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  • Il caso del magistrato ubriaco in bici fa giurisprudenza

    Fa giurisprudenza la sentenza di condanna inflitta dalla Corte di Cassazione a un magistrato milanese sorpreso a guidare ubriaco la sua bicicletta. La Suprema Corte ha confermato a febbraio la pena a due mesi e venti giorni di arresto e a un’ammenda di 800 euro per il ciclista togato, verdetto che da giorni viene commentato sui principali siti specializzati in diritto.

    Il reato di guida in stato di ebbrezza – questo è il cuore della pronuncia – può essere commesso anche sulle due ruote.  Per la Corte “ciò che conta è l’effettiva idoneità del mezzo ad interferire con il regolare e sicuro andamento della circolazione stradale, con la conseguente creazione di un obiettivo e concreto pericolo per la sicurezza e l’integrità del pubblico degli utenti della strada”.  Fermato e sottoposto all’etilometro che aveva accertato un tasso alcolemico pari a 1,97 grammi per litro, il magistrato ha provato in tutti i modi a convincere i colleghi ad annullare le precedenti condanne che gli erano state inflitte a Brescia nei primi due gradi di giudizio. Implacabili gli ‘ermellini’: non solo hanno confermato le sentenze,  ma si sono rivelati molto severi nel distruggere tutti i motivi d’appello, a cominciare dalla “pretesa inapplicabilità della disciplina penalistica della guida in stato di ebbrezza alla conduzione di veicoli non motorizzati (e segnatamente della bicicletta)”. L’imputato aveva sostenuto inoltre di essere montato in sella alla bici “spinto dalla “necessità di sottrarsi al pericolo di una danno grave alla persona” perché aveva fretta di tornare a casa per curare una fastidiosa “cefalea a grappolo”. Un argomento definito dalla Cassazione “congetturale”. Respinta, infine, la richiesta del ricorrente di riconoscere la tenuità del fatto. Non si può dire che al povero magistrato, cui va la nostra umana simpatia, sia stato riservato un trattamento di favore. Magistrato mangia magistrato, a volte. (manuela d’alessandro)

     

  • NoTav, caduta l’accusa di terrorismo…arriva la scabbia

    Caduta a loro carico l’accusa di terrorismo, adesso Francesco Sala, Lucio Alberti e Francesco Mazzarelli, militanti NoTav, devono fronteggiare la scabbia che avrebbero contratto nel carcere di Torino dove sono stati trasferiti in attesa dell’udienza del processo con rito abbreviato in cui rispondono di danneggiamento, resistenza a pubblico ufficiale e porto d’armi da guerra (molotov) in relazione alla manifestazione al cantiere di Chiomonte del 14 maggio 2013.

    A denunciarlo è l’avvocato Eugenio Losco precisando che, nonostante non siano più accusati di terrorismo, i tre militanti NoTav sono tuttora detenuti in regime di alta sorveglianza e almeno fino a pochi giorni fa dormivano su brande senza materasso. Il legale non ha potuto vederli proprio perché la direzione del carcere ha fatto presente la malattia contagiosa che i tre avrebbero contratto.

    Insomma lo Stato non solo ha fatto di tutto per portarli “in vinculi” al processo ma si rivela del tutto incapace di tutelare la loro salute. Il giudice del processo con rito abbreviato aveva respinto l’istanza di scarcerazione motivandola con il fatto che gli imputati non avevano dato segni di “resipiscenza” e che la loro vicenda non era “sovrapponibile” con quella di altri 4 militanti assolti pure loro dall’accusa di terrorismo, condannati a 3 anni e 6 mesi per gli altri reati e mesis agli arresti domiciliari. Il fatto è lo stesso, l’azione di Chiomonte 14 maggio 2013, e uguali sono le imputazioni. Il giudice ha fatto da gip dicendo no agli arresti domiciliari e farà da gup per il rito abbreviato. Cioè recita due parti nella stessa commedia. E adesso s’è aggiunta la scabbia che impedisce agli imputati di parlare con i legali della linea di difesa. Ben difficilmente poteva andare peggio. Nella giustizia dell’emergenza infinita. (frank cimini)

  • Giardiello presto in aula nel processo della strage
    Lettera dei legali al giudice: non siamo pronti

    L’assassino torna sempre sul luogo del delitto? Immaginatevi che Claudio Giardiello voglia tornare in aula. Ne ha diritto: è imputato di un processo per bancarotta, è detenuto a Monza, ma alle udienze che lo riguardano può prendere parte, come chiunque. Persino gli imputati di mafia al 41bis possono chiedere di assistere in videoconferenza ai loro processi.

    Ecco, stando a fonti legali, Giardiello avrebbe intenzione di partecipare alla prossima udienza, il 14 maggio. Il collegio di giudici non sarà lo stesso davanti al quale ha compiuto la strage del Palazzo di giustizia. Quei giudici si sono astenuti: non avrebbero avuto la serenità per giudicare chi davanti a loro ha ucciso due persone, ha quasi ammazzato un coimputato, ha ferito un testimone appena fuori dall’aula per poi dirigersi verso la stanza di un altro magistrato e colpirlo con due proiettili letali.

    Ora, fate un altro sforzo di immedesimazione: immaginate di essere uno degli avvocati che il giorno della strage erano in aula. Avete assistito alla sparatoria, avete visto morire due persone davanti a voi, ne avete soccorsa una terza in fin di vita. Con quale stato d’animo tornereste sul posto, a distanza di poche settimane, per celebrare il medesimo processo? Con un imputato ancora grave in ospedale, e uno – l’assassino reo confesso – pronto a presentarsi davanti a voi? E’ quello che si domandano alcuni legali che per questo hanno scritto al presidente del nuovo collegio, Lorella Trovato, chiedendole una pausa. Valutando di rinviare il dibattimento a dopo l’estate. “Non è così che si volta pagina”, spiega uno di loro. I giudici non sono “le uniche figure in toga a meritare la necessaria serenità delle udienze”, gli fa eco un collega, spiegando come non vi siano ragioni d’urgenza per riprendere a ritmo serrato. Quello a carico di Giardiello e dei suoi coimputati è infatti un processo senza detenuti e senza problemi di prescrizione. Semmai da parte dei giudici, ritengono i legali, potrebbe prevalere un ragionamento di “opportunità e rispetto di tutti”, spiega un avvocato che chiede tempi più rilassati per un processo assai teso. C’è persino chi inizia a ipotizzare un’istanza di remissione: processo via da Milano. In questo Palazzo di Giustizia mancherebbe del tutto la serenità per un processo equo.

    Lo choc è ancora troppo vivo nell’animo di chi era in aula. Parafrasando Jonathan Safran Foer: “molto forte, incredibilmente vicino”.

  • Le pulci invadono la cancelleria, chiusi gli uffici

    Festa grande a Palazzo per le pulci che amano la carta ma non disdegnano di punzecchiare gli umani. Il banchetto è stato consumato negli uffici della Cancelleria centrale penale della Procura, al terzo piano. I ghiotti parassiti hanno fatto incetta di fascicoli di carta e pelle dei malcapitati cancellieri che, da qualche giorno, lamentavano un irresistibile pizzicore. Oggi è arrivata la sentenza dei tecnici delle disinfestazioni: “Pulci”. I tecnici della Asl sono già intervenuti per bonificare le stanze della cancelleria, per il momento ancora inutilizzabili. (manuela d’alessandro)

  • Chi entra senza tessera, chi no e come: le nuove regole di accesso al Palazzo

    Piu’ carabinieri a presidiare le aule dove si svolgono le udienze, tornelli con badge personalizzato in prospettiva e controlli random degli utenti professionali a tutti e quattro gli accessi del Palazzo di Giustizia di Milano. Arrivano le nuove regole di accesso deliberate dalla Commissione Manutenzione degli Uffici Giudiziari (le potete leggere qui: nuove regole accesso) che si e’ riunita il 28 aprile scorso per valutare una serie di proposte da portare al Ministero della Giustizia dopo la strage compiuta da Claudio Giardiello. (cronaca di una giornata di morte)

    La Commissione ha deciso – si legge nel verbale della riunione – di “mantenere la divisione dei varchi di accesso tra quelli riservati al pubblico e quelli riservati, previa esibizione di tesserino di riconoscimento con foto, agli utenti professionali (magistrati,personale amministrativo e avvocati di tutti i Fori)”. E’ stata inoltre “condivisa” la “necessita’, in prospettiva, di procedere  all’installazione di tornelli con apposito badge personalizzato e con controllo random manuale a sorpresa”. Si e’ deciso poi “di rivolgere all’Arma dei Carabinieri l’invito a incrementare il numero dei carabinieri presenti nel Palazzo di Giustizia e a effettuare una vigilanza dinamica nei corridoi e nei pressi delle aule di udienza” e di “dare avviso a tutti gli utenti professionali che, pure se in possesso di regolare porto d’armi, non e’ loro consentito l’accesso con armi nel Palazzo di Giustizia”. (il notaio con la pistola).  Per “potenziare” il controllo random a tutti gli accessi, la Commissione evidenzia “l’opportunita’ di avere la disponibilita’ di uno strumento che consenta il controllo random programmato regolarmente dopo un certo numero di accessi di utenti”. (manuela d’alessandro)

     

  • L’”irritazione” della Procura per Bruti – Robledo, cosa voleva dire de Bortoli?

    A pratica ormai quasi chiusa, con il procuratore aggiunto Alfredo Robledo spedito dal Csm a fare il giudice (ma la Cassazione dovrà valutare la legittimità del provvedimento), un interessante dettaglio sulla guerra interna che ha scosso a lungo la magistratura milanese emerge nell’editoriale con cui Ferruccio de Bortoli lo scorso 30 aprile ha preso commiato dai lettori del Corriere della Sera, dopo averlo diretto per dodici anni.

    Nel suo lungo articolo di saluto, de Bortoli rivendica con legittimo orgoglio di avere tenuto dritta la barra dell’indipendenza del quotidiano di via Solferino sfidando anche le pressioni dei poteri forti. E qui, a sorpresa, tra i poteri scontentati dalla sua direzione, il giornalista inserisce anche quello della magistratura.Il Corriere “non ha fatto sconti al potere, nelle sue varie forme, nemmeno a quello giudiziario”, scrive de Bortoli.

    A cosa si riferisce? Il concetto viene reso più esplicito poche righe più sotto: dopo avere ricordato che  ad “alcuni miei – ormai ex – azionisti sono risultate indigeste talune cronache finanziarie e giudiziarie. A Torino come a Milano. Se ne sono fatti una ragione”, (e qui sembra chiaro l’accenno ai problemi giudiziari di Marco Tronchetti Provera), de Bortoli aggiunge: “Alla Procura di Milano si sono irritati, e non poco, per come abbiamo trattato il caso Bruti-Robledo? Ancora pazienza”.
    Il dettaglio viene riferito da de Bortoli, come è nel suo stile, senza enfasi. Ma è difficile non coglierne la portata. Se de Bortoli dice che la Procura di Milano era “irritata” per le cronache (prevalentemente a firma di Luigi Ferrarella) sul caso Bruti-Robledo, significa che in qualche modo i vertici della Procura hanno fatto conoscere il loro sentimento ai vertici del ‘Corriere’. Può essere avvenuto in molti modi diversi – da una telefonata diretta a de Bortoli, una manifestazione di insofferenza verso Ferrarella, a un messaggio fatto arrivare di rimbalzo – ma poco cambia. Se un potere come quello giudiziario manda a dire a un organo di stampa (peraltro stampato a Milano, e quindi soggetto alla giurisdizione della procura milanese) di essere irritato, non può sfuggire il carico di un simile messaggio. Non occorre essere americani per ricordarsi che tra i doveri della stampa c’è quello di essere il cane da guardia del potere. Di tutti i poteri.

    Sarebbe interessante, a questo punto, capire cosa sia accaduto più precisamente. Le raccolte del ‘Corriere’ di questo ultimo anno sono lì a raccontare come in effetti il quotidiano di via Solferino abbia trattato la vicenda senza sconti per nessuno, raccontando meriti e colpe di entrambi i contendenti e dei loro supporter. Quando e come la Procura ha fatto sapere alla direzione del quotidiano di essere “irritata”? Potrebbe raccontarlo sicuramente Ferruccio de Bortoli, ma – interpellato sul punto – l’ormai ex direttore del ‘Corriere’ si trincera dietro un cortesissimo “no comment”. Nessuna risposta dai vertici della Procura: “Andate a chiederlo a de Bortoli”. Comunque sia andata la cosa, l’impressione è che lo scontro Bruti-Robledo sia stata non solo una brutta pagina della vita interna della magistratura ma anche dei rapporti tra informazione e giustizia. (orsola golgi)

  • Il sito del Tribunale creato coi soldi di Expo che nei week end si ‘spegne’

    Conoscete siti che offrono informazioni di interessi pubblico che si ‘spengono’ nel week end? Noi sì, quello del Tribunale di Milano.

    Per diverse settimane abbiamo monitorato al sabato e alla domenica la ‘voce’ sul web del Tribunale e ci siamo accorti che intorno alle 21 della sera di sabato e domenica, e sino alla mattina successiva, è impossibile navigare. Funzionano invece benissimo i siti della Procura e della Corte d’Appello di Milano: il primo è stato creato gratis, con risorse interne all’ufficio, il secondo da astegiudiziarie.com. Oltre che i siti dei Tribunali di Roma e Napoli, tanto per citarne due del rango di quello milanese.

    Il sito del Tribunale è un ‘figlio d’ Expo’.  E’ costato 265.295mila euro che fanno parte di quella marea d’oro elargita in nome dell’Esposizione Universale alla giustizia milanese. Soldi assegnati, senza gara, alla Camera di Commercio Nella determinazione dirigenziale datata 23 maggio 2013 col timbro di Palazzo  Marino si precisava che la scelta era caduta su questo ente, oltre che per rapporti di collaborazione precedenti col Tribunale, anche perché “in grado di garantire la massima segretezza e riservatezza, soprattutto in ordine alle notizie di cui verrà a conoscenza necessarie al fine di realizzare quanto richiesto”.

    In un documento su carta intestata della Camera di Commercio, di cui Giustiziami è venuto in possesso, c’è una spiegazione al black out del fine settimana: “è stato previsto lo spegnimento del sito del Tribunale dalle 21 alle 8 circa dei week end e dei giorni festivi, orari in cui più facilmente  possono verificarsi attacchi”.  Non si poteva proprio spendere meglio quei soldi? In fondo al sabato e alla domenica il sito della Cia funziona. (manuela d’alessandro)

     

     

     

  • Il giudice, la Questura sbaglia, i no Expo stranieri non vanno espulsi

    Per la Questura al corteo del primo maggio avrebbero potuto fare danni, per il giudice possono continuare a godersi la primavera italiana e partecipare alla manifestazione.  Non è la prima volta che Polizia e magistratura hanno visioni diverse, però questa è abbastanza clamorosa perché stiamo parlando dei primi potenziali ‘guastatori’ della festa dell’Esposizione Universale,  a tre giorni dal via, e non di gente che avrebbe preso mazzette per pilotare appalti.
    Tre tedeschi e un francese, indagati dalla Procura per detenzione di oggetti atti a offendere e occupazione abusiva di case popolari, erano stati identificati dalla Digos durante un blitz la notte scorsa al Giambellino, alla periferia della città. La Questura aveva poi chiesto di allontanarli dal nostro Paese, ma il giudice Olindo Canali, dopo un’udienza in cui li ha ascoltati uno per uno, ha deciso che non c’è nessuna prova del legame tra la loro presenza in uno degli spazi perquisiti e i picconi, le maschere antigas, i bastoni con le punte di ferro che sono stati trovati. Insomma, troppo frettoloso per il magistrato il provvedimento della Polizia che, denuncia il legale degli indagati, Eugenio Losco, “è stato firmato con un timbro ed era molto generico”.
    Il primo indagato straniero per Expo a comparire davanti alla magistratura  italiana è stato un tedesco di 56 anni, capelli e barba lunghi e candidi, come candide sono le risposte date al giudice Olindo Canali che deve decidere sulla sua espulsione dall’Italia. “Lei che lavoro fa?”, domanda con tono bonario il magistrato. Prima risponde il “dipendente”, poi, rivolto all’interprete, non si capisce se scherzando o serio: “Perché devo dire queste cose? Non voglio essere licenziato nel caso in cui risponda”. Canali sorride e poi lui affonda: “Se mi dovessero licenziare farei causa allo Stato italiano”.
    Tutto ciò è accaduto nella cornice di un’aula impreziosita da un dipinto con bandiere di tutto il continente firmato da Salvatore e Laura Fiume  e intitolato ‘La giustizia e la pace tra gli Stati d’Europa’. Certo, ora il buon Olindo Canali deve augurarsi che il primo maggio pace sia o, se dovesse essere guerra, non per mano del tedesco barbuto e degli altri da lui ‘salvati’,  due della stessa nazionalità e una ragazza francese. (manuela d’alessandro)
    *Il giorno successivo a questo articolo, in seguito a una nuova perquisizione della Digos e a una nuova richiesta di espulsione, lo stesso giudice Olindo Canali ha disposto l’allontanamento dei tre cittadini tedeschi.
  • Il vuoto di memoria di De Benedetti al processo contro Tronchetti

    Un vuoto di memoria roboante, tanto che in aula ci si guarda esterrefatti. Carlo De Benedetti, 81 anni pieni di verve, ‘dimentica’ nel processo in cui ha citato per diffamazione Marco Tronchetti Provera di avere patteggiato tre mesi di carcere per falso in bilancio quando era all’Olivetti.

    Davanti al giudice, ingaggia un duello aspro col legale  del Presidente di Pirelli, l’avvocato Tullio Padovani, osso durissimo, che passa in rassegna una per una tutte le frasi incriminate del suo assistito, tra cui questa: “De Benedetti è stato molto discusso per certi bilanci Olivetti”.   “Quell’affermazione  è falsa – protesta l’ingegnere  – nessuno ha mai impugnato i bilanci, erano integri e genuini”.  “Le chiedo – insinua allora Padovani –  se lei ha memoria di una sentenza di condanna nei suoi confronti da parte del Tribunale di Ivrea del 14 ottobre 1999, poi passata in giudicato, per falso in bilancio in relazione ai bilanci Olivetti”. “No, non ricordo di questa sentenza perché sarà finita nel nulla l’accusa”, risponde De Benedetti. E il legale: “Non è finita nel nulla, ma con una sentenza di patteggiamento a tre mesi di reclusione per falso in bilancio con risarcimento per l’Olivetti. Le imputazioni – precisa – si riferivano a delle trasformazioni contabili. Lei non ricorda di avere risarcito Olivetti?”. “No”, risponde ancora una volta l’ingegnere. “Eppure questo risulta dalla sentenza – insiste il legale – che mi riservo di produrre. Quindi i bilanci erano criminosamente falsi e lei patteggiò la pena”. In effetti, la sentenza di patteggiamento venne revocata dalla Cassazione nel 2003 perché il bilancio qualitativo non era più previsto dalla legge come reato, ma De Benedetti sembra proprio avere smarrito ogni memoria di quella vicenda. (altro…)

  • Video arresto di Bossetti, una vergogna per pm e media

    Le immagini dell’arresto di Massimo Bossetti, indagato per l’omicidio di Yara Gambirasio, erano nell’esclusiva disponibilità della procura di Bergamo e della polizia giudiziaria. Sono finite in tv e sui siti on-line in concomitanza con l’udienza preliminare in cui il gup ha deciso il rinvio a giudizio del muratore per il prossimo 3 luglio in corte d’assise. A protestare sono esclusivamente i penalisti in un comunicato in cui si scrive di “massimo degrado dell’informazione giudiziaria”. Parole giuste e sacrosante, che però hanno il torto di prendersela solo con chi pubblica, solo con una parte del circo mediatico giudiziario.

    C’è un problema enorme, emerso non solo in questo caso, per chi le informazioni e le immagini le passa ai giornalisti al fine di celebrare i processi sui media prima che nelle aule. L’accusa, pm e carabinieri, bara, per influenzare i giudici e la cosiddetta opinione pubblica in merito alla sorte di un uomo detenuto in attesa di giudizio e per la Costituzione innocente fino al giorno della sentenza definitiva. Quelle immagini, video e sonoro risalenti al 16 giugno 2014 nel cantiere in cui Bossetti lavorava, in un paese civile dovrebbero restare nel cassetto anche dopo l’eventuale condanna in Cassazione dell’imputato. Nessuna pena è comprensiva di gogna mediatica. Abbiamo assistito invece a una prova di inciviltà a livello giuridico, politico e umano da parte di chi indagando dovrebbe tutelare i diritti delle persone. Ci sarebbe materia per accertare quanto è accaduto sia da parte del Csm a livello disciplinare, sia da parte della procura di Venezia competente sulle vicende dei magistrati in servizio a Bergamo. Ci sarebbe materia per un comunicato da parte dell’Anm che per molto meno non esita a inondare le redazioni delle sue prese di posizione anche quando non avrebbe titolo alcuno e farebbe bene a tacere.

    La credibilità della giustizia italiana è molto bassa anche per fatti come questo. Ma non succederà nulla. Bossetti, colpevole o innocente che sia, non è nessuno e la sua immagine viene “elargita” in pasto a un’opinione pubblica già molto forcaiola e reazionaria, soprattutto per i comportamenti di magistrati, media e politica (frank cimini)

  • Pm Perrotti a capo dell’anticorruzione senza delega su Expo

    Da oggi Giulia Perrotti è il nuovo capo del pool anticorruzione alla procura di Milano ma non avrà la delega a coordinare le indagini su Expo. Così ha deciso il capo Edmondo Bruti Liberati che continua a tenere per sè la delega come aveva fatto dal momento in cui l’aveva tolta all’allora aggiunto Alfredo Robledo, poi trasferito a Torino dal Csm al culmine della guerra interna all’ufficio.

    Bruti quando aveva dimezzato in pratica l’incarico di Robledo cercò tra i suoi aggiunti qualcuno disponibile a prendere la delega relativa agli appalti dell’Esposizione, ma non trovò nessuno. Adesso che c’è formalmente un magistrato a ereditare l’attività che fu di Robledo, il capo dell’ufficio non cambia registro e il fatto è quantomeno anomalo in una grande procura. E appare addirittura grave considerando quello che era accaduto fino ad oggi nelle indagini su Expo. C’è chi maliziosamente fa osservare che tenendo presente la moratoria in atto dal punto di vista investigativo sulla materia il procuratore può benissimo trattenere la delega “perché tanto non c’è niente da fare”. (frank cimini)

    p.s. nella foto il cambio della targa dell’ufficio che fu di Alfredo Robledo.

  • La moratoria sulle indagini della Procura di Milano per Expo (e non solo)

    “Magari adesso il porto delle nebbie siamo noi”, dice un pm critico con la gestione della procura da parte del capo Edmondo Bruti Liberati, evocando la storica definizione che tanto tempo fa era stata utilizzata per gli inquirenti romani. “Moratoria per Expo” è la spiegazione che ormai da mesi gira per il quarto piano e sulla quale concordano anche diversi avvocati preoccupati innanzitutto per la mancanza di parcelle dai ‘colletti bianchi’.

    Expo ora è una sorta di patria da salvare. Non si può disturbare il manovratore, anche a costo di vedere accertamenti sul Padiglione Italia spuntare dall’inchiesta di Firenze. Ahi, Firenze, proprio l’autorità giudiziaria da dove approdò a Milano quella turbativa d’asta targata Sea poi “dimenticata” per 6 mesi in un cassetto e assegnata all’allora aggiunto Robledo quando la gara si era conclusa e le bocce tirate. (Sea, l’indagine mancata)

    L’indagine su Roberto Maroni sulle assunzioni e sui 6 mila euro di un viaggio a Tokio di una consulente che il governatore avrebbe preteso fossero sborsati proprio da Expo è chiusa da tempo, ma per la formalizzazione si è deciso di aspettare. Diciamo per non interferire con il taglio del nastro del prossimo primo maggio. Per le tangenti pagate lo stop è arrivato con i patteggiamenti di Gianstefano Frigerio e Primo Greganti figure della Prima Repubblica. Non è mai decollata un’indagine sul maxi appalto della Piastra, centro nevralgico dell’Esposizione. C’è anche chi maliziosamente afferma che se ne parlerà dopo il 31 ottobre, per non danneggiare il cosiddetto ‘sistema paese’ che a Parigi con Letizia Moratti e Romano Prodi sconfisse la terribile armata di Smirne.

    Ci sarebbe anche un’indagine sull’amianto alla Scala, pure questa pronta per essere chiusa con il deposito degli atti. Ma si aspetta. L’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale è un optional in realtà. Tempo al tempo. Prevalgono criteri di convenienza e di opportunità. Cioè la politica, da parte di una categoria che per il resto non perde occasione per rivendicare indipendenza e autonomia persino quando sul tavolo della discussione c’è il periodo feriale.

    E’ uno stringersi intorno a Expo che, pochi giorni fa, il sindaco Pisapia in tv ha precisato di aver solo ereditato. Ma quando si è in ballo bisogna ballare. E qui o si fa Expo o si muore. Intanto è morto di lavoro un operaio albanese. Il Corriere della Sera spara bordate contro i bamboccioni che avrebbero rifiutato stipendi da 1500 euro al mese. Poi si scopre che erano 500 euro per lavorare da mattina a sera, alle dipendenze di Manpower, azienda che qualche rapporto con via Solferino ce l’ha. Senza dimenticare i soldi che i mezzi di informazione, in testa la Rai, prendono da Expo e i fondi per la giustizia in relazione all’evento almeno fino a pochi mesi fa assegnati senza gare e con criteri poco chiari dai vertici del palazzo ( Appalti giustizia). Il presidente del Tribunale andato in pensione, Livia Pomdoro, è diventata ambasciatrice Expo. Tutti tengono famiglia, il paese intero è una famiglia le cui sorti dipendono dal buon esito dell’evento. Nella certezza ovviamente che in caso di “rosso” il deficit sarà ripianato dallo Stato con i soldi dei contribuenti. Il pezzo da pagare per aver sbaragliato Smirne. E meno male che non si trattava di New York. (frank cimini e manuela d’alessandro)

  • Il notaio al vigilante: “Ho una pistola, che faccio?”

    Il notaio va dal vigilante e mostra una pistola: “Ho il porto d’armi, cosa devo fare dopo quello che è successo?”. L’addetto alla sicurezza gli spiega che le regole non sono cambiate dopo la sparatoria, con la pistola non si può entrare dall’ingresso per il pubblico (in questo caso quello di via Freguglia). Si può invece fare con nonchalance attraverso gli ingressi riservati, e in effetti la domanda del professionista è solo uno  scrupolo. Prima di rivolgersi al vigilante si era già recato nell’Archivio Notarile del Palazzo con la sua pistola.
    L’episodio, avvenuto ieri, con protagonista il buon notaio che ha fatto coming out  è utile per meditare sulla presenza di persone armate all’interno della ‘casa della giustizia’, senza la divisa delle forze dell’ordine. “So che ci sono almeno quattro cinque avvocati – spiega un sorvegliante –  che entrano dai varchi riservati e girano armati perché hanno il porto d’armi. E noi non possiamo farci niente. L’unica soluzione definitiva sarebbe controllare tutti”. Ma qualcuno ogni tanto viene trovato con un’arma al metal detector? “”Sì – risponde l’uomo della sicurezza – negli ultimi mesi abbiamo fermato dopo un controllo anche un poliziotto in pensione e un investigatore privato che avevano una pistola”. (m.d’a.)
  • Aiello entra nel cda di Expo mentre difende Maroni per le nomine nella società

    Domenico Aiello è il nuovo consigliere di amministrazione di Expo. Una nomina inopportuna perché il legale difende Roberto Maroni in un’indagine in cui il Governatore è accusato anche di avere garantito in modo illegittimo un contratto di collaborazione a una sua ‘fedelissima’ nella stessa società. Aiello è anche il legale intercettato in quelle telefonate che sono costate ad Alfredo Robledo, allora procuratore aggiunto che si occupava di Expo,  la toga di pm e il trasferimento da Milano a Torino (Robledo – Aiello).

    Ora diventa consigliere di amministrazione indicato come dal Pirellone al posto di Fabio Marazzi. Siederà nel cuore decisionale della società assieme ai 4 rappresentanti degli altri soci: Giuseppe Sala, Diana Bracco, Alessandra Dal Verme e Michele Saponara.

    Roberto Maroni sceglie quindi di affidare  un incarico così importante,a  nove giorni dall’avvio dell’Esposizione Universale, al legale che lo difende nell’inchiesta coordinata dal pm Eugenio Fusco in cui il Governatore è accusato di pressioni indebite per far ottenere contratti con Eupolis ed Expo a due sue ex collaboratrici. Come avvocato della Lega, inoltre, Aiello  aveva manifestato una certa contrarietà nei mesi scorsi rispetto alla decisione di Matteo Salvini di non far costituire il Carroccio parte civile nel procedimento sui presunti rimborsi illegittimi che coinvolge anche la famiglia Bossi.  Una nomina di fiducia, non c’è che dire che per il Movimento 5 Stelle “ha un secondo fine da parte di Maroni dato che non ci sono apparenti motivi di merito”. (manuela d’alessandro)

     

     

     

     

  • L’emozione del primo giorno nell’aula riaperta dopo la sparatoria

    C’è quel momento di silenzio tra un’udienza e l’altra mentre nell’aula passeggia da sola un’avvocatessa bionda, aspettando i giudici. “Lui era lì, qui c’era il mio collega, scusi, ma oggi non è la giornata giusta per parlare, ho giù la voce”. Le basta uno sguardo per metterli tutti al loro posto: Lorenzo Claris Appiani al banco del testimone, stava per giurare di dire tutta la verità; Giorgio Erba, sulla sedia dell’imputato, voleva difendersi dall’accusa di bancarotta; e, in fondo, Claudio Giardiello, con la pistola in pugno.

    La prima mattina dopo la sparatoria, l’aula della seconda sezione penale si presenta illuminata dal sole, con l’aspetto lindo e compito di chi va incontro a un appuntamento speciale. Alle 9 e 30 entrano i giudici, lo stesso collegio di quel giorno, in mezzo c’è il Presidente, Teresa Ferrari da Passano, sul volto ha una piccola ombra. Quel giorno si rifugiò andando a carponi con gli altri giudici e il pm Luigi Orsi nella camera di consiglio. Chiede un minuto di silenzio per ricordare i naufraghi nell’abisso della ragione di Giardiello. L’aula si rimepie di emozioni. Il pm Fabio De Pasquale alla fine dell’udienza racconta: “All’inizio non è stato facile, poi siamo entrati nel tran tran di una giornata che più normale di così non si può. La prima udienza è stata rinviata perché non si è presentato un avvocato che poi è stato deferito al Consiglio dell’Ordine”.

    “Ecco, una cosa mi ha colpito”,  ci dice il  pm. “Per terra, sul pavimento, sembra che ci siano delle zone più lucide, come se fossero restate delle tracce delle  macchie di sangue”. Forse il sole fa brillare di più il pavimento in alcuni punti. Arriva anche un’udienza per bancarotta, come quel giorno. Tocca all’avvocatessa bionda che proprio non ce la fa, implora un rinvio perché fatica a parlare. “Allora rinviamo per dare la possibilità all’avvocatessa di avere la voce più squillante in quella data”. Per oggi l’aula può tornare nel silenzio, circondata dalle rose bianche e rosse. (manuela d’alessandro)

  • Cacciata dall’ufficio di Presidenza del Tribunale, “qui i giornalisti non possono starci”

    Cacciata dall’ufficio della Presidenza del Tribunale negli istanti successivi alla sparatoria perché “qui i giornalisti non possono stare”.  Abbiamo aspettato che si celebrassero i funerali delle tre vittime per raccontare un grave episodio che ha coinvolto una cronista dell’Ansa e il Presidente facente funzione del Tribunale Roberto Bichi, mentre non si sapeva se Claudio Giardiello si aggirasse armato per il Palazzo dopo avere sparso sangue.

    La giornalista, che da anni si occupa di cronaca giudiziaria, quella mattina non avrebbe dovuto essere in Tribunale perché era la sua giornata di riposo, ma intorno alle undici è arrivata per recuperare un documento lasciato nella sala stampa. Nel’atrio del terzo piano, mentre scambiava qualche battuta con dei giudici accanto alla lapide che ricorda Guido Galli, la collega viene travolta dai carabinieri con le pistole ad altezza d’uomo che corrono urlando: “Hanno sparato! Hanno sparato! Mettetevi al riparo!”. A quel punto, come ci ha raccontato, si è rifugiata con altri giudici nella vicina anticamera della Presidenza, dove si trovava anche Bichi. C’era una grande confusione e sembrava che stessero ancora sparando. Mentre arrivavano le prime informazioni, la collega si è sentita dire da Bichi: ‘qui i giornalisti non ci  possono stare’, ed è stata invitata  ad uscire. Spaventata, quando non era chiaro se Giardiello fosse ancora in Tribunale, la cronista è corsa verso la sala stampa nella quale si erano chiuse a chiave altre persone. Ha battuto i pugni sulla porta chiedendo di entrare mentre fuori c’era il coprifuoco. (manuela d’alessandro)

  • La sala stampa del Palazzo di Giustizia sta per chiudere

    “La sala stampa del Palazzo di Giustizia chiuderà a settembre”. L’annuncio, questa volta apparso implacabile rispetto ad altri analoghi negli anni passati, è stato dato sabato scorso dal Presidente del Gruppo Cronisti di Milano, Rosi Brandi, durante la cerimonia del ‘Premio Vergani’.

    Le testate giornalistiche non riescono a pagare l’esorbitante canone d’affitto di 14mila euro all’anno per la malmessa stanza di circa venti metri quadri che ospita i giornalisti da più di  due decenni. “Alcune aziende editoriali,  Poligrafici, Mediaset, La7, Il Fatto Quotidiano, nonostante le ripetute sollecitazioni”, si legge in una nota del Gruppo Cronisti, non versano la loro quota. Proprietaria dello spazio è l’Agenzia del Demanio (Ministero dell’Economia) che stipulò a suo tempo un contratto col Gruppo e  l’ha data in gestione al Comune di Milano. La cifra a carico dei giornalisti è salita nell’ultimo anno a causa dei continui lavori di manutenzione di tutto il Palazzo, e adesso la gestione della sala stampa pesa come un ‘rosso’ non più sostenibile sui bilanci del Gruppo. “Le aziende in difetto – spiega Rosi Brandi – verranno di nuovo sollecitate, ma se non si decideranno a dare il loro contributo la chiusura sarà inevitabile”.

    Una soluzione potrebbe essere l’abbassamento dell’affitto da parte del Demanio, altrimenti non resterebbe che cercare una nuova ‘casa’ all’interno del Palazzo per i cronisti. Nei mesi scorsi, era stata ventilata dalla Procura la possibilità di concedere gratis ai giornalisti uno spazio, ipotesi non gradita da alcuni per ragioni di opportunità. (manuela d’alessandro)

  • Contrada, l’Europa: concorso esterno inventato dai pm

    A pochi giorni dalla decisione con cui la corte di Strasburgo dei diritti dell’uomo aveva sanzionato l’Italia per non aver introdotto nel suo codice il reato di tortura, arriva dagli stessi giudici un altro colpo tremendo alla credibilità della nostra giustizia. La sentenza che condannò il poliziotto Bruno Contrada non fu legittima. L’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa non era all’epoca previsto dall’ordinamento. E, per giunta, non lo è nemmeno adesso. Il reato fu inventato dalle procure e accolto dai collegi giudicanti. Ma da allora la politica ha fatto nulla. Nè ha inserito il reato nel codice, né ha detto ai magistrati di applicare le leggi che ci sono, senza inventarne altre.

    Ironia della sorte buona parte di quelli che avevano applaudito la sentenza europea sulla “macelleria messicana” della scuola Diaz, adesso sulla nuova decisione sembrano molto meno entusiasti (eufemismo). E’ l’ennesima dimostrazione che questo è un paese pieno di garantisti sì, ma ognuno per i propri amici, pronto a utilizzare la clava del penale contro i nemici. E’ la continuazione della logica dell’emergenza, inaugurata per risolvere la questione della sovversione interna negli anni ’70 e poi diventata prassi di governo al tempo della mafia e di Mani pulite, fino ai giorni nostri.

    In questo disastro del diritto nell’ex culla del diritto le responsabilità di magistrati e politici pari sono e nessuno sembra in grado di porvi rimedio, dal momento che la norma appena varata sulla tortura appare di difficile applicazione (ancora eufemismo). Chissà cosa succederà adesso che bisognerà prendere atto della decisione di Strasburgo sul concorso esterno. Ovviamente la questione va molto al di là della sorte di Contrada al quale hanno distrutto la vita e che spera nel quarto tentativo di revisione del processo, anziano e malato.

    Contrada non è l’unico condannato per un reato che non esiste. I magistrati e i giudici hanno imboccato da decenni una scorciatoia per ovviare alla mancanza di prove. La politica e il Parlamento sono stati complici. Insomma non se ne esce (frank cimini)

  • Sicurezza? Ecco come abbiamo violato la sala server del Tribunale

     

     

    Pochi giorni prima della sparatoria, siamo entrati nella sala server del Tribunale che si trova nella palazzina di via Pace, la nuova ‘casa’ della giustizia milanese che sta sorgendo accanto al Palazzo. La foto che pubblichiamo documenta quanto sia stato facile violare la stanza dove è in costruzione quello che è destinato a diventare il ‘cervello’  informatico non solo della giustizia meneghina ma anche di quella italiana, insieme alle sale server di Roma e Napoli.

    Stavamo cercando informazioni sullo stato di avanzamento dei lavori finanziati coi soldi Expo che scontano un ritardo ormai di anni. Ritardo non quantificabile dal cittadino perché il cartello che, per legge, dovrebbe segnalare il termine di consegna dell’opera è sbiadito per il trascorrere del tempo. Avvicinandoci all’ingresso ci siamo resi conto che varcarne la soglia non presentava alcuna difficoltà. Nessuna opposizione nell’entrare e nel vagare per la sala server i cui lavori, come testimonia l’ immagine, dovrebbero essere in dirittura d’arrivo. Con altrettanta tranquillità siamo usciti da quello che dovrebbe essere un ‘santuario’ inviolabile, al punto che l’appalto per la sua costruzione è ‘segreto’ e non si sa neppure chi si sia aggiudicato i lavori, a differenza che per tutti gli altri sotto l’egida di Expo.  Nei mesi scorsi il Presidente della Corte d’Appello Giovanni Canzio, come riportava il ‘Corriere della Sera’, aveva inviato una lettera al Comune e al Ministero della Giustizia chiedendo di chiarire le ragioni del ritardo per la “realizzazione di una sala server destinata anche al funzionamento e alla sicurezza dei dati relativi”. Ora scopriamo che c’è un ritardo anche nel garantire la sicurezza del luogo. (manuela d’alessandro)

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  • Da avvocato dico che non era il momento di sventolare la toga

    Non era quello il momento di ostentare la propria toga.
    Mi dispiace dovere intervenire su un fatto tragico come quello vissuto da molti di noi nel Tribunale di Milano quella drammatica mattina del 9 aprile, solo un doloroso e rispettoso silenzio infatti avrebbe dovuto essere a parer mio garantito all’immenso dolore privato di chi è stato direttamente coinvolto nei suoi affetti più cari da una catastrofe così “assurda”.
    Ma quanto mi è toccato di sentire e di leggere “dopo” da parte di alcuni, anche autorevoli, rappresentanti di categoria (termine orrendo), siano stati magistrati oppure “colleghi” mi ha creato non poco disagio, perché bene o male in quel Tribunale ci lavoro anche io da anni, e dentro a quel Tribunale ci lavorano molti miei amici, magistrati e “colleghi”.
    Non mi importa per niente stabilire oggi “chi dei due abbia cominciato prima”, chi sostenendo che quell’efferata strage sarebbe stata figlia di un “clima ostile” e chi vantando invece la nobiltà della propria professione, magari evocando, entrambi, antiche figure di una storia passata dove inconcepibilmente assimilare, a seconda del dichiarante, storie tra loro così diverse come quelle del giudice Alessandrini o dell’avvocato Ambrosoli.
    L’impressione per chi leggeva e sentiva, o almeno così è stato per me, è stata quella di veder trasformare una tragedia ancora “a caldo” (ammesso che in un caso del genere ci possa mai essere un “a freddo”) in una pubblica rivendica di ruolo, se non addirittura di “eroismi” di categoria.
    Quanto sono soli e incompresi i magistrati e quanto sono nobili e fondamentali gli avvocati ed ecco perché rischiano la vita tutti i giorni in Tribunali privi di difesa, insomma, un morto per uno e pari e patta di pubblico memento sulle opposte ribalte del lutto e pace fatta, dopo gli inziali attriti, tra le due fazioni.
    Il dizionario suggerirebbe per tutto questo il verbo “strumentalizzare”, io non mi permetto di volere leggere cosa passava nella testa di chi subito dopo esternò. Forse la violenta emozione  per un fatto di tale eccezionalità ha giocato qualche brutto tiro a chi è stato indotto a dovere per forza dire a tutti i costi qualcosa di significativo, ma sta di fatto che come avvocato mi sono sentito un po’ in imbarazzo verso tutti quelli che pure lavorano ogni giorno in altre arti e mestieri. Poteva accadere ovunque e a chiunque.
    Una moglie straziata piangeva appena fuori dal Palazzo il marito freddato a pochi mesi dalla pensione ed il giorno dopo una madre dentro quel palazzo il proprio giovane figlio ad una pubblica commemorazione sentita e commossa di centinaia di partecipanti silenti e attoniti.
    Sono morte due persone, anzi per la verità tre, vi sono stati anche feriti, e una ulteriore famiglia, quella del “killer” (come si legge sui media), sta vivendo il peggiore degli incubi.
    Non era quello, a mio parere, il momento migliore per ostentare al mondo la propria toga, ma in Italia, si sa, le morti, soprattutto quando sono eclatanti, raramente inducono i più a commenti all’altezza della tragicità dell’evento.
    Davide Steccanella

  • I lavoratori ai vertici del Palazzo, “avete visto un film diverso sul dopo sparatoria”

    Cosa è successo a Palazzo di Giustizia negli istanti successivi alla sparatoria? All’assemblea convocata stamattina dai lavoratori nella ‘Sala Valente’ di fronte all’edificio del Piacentini abbiamo ascoltato due versioni. Una, rassicurante, è stata espressa dal procuratore Edmondo Bruti Liberati e dal Presidente della Corte d’Appello Giovanni Canzio, i quali hanno sottolineato come non si sia vista “nessuna scena di caos o panico”. “Non c’erano direzioni sicure in cui evacuare – ha spiegato Canzio – e i dipendenti hanno seguito l’indicazione di stare chiusi negli uffici. Il loro comportamento è stato un esempio di sobrietà e adeguatezza di fronte a un evento così tragico. “Per circa mezz’ora – è il racconto di Bruti – non sapevamo se Giardiello fosse nel Palazzo ma non c’è stato nessun panico. Quando è arrivata la notizia del suo arresto, il controllo del Palazzo era già stato quasi completato”.

    Molto diversa l’interpretazione data da diversi lavoratori che hanno preso la parola dopo Bruti e Canzio, che, nel frattempo, avevano lasciato la sala. “Io ho visto tutto un altro film – ha detto un esponente dell’Uilpa – Ero al piano terra dove c’era il caos totale. E’ vero, non ho visto persone che si strappavano i capelli, ma girava gente armata senza pettorina nè distintivo. Solo il buon senso ci ha suggerito di stare negli uffici”. “Il personale non è formato al piano di evecuazione – ha affermato un altro dipendente – ciascuno di noi, in casi come questo, dovrebbe sapere dove andare, per esempio si dovrebbe sapere come portare fuori un collega che ha delle disabilità. I corsi sull’evecuazione li fanno ai bambini di prima elementare, non è possibile che qui ci si affidi al passaparola o a una e – mail”. Su quanto accaduto, abbiamo raccolto anche la testimonianza di un militare che lavora ‘in borghese’ al Palazzo: “All’inizio non c’era nessun coordinamento, abbiamo preso le pistole ci siamo divisi tra noi le zone del Tribunale dove cercare Giardiello. Solo dopo molto tempo sono arrivati dei superiori che ci hanno dato indicazioni su come muoverci”. (manuela d’alessandro)

  • La mamma di Lorenzo: avvocati, non rendete vana la sua morte

    “Mi diceva sempre: ‘Mamma, lo sai che il nostro giuramento è il più bello di tutti, ma ti rendi conto cosa vuol dire la formula sulla consapevolezza sociale e sull’alta dignità della professione? Che senza di noi non ci sarebbero lo Stato, la famiglia, la comunità’”.

    Alberta Pisoni Brambilla è la mamma di Lorenzo Claris Appiani, l’avvocato di 36 anni caduto ieri sotto i colpi della Beretta impugnata da Claudio Giardiello. Era appena entrato nell’aula dove avrebbe dovuto testimoniare nel processo in cui il suo ex cliente Giardiello rispondeva di bancarotta fraudolenta. Anche Pisoni Brambilla è un avvocato, e anche il papà di Lorenzo lo è. Quando sale sul palco dell’aula magna dove si commemorano le vittime, la mamma di Lorenzo si stringe idealmente alla sua toga e a quella del figlio, e forse è questo che le da’ la forza per parlare davanti a centinaia di persone con le lacrime agli occhi. Il senso della sua, della loro professione, il senso di quello che la storia di Lorenzo deve lasciare. “Quando mio figlio ha giurato – ricorda – il discorso di accoglienza lo fece l’avvocato Biagi il quale esortò i neo avvocati a a non fare i ventriloqui, le marionette del cliente. Fate quello che è giusto per il cliente, diceva. Ecco, Lorenzo è morto perché non è stato una marionetta. Voglio che tutti gli avvocati siano orgogliosi della dignità della professione forense, così mio figlio non sarà morto per niente”. “Io sono la mamma di Lorenzo e Francesca, avvocato e giudice – dice la donna – nessuno meglio di me può sentire la necessità che questi mondi siano uniti. Francesca fa il giudice fallimentare a Pavia, come Ciampi lo ha fatto per tanti anni a Milano. Poteva rischiare anche lei, ma è morto mio figlio. Lorenzo, che era così orgoglioso del suo lavoro e della sua missione sociale”. In piedi, tutti hanno applaudito questo ragazzo che coltivava passione. (manuela d’alessandro)

  • Cronaca di una giornata di morte nel Palazzo

    Mancano pochi minuti alle undici quando il tranquillo via vai di una mattina di sole nel Palazzo di Giustizia di Milano viene trafitto da improvvisi colpi di pistola. “Hanno sparato! Hanno sparato!”, si sente urlare nei corridoi. Qualcuno corre senza una meta, altri vanno a barricarsi negli uffici. I volti di tutti sono terrei.

    Un uomo, Claudio Giardiello, 57 anni, ha appena finito di ‘regolare’ i conti col suo destino di imprenditore fallito con 13 colpi esplosi da una pistola Beretta. Il tremendo copione viene svolto in due momenti. Un  primo atto nell’aula al terzo piano dove è in corso il suo processo per bancarotta: qui uccide Giorgio Erba, coimputato per il crac dell’Immobiliare Magenta di cui Giardiello era socio di maggioranza, e il suo ex avvocato, Lorenzo Alberto Claris Appiani, che nell’udienza di oggi era chiamato a testimoniare. Sempre in aula ferisce Davide Limongelli (socio di Giardiello). Scendendo al secondo piano, gambizza sulle scale Stefano Verna, commercialista testimone del processo sul fallimento.

    “Claris Appiani  – è il racconto dell’avvocato Gian Luigi Tizzoni, presente in aula –  non ha neanche finito di leggere la formula del giuramento, che è stato colpito dai proiettili. Ho sentito un botto pazzesco, poi ho visto il braccio di Giardiello proteso, non ho capito se verso il pm Luigi Orsi o verso il testimone. Tutti ci siamo diretti verso la camera di consiglio, io ho preso con me l’avvocato di parte civile, che era immobile, incredula”.

    Giardiello sta per lasciare il Palazzo, quando ci ripensa e torna indietro. Vuole chiudere l’estremo ‘conto’ con chi ritiene gli abbia distrutto la vita. Il giudice Ferdinando Ciampi in quel momento sta parlando con la sua cancelliera perché la stampante non funziona. Ha 75 anni, a dicembre andrà in pensione, dopo una vita spesa a far di conto sui bilanci delle società fallite. Giardiello entra senza problemi nella stanza e fredda Ciampi con due colpi sotto gli occhi dell’impiegata. Sotto gli eleganti marmi del Piacentini ora è il terrore. Decine di carabinieri e poliziotti, alcuni in borghese perché lavorano negli uffici del Tribunale, cercano il killer in ogni angolo del vasto edificio. Il personale viene invitato a restare chiuso nelle stanze, mentre gli ingressi vengono bloccati.  C’è chi manda sms ai parenti per rassicurarli. Circa un’ora dopo, Giardiello viene fermato a Vimercate, dove risiede, e ai carabinieri  confida di volere uccidere ancora un’altra persona nel suo paese “per vendicarsi”. Dopo un breve ricovero per un calo di pressione, decide di non rispondere alle domande dei magistrati. L’inchiesta, condotta dalla Procura di Brescia (che è competente sulle indagini relative al tribunale di Milano), dovrà chiarire come Giardiello sia potuto entrare in tribunale con una pistola. Le telecamere hanno ripreso il killer mentre parcheggiava il suo scooter in via Manara (accesso secondario del Palazzo di Giustizia) e mentre entrava dall’ingresso alle 9.19. “Dalle analisi dei filmati – ha detto il procuratore Bruti Liberati –  si vede che mostra qualcosa, evidentemente un falso tesserino di riconoscimento”. All’ingresso di via Manara, ha spiegato ancora il magistrato, non c’è un metal detector, “perché si tratta di un ingresso riservato solo al personale, magistrati e avvocati”. Il Ministro della Giustizia Andrea Orlando ha assicurato che saranno individuate “eventuali falle nel sistema disicurezza”. Nel pomeriggio, magistrati e avvocati si sono riuniti in aula magna per ricordare con un minuto di silenzio le vittime. E mentre Vinicio Nardo, ex presidente della Camera Penale, ricorda le ultima parole alla madre del giovane Claris Appiani, 36 anni (“Vado a testimoniare, nella vita ci vuole coraggio”), alcuni magistrati dell’Anm sostengono che il “clima mediatico poco simpatico” sulle toghe potrebbe avere influito sullo scempio di oggi. (manuela d’alessandro)

  • Nuovo scontro, pm contro Bruti su nomine anti terrorismo

    Non è finita, e che potesse davvero finire ci ha creduto solo il Csm quando ha cacciato Alfredo Robledo da Milano.

    Questa volta all’ombra dei marmi del Piacentini ci si accalora sulla nomina da parte di Edmondo Bruti Liberati del pm Enrico Pavone al quarto dipartimento che si occupa di terrorismo e reati informatici. E non è così importante capire chi ha ragione e chi ha torto, ciò che conta è la sensazione di una Procura ancora livida di tensioni.

    Ma veniamo alla nuova polveriera. Dopo l’addio all’esperta in eversione Grazia Pradella, migrata a Imperia, si era aperto un concorso interno per scegliere un sostituto.  In fila per conquistare un posto erano in sette ma alla fine il capo ha scelto il 18 marzo scorso Pavone. A tre degli ‘sconfitti’, Francesco Cajani, Paola Pirotta e Alessandro Gobbis, non è piaciuta la modalità con cui Bruti ha selezionato il pm, a loro dire senza motivare la scelta tant’è che nel provvedimento di nomina non risulta traccia formale della loro bocciatura. I tre hanno investito delle loro perplessità il Consiglio giudiziario che nei prossimi giorni convocheràMaurizio Romanelli, capo del pool, per ascoltare la sua versione e  dovrà anche pronunciarsi sulla possibile irregolarità della nomina di Pavone, il quale non avrebbe trascorso, come prevede il Csm, due anni in un dipartimento prima di passare a un altro.

    Vi chiederete: ma perché quei tre volevano prendere il posto di Grazia Pradella quando già stanno nel quarto dipartimento? Perché ritengono di essere stati emarginati in questi mesi dalle inchieste di terrorismo e ‘costretti’ a occuparsi per lo più di reati informatici. E perché erano emarginati? Forse, azzardiamo, in quanto considerati ‘roblediani’ ? Che fosse o meno così – Bruti rivendica la correttezza della sua scelta (“Sono state rispettate le regole, le domande erano inammissibili ed era giusto assegnargli meno fascicoli di terrorismo “) –  rieccoci al punto di partenza. Il Csm, che da mesi tergiversa sull’incompatibilità ambientale di Bruti, come ha potuto credere di risolvere una frattura così profonda in Procura solo cacciando Robledo? (manuela d’alessandro)

  • Ruby ter, i pm da Fabrizio Corona
    Video bunga bunga? Non ne ho visti

    Il sospetto l’aveva insinuato già a fine 2010 durante la pausa di un suo processo. “Ci sono le fotografie delle feste ad Arcore. Se io avessi continuato a lavorare…”.

    Fabrizio Corona di fotografie e video se ne intende. Di solito li raccoglieva e li proponeva ai paparazzati in cambio di denaro. “Un favore se le foto erano brutte”, a suo modo di vedere le cose. Di foto del bunga bunga ad Arcore, però, se ne sono viste veramente poco. A parte un paio di scatti di una stanza vuota con il letto sfatto, niente. Al più immagini ammiccanti delle Olgettine, scattate con il telefonino e piuttosto fuori contesto.

    Eppure Corona era convinto che quelle fotografie compromettenti esistessero e che semmai fossero state fatte sparire per convenienza. Che le ragazze le avessero imboscate eventualmente per poterle usare come strumento di ricatto nei confronti di un soggetto che in effetti, fino a tempi recenti, è sempre stato ben disposto a retribuire le sue amiche. In cambio del silenzio? È quello che sospettano gli inquirenti dell’inchiesta Ruby ter. I quali, per dovere di completezza investigativa, si sono presi la briga di andare a sentire Fabrizio Corona in carcere a Opera, come testimone. L’ex re dei paparazzi avrebbe solamente confermato che le voci sulla presunta esistenza dei video erano insistenti, nell’ambiente dei vip da copertina di rivista patinata. Ma che lui non ne aveva mai visti. E che, per quanto a lui noto, poteva anche trattarsi di rumors infondati. Forse il segnale migliore Corona l’ha dato sulla propria consapevolezza di quel che gli sta succedendo. In carcere ha messo da parte gli abiti del bullo, ogni giorno legge da cima a fondo i quattro quotidiani che ha a disposizione, e molti libri. Un Corona ‘rieducato’? Sembrano lontani i tempi in cui scorrazzava in Bentley e dettava tempi e modi – non sempre leciti – degli scoop fotografici. Ma le dinamiche di quel mondo le conosce ancora benissimo.

  • Moro, ma quanto costa ai cittadini l’ennesima inchiesta sui “misteri”?

    In questi giorni Antonio Marini, procuratore generale facente funzione di Roma, sta interrogando tutte le persone già condannate da tempo con sentenza definitiva per il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro e della sua scorta. Siamo a 37 anni dai fatti. Ma la caccia ai misteri inesistenti e a chi c’era dietro le Br sembra proprio non demordere. In più c’è una guerra interna alla magistratura, dal momento che Marini ha ereditato l’inchiesta dal collega Luigi Ciampoli andato in pensione e dopo averlo criticato per non avergli affidato il fascicolo. Ciampoli ha chiesto l’intervento del Csm per dirimere il litigio.

    Ciampoli aveva chiesto l’archiviazione in relazione all’ormai  famosa moto Honda a bordo della quale secondo i dietrologi ci sarebbero stati appartenenti ai servizi segreti. Marini ha ottenuto dal gip la restituzione del fascicolo per continuare a indagare tra l’altro su un dettaglio in realtà già chiarito in atti nel 1998. Al momento dei fatti non c’era nessuna moto. Una moto era passata in precedenza e a bordo c’erano due militanti dell’Autonomia romana. I due erano lì per caso, furono sentiti sia pure a distanza di anni. Uno nel frattempo è pure deceduto e anche per questo Ciampoli aveva chiesto di archiviare.

    La guerra interna alla procura generale costerà ai contribuenti italiani un bel po’ di soldini e si somma sia alla smania di protagonismo dei magistrati sia alla dietrologia che sul caso Moro è già stata utilizzata da non pochi per costruire notorietà, carriere, fortune personali e addirittura seggi parlamentari. In tempi di tanto conclamata spending review non è poco.

    Bisogna aggiungere che la commissione parlamentare sulla strage di via Fani, nella sua ennesima riedizione, recentemente aveva spedito sul posto la polizia giudiziaria “per ricostruire la scena del crimine” con un laser. Sempre 37 anni dopo, ripetiamo.

    Magistrati e politici stavolta sembrano uniti nella lotta nell’ostinarsi a non voler prendere atto dei fatti nudi e crudi. Dietro le Br c’erano solo le Br, un gruppo di operai delle fabbriche del nord insieme a giovani romani, tutti comunisti. L’unicità di questa vicenda a livello mondiale sta nella circostanza che allora, 1978, altri comunisti erano in maggioranza di governo. Anche per questa ragione dietrologia e complottismo hanno avuto gioco facile nel suscitare attenzione nonostante l’assenza di riscontri sia pure minimi. Che dire? L’unica a questo punto è ricordarsi delle parole profetiche di Aldo Moro: “Il mio sangue ricadrà su di voi”. (frank cimini)

  • “Non passa lo straniero”, Steccanella dipinge di rosa il calcio autarchico

     

     

    In porta ‘Kamikaze’ Giuseppe Palazzi, il numero uno del Bari che non usava mai i guanti. In difesa, Giovanni ‘Nini’ Udovicich, dal 1958 al 1976 sempre con la maglia azzurra del Novara, il calciatore più bandiera di tutti nelle figurine di quegli anni. A centrocampo, il ‘poeta’ Enzo Vendrame che vicino alla linea di porta tornava indietro per “salvare un’emozione” (diceva). Sulla fascia, il ‘marziano’ della Samp Alviero Chiorri: giocava con gli scarpini spaiati e ora folleggia a Cuba. In attacco l’interista Sandro Vanello, il calciatore più abbronzato e donnaiolo d’Italia. Stiamo sfogliando lo sfavillante album degli “eroi dimenticati” allestito da Davide Steccanella nel suo racconto sugli anni (1966 – 1980) del calcio autarchico italiano, quando le frontiere vennero sigillate dopo l’umiliazione degli azzurri ai mondiali contro la Corea del Nord.

    C’era una volta che in panchina al massimo si siedevano due calciatori e alle sfide ai rigori le squadre potevano decidere di far tirare i penalty sempre dallo stesso giocatore. Il piccolo Davide, poi avvocato, esordì a San Siro scattando decine di fotografie a Gigi Riva che sfidava col suo Cagliari tricolore il Milan di Nereo Rocco. “Per l’emozione non usai lo zoom e nelle foto apparve solo un gran manto verde del campo con degli omini piccolissimi, lontani, quasi surreali…”.  Quegli ‘omini’ ora ci appaiono giganteschi protagonisti di un libro affatto nostalgico ma cronaca gioiosa e ispirata da uno stile che rimanda a quel Sandro Ciotti capace di introdurre le partite con espressioni quali “inapprezzabile ventilazione” sul campo di gioco. Ciascuno dei capitoli intitolati con l’anno del campionato si sofferma su vincitori e vinti, offrendo ‘chicche’ e statistiche. La goduria però arriva alla fine di ogni resoconto con le storie degli “eroi dimenticati”, figurine che riemergono spensierate e intatte coi più bei colori della nostra infanzia. Davide riesce a incollarcele per sempre sul cuore. (manuela d’alessandro)

    Davide Steccanella – “Non passa lo straniero (ovvero quando il calcio era autarchico)”. Edizioni Jouvence, pagg. 153, euro 14.

  • Inchiesta sull’acido, quando il pm scava davvero

    Di sè ha sempre detto: “Sono un contadino piemontese”. E stamattina il pm Marcello Musso lo ha dimostrato durante il sopralluogo nelle campagne a sud est di Milano, per la precisione a Viboldone, alla ricerca di un martello che sarebbe stato usato da Andrea Magnani, uno dei giovani indagati per le aggressioni con l’acido. Il pm aveva disposto che gli agenti dell’ufficio prevenzione generale della Questura e della polizia scientifica portassero “un metal detector utile per la ricerca del martello o della mazzetta che Magnani afferma di avere gettato insieme a ogni altra traccia del delitto commesso in via Carcano”. Ma, spinto dall’impetuosa energia investigativa che certo non gli fa difetto, Musso si è tirato su le maniche e ha affondato la pala nel terreno. (manuela d’alessandro –  foto per gentile concessione di franco vanni)

  • Addio all’avvocato Guiso, difese Curcio e Craxi

    Se ne va a 82 anni l’avvocato Giannino Guiso, un protagonista dei processi politici nel nostro paese, una sorta di Verges* italiano. Dai giorni drammatici del sequestro Moro quando per conto del Psi come avvocato di Renato Curcio cercò di intavolare una trattativa per salvare la vita dell’esponente democristiano fino a Mani pulite dove come legale di Craxi, insieme a Enzo Lo Giudice anche lui scomparso di recente, si scontrò duramente con il pool della procura di Milano.

    “Un giorno la storia giudicherà chi ha cercato di giudicare Craxi” furono le sue parole dopo la morte del leader socialista. Guiso tentò nelle aule giudiziarie ma anche fuori di far emergere che Craxi era il caprio espiatorio in relazione a un fenomeno come il finanziamento illecito dei partiti ben noto a un’intera classe politica ma che per decenni quasi tutti avevano finto di ignorare.

    Guiso attraversò in pratica quelle che furono insieme alla mafia le principali “emergenze” della storia italiana e che fanno sentire ancora oggi il loro peso su una amministrazione della giustizia incapace, nonostante i tanti progetti di riforma, di risolvere i suoi problemi.

    Anche in tempi recenti aveva ribadito la sua convinzione, Moro poteva essere salvato, se la politica avesse fatto in pieno il suo mestiere senza delegare interamente alla magistratura la risoluzione del problema della sovversione interna. A Guiso era chiaro che dalla madre di tutte le emergenze in poi si era ristretto il diritto di difesa e i codici erano stati strumentalizzati dai magistrati per aumentare il loro potere a scapito dei politici.

    L’avvocato sardo diceva di apprezzare in particolare il Craxi di Sigonella che si scontrò con gli americani per difendere la sovranità del paese. Guiso se ne va mentre i problemi che aveva segnalato in tutta la sua vita professionale sono lontani dall’essere risolti. Criticava aspramente i magistrati ma anche la politica che si era consegnata mani e piedi alle toghe. Spiegava sempre che il diritto non può essere uno strumento di trasformazione della società. Predicava per molti versi nel deserto, ma lo ha fatto con grande generosità, con discorsi che andavano al di là della posizione del cliente di turno patrocinato al momento. Guiso aveva una visione complessiva e per questo perse la sua battaglia per salvare la vita prima di Moro e poi di Craxi (frank cimini)

    *Jacques Verges, l”avvocato del diavolo francese che difese terroristi di destra e di sinistra

     

  • Sky1992, mancano i congiuntivi massacrati dall’Eroe e tanto altro

    L’attore che impersona l’Eroe di Mani pulite parla un italiano molto corretto, troppo, ripensando ai congiuntivi massacrati allora e pure adesso da Tonino da Montenero di Bisaccia. E manca tanto altro, tantissimo, considerando che si ha la pretesa da parte di Sky di raccontare a chi allora non c’era cosa accadde nel mitico 1992.

    Sembra che la storia del mondo inizi con l’arresto di Mario Chiesa. Bisognava spiegare innanzitutto che la corruzione c’era pure prima del 1992 e che gli uffici giudiziari, compresa la procura di Milano che poi per anni avrà in mano le sorti del paese e per certi versi ce l’ha ancora purtroppo, facevano finta di non vederla.

    Perché non era ancora scattata l’ora x, il momento propizio. Che poi arriva. Accade, al di là dei riferimenti alla caduta del muro di Berlino, quando le toghe si rendono conto che la politica si è indebolita, che ha meno consenso tra la “gggente”. A quel punto scatta l’aggressione, perché i magistrati hanno da andare all’incasso, riscuotere il credito acquisito anni prima quando i politici delegarono completamente la risoluzione del problema relativo alla sovversione interna, il cosiddetto “terrorismo”.

    E’ la storia dell’infinita emergenza italiana diventata prassi di governo dagli “anni di piombo” passando per i professionisti dell’antimafia fino a Mani pulite e oltre. Con il codice di procedura penale usato come carta igienica, la carcerazione preventiva finalizzata ad acquisire prove.

    E speriamo che dalle prossime puntate emerga il ruolo dei giornali che erano di proprietà di imprenditori non certo editori puri che erano sotto schiaffo da parte del pool per le loro attività e che appoggiarono l’inchiesta in cambio dell’impunità. Un do ut des perfetto. Speriamo. L’inizio della fiction non promette nulla di buono. Anzi (frank cimini)

  • Farsopoli, Moggi creò un’associazione a delinquere da solo

    Dopo 9 anni la Cassazione decreta la prescrizione dell’accusa di associazione per delinquere a carico di Luciano Moggi, assolvendolo dalle frodi sportive. L’associazione Lucianone però la creò da solo. Di 8 arbitri coinvolti all’inizio è stato condannato solo De Santis che aveva rinunciato alla prescrizione mentre per Racalbuto il tempo era già scaduto in appello. Su 50 partite investigate ne restano cinque ma in tre casi gli arbitri sono stati assolti. Tutti i giudici fin qui hanno affermato che il campionato non fu alterato e il sorteggio non fu truccato.

    Insomma il messaggio che arriva dalla Suprema Corte è chiaro: sarebbe stato troppo azzerare tutto. Per cui c’è la soluzione all’italiana: si prende atto che è passato troppo tempo. E intanto si potrebbe aggiungere che abbiamo scherzato.

    Un processo abnorme nato da un’indagine dove i magistrati e la polizia giudiziaria a Napoli avevano selezionato accuratamente le conversazioni intercettate privilegiando quelle di Moggi e nascondendo per esempio quelle di un’altra società, già specializzata in passato in plusvalenze, fondi neri e passaporti falsi che nulla vinceva prima di Farsopoli, nulla vince esaurito l’effetto di quanto accadde nel 2006 e che per sperare di tornare a vincere dovrà puntare su qualche altro imbroglio mediatico-giudiziario.

    Insomma siamo alla Mani pulite in salsa calcistica. Anche lì alla fine pagarono solo alcuni, in particolare uno e per giunta pure con la vita, mentre altri se la cavarono e ci fu pure chi venne beatificato.

    Tornando al pallone, quella bufera basata sul nulla servì per falsificare alcuni campionati di serie A e uno di serie B e per vedere la nazionale eliminata al girone in due mondiali consecutivi. Quando c’era Moggi invece il torneo iridato registrò per puro caso crediamo una finale in cui metà dei calciatori erano stati acquisiti prima o dopo in operazioni condotte da Big Luciano. Fu Italia-Francia cioè Juve A contro Juve B. Poi John Elkann, evidentemente stanco di vincere, diede il la alla diffusione di intercettazioni già cestinate dalla procura di Torino come irrilevanti. L’erede temeva che Moggi gli scalasse la società. E comunque fu gloria per Francesco Saverio Borrelli, Guido Rossi e altri che riscrissero pure la storia del calcio dopo quella del paese, imitati poi dai magistrati di Napoli. La Cassazione ha preso atto e sembra inutile aspettare le motivazioni. (frank cimini).

  • Da giudice vi spiego perché la riforma Renzi non è una catastrofe

    Le proteste e le mobilitazioni, si è parlato addirittura di uno sciopero, dell’Associazione Nazionale Magistrati e delle sue correnti dopo le leggi sulla riduzione delle ferie e sulla responsabilità civile dei giudici devono essere comprese nel loro reale significato. La posta in gioco non è qualche giorno in più o in meno di ferie estive e non è nemmeno il timore di essere trascinati in un giudizio di risarcimento dai propri ex imputati.

    Lo scontro è essenzialmente simbolico, una prova nei rapporti di forza tra poteri. La magistratura, con lo spazio che si è conquistata nella vita del Paese, grazie ai demeriti altrui (del ceto politico – amministrativo in particolare), ai propri meriti e anche a dispetto di suoi torti non marginali, non intende essere declassata da “Potere giudiziario” a semplice “Ordine giudiziario”, come peraltro scritto con qualche ambiguità nell’articolo 104 della Costituzione. Dalla posizione conquistata, in sostanza, non intende rinunciare ad una sorta di “privilegio” non scritto di farsi da sé le norme che regolano la sua attività, tramite il Csm soprattutto, facendole al posto del Parlamento che dovrebbe promulgare solo quelle che la magistratura stessa approva. E tantomeno intende subire un declassamento dal Governo che è seguito ai governi di centrodestra che la magistratura stessa con le sue indagini ha obiettivamente tanto contribuito a far scomparire. (altro…)

  • Se il giudice manda le mail in carcere al detenuto…

    Si può affidare la libertà di un uomo a un clic? Si può dire a un detenuto che deve stare in carcere notificandogli il provvedimento via PEC (Posta Elettronica Certificata) alla casa circondariale?

    L’avvocato Michele Monti chiede di annullare la revoca della sospensione condizionale della pena per il signor T. Y. perché, al contrario di quanto sostenuto dal giudice dell’esecuzione, il suo assistito non sarebbe stato “correttamente” avvisato della decisione.

    Nel ricorso alla Cassazione, il legale sottolinea che “le notifiche all’imputato non possono eseguirsi a mezzo PEC” (la legge sembra molto chiara nell’escluderlo) e che “anche a voler concedere che un primo passaggio possa essere rappresentato da una notifica telematica dalla cancelleria del giudice alla casa circondariale le norme processuali, in caso di imputato detenuto, impongono la notifica mediante consegna di copia alla persona”.

    Secondo il giudice invece “il rapporto di trasmissione telematica da cui risulta l’avvenuta consegna al sistema informatico della casa circondariale  carcere di Cremona  equivale alla consegna a mani del detenuto“. Ma non c’è prova che il signor T. Y. abbia ricevuto la notizia della fissazione dell’udienza camerale che gli avrebbe consentito di essere sentito dal magistrato di sorveglianza o di depositare delle memorie difensive. Anche perché, leggendo il verbale firmato dal cancelliere milanese, si deduce che nel giro di un secondo chi ha ricevuto la mail in carcere l’abbia stampata e consegnata di persona al detenuto. (manuela d’alessandro)

  • Da Milano a Brescia a occuparsi di colleghi appena lasciati, Csm: ok

    Da Milano a Brescia a occuparsi di indagini che vedono i colleghi appena lasciati come indagati o parti offese, ma per il Csm è tutto ok. Accade questo. In sede di commissione il Csm ha proposto come procuratore aggiunto a Brescia il pm milanese Carlo Nocerino. Nella città della leonessa c’è già un altro aggiunto Sandro Raimondi, anche lui proveniente da Milano, incaricato di trattare i fascicoli in cui sono coinvolti magistrati in servizio nel distretto di Milano. E con ogni probabilità sarà affiancato da Nocerino. Ovviamente qui non è in discussione l’onestà personale di Raimondi e Nocerino. Il problema è che l’organo di autogoverno della magistratura avrebbe dovuto tenere presenti ragioni di opportunità e di trasparenza.

    E’ giusto che un magistrato si trovi a dover decidere la sorte di colleghi che certamente conosce e con cui ha lavorato fino a pochissimo tempo prima? Non sarebbe stato meglio evitare soprattutto di mettere in imbarazzo un magistrato che va a lavorare proprio nella sede titolare dei cosiddetti “articoli 11”? Non mancavano di certo altre candidature altrettanto autorevoli per il posto da aggiunto a Brescia che sarà lasciato libero da Fabio Salamone che scade per la regola dell’ultradecennalità. E’ il caso di Roberto Di Martino, attuale capo della procura di Cremona, coordinatore delle indagini sul calcio scommesse, e di Francesco Piantoni, pm a Brescia da molti anni.

    Carlo Nocerino è un magistrato di grande esperienza che nel recente passato si è occupato dei casi Enipower e Parmalat quando era nel dipartimento relativo ai reati societari e prima ancora delle indagini sull’omicidio di Maurizio Gucci. E’ a Milano da moltissimi anni. Il Csm accogliendo la sua domanda di fare l’aggiunto a Brescia, nel caso l’ok della commissione dovesse essere confermato dal plenum, potrebbe metterlo in una situazione di non serenità, di imbarazzo. Evidentemente avranno pesato altre valutazioni, senza rispettare il principio che un magistrato, anche e forse soprattutto quando deve giudicare il comportamento di colleghi, non solo deve essere ma apparire indipendente, nel senso di non essere condizionato da rapporti di conoscenza, amicizia frequentazione. (frank cimini)

  • 19 anni e milioni di euro dopo, l’aula bunker di Opera non è finita e fa ruggine

     

    Quando iniziarono a progettarla, Michael Johnson bruciava ogni record alle Olimpiadi di Atlanta e Antonio Di Pietro decideva di entrare in politica. Correva l’anno 1996. A Milano, sull’onda lunga di ‘Tangentopoli’, si pensava in grande con la costruzione di un’aula bunker vicino al carcere di Opera dove celebrare i maxi processi. Diciannove anni, molti appalti, molti milioni in lire e in euro dopo, quel progetto è diventato un osceno prefabbricato in calcestruzzo a cui si sta cercando con molta fatica di ridare una dignità. La Procura Generale e la Corte d’Appello di Milano hanno presentato un esposto alla Corte dei Conti e uno alla Procura della Repubblica per capire cosa sia successo.

    Un gioiello tra i fontanili

    Opera è un comune appena fuori Milano, famoso per il suo carcere, uno dei più vasti in Italia e quello col maggior numero di detenuti con l’arcigno regime del 41 bis. Il progetto elaborato dal Provveditorato lombardo alle Opere Pubbliche prevedeva di affiancare alla prigione, costruita negli anni ottanta, un edificio con un interrato riservato alle celle e due piani in grado di contenere due aule bunker e le camere di consiglio con bagni annessi.

    L’area destinata all’iniziativa è la verde campagna attorno al centro abitato dove scorrono ameni fontanili, un dettaglio che, come vedremo, non verrà tenuto in giusto conto nel piano originario. La grandeur iniziale porta ad immaginare anche un parcheggio e una strada lunga circa 300 metri che consentano ad avvocati, magistrati, forze dell’ordine e pubblico di raggiungere il bunker. Il costo dell’intervento, compresi gli oneri di esproprio e urbanizzazione (marciapiedi, linea telefonica, reti di collegamento fognario), viene valutato in 12 miliardi e 644milioni di lire. Si parte a rilento con la prima pietra posata solo nel 1999 e si va avanti peggio. Sorgono problemi di varia natura con le imprese che si sono aggiudicate i lavori e nel 2002 viene stipulato un nuovo contratto di appalto. La Commissione di manutenzione della Corte d’Appello di Milano e il Provveditorato ritoccano il progetto, eliminando una delle due aule bunker previste per fare spazio a una zona archivio. Nel 2006  la direzione dei lavori comunica che entro un paio di mesi sarebbero stato completato il primo lotto ma esige un altro finanziamento di 5 milioni e mezzo di euro. L’epilogo dei lavori viene spostato all’inizio del 2010.

    Scende la pioggia nel bunker    

    Il Ministero della Giustizia sborsa la somma richiesta mettendola a a disposizione del Provveditorato che, a luglio 2011, annuncia un ulteriore ritardo nel completamento dell’opera. C’è un intoppo non da poco. I locali sottoterra si allagano a causa dell’innalzamento della falda freatica e una perizia accerta che i lavori non potranno essere completati prima del giugno 2012. Troppo ottimismo. Una delle due imprese impegnate nel cantiere va in liquidazione volontaria e le bizze della falda provocano infiltrazioni d’acqua dal tetto. Caos. Una seconda perizia dimostra che l’impermeabilizzazione del tetto eseguita a suo tempo non è più idonea. A novembre 2013 la società che sta portando avanti i lavori, una ditta veneta, stila un elenco delle opere ancora da realizzare e rassicura la Corte d’Appello che non ci sarà bisogno di nuovi finanziamenti. Previsione smentita perché sei mesi dopo sembra emergere la necessità di denaro fresco. Finalmente qualcuno nel Palazzo di Giustizia decide di interessarsi della vicenda. Nella primavera del 2014, alcuni magistrati effettuano un sopralluogo del cantiere. L’esito è drammatico: il cantiere appare abbandonato e le opere portate a termine sono in stato di degrado.

    La promessa del Provveditore

    “Io sono arrivato nell’aprile del 2012, questa cosa era già qua”. Pietro Baratono, responsabile delle Opere Pubbliche in Lombardia, ha l’aria sconfortata di chi si è  trovato sulla scrivania un dossier tremendo, ormai compromesso da troppi pasticci. “Questo appalto  – spiega – è nato male, ‘diviso‘ in due, con gare all’inizio solo per le strutture dell’opera e poi con altre gare per il resto. Quindi, senza una visione unitaria. Sicuramente ci sono delle responsabilità anche nostre, ma le diverse esigenze dell’ente usuario che si sono manifestate nel tempo non hanno aiutato”. A un certo punto i magistrati, sottolinea Baratono, “hanno chiesto anche di aggiungere gli alloggi per dormire in vista di possibili camere di consiglio che durino più giorni”. Ricapitolando: il progetto attuale prevede le celle nel seminterrato e ai due piani un’aula bunker, un archivio, due camere di consiglio con annesse otto stanzette per i magistrati qualora le riunioni per le sentenze dovessero protrarsi. “Ora i lavori dopo un periodo di sospensione per effettuare le perizie sono ripresi – garantisce Baratono – e per luglio 2015 ho promesso al Presidente della Corte d’Appello Canzio che sarà tutto pronto”.

    Un cantiere desolato   

    Lunedì mattina di inizio febbraio, sono le nove e mezzo. L’abbaiare furioso dei cani nel recinto del carcere accoglie il nostro avvicinamento al cantiere dell’aula bunker. Per arrivarci camminiamo per qualche minuto nell’erba resa fangosa dalle piogge degli ultimi giorni. Della strada vagheggiata nel progetto iniziale che dovrebbe permettere un facile accesso all’aula non c’è traccia. Ecco la nostra opera: la conosciamo che è già maggiorenne da un pezzo. Una colata cupa e senza grazia di calcestruzzo, il colore che ci si immagina per il più sordido dei luoghi di dolore. Non si vede nessun operaio al lavoro, né ci sono segni del passaggio recente di qualcuno. Cumuli di rifiuti, un tavolo arrugginito, due taniche per terra, solo una betoniera azzurra ravviva il paesaggio di per sé già non allegro ma intristito ancor più dalla costruzione che affianca il carcere.

    Visita al labirinto

    Proviamo a contattare telefonicamente e via mail l’impresa che segue i lavori da un paio d’anni, senza ricevere risposte. Torniamo al cantiere una radiosa mattina di marzo. Oggi si lavora. Ci intrufoliamo in quello che appare un enorme labirinto con scarsa logica nella divisione degli spazi, dove si sono affastellati gli interventi confusi di chi ci ha messo le mani in questi anni. La ditta che ci sta lavorando, grazie a un affidamento diretto, è animata da buoni propositi ma più di tanto non può fare (“Dieci anni fa un lavoro così non l’avrebbe preso nessuno, ma ora con la crisi…”, confessa una persona presente sul cantiere). L’aula destinata ai processi, il cuore del progetto, sembra quasi finita. C’è una stranezza, però. Il pubblico e i cronisti potranno assistere alle udienze da una specie di acquario sopraelevato con un separè di vetro che non renderà agevole capire cosa succede di sotto. Il grande archivio con tetto fatiscente è ancora vuoto, a breve dovrebbe partire la selezione tra le imprese che vorranno arredarlo. Sconvolgente la visione delle celle nella stanza sottoterra. I detenuti in attesa di giudizio saranno ammassati in pochi metri quadri, in una bolgia oscura  dentro gabbie arrugginite dal tempo a cui non basterà una mano di vernice bianca per tornare nuove, se non nell’apparenza. I quadri elettrici sono vecchi, ma ci viene assicurato che funzionano. L’umidità ha aggredito i muri, chissà cosa ne penserà l’Asl che dovrà valutare le condizioni igienico sanitarie. Quelle umane, se dovesse esaminarle la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, costerebbero all’Italia l’ennesima sentenza di condanna. Ai piani alti, ai quali si accede con una scala tortuosa, c’è ancora molto da fare per rendere presentabili le stanze per i giudici. Un signore ci spiega che dovrebbe anche essere costruito un parcheggio con un centinaio (!)  di posti auto, mentre il progetto della strada pedonale per dare un acceso autonomo al bunker è stato eliminato perché non è stata espropriata l’area dove ricavarla. Quindi per entrare non resta che passeggiare tra i campi oppure passare dal carcere.

    Serve davvero quest’opera? 

    Quando Michael Johnson era l’uomo più veloce del mondo, a Milano si celebravano molti maxi processi, oggi quasi nessuno; gli archivi erano pieni di carta, adesso si cerca di digitalizzare qualsiasi cosa.  L’Italia era un paese ancora florido, con tanti soldi da mettere a disposizione della giustizia. Oggi è  utile finire quest’opera? Sull’archivio a Palazzo c’è chi dice che servirebbe, chi no. Di certo i costi di manutenzione per celle, aula bunker, alloggi per i giudici sarebbero esorbitanti e forse non sostenibili coi pochi denari assicurati alla giustizia. Si potrebbe ripensare alla funzione di questo edificio, utilizzandolo solo come archivio o per attività meno dispendiose. L’inchiesta della Procura di Milano non potrà portare a nulla perché eventuali reati sarebbero già prescritti, resta invece aperta aperta la possibilità per la Corte dei Conti di valutare i danni alla collettività e gli eventuali responsabili. In ogni caso, il giorno che tutto sarà finito qualcuno dovrà scusarsi per questi 19, incredibili anni. (manuela d’alessandro)