ufficiale dell’attesissimo Processo Civile Telematico (PCT).  Un richiamo shaksperiano che, per il momento, sembra una cattiva profezia più che la poetica aspettativa di un ‘principe azzurro’ 2.0. “Quello che possiamo dire – tenta un primo bilancio Federico Rolfi, magistrato civile e componente dell’Anm – è che il Pct ha rallentato i tempi del giudizio civile e presenta degli inquietanti profili di sicurezza”.

    Com’è è possibile che l’informatica non abbia messo pepe alla ‘giustizia lumaca’? In un documento dell’Anm viene spiegato molto bene. Intanto c’è il problema del magistrato che ha su di sé “il peso integrale anche della redazione materiale del verbale, che prima era un onere diviso tra tutte le parti in causa”; poi, la necessità di esaminare tutta la documentazione attraverso lo schermo del computer comporta per i giudici “un obbiettivo allungamento dei tempi tecnici di esame dei documenti e, a volte, “la dimensione dei file contenenti la documentazione non consente il deposito telematico e obbliga al ricorso a supporti materiali di memorizzazione”. Infine, e qui è d’obbligo ricordare la montagna di soldi Expo spesi per il “sogno telematico”, almeno a Milano (vedi inchiesta-milioni-di-fondi-expo-per-il-tribunale-assegnati-senza-gara-perche), “il Pct attualmente dipende e si fonda su un parco macchine di estrema fragilità e su dotazioni software incomplete e inadeguate allo sfruttamento completo delle potenzialità dello strumento”. Inoltre, spiega Rolfi, “tutti i venerdì dalle 17 il sistema si blocca, addirittura qualche venerdì fa, tra le proteste generali, si è fermato alle 14 e 30 per problemi romani che, a catena, hanno interessato anche Milano. E ogni 15 giorni il sistema viene chiuso per gli aggiornamenti”.

    C’è anche il tema della sicurezza che desta inquietudini. “Quando facciamo assistenza on line – è sempre Rolfi che parla – un operatore entra nella nostra consolle da remoto. Chi entra nel server, in teoria, pesca tutti dati che vuole. Ci è stato detto che in teoria l’operatore che entra viene filmato…”. Ad agosto di un anno fa un fulmine, a dimostrazione della vulnerabilità del meccanismo, fece collassare il Sistema Server Interdistrettuale e solo grazie alla bravura dei responsabili tecnici si limitarono i danni.

    Insomma, il Pct non dovrebbe costituire il semplice passaggio dalla scrittura manoscritta a quella telematica, rappresentando solo una ‘mano’ di vernice tecnologica su una struttura rimasta uguale. “Il vero Pct – e qui Rolfi esprime il suo ‘sogno di una notte telematica’ – dovrebbe avvenire in videoconferenza e gli avvocati non dovrebbero avere più bisogno di venire in Tribunale”. Per adesso, il vantaggo più immediato sembra essere quello di una limitazione dei costi, col risparmio di carta e notifiche. Qualcuno ha esaltato l’efficienza ambrosiana di raccogliere la sfida di un processo telematico che neppure paesi come la Germania hanno affrontato. Altri fanno notare che in Germania l’opzione è stata presa in considerazione, ma poi scartata per le enormi difficoltà operative che avrebbe comportato.  (manuela d’alessandro)

     

     

  • Caso Moro, pm e partiti uniti in spreco di soldi pubblici

    In tempi di spending review (a parole perchè il premier Renzi dopo aver preannunciato la fine dei fondi all’editoria ha regalato 52 milioni ai grandi giornali in cambio di buona stampa) magistrati e politici sono uniti nello spreco di denaro pubblico nei dintorni del caso Moro. A 36 anni dai fatti c’è l’ennessima commissione parlamentare di inchiesta e anche una nuova indagine penale a Roma. Tutti a caccia di misteri inesistenti oppure, dicono lor signori, per diradare ombre. Le ombre vengono prima create artificiosamente in modo che poi possano essere “risolte”.

    Un pm della capitale è volato negli Usa a sentire per rogatoria lo psichiatra mandato dal dipartimento di Stato nel 1978 a fiancheggiare il fronte della fermezza. Un soggiorno a spese dei contribuenti italiani e utile solo per ragioni di mera propaganda. Lo psichiatra se ne tornò da dove era venuto nel giro di pochi giorni e dopo aver suggerito di far finta di trattare con le Br e nel contempo di cercare di trovare il “covo”. Un genio, insomma.

    Di queste nuove indagini, parlamentari e penali, nessuno dice nulla, nessuno obietta. L’anima nera della vicenda resta comunque “a sinistra”, dentro e intorno agli eredi politici del Pci, ai quali al pari dei loro antenati non va giù che a rapire Moro, durante uno scontro sociale e politico durissimo, fu un gruppo di comunisti rivoluzionari, operai, impiegati, disoccupati, baby-sitter. Dietro non c’era nessuna potenza straniera, nè la Cia nè il Kgb. La dietrologia e il complottismo, rinvigoriti poi dalle panzane sull’11 settembre, non hanno mai fine.  La propaganda continua, residuo della controguerriglia psicologica del 1978. Ovvio, paga Pantalone. Restano le profetiche parole dell’illustre ostaggio: “Il mio sangue ricadrà su di voi”. Sta andando proprio così. (frank cimini)

  • Ruby, l’appello azzera il processo della ‘sharia’

    La telefonata in questura non fu concussiva, Berlusconi non era consapevole della minore età di Ruby. Ecco, la corte d’appello di Milano azzera il processo per un pelo di f… L’ex Cav è stato assolto. Hanno perso sonoramente la procura e il Tribunale della ‘sharia’ che in aula chiedevano a persone maggiorenni se c’erano stati toccamenti. Questo ha detto il processo penale. Sotto altri aspetti il discorso è molto diverso. In un paese normale un premier che fa quella telefonata, chiedendo il rilascio di una presunta mignotta minorenne, sparisce per sempre dalla vita pubblica. All’estero è accaduto per molto meno. Ma qui siamo nella repubblica penale e non da pochissimo tempo. Almeno dai cosiddetti anni di piombo. Per cui i magistati decidono anche come ci dobbiamo lavare i denti. Ovvio, la corresponsabilità della politica è evidente. Furono i partiti ad affidare ai magistrati compiti non loro.

    Oggi è arrivata una sentenza giusta. Politica e morale sono una cosa, il diritto penale un’altra. Il diritto non è uno strumento di traformazione della società.

    Il verdetto d’appello fa giustizia anche delle tante irregolarità dell’inchiesta, a cominciare dall’utilizzo delle intercettazioni per finire al vero buco nero della vicenda: Berlusconi fu iscritto nel registro degli indagati con sei mesi di ritardo. Per sei mesi i pm indagarono su di lui senza formalità intercettando decine di persone che avevano in comune tra loro la frequentazione della villa di Arcore.

    Fu un gioco delle tre carte, quello che i compaesani di chi scrive e della dottoressa Boccassini fanno fuori dalle stazioni ferroviarie. Stavolta alla procura più famosa d’Italia è andata malissimo. In passato i pm si salvarono per il rotto della cuffia. Sempre in un’inchiesta su B. fecero figurare come funzionante una microspia inceppata. Il Csm assolse, ma fu uno di Md (“un comunista”) a dire: “Certe cose un magistrato non solo non deve farle, ma nemmeno pensare di farle”.

    La corte d’appello in pratica azzera pure l’inchiesta Ruby-ter quella sulla presunta corruzione testimoni. Inchiesta a quanto risulta mai fatta partire veramente. In attesa dell’appello e perchè B. conta molto meno di prima. Valuazioni politiche da parte di una categoria, i magistrati, che tutti i giorni ci ammorbano con parole come autonomia e indipendenza, riparati dietro il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale che in realtà serve a coprire fior di nefandezze. Del resto basta scorrere le carte della querelle Bruti- Robledo per averne contezza. Amen. (frank cimini)

  • Sentenza Ruby, ecco perché Berlusconi non rischia il carcere

    La domanda in queste ore  è: Silvio Berlusconi rischia di finire in carcere se domani e poi in Cassazione verrà confermata la sentenza di condanna nel processo Ruby? Bisogna scartabellare un po’ di articoli del codice, consultare i nostri ‘oracoli giudiziari’  e rimettere in fila il curriculum penale dell’ex premier per arrivare al responso.

    Ebbene, Berlusconi rischia un bel numero di anni ai domiciliari, ma molto difficilmente finirà in carcere come il suo amico Marcello Dell’Utri.  Prendiamo il caso peggiore per il leader di Forza Italia: domani la Corte d’Appello ribadisce la condanna a sette anni di carcere e poi la Cassazione rende definitivo il fardello. A quel punto, ‘rivivrebbero’ i 3 anni di condanna indultati per Mediaset e per Silvio si profilerebbe un Everest di 10 anni di galera.

    In suo soccorso però arriverebbe l’articolo 47 ter dell’ordinamento penitenziario così come modificato dalla legge ex Cirielli secondo cui la pena della reclusione “può essere espiata” da un ultra – settantenne ai domiciliari purché non sia stato condannato per alcuni reati particolarmente gravi indicati dalla legge e “non sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza”. Tra i reati per i quali scatta il carcere vengono annoverati violenza sessuale , strage, terrorismo, rapina armata, mafia, contrabbando, ma non la concussione e nemmeno la prostituzione minorile. Quanto alla dichiarazione di “delinquenza abituale, professionale o per tendenza”, viene pronunciata dal Tribunale di Sorveglianza ma in casi rari e per il momento l’ex Cavaliere non sembra essere a rischio. L’ipotesi che possa finire in carcere è allora tutta condensata nell’espressione “può essere espiata”. In teoria, il Tribunale di Sorveglianza potrebbe non concedergli questa possibilità spedendolo in carcere. Ma è un’ipotesi  che, spiegano fonti giudiziarie, nel caso di Berlusconi non dovrebbe essere presa in considerazione. (manuela d’alessandro)

     

     

  • Addio fogli sulle porte, arrivano i ‘tabelloni elettronici’ per le udienze

    Addio ai vecchi foglietti appiccicati sulle porte con l’elenco delle udienze e degli imputati. Sulle pareti del settimo piano del Palazzo di Giustizia sono spuntati tre mega – schermi, a cui ne seguiranno altri, che dovrebbero permettere alle parti del processo di conoscere tutti i dettagli delle udienze per non smarrire l’orientamento. “Un po’ come mettere una copertina nuova allo stesso libro”, commenta, non si capisce quanto sarcastica, un giudice. Non è ancora chiaro se i nomi degli imputati saranno riportati sugli schermi oppure se si privilegerà una politica della privacy, considerando che in fondo si parla di processi, non è un talent – show.  In questo secondo caso, bisognerà contare su imputati e testimoni molto preparati che siano in grado di riconoscere dal numero del procedimento il loro destino. (m.d’a.)

  • La requisitoria pudica di De Petris all’appello Ruby:
    vietate le parolacce.

    “Cosa andavi a fare ad Arcore, ragazzina mia?”. Piero De Petris pone una domanda da nonno dolce e preoccupato mentre cerca di farsi strada tra gli zig – zag di Ruby nelle sue “contraddittorie” dichiarazioni ai pm e al mondo sul sesso sì o sesso no ad Arcore.

    Va in scena il primo processo ‘normale’ da quando Silvio Berlusconi ha messo piede in un’aula di giustizia. Sarà l’effetto Renzi con l’ex Cavaliere tra i ‘signori’ delle riforme o  sarà invece che ormai non fa più paura dopo averlo visto affranto su una sedia in ospizio con un camice bianco e una mazurca pallida  in sottofondo. Sarà anche la tempra degli uomini che si giocano questo processo. Piero De Petris, procuratore generale d’inarrivabile rigore nell’esposizione, mai una sbavatura a beneficio dei media, mai un aggettivo scomposto, già un ‘secolo’ giudiziario fa accusa di Berlusconi nel processo Imi – Sir.  E poi i professori Franco Coppi e Filippo Dinacci, che stanno composti nel loro banco, senza saltare su come molle ogni poco come facevano Niccolò Ghedini e Piero Longo. Ecco, appunto. Com’è lontana Ilda Boccassini con la sua requisitoria battente, con la “furbizia orientale” di Ruby, “il soddisfacimento del piacere sessuale del premier”, la “colossale balla” della telefonata Mubarak, il modello “italiano” delle ragazze che si vendono per poco.

    De Petris  invece si produce in una requisitoria pudica, che quasi arrosisce nei suoi passaggi clou. Parla di “pernottamenti ad Arcore”, “commercio dei genitali”, soggiorni dall’ex premier che non sono proprio come “prendere il tè delle cinque a casa di un’anziana signora”, di “una competizione che si instaura tra giovani donne per rimanere lì la notte perché fonte di maggiore remunerazione” e la parentela con Mubarak d Ruby diventa un “mendacio”.   Quando deve riferire dell’intercettazione “Io sono la pupilla, lei il culo” in cui Ruby spiega il ruolo suo e di Noemi Letizia, la giovane amica napoletana di Silvio, la parolaccia gli muore in gola e rinuncia alla sua proverbiale precisione cambiando “culo” in “fondoschiena”.  Alla fine anche Coppi gli rende onore, nonostante la richiesta di 7 anni di carcere per Silvio “Una bellissima difesa di una sentenza indifendibile”. (manuela d’alessandro)